Aristotele, Etica Nicomachea

Aristotele, Etica Nicomachea

di Francesco Fronterotta

Lo statuto dell’etica, nella concezione aristotelica delle scienze, è ben preciso. Al di sotto delle scienze teoretiche (matematica, fisica e filosofia prima) si collocano infatti rispettivamente le scienze pratiche e le scienze poietiche, queste ultime dedicate espressamente a finalità produttive. Fra le scienze pratiche, che, in quanto “scienze”, possiedono una struttura dimostrativa e mirano, secondo la caratteristica concezione aristotelica, alla conoscenza delle cause delle cose, ma si indirizzano alla realizzazione di fini “pratici”, si collocano appunto l’etica e la politica, che assumono come fine le “cose degli uomini”, la prima in quanto individui, la seconda in quanto cittadini.

Dei tre trattati etici di Aristotele, l’Etica Nicomachea, l’Etica Eudemia e i Magna Moralia (su parti dei quali, specie nel caso dei Magna Moralia, pesano seri dubbi di autenticità), l’Etica Nicomachea è certamente il più importante. Anche per questa opera, che raccoglie materiali non destinati alla pubblicazione, ma all’indagine e alla discussione interna alla scuola di Aristotele, si pongono i consueti problemi relativi alla sua composizione, alla sua genesi, alla sua cronologia e alla sua unità, benché il suo svolgimento tematico sia, nell’insieme, sostanzialmente coerente. Prendiamo dunque in esame almeno alcune delle principali linee argomentative che caratterizzano i dieci libri di cui essa si compone.

Il problema centrale da cui l’analisi di Aristotele prende avvio nel primo capitolo del I libro dell’opera è quello della ricerca e della realizzazione della felicità. Ogni individuo tende infatti naturalmente al perseguimento e alla realizzazione di certi fini che sono, per chi li persegue, altrettanti beni: alcuni di essi, spiega Aristotele, sono fini, o beni, perseguiti in vista di altri fini e si presentano perciò come relativi e sostanzialmente strumentali, ossia piuttosto come mezzi che non come autentici fini. Ma l’intera gerarchia dei fini, o dei beni, va posta in relazione con un fine ultimo o con un bene supremo, che consisterà necessariamente nella felicità (eudaimonia). Questa posizione eudaimonistica non è nuova, naturalmente, nella storia dell’etica antica e non mancano fra i predecessori di Aristotele sostenitori della tesi secondo cui l’obiettivo di ogni vivente, e in primo luogo dell’uomo, risulta coincidente con la felicità: sarebbe anzi ben strano proporre un fine della vita diverso da questo. Ma al di là di una considerazione di carattere alquanto generale come questa, Aristotele è certamente il primo ad aver affermato con assoluta radicalità e nettezza l’esigenza di una piena realizzazione individuale come scopo di una disciplina etica e dello studio dei comportamenti e delle azioni degli uomini.

Che la felicità sia il fine ultimo di ogni ente e di ogni vivente, secondo Aristotele, è questione sulla quale tutti concordano; ma quale sia la sua natura è invece oggetto di controversia e dissenso. È a questo punto che viene introdotto, come di consueto, l’esame degli endoxa, delle opinioni comuni più diffuse o comunque delle più autorevoli, particolarmente dei predecessori: vi è infatti chi pone la felicità nel piacere, e si tratta dei più, ma Aristotele giudica questa forma di soddisfazione immediata degna delle bestie e degli schiavi, non certo degli uomini liberi; altri individuano piuttosto l’onore come fine ultimo, e si tratta in tal caso di un’opinione più evoluta e raffinata, che fa presa soprattutto fra coloro i quali si dedicano all’attività politica, ma Aristotele rileva ancora come l’onore non sia davvero perseguito di per sé, bensì per il riconoscimento che ne deriva a chi lo ottiene e in quanto è dunque segno di virtù: ciò implica allora che l’onore risulta subordinato alla virtù e soltanto strumentale rispetto a essa; a maggior ragione da respingere come fine della vita umana e come bene sommo è l’accumulazione delle ricchezze, che Aristotele considera senza mezzi termini come contro natura, perché le ricchezze possono fungere al più come mezzi che ampliano possibilità e potenzialità di chi le possiede, e non certo come fini in sé, neanche per chi è preso dalla brama di accumularne senza sosta né termine.

In questo contesto si inserisce la celebre critica che Aristotele rivolge alla concezione platonica del bene sommo, tratteggiata specialmente nei libri centrali della Repubblica, secondo la quale il bene si colloca in una dimensione radicalmente trascendente e oltremondana, come idea o forma intellegibile del bene, modello eterno, universale e separato, e perciò stesso paradigmaticamente valido in ogni possibile circostanza, di ogni valutazione, azione o comportamento. A una simile prospettiva Aristotele obietta intanto che una nozione così astratta e trascendente finisce per essere non solo praticamente irraggiungibile, ma anche in ultima analisi indesiderabile per gli uomini; inoltre, la concezione di Platone suppone evidentemente un significato univoco di “bene”, da intendere cioè come un concetto unico capace di definire allo stesso titolo il fine di ogni ente e di ogni vivente, ciò che Aristotele contesta vivacemente in favore di una nozione plurivoca del bene, al quale si deve riconoscere che possiede, per ogni ente e per ogni vivente, un significato proprio e specifico per quell’ente e per quel vivente.

Il bene sommo o il fine ultimo per l’uomo deve consistere allora nella realizzazione dell’opera che gli è propria, della sua attività naturale specifica. Ma qual è tale “opera” o “attività”? Anche su questo punto le opinioni divergono: non può trattarsi però del semplice “fatto” di vivere, che è comune anche alle piante; né del “percepire” o “sentire”, che è comune anche agli animali; dovrà trattarsi quindi dell’unica attività propria esclusivamente dell’anima umana, vale a dire del pensiero e dell’attività razionale. Ecco in cosa consiste la “virtù” (arete) dell’uomo, più esattamente quell’“eccellenza” piena che ne realizza la felicità. Occorre preliminarmente precisare che una simile concezione che fa coincidere la felicità con l’esercizio della facoltà razionale e del pensiero non presenta agli occhi di Aristotele nessun tratto ascetico né tantomeno astratto: egli sottolinea infatti che, per poter essere compiutamente dispiegata, l’attività razionale deve essere accompagnata da sufficienti beni materiali, la cui assenza ne comprometterebbe invece la realizzazione. A ciò bisogna aggiungere che tale attività, con la felicità che a essa è associata, non è neanche esente da piacere, giacché il piacere ne rappresenta anzi un’implicazione e un coronamento. Ciò suppone, pur se a determinate condizioni, un parziale accostamento di Aristotele alle concezioni edonistiche della felicità e un netto distacco dalle tesi anti-edonistiche più o meno radicali che dovevano avere un significativo sostegno all’interno dell’Accademia, anche se, forse, non necessariamente da parte di Platone.

Se dunque la felicità dell’uomo consiste nell’attività della sua anima secondo “virtù” o “eccellenza” (arete), ciò consente di transitare verso un secondo tema cruciale dell’Etica Nicomachea, appunto quello della natura e della classificazione delle virtù. Quali sono infatti le virtù propriamente e specificamente umane? Non quelle che appartengono all’anima vegetativa, comune a tutti i viventi; piuttosto all’anima sensitiva che, pur essendo propria di tutti gli animali, si pone in certa misura in rapporto con la facoltà razionale; e soprattutto, come era facile attendersi, all’anima razionale, la sola esclusivamente umana. Aristotele parla, nel caso della funzione sensitiva dell’anima, di virtù “etiche”; mentre, al livello dell’anima razionale, parla di virtù “dianoetiche”. Per quanto riguarda le virtù etiche, ne vanno stabiliti caratteri e natura. Nel libro II, Aristotele fa derivare le virtù etiche dall’abitudine o habitus, dall’esercizio del controllo degli impulsi immediati: compiendo atti giusti, si diviene giusti, cioè si acquisisce un habitus peculiare, quello della giustizia; agendo moderatamente , si apprende il modus operandi o l’habitus della moderazione, e così via. Tali comportamenti, ciascuno con il relativo habitus, in cui consistono le virtù etiche, si trovano in qualche modo unificati dalla comune definizione del loro statuto. La virtù etica consiste infatti in generale nella giusta proporzione, o via mediana, fra due estremi. La definizione è celebre: per ogni habitus comportamentale, o etico, la virtù si situa nella posizione intermedia fra eccesso e difetto, in un esercizio di controllo e moderazione dell’impulso sensibile corrispondente, purché si intenda tale posizione intermedia non come una sintesi immediata fra eccesso e difetto, ma come una posizione che supera eccesso e difetto e ne neutralizza gli aspetti negativi e irrazionali.

Nell’esame fitto e dettagliato delle virtù etiche, dal II al V libro, spicca il caso della giustizia, che Aristotele considera come la principale, e a cui dedica l’intero libro V, definendola come in qualche modo capace di ricapitolare tutte le virtù etiche: essa consiste in senso proprio nella giusta e proporzionata ripartizione tanto dei beni quanto dei mali, mentre l’ingiustizia si colloca in relazione a entrambi gli estremi, quando cioè prevale una ripartizione squilibrata dei beni e dei mali.

Alle virtù dianoetiche, proprie della sola anima umana e della sua facoltà razionale, è dedicato l’intero libro VI dell’opera. Anche qui Aristotele distingue fra due funzioni dell’anima razionale, una con competenze pratiche, che presiede alla conoscenza delle cose contingenti e mutevoli, come i comportamenti umani, e una con competenze teoretiche, che si rivolge alla conoscenza delle cose necessarie e immutabili, cioè dei principi delle scienze e delle scienze stesse. A entrambe queste funzioni, seguendo la logica già nota dell’indagine di Aristotele, corrisponde una “virtù” o “eccellenza” (arete) specifica, rispettivamente la phronesis, o saggezza, e la sophia, o sapienza.

La phronesis è la disposizione virtuosa che permette di dirigere la condotta umana, discriminando fra bene e male e adottando i comportamenti che consentono di realizzare i fini ultimi, ossia il bene, dell’uomo. Ciò che la phronesis indica sono dunque criteri e fine dell’agire umano, ma tale fine si persegue concretamente attraverso l’esercizio delle virtù etiche. Queste ultime, a loro volta, sarebbero come “cieche” senza la phronesis che ne fornisce l’indirizzo. Al culmine della gerarchia delle virtù si pone la sophia, che deve il suo statuto supremo al fatto che suo oggetto non sono l’uomo e i suoi comportamenti e fini, ma le cose “più divine”, cioè i principi di tutte le cose. Senza addentrarci nell’esame complesso e articolato che Aristotele dedica alla sophia e alle sue forme, possiamo comprendere come egli giunga così a stabilire, parallelamente alla gerarchia delle virtù, un’analoga gerarchia dei gradi di felicità realizzabile per l’uomo – ciò che costituiva l’obiettivo fissato all’inizio dell’Etica Nicomachea.

Il terzo e ultimo fondamentale asse teorico dell’opera da me evocato qui, che è oggetto dell’analisi condotta nei capp. 7-9 del libro X, è dunque rappresentato dall’indicazione della vita “contemplativa”, cioè dedita all’esercizio della ragione nella conoscenza dei principi delle scienze, come condizione suprema e massimamente desiderabile, quella cui presiede appunto la virtù della sophia. Solo in via secondaria si potrà considerare felice la vita “pratica”, regolata dalla phronesis e dalle virtù etiche. La contemplazione avvicina l’uomo alla condizione divina, quella della contemplazione permanente ed eterna cui l’uomo, o alcuni fra gli uomini, accedono a tratti.

Questa celebre prospettiva della felicità umana, cui Aristotele assegna, come già detto, un indubbio quoziente di piacere, è destinata ad assumere un ruolo fondamentale nella storia della filosofia posteriore, classica e non solo.

 

Bibliografia essenziale

Edizioni
Aristotelis Ethica Nicomachea, recognovit F. Susemihl, editio tertia curavit O. Apelt, Teubner, Leipzig 1912.

Traduzioni italiane
Aristotele, Etica Nicomachea, traduzione, introduzione e note di C. Natali, Laterza, Roma 201410.

Studi
C. Natali, La saggezza di Aristotele, Bibliopolis, Napoli 1989.
M. Nussbaum, The Fragility of Goodness, Cambridge Univ. Press, Cambridge 1986.
M. Vegetti, L’etica degli antichi, Laterza, Roma 200611.
E. Berti (a cura di), Guida ad Aristotele, Laterza, Roma 20125.

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