All’ombra del Coronavirus

di Francesco Correggia

Ci siamo abituati a sentire in televisione da parte della protezione civile le cifre dei contagiati, dei positivi, dei ricoverati in terapia intensiva, dei guariti e dei morti. E poi ancora le percentuali, l’aumento o il calo dell’onda malefica. Tutti aspettiamo il picco, come se poi potesse esserci solo un calo, una discesa che va verso la fine del contagio. L’orrore non ha un volto preciso ma è astratto tranne quando vediamo uscire le bare dei morti dagli ospedali. Sembra di assistere ancora una volta al solito spettacolo televisivo con la verità che non viene mai detta del tutto ma non è così. I morti ci sono per davvero e la pandemia è cosa reale. La paura ci prende e qualcosa di consistente si materializza. Siamo in una specie di regime tecno burocratico della comunicazione dove si continua a far finta di niente sulla povertà, la disperazione, l’accentramento della ricchezza, il mondo dominato dall’ingiustizia. Con il Coronavirus i vecchi mali non sono spariti anzi sono resi ancora più tragici e irrisolvibili da una specie di controllo delle nostre esistenze imposto dalla situazione attuale, dalla confusione istituzionale, dalla mancanza di una solidarietà europea. Il pericolo della sparizione di diritti individuali e costituzionali si fa consistente. Bisogna, comunque riflettere sulla portata globale di questa epidemia e ragionare sulle questioni che ora si aprono in maniera, nuova, sorprendente e preoccupante. Entrare in colloquio con un possibile altro e reciprocamente intendersi come esseri umani accomunati dal medesimo destino. E’ questo il senso dell’opera la solitudine che va verso l’altro e lo invita al colloquio, alla reciprocità, il che vuol dire attraversare il confine pur nella distanza che ci separa. Assistiamo invece al ripetersi delle medesime formule. L’ottica di prima: i piaceri, le mode, i consumi, gli sprechi, la ferocia, lo sfruttamento e il capitalismo finanziario forse rimarranno indenni anche se siamo costretti a ripensare le nostre esistenze solo per poco. Ce ne saranno altre di questioni ancora più difficili da risolvere oltre a quelle che avevamo. Cambieranno anche le parole che useremo. Intanto per tutti la domanda è una: riusciremo a fare la vita di prima ? Questa domanda ne porta con sé un’altra. Quella di prima era la vera vita o una sua contraffazione dove al posto dello sfruttamento velato da illusioni religiose e politiche, ha messo lo sfruttamento aperto senza ritegno , diretto e arido. Questa volta non siamo davanti a un naufragio, all’ennesima metafora, ad una dimensione nautica del disastro, non siamo cioè solo dinnanzi a problemi come l’emarginazione, l’immigrazione, la povertà, la diseguaglianza, i cambiamenti climatici ma davanti a un Virus che occlude i polmoni, fa morire con una lenta agonia, si trasmette con facilità e può colpire chiunque. Oltre ai consueti rituali sociali bisogna rivedere i modelli economici e finanziari che fin qui hanno condotto la produzione di un sistema capitalistico globale e tirannico. Il virus porta allo scoperto questioni non del tutto risolte, apre ferite laceranti rispetto al mondo così com’è , alle ingiustizie e sopraffazioni. IL bisogna cambiare, dunque non può essere il solito slogan ripetuto più volte dai media poiché il Covid 19 fa sul serio e niente può essere come prima. Una miriade di domande dovrebbero farsi avanti, ora che siamo chiamati a vivere la nostra solitudine insieme alle nostre famiglie o da soli. Che cosa significa stare all’ombra del Coronavirus, ci sarà un prima e un dopo nel nostro mondo, nella politica, nei rapporti sociali, nelle nostre esistenze e nel nostro modo di vivere? Sembra che ancora l’ansia di protagonismo, perfino ora, non ci faccia pensare a come stiano veramente le cose, a come essere nel dopo. Che cosa dunque dovrebbe cambiare nella nostra vita e nelle nostre abitudini senza agitare il tormentoso squallore della pubblicità, dell’arrivare per prima, delle cifre, dell’essere sempre più avanti degli altri? Né possiamo dimenticare che il paese ha dei problemi, dei difetti, delle mancanze non più accettabili come la corruzione, la lentezza della macchina burocratica amministrativa, una classe politica non all’altezza, una ignoranza diffusa, poche risorse per la ricerca. Il paese del dopo dovrà per forza fare i conti con queste questioni e risolverle in maniera adeguata e forse saremo capaci anche di far meglio e ripartire rinnovati e rinforzati. Queste belle parole non possono ad ogni modo fare a meno di entrare nella dimensione dell’immaginario collettivo, dei mutamenti culturali e comportamentali a cui l’ombra del Coronavirus e la sua capacità di diffondersi ci costringono.
Stare a distanza non è solo quel metro di spazio fra una persona e l’altra che serve per difendersi dal Virus, ma guardare le cose senza farci prendere dall’apparenza, dall’epidermide, dai sensi. Tornare a ragionare con rigore morale in un etica delle virtù e del discorso. Stare a distanza vuol dire smetterla con i comportamenti di una socialità falsa, vuol dire tornare all’essenziale, smettere di fingere, riconoscere l’altro per la sua interiorità , per la sua voce, per le parole che sa dire, per il suo volto, per il bene che ci può dare davvero. L’esistenza di ognuno di noi è appesa al filo sottile della morte che ci separa dagli affetti, dagli amori. Anche questa è stata abolita dal nostro vivere quotidiano e ridotta in cifre, in statistica, per l’uso e il consumo di un regime tecnocratico della comunicazione fatto di prolungamenti, di vissuti frenetici, dove il pensiero della morte è relegato alla dimensione cimiteriale. Bisogna disfarsene e impedire che esso faccia parte di ciò che chiamiamo la nostra vita, questo è stato finora il nostro atteggiamento. Siamo invece tutti esposti alla morte anche quando cerchiamo di dimenticarla, eluderla, allontanarla. Essa è già in noi da quando siamo al mondo, è mondo. Fa parte della nostra natura umana. Meditare su questa condizione è quasi necessario alla stessa vita, fa fiorire dimensioni nuove che abbiamo lasciato alla sfera religiosa sebbene essa sia un bene che non va trascurato. Sperare in una presenza divina che ci salverà è ancora una volta una menzogna; vuol dire che non abbiamo capito nulla. Rassicurare con la parola, la voce, la presenza spirituale vecchi e nuovi amici attraverso una telefonata può essere d’aiuto, può ridare fiducia. L’altro aspetto che viene spesso riportato con insistenza dai media è quello che riguarda la nostra vita in casa, senza potere uscire e incontrare gli amici, partecipare a eventi sportivi, andare nei musei, viaggiare ecc. Anche in questo caso la retorica è tanta. E gli inviti per impegnare il tempo da trascorrere a casa sono litanie costanti e arrivano da più parti, usare il computer, connettersi in rete, leggere un buon libro, dedicarsi alla famiglia, fare le pulizie ecc. Improvvisamente tutti scoprono che c’è ben altro nel mondo. E’ proprio della condizione umana, fin dall’inizio dei tempi, trovare un modo per sopravvivere alle proprie sventure che nel corso della storia sono state tante e ribadire una presenza, una speranza. Questo modo si chiama arte, scrittura, letteratura, poesia. Non a caso Hegel pensava che l’arte fosse come la religione la realizzazione dello spirito assoluto. Le medesime forme d’arte non sono solo delle pratiche o delle utopie che ci mettono il cuore in pace ma conoscenze, linguaggi, testimonianze, forme che ci mettono in contatto con altre esistenze, con il passato con la storia. Anche qui abbiamo relegato queste verità, al mercato, alle aste, alle fiere, ai Musei e alle biblioteche. Ci siamo accalcati in file interminabili, stretti fisicamente l’uno con l’altro per fare il nostro selfie, per scambiare chiacchere insignificanti e poter dire ci siamo stati, abbiamo visto quella mostra, visitato quella fiera, comprato quel quadro, quel libro. Insomma tutto per la nostra vanità. Quante volte non abbiamo potuto leggere i classici, i grandi della letteratura moderna perché non ne abbiamo avuto il tempo e invece abbiamo preferito qualche facile e breve romanzetto e a volte neppure quello? Oppure non abbiamo saputo scegliere un buon quadro di pittura, sceglierlo con cura, conoscere l’autore, tenere quell’opera accanto a noi in casa e riguardarla più volte interrogandola. Abbiamo invece inseguito le mode, le consuetudini con la convinzione che l’arte fosse un riempitivo, un arredamento, una specie di decorazione per il salotto e non un bene prezioso, apertura a un mondo , ad una visone del mondo, a qualcosa di differente che ci riempie la vita e lo spirito e di cui possiamo godere ogni volta uscendone rinnovati. Abbiamo preferito, invece che accrescere il nostro spirito e viaggiare verso mete impensabili, andare in vacanza, spendere i nostri soldi per piaceri momentanei, trastullarci con il turismo di massa. Non siamo mai andati in profondità, non abbiamo fatto nessuno sforzo per conoscere noi stessi , da dove veniamo, quale il senso della nostra vita, quel che gli antichi chiamavano il nostro destino e arrivare al vero piacere visivo, letterario, comprendere la natura del nostro vivere e della nostra esistenza, leggere il Mondo e contemplare studiandola un’opera d’arte, la sua storia, la sua altra natura. Questo è il momento di farlo. Guardiamo lo spazio del nostro vivere senza sotterfugi e fughe ora che siamo costretti. Solo se sappiamo rinunciare alle nostre consuetudini, ne potremmo uscire vittoriosi, cambiati in bene senza che il Coronavirus ci intacchi ulteriormente. Tutto dipende da noi ma occorre anche che chi deve prendere delle decisioni dal Governo alle Istituzioni Regionali sappia anche pensare che ci sarà un dopo e a come affrontarlo questo dopo senza limitare ulteriormente le libertà dei cittadini.
Secondo un’immagine della tradizione Kabbalistica sono le nostre autentiche lacrime che come gocce di dolore cadono nell’oceano immenso dell’eternità a fluire in un isola ascensionale e discendente di speranza e amore. Esse sono un contatto con Dio nel processo della creazione attraverso le Sefirot. Sono le lacrime, la parola, la preghiera, la contrazione del cuore che ci avvicinano alla trascendenza, al vero vedere, alla visione mistica. Sono loro a produrre la manifestazione della luce divina e una seconda nascita. Piangendo a calde lacrime in segreto come in un pozzo, un torrente traboccante si raggiunge la speranza, quel contatto, quella possibilità che davvero ci cambierà e forse ci farà diventare migliori all’ombra del Coronavirus.

Francesco Correggia

Dopo aver prestato servizio in Marina militare e aver terminato gli studi, è stato docente all’Accademia di belle arti di Catanzaro dal 1979 al 1984 e all’Accademia di belle arti di Brera dal 1984 al 2012. Qui ha tenuto corsi di Decorazione, Problemi Espressivi del Contemporaneo e di Scrittura creativa ed è stato Membro del Consiglio Accademico tra il 2005 e il 2010, ha infine coordinato il Dipartimento di Ricerca sul Contemporaneo, Biennio Arti Visive, tra il 2004 e il 2006 e diretto il Centro di Ricerca Accademia di Brera (CRAB)Biennio Arti Visive dal 2007 al 2012.