L’EUROPA E LA SUA CRISI ORIGINARIA

Sul limes: tra “crisi d’Europa” e senso europeo della “crisi”.
Che la categoria di “crisi” faccia parte dell’attuale lessico politico è cosa certa. Altrettanto evidente è il fatto che, oggi più che mai, la crisi venga associata ad Europa. La nostra crisi è la crisi del sistema europeo, delle sue istituzioni, dei suoi valori, delle sue – più o meno mancate – decisioni politiche. Di questa crisi europea si sente ormai parlare abitualmente; dalle testate giornalistiche, ai programmi televisivi, passando per i dibattiti pubblici, la crisi d’Europa sembra essere ormai una realtà esistenziale[1]. Non è un caso che essa venga ormai ammessa tanto dai partiti euroscettici[2], quanto da quelli europeisti; con questi ultimi costretti ad accettare una lenta e continua disaffezione dell’opinione pubblica intorno il progetto di un’Unione Europea[3]. Non è qui possibile sviluppare una minuziosa genealogia delle cause che hanno portato a questa situazione. In questa sede ci si vorrebbe limitare a riflettere sul senso più teoretico di «crisi» e del suo rapporto con «Europa».

Ad uno sguardo superficiale – ma non per questo meno veritiero – la crisi d’Europa si articola intorno due momenti tra loro differenti ma assolutamente complementari. L’Unione Europea è stata, prima di tutto, vittima della crisi finanziaria scoppiata nel 2008. Si tratta qui di una crisi che trova la sua ragione all’interno di un dispositivo squisitamente economico. A farne le spese, in termini sociali ed esistenziali, sono state tanto le classi deboli e meno tutelate, quanto la cosiddetta fascia media che, consapevolmente o meno, ha subito una proletarizzazione[4] della propria forma lavoro. Accanto a questa crisi è possibile registrarne una più ampia del Politico. Sono molteplici i fattori che evidenziano questa rottura: dalla dissoluzione dei partiti tradizionalmente legati all’eredità socialista, all’irruzione delle dinamiche globale nelle dialettiche interne gli Stati-Nazione, passando per il problema della rappresentanza democratica, fino alla dissoluzione della forma partito e al mancato ripensamento delle forme sindacali.

L’Europa vive oggi nel segno di questo doppio volto della crisi. Una crisi che, vista la sua natura sdoppiata, mutevole, ambigua, risulta molto difficile da sondare, misurare e infine risolvere. A poco sono serviti gli appelli al senso di responsabilità e ancor meno il giustificazionismo delle politiche di austerità. Sicché oggi l’Europa è in crisi. Tuttavia questo assunto non rappresenta alcun novus della modernità. Ad esempio, già Marx, riferendosi alle contraddizioni interne al capitale, notava come le crisi fossero l’espressione necessaria e, al medesimo tempo, la soluzione temporanea al cosiddetto problema della caduta tendenziale del saggio di profitto[5], tanto da ipotizzare la necessità di una loro sistematica ciclicità. Così, secondo Marx, la crisi non viene mai da fuori, non è contingenza e nemmeno errore di qualche scellerato borghese; essa è piuttosto una patologia interna al sistema:

 

«[…] le crisi sono sempre soluzioni violente soltanto temporanee delle contraddizioni esistenti ed eruzioni violente che servono a ristabilire l’equilibrio turbato»[6],

 

ove l’equilibrio ristabilito è chiaramente quello capitalistico, lo stesso che consente il sorgere di nuove crisi. Ma cosa vuol dire più in generale crisi? Seguendo il dizionario etimologico di Salvatore Battaglia il sostantivo femminile «crisi» significa:

«Notevole e improvviso cambiamento […] che avviene in una malattia; fase risolutiva che coincide con la repentina caduta della febbre 2. Inasprimento o accesso improvviso, fenomeno violento, per lo più di breve durata 3. Figur. Profonda perturbazione nell’esistenza di una persona che produce effetti più o meno gravi e dolorosi incidendo sull’intera condotta morale e concezione delle cose – Essere in crisi […] Attraversare una crisi di coscienza, una crisi spirituale 4. Figur. Turbamento vasto e profondo nella vita di una collettività, di un gruppo, di una società, di uno Stato […]»[7].

 

Il dizionario sembrerebbe dunque confermare gli elementi espressi dalla proposizione marxiana: la crisi ha a che fare con un momento di profonda perturbazione, caratterizzato da un’intrinseca violenza di breve durata. Si tratta – e il riferimento alla febbre non è affatto casuale – di un lemma specialistico della medicina, ma che può assumere anche una portata politico-economica nel senso di una condizione negativa che riguarda un «deterioramento» e su cui sarebbe interessante riflettere a partire dal saggio Naissance de la clinique di Foucault[8].

Tuttavia, tornando a Marx, ciò che si voleva rendere manifesto va ben oltre l’etimo medico della parola. Infatti, il carattere interno di questo deterioramento fa sì che lo statuto epistemico della crisi non solo non rappresenti una novità né per la scienza economica, né per quella politica ma, ben al di là, esso delinea un vero e proprio topos sistematico dell’intera narrazione moderna. Ma – e qui sta il punto determinante – proprio in quanto topos e lemma originario, la crisi perde il suo carattere critico, instabile, perturbante, per divenire aspetto fondamentale, determinante, costitutivo della storia d’Europa. Così, per quanto patologiche, le crisi rimangono nel rassicurante orizzonte della dialettica come le fasi antitetiche dello sviluppo capitalistico[9]. Ed anzi, nel materialismo storico-dialettico di Marx la loro risoluzione è pensabile unicamente con l’avvento sintetico della società comunista, unico momento in grado di superare la contraddizione insita nel capitale. Ma cosa accade quando il sistema dialettico marxiano perde la sua partita con la storia? Cosa rimane di queste crisi quando il fallimento dei socialismi reali rende manifesta l’impossibilità del superamento comunista? Accade che la crisi diviene una nevrosi[10] che cessa di venir recepita come tale, come perturbamento o interferenza della salute, divenendo piuttosto il carattere cronico dello stesso corpo storico europeo. Sicché, il passo da Marx a Nietzsche è breve: “l’Europa in crisi” altro non sarebbe che la diagnosi del suo nichilismo fisiologico. La crisi non è più momento antitetico nel sistema dialettico, ma messa in crisi del sistema. Per Nietzsche infatti:

 

«La crisi non è un momento, come per i neoclassici. La crisi risulta costantemente dal Wille zur Macht – e nella misura in cui questo si ripete, essa non giungerà mai […] a una fine, a una sintesi perfetta, la crisi sarà il divenire stesso […]»[11].

 

Tuttavia, questa variazione implica un radicale mutamento di prospettiva: non si tratta più di disquisire intorno il “senso della crisi europea”, né dal punto di vista economico-finanziario, né da quello politico, si tratta piuttosto di dialogare intorno al “senso di crisi” che appartiene all’Europa, alla sua storia, al suo linguaggio. La domanda da porre non chiede più «che cosa sia la crisi europea», ma «che cosa sia la crisi per l’Europa»: Umwertung aller Werte.

Ciò implica che almeno il termine «Europa» ci sia chiaro; un po’ come quando chiediamo del significato profondo di un testo avendo precedentemente cura di indagare il con-testo nonché – e soprattuto – chi sia il suo autore. Dunque per capire cosa significhi «crisi» occorre chiedersi: “chi è Europa”? E, lo si noti di sfuggita, chiedere chi sia Europa ci pone già al di fuori di quel modo di interrogarsi che pone l’inevitabilità della res: già da questa domanda Europa non è una «cosa», non è un «prodotto», non è una «merce», un qualche cosa di cui si può disporre, o su cui ci si può imporre. Europa è un «chi», una vita, un volto e ciò ci spinge verso quella particolare filosofia che Nietzsche chiama genealogia. Quel che si vorrebbe proporre è quindi una mito-fenomenologia dell’originario «Chi» europeo; un’archeologia del nome attraverso cui tracciare una breve ed incisiva genealogia di una vita segnata dalla crisi, dalla nevrosi, dal nichilismo.

 

  1. Il tentativo mito-fenomenologico e l’Urgrund d’Europa.

Dunque, chi è Europa? Fin da subito ci si può imbattere in un cliché che la filosofia non ha fatto altro che invigorire: la Grecia e, più nello specifico, la Grecia classica sarebbe l’Anfang, l’Inizio della nostra “europeità”. La Grecia di Socrate ed Aristotele, di Pericle ed Euripide svolgerebbe così la funzione di principium individuationis europae. Nella Grecia risiederebbe il leibniziano principio di ragione che fonderebbe l’Europa, determinandone la Wesen. Secondo questa tradizione l’autenticità greca coincide con il λόγος o, meglio, con la pretesa del λόγος razionale di opporsi all’inautenticità del μύθος. La nascita della filosofia rappresenta questo punto di rottura che è, sin da Omero, frattura politica con l’Oriente, con l’Asia e con i suoi miti fondativi[12]. Ancor oggi questa lettura domina il paradigma culturale europeo e a poco sono serviti gli studi degli antichisti più avveduti che, come Bonazzi, invitano a riflettere sull’inquietudine della Grecia classica[13] o sull’importanza della tradizione “dionisiaca” nell’Ellade[14]. D’altro canto, nella più antica tragedia attica che ci sia giunta nella sua completezza – I Persiani di Eschilo – l’autore, per bocca della regina persiana Atossa, descrive così la Ionia:

 

«[…]Due donne m’apparvero: erano belle le loro vesti. Una era abbigliata con vesti persiane, l’altra con vesti doriche: le avevo davanti agli occhi, ed erano entrambe di statura imponente […]. Erano sorelle di sangue, della stessa stirpe, ma a una era toccato in sorte d’abitare la terra dell’Ellade, l’altra la terra dei barbari. Erano in contrasto fra loro, a quanto mi parve di vedere, ostili l’una all’altra: mio figlio se ne avvide e le teneva, cercava di ammansirle: ecco le lega entrambe ad un carro col giogo, ecco impone le redini sul collo. E una stava ritta come una torre, fiera di quei finimenti e prestava docile la bocca alla briglia; ma l’altra recalcitrava. Ecco con le mani le bordature del carro fa a pezzi, a forza si strappa: è senza morso; ecco spezza il giogo, a metà»[15].

 

E poco oltre, dopo aver portato le offerte agli antichi altari, Atossa incalza i suoi servitori:

 

«Regina: [..] dove dicono sia Atene, miei cari? In quale terra?
Coro: Lontano, verso Occidente, dove il Sole potente nel tramonto si strema. […]
Regina: E chi è il loro signore?
Coro: Si gloriano di non essere schiavi di nessun uomo, a nessun uomo sudditi»[16].

 

Il λόγος greco-europeo rappresenta una forza liberatrice o, nella sua rilettura più radicale, quella potenza recalcitrante che scalpita, morde e, infine, rompe il mitologico giogo dei re-padroni, come lo sono tutti gli eroi fondativi delle civiltà orientali: dai persiani Dario e Serse, a Gilgamesh e ai faraoni dell’Egitto teocratico. Tuttavia la realtà dipinge un quadro più complesso, sia se si affronta la questione su un piano storico – e gli stessi barbari altri non sono che i popoli che parlano lingue differenti dal greco ma con cui proprio i greci hanno intensi rapporti economici, politici e culturali –, sia se la si affronta su un piano squisitamente critico-teorico. Per quanto concerne il primo aspetto basterebbe qui ricordare la fascinazione platonica per le dottrine egizie, la provenienza tracia del dio Dioniso, il florido commercio tra città della Ionia e della Fenicia etc. Per quanto riguarda il piano critico-teorico ci si vorrebbe limitare ad un rapido richiamo ad Ernst Jünger quando in I prossimi titani scriveva:

 

«Penso invece che i teologi e gli intellettuali che praticano oggi con tanto zelo la demitologizzazione assomiglino a un esercito di formiche entrate in una pingue cucina: divorano e distruggono tutte le leccornie che vi trovano, ma non smettono di raccontarsi quanto sono squisite»[17].

 

Detto altrimenti, la Grecia intesa come Ur-grund d’Europa rappresenta un dei miti più duri a morire dell’intera tradizione storico-filosofica. Eppure – proprio se non si pretende una radicale sconfessione del μύθος – ci si trova nell’ambito ove più è pertinente chiedere il “chi originario” d’Europa. Questo perché il nome proprio di «Europa» è effettivamente il nome di una persona o, per lo meno, di un personaggio della mitologica greca: quello della figlia dei reggenti di Tiro[18].

Nel mito, Europa – figlia del re fenicio Agenore e di Telefassa – passeggia con le sue ancelle sulle spiagge nei pressi della città. Qui s’imbatte in un muscoloso toro bianco che altri non è che Zeus. Tra i due s’instaura immediatamente un rapporto ambiguo; se per un verso è evidente la diffidenza di Europa, per un altro verso ella guarda al toro con gli occhi di Eros. Ed è precisamente in questo momento inquieto che Zeus mette in atto il suo piano d’amore, rapendo la fanciulla e gettandosi velocemente in mare.

In Le nozze di Cadmo e Armonia, Roberto Calasso riflette molto su questo momento del mito chiedendosi se, vista l’ambiguità dell’incontro, la fanciulla venga effettivamente rapita o se piuttosto non ne approfitti per fuggire. Ciò che appare chiaro a Calasso è che nella mitologia il dispositivo ratto-fuga costituisce un vero e proprio architrave della narrazione mitica, tanto da venir usato come escamotage con cui legare miti tra loro molto distanti. Sicché, se per un verso Europa viene effettivamente rapita, per un altro ella approfitta del καιρός per fuggire dalla propria Vaterland, dall’Heimat, dal grembo dell’oikos.

Dunque, i due si dileguano rapidamente per giungere infine a Creta ove consumano il loro rapporto sessuale. Da questa relazione nascono tre figli, Minosse[19], Radamanto e Sarpedonte; ma è solo alla morte del primo – molti anni dopo i fatti narrati – che i Greci, per onorare la stirpe regia, decidono di dare il nome «Europa» al continente che si trova a nord di Creta.

Un’altra variante del mito specifica anche che, a portare la buona novella, sono proprio i fratelli minori di Minosse. Si può presumere che il loro viaggio sia lungo – ed infatti compariranno in miti ben più recenti come fondatori di città in Lidia e in Boezia –, ma anche travagliato dal momento che il loro è un peregrinare in terre di cui non si conosce né storia, né estensione. Di queste terre i greci sanno unicamente definire l’indefinibile: l’assenza di un nome che le qualifichi e la riduzione del regnum all’indefinitezza di un punto cardinale. Delle nuove terre d’Europa si conosce solo l’insondabile, l’indicibile, la dismisura: l’insecuritas.

Dunque, ciò che ci è consentito desumere da un’interpretazione fenomenologica del mito è che non solo il nome Europa rimanda chiaramente ad un passato orientale, fenicio, per nulla greco[20], ma, ancor di più, il nome identifica tutte quelle terre a Nord che, fino a prima dell’omaggio a Minosse, erano senza nome[21].

Le origini non-europee del nome Europa rinviano tanto al rapporto con l’Asia e con l’Oriente quanto ad un’origine che è un movimento nomade di sradicamento che dalla Vaterland porta alle terre dell’insecuritas, del senza-nome-proprio. Radicalizzando l’indagine si potrebbe dire che l’autentica origine d’Europa è questo movimento che lacera il rapporto con la terra, tradisce l’Urgrund, fugge verso l’ignoto. Questo non può che essere l’Occidente, lì dove il sole viene rapito e, tramontando, lascia spazio alla notte dove ogni ente è nel buio, nell’indecifrabile, in quel senza-nome che è già l’incertezza del dubbio filosofico nel cuore del mythos.

Ed è in questo crepuscolo occidentale che l’emergere sfumato del fenomeno si fa autentica thaumazein, tragico attimo d’incontro ove il senza-nome vuole ora esser detto, vuol esser nominato dalla voce di qualcuno capace di deciderlo, di dargli un τέλος e un valore. L’approccio mito-fenomenologico evidenzia quindi uno scarto tra il comune modo d’intendere l’origine, il puro Grund che tutto fonda, ἀρχή come sacra fonte sorgiva, e l’ οὐσία d’Europa, originariamente lacerata da un movimento di sradicamento, impura, sempre diveniente, già da sempre decisa, discussa.

C’è poi da fare un’ulteriore precisazione, questa volta etimologica, legata all’origine d’Europa; c’è quindi da chiedersi cosa significhi filologicamente “Europa” per i greci che ascoltavano il suo mito. La proposta del filosofo francese Jean-Luc Nancy – apostrofata da Rodolphe Gasché in Europe, or the Infinite Task come «obiettivamente discutibile»[22] ma «ricca di suggestioni» – prevede un doppio etimo. Il primo deriverebbe dal termine semitico pre-greco «ereb», con il significato di «oscurità»[23], con cui i fenici indicavano tutti i territori dove “tramonta la luce”. La seconda si troverebbe in Omero – e successivamente anche in Erodoto – dove l’uso dell’aggettivo ϵὐρύοπα riferito a Zeus sembrerebbe derivare dall’unione di «εὐρύς», «ampio», e «ōp», «occhio», col significato di «ampio sguardo». L’ampiezza non è tuttavia da concepirsi come un’apertura orizzontale dello sguardo ma come un oltre, un al di là del banale osservare; uno sguardo penetrante e perforante. Ma, come osserva Gasché, in Nancy queste due etimologie si coappartengono:

 

«Concordemente con questa origine il nome “Europa”, per citare Nancy, “significa: colei che guarda nella distanza” […]. Ma Nancy mette in campo anche l’ altra possibile etimologia della parola, determinando così lo sguardo di Europa come un “guardare lontano nell’oscurità, nella propria oscurità”»[24].

 

Insomma, per quando possa destare perplessità, la ricerca di Nancy, traducendo il nome di Europa in uno sguardo prospettico che mira oltre, al di là di sé, verso il confine, verso la radicale alterità del senza-nome, ha il merito di arricchire ulteriormente la “frattura” di un Urgrund certo, «chiaro e distino». Europa segna un divenire: un provenire da origini dimenticate e un volgersi oltre, verso l’ignoto delle terre crepuscolari dell’Occidente. Così il nome “Europa”:

 

«[…] non disegna “niente”, solo una separazione originale da ciò che è nativo, una fondamentale apertura al mondo e una trascendenza originale verso ciò che essa non è»[25].

 

A tal riguardo è possibile ricavare dal mito e dalla riprova filologica due ulteriori spunti di riflessione. Il primo riguarda l’«ereb» d’Europa, la sua essenza crepuscolare. Qui il mito infrange un altro cliché tipico di una certa retorica illuminista; quello che vorrebbe la filosofia come conoscenza diurna, come scienza del dato, della res auto-evidente, come forza luminare che dilegua le ombre delle mitologie. Ci basti qui osservare che esiste una parola greca capace di sconfessare questo mito e che, di rimando, sembra proprio rimarcare l’essenza crepuscolare d’Europa.

Questa parola è ἀλήθεια, tradotta dai latini con la parola Veritas. Aletheia non però indica la certezza, la vis, della veritas ma, piuttosto, lo svelarsi, lo scoprirsi. L’ἀλήθεια indica una pratica tutt’altro che diurna; essa è la phronesis di coloro che vivono le terre di Eraclito, detto l’oscuro, che anticamente sentenziava: «La natura ama nascondersi». Nelle terre europee la natura si cela nella notte, i fenomeni perdono la loro certezza, i colori sfumano, così come i loro limiti, qui nessuna luce squarcia le tenebre dell’erebo. Quel che i greci sanno bene è che ἀλήθεια è la pratica degli animali notturni quelli che, come athene noctua – la nottola di Minerva che spicca il volo al calar del sole – , possiedono quello sguardo penetrante capace di discernere nell’insecuritas. Vi è qui un’intima vicinanza al mito. Come l’Urgrund d’Europa coincide con un fuga della propria Heimat e, cioè, con uno s-fondamento, con uno s-radicamento, così l’aletheia procede per negazione nel senso in cui si apre con un’«α» privativa: verità non è il dato certo, ma la pratica che s-vela, che s-copre.

Quanto detto consente di approfondire anche l’ultimo aspetto degno d’interesse del mito. Infatti, solo se l’ente viene prima esperito nel suo nascondersi, nel suo oblio, «solo se la velatezza dell’ente circonda l’uomo e lo angustia nella sua interezza e nel suo fondamento» è possibile che l’uomo si metta in cammino verso la verità. Ma ciò è quanto viene testimoniato dal viaggio di Radamanto e di Sarpedonte, coloro che portano la verità del nome “Europa” in quelle terre anguste la cui essenza è l’oblio. Oblio e abisso – in tedesco Abgrund, ovvero senza Grund, privo di fondamento – hanno chiaramente a che fare con Φόβος, l’angoscia, il vivere in una situazione di incertezza, di dubbio costitutivo. Ed è esattamente attraverso questi vocaboli che il padre della psicoanalisi, Sigmund Freud, teorizza il suo concetto di Unhemlichkeit, il perturbante, il patologico[26].

Ancora una volta si ha a che fare con un lemma che si apre nei termini di una negazione: Unheimlichkeit può essere tradotto, in senso letterale, come «ciò-che-è-senza-patria» o, meglio, «lo spaesante». Si faccia ora attenzione: poco sopra, parlando del viaggio dei fratelli di Minosse, si era osservato che il loro viaggio è un peregrinare nei luoghi crepuscolari e senza-nome, nel regnum dell’oblio e del nascondimento, lì dove manca la misura che fonda la certezza, la res «chiara e distinta» di Cartesio. Queste terre sono l’Unheimlichkeit: in questo Welt nulla ci è più prossimo, più vicino e più domestico dello spaesante[27], la qual cosa equivale a dire – con Nietzsche – che «nel fondo del Greco c’è la mancanza di misura, la caoticità»[28].

Se la casa rappresenta il luogo del nostro quieto vivere, dell’intimità dell’abitare e se la sua legge è quella dell’oikonomia, del disporre ed imporre di ogni realtà in quanto conosciuta, individuata, r-assicurante, allora la «casa europea» è lo spazio che nega ogni economia in quanto gli è intimo il perturbante, il patologico, l’innominato. Parlando in termini non dissimili Massimo Cacciari afferma che Europa:

 

«[…] si riconosce perciò soltanto giunti alla sua “soglia”, al suo confine, là dove, cioè, esso si fa cum-finis, vicino, prossimo, contiguo all’altro da sé dove rivela qualcosa di communis con l’altro. Europa è là dove essa “tocca” l’estraneo, lo straniero»[29].

 

Ma con ciò non si è tornati all’inizio? Non sono proprio questi i sinonimi con cui ci si era riferiti alla crisi d’Europa? Non sono l’insecuritas, l’assenza d’origine, la Stimmung crepuscolare e lo spaesamento esistenziale i tratti con cui ci si era riferiti alla krisis? Non erano proprio l’intimità della patologia e la domesticità della crisi a spalancare le porte del nichilismo?

Ma, se così stanno le cose, non solo si è trovato ciò che si cercava – ovvero il significato autentico di crisi attraverso la domanda sul “chi originario”– ma, ben più in profondità, si è trovata la sostanziale equivalenza tra il significato d’Europa e il significato di krisis: Europa è la crisi, la frattura del principium individuazionis, l’angoscia che abita la domus, la decisione che scompagina e recide l’ ἀρχή. In tal senso l’origine europea si oblia, si svincola da qualsiasi tentativo di riduzione in Grundsatz: cercare il “chi originario” è trovare la crisi.

Da ciò residua, ineludibile, un’ultima domanda; quella del «più inquietante fra tutti gli ospiti», quella che chiede del nichilismo: infatti, se vi è corrispondenza tra Europa e crisi, bisogna ammettere che Europa è la patologia e la sua storia è il nichilismo. Ben al di là delle crisi marxiane congenite al capitale, qui è l’intero edificio narrativo che rischia di entrare in una crisi totale, in una krisis che già da sempre gli appartiene e che ora mostra il suo volto totalizzante. Europa e nichilismo, dunque: che fare?

 

 

 

  1. Decostruzione della Respublica e pratiche di sinisteritas.

In precedenza ci si era riferiti al dizionario di Salvatore Battaglia per qualificare la crisi come lemma medico il cui campo semantico definiva l’attimo patologico della negatività, del deterioramento. Tuttavia, questa definizione rappresenta un’acquisizione abbastanza recente che risulta da un graduale spostamento semantico del termine dal suo significato più originario. Crisi deriva infatti dal greco κρίσις, utilizzato in riferimento alla trebbiatura, cioè all’attività di separazione del frumento dalla paglia. Da qui deriva il suo significato di “separare”, “dividere” e che risuona anche nell’origine recisa d’Europa di cui si è trattato. Ad uno sguardo più vasto krisis significa anche “scelta”, “giudizio”, “valutazione”. Il passaggio tra le due significazioni appare giustificato se si pensa all’intimo senso di “decisione”, dal latino de-cedo, ovvero, ancora una volta, tagliare, separare e dunque scegliere tra frumento e fieno.

Europa è così quella regione che, di volta in volta, ritorna eternamente come luogo della krisis originaria, come spazio dell’eterna decisione, come confine del suo rinominarsi. Presentare Europa nella luce opaca della notte, definire la sua abitabilità come spaesatezza, è pensare ad un Grund formalmente anarchico, che non riesce mai a concludere il proprio scopo – che è precisamente quello di fondare – in quanto il suo essere non è, ma diviene nella forma di una crisi: l’origine d’Europa è decisione, lacerazione, fuga dal principium e rapimento dall’archè, la sua identità diviene alterità, la sua intimità lo spaesamento, la sua certezza il dubbio. La tradizione d’Europa altro non sarebbe che il suo costante scegliersi, decidersi, tradursi, di volta in volta, in modi specifici del tradimento rispetto il suo stesso pretendersi “cosa certa”. La tradizione d’Europa è la crisi, in quanto solo attraverso essa Europa risulta fedele a sé stessa.

Se, a differenza dell’accezione moderna, il deterioramento della krisis non è patologia «soltanto temporanea» – in quanto momento contraddittorio interno alla sintesi dialettica –, ma forza attraverso cui la violenza della negazione tende a decidersi, come imporre ad Europa una de-finizione? Come risolvere la crisi originaria d’Europa? Come disporre della certezza del suo esser-Stato, della sua identità, se essa è provenienza e tensione aneconomica, trascendenza ed eccedenza perturbante, frattura originaria?

Queste domande portano al limes estremo dove la Respublica, l’essenza pubblica della “cosa-Europa”[30], si scopre negata, deposta, indisponibile, addirittura opposta, alla crisi che la costituisce. Se in apertura si affermava che Europa non è una “cosa”, ora si può ulteriormente dedurre che Europa è la messa in crisi di ogni “cosa”, di ogni fatto puramente auto-evidente, di ogni fenomeno preteso come dato certo, misurabile, amministrabile, sfruttabile e dominabile. Europa è veramente la forza “recalcitrante” di cui scrive Eschilo; ma non in quanto libera, piuttosto poiché vincolata alla sua criticità, alla sua contraddizione instancabile ed irrisolvibile. Nel pubblico, la res di tutti viene discussa, decisa, messa eternamente in crisi in quanto cosa certa:

 

«Fino in fondo, vita è contraddizione e conflitto. […] Ciò che eternamente ritorna è la contraddizione chiaritasi nel mondo effettuale-temporale dell’operari e del Macht. Il conflitto è degno di ripetersi. Il Ritorno non consola né accorda – ribadisce […] Nel tempo del Dasein esiste soltanto conflitto-contraddizione – esiste crisi soltanto. E il tempo si sviluppa attraverso queste crisi – è un ciclo eterno di crisi, un Eterno Ritorno di crisi»[31].

 

Una conflittualità che resta all’esterno della dialettica senza per ciò stesso cadere nel nichilismo. Qui la crisi vive nel detto eracliteo[32]: «Polemos è signore di tutte le cose». Bisogna fare però attenzione: rendere originaria la crisi, trasformare l’Europa nella terra dell’Unheimlichkeit, apre effettivamente alla possibilità di un orizzonte nichilistico. Il rischio di trovarsi in un territorio ove è il Letztemensch nietzscheano a farla da padrone o, il che è lo stesso, in un territorio filosofico-politico dove dominano relativismo, oggettivismo e psicologismo – le scienze discusse dall’intera tradizione fenomenologica –, è certamente alto.

Eppure, quel su cui si vorrebbe insistere è il carattere razionale di questa filosofia della crisi. Si tratta cioè di continuare a porre la crisi come irriducibilmente anti-dialettica senza, con ciò stesso, farla naufragare nel nichilismo. Ma come ottener ciò? Ed è precisamente su questo punto che il discorso, per così dire, frana nuovamente sul versante politico, quello a cui ci si riferiva in apertura parlando del doppio volto della crisi europea. Rivolgendosi ad un attento studioso di nichilismo, come fu Franco Volpi, possiamo affermare che:

 

«Il nichilismo della cultura contemporanea non è soltanto crisi dei valori […]: è anche il fatto che l’agire dell’uomo non si infiamma più tra i due poli opposti della tradizione e della rivoluzione, ma si avvita nella ristretta prospettiva del “qui e ora”. Non la storia né l’avvenire, ma la puntiformità dell’attimo presente è l’orizzonte per l’agire dell’uomo contemporaneo»[33].

 

Decaduta la promessa sintetica dei socialismi reali, la prospettiva di un Aufheben della crisi si rende impossibile; tuttavia essa non viene eliminata ma, al contrario, ribadita come patologia, nevrosi cronica, nichilismo fisiologico che inchioda al puntiforme «qui ed ora», trattenendo – τὸ κατέχον[34] – nell’Augenblick qualsiasi politica del novus, della trascendenza, della differenza. Da questo versante la crisi-patologia diviene un dispositivo atto a frantumare ogni immagine critica ed organica sul mondo, aprendo a quella deriva relativistica che altro non è che la forma dietro cui essa dispiega la sua coercizione, la sua violenza normativa, la sua messa fuori legge di concetti quali quelli di rivoluzione, Geist der Utopie[35], adveniens del Politico.

Insomma, dal lato patologico, crisi del politico e crisi economica non solo sono conniventi ma proprio lo Stesso. Le due fasi altro non sarebbero che «qui ed ora» della medesima e sistematica forza. Nel tempo economico la crisi mostra il suo volto feroce, violento, temporaneo, nel tempo politico il suo volto di “nichilismo di Stato”, di norma reattiva e di governo della décadence. Nonostante ciò, Volpi ricorda anche un secondo carattere del nichilismo:

 

«Il nichilismo ci ha dato la consapevolezza che noi moderni siamo senza radici, che stiamo navigando a vista negli arcipelaghi della vita, del mondo, della storia: perché nel disincanto non v’è più bussola che orienti; non vi sono più rotte, percorsi, misurazioni pregresse utilizzabili, né mete prestabilite a cui approdare»[36].

 

Ecco così che il nichilismo insegna anche la decostruzione della res-publica certa, chiara e distinta; di quella “cosa” dogmatica che ogni potere politico – anche il potere annichilente della crisi – usa per fondare sé stessa, per rendersi incontestabile, in-criticabile e che lega la res alla sua insindacabile reālitās. Ed infatti, sempre con Volpi:

 

«Il nichilismo ha corroso le verità e indebolito le religioni; ma ha anche dissolto i dogmatismi e fatto cadere le ideologie, insegnandoci così a mantenere quella ragionevole prudenza del pensiero, quel paradigma di pensiero obliquo e prudente, che ci rende capaci di navigare a vista tra gli scogli del mare della precarietà»[37].

 

Come è evidente, da quest’altro versante il nichilismo palesa la sua forma di autentica krisis, di radicale decisione, di pura contesa. Il «qui e ora» si trova per così dire redento, nessun potere frenante ci inchioda; nell’Augenblick lo spirito della contesa si fa ek-stasis, fuoriuscita da sé, dalla sua situazione, pura tensione, differenza, alterità. Lo spazio-tempo di questo differente modo d’intendere il «qui ed ora», l’evento, è lo stesso spazio in cui si trova Europa, la principessa del mito che insegna l’aletheia, l’Unheimlichkeit, il cumfinis. Qui la temporalità trattenuta nell’istante, la cronicità del Neuzeit, si trasvaluta in un «qui ed ora» che altro non è la tensione decisiva del καιρός. Epoché dello “stato di fatto”, l’attimo dalla crisi-decisione si dilata nel tempo del καιρός; nulla della crisi è risolto, tutto è da decidere.

Qui il pensiero si arma, si fa contesa e ingaggia la sua battaglia sul crinale più pericoloso – quello della reificazione del nichilismo, del tramutarsi in patologica della crisi, del suo divenire potere e sistema – perché è in questo pericolo mortale che esso scopre il suo καιρός, il giusto momento. Qui la crisi d’Europa è filosofia anarchia, non governo della res. Anarchica è l’origine come decisione, sovversiva quella aletheia che è prassi nel dubbio, contesa quella conoscenza che sta sullo sfumare della veritas, rivoluzionario quel «qui ed ora» che sospende ogni autorità dello stato di cose per affidarsi all’autorevolezza della crisi. Europa è la sua crisi originaria: questa la maledizione del senza-nome.

Maledizione in latino si dice sinisteritas[38]. La sinisteritas non solo indica la «parte maledetta» – come lo sono il suono sinistro di un fantasma, il colpo mancino che non ti aspetti – ma l’errore, il contraddire, il procedere per contraddizioni: l’affermazione – direbbe Zarathustra – che la realtà è falsa. Ma in questo dire contra della crisi originaria si apre lo spazio stesso di una politica; ad essere aurorale è polemos. Certamente una simile maledizione non potrà mai farsi res normativa, mai divenire reālitās su cui erigere il proprio regnum – pena il suo divenire maldestra, poco retta [rectus], cioè impreparata a reggere [rĕgo] il potere. Ma qui è in gioco proprio la possibilità di una sostanziale messa in crisi del potere attraverso una krisis che lo costringa, come Europa, al suo s-fondarsi, al suo rinominarsi, al suo decidersi: ἀναρχία dell’aletheia, καιρός dell’Unheimlichkeit.

 

 

[1] D’altro canto lo stesso presidente della Commissione europea Jean-Claude Juncker afferma che: «La Ue non è in gran forma. Sono cambiate tante cose. Possiamo parlare di crisi esistenziale» in Ue, Juncker: “Europa in crisi esistenziale. Non è abbastanza sociale. Ma patto di stabilità non è patto di flessibilità”, Il Fatto Quotidiano, 14 settembre 2016.

[2] In una recente intervista Matteo Salvini ha dichiarato che: «L’Europa perde i suoi valori, vengono a mancare sicurezze, perde l’identità e non ha più orgoglio, […] Mai nella sua storia l’Europa è stata rammollita come oggi!» in “Das Problem ist die Kultur des Islam”, Die Welt, 3 Gennaio 2017.

[3] Ed infatti Matteo Renzi osservava come: «l’Europa non può essere solo vincoli e spread, non solo parametri, ma deve riscoprire la sua anima: serve una scommessa ampia che vada oltre la risposta alla paura» in M. Giro, Serve una leadership visionaria per ritrovare l’anima dell’Europa, Huffpost, 22 Giugno 2016.

[4] A tal riguardo si rimanda alla prima parte di Bloch E., Eredità di questo tempo, Mimesis, Milano 2005.

[5] Si rimanda al Capitolo tredicesimo, Libro III de Marx K., Da Capital, a cura di B. Maffi, Il Capitale. Libro terzo, Torino, UTET, 2009, pp. 271-297.

[6] Marx K., Da Capital, a cura di B. Maffi, Il Capitale. Libro terzo, Torino, UTET, 2009, p. 319.

[7] Battaglia S., Grande dizionario della lingua italiana, vol. III, Torino, UTET, 1971.

[8] Foucault M., Naissance de la clinique: une archéologie du regard médical, trad. it di A. Fontana, Nascita della clinica. Una archeologia dello sguardo medico, Torino, Einaudi, 1998.

[9] Per una attenta analisi del rapporto tra il materialismo storico e dialettica hegeliana si veda Finelli R., Un parricidio mancato. Hegel e il giovane Marx, Torino, Bollati Boringhieri, 2004 e il successivo Finelli R., Un parricidio compiuto. Il confronto finale di Marx con Hegel, Milano, Jaca Book, 2014.

[10] Il termine vuole essere un chiaro riferimento a Nietzsche e, più in particolare agli studi genealogici più tardi e contenuti in F. W. Nietzsche, Genealogia della morale, in Opere, a cura di G. Colli e M. Montinari, Adelphi, Milano, 1968 e in F. W. Nietzsche, Al di là del bene e del male, in Opere, a cura di G. Colli e M. Montinari, Adelphi, Milano 1968

[11] M. CACCIARI, Krisis. Saggio sulla crisi del pensiero negativo da Nietzsche a Wittgenstein, Feltrinelli Editore, Milano, 1976, p. 51.

[12] Ad esempio si veda il celebre riferimento di Hegel ad Omero in G. W. F. Hegel, Lezioni sulla filosofia della storia, tr. di G. Calogero e C. Fatta, Firenze, La Nuova Italia, 1961, p. 6.

[13] Bonazzi M., Atene. La città inquieta, Torino, Einaudi 2017.

[14] Il riferimento non è al dionisiaco nietzscheano ma a quello ripensato da Colli in Colli G., Apollineo e Dionisiaco, Milano, Adelphi, 2010.

[15] Eschilo, I Persiani, a cura di M. Centanni, Milano, Feltrinelli 1991, p. 39-41

[16] Ivi, p. 43.

[17] Gnoli A., Volpi F., I prossimi Titani. Conversazioni con Ernst Jünger, Milano, Adelphi, 1997, p. 94.

[18] R. Calasso, Le nozze di Cadmo e Armonia, Milano, Adelphi, 1988, p.16.

[19] Secondo re di Creta, nonché unico successore dopo la morte del padre adottivo Asterione.

[20] Non a caso Gasché ricorda un passo tratto da Le Storie (Libro IV, 45.) di Erodoto in cui lo storico afferma che Europa «era di origine asiatica e non giunse mai in quella regione che ora i Greci chiamano Europa», in R. Gasché, Europe, or the Infinite Task, R. Gasché, trad. it. L. Marinucci, G. Menditto, Europa, il Compito Infinito. Studio di un Concetto Filosofico, Lithos, Roma, 2015, p. 39.

[21] Una mancanza espressa anche da R. Calasso: «Ma come era cominciato tutto? Europa, verso l’alba […] aveva avuto un sogno strano: si trovava tra due donne, una era l’Asia, l’altra era la terra che le sta di fronte, e non ha un nome» in R. Calasso, Le nozze di Cadmo e Armonia, Milano, Adelphi, 1988, p.17.

[22] R. Gasché, trad. it. L. Marinucci, G. Menditto, a cura di R. Frauenfelder, F. Vitale, Europa, il Compito Infinito. Studio di un Concetto Filosofico, Lithos, Roma, 2015, p. 40.

[23] R. Gasché, Alongside the horizont in On Jean-Luc Nancy. The sence of philosophy, Routledge, Londra, 1997, p. 136.

[24] Ibidem. «According to this origin the name “Europe”, to cite Nancy, “would mean: the one who looks in the distance” […] But Nancy brings to bear the other possible etymology of the word, thus determining Euryopa’s glance as a “look far into the obscurity, into its own obscurity” […]». Traduzione mia.

[25] R. Gasché, trad. it. L. Marinucci, G. Menditto, a cura di R. Frauenfelder, F. Vitale, Europa, il Compito Infinito. Studio di un Concetto Filosofico, Lithos, Roma, 2015, p. 43.

[26] S. Freud, Il perturbante, in Opere 9 a cura di C. L. Musatti, Bollati Boringhieri, Torino, 1977, pp. 70-115.

[27] Si rimanda a E. Ferrario (a cura di), Oikonomia, Roma, Lithos, 2009. Preme qui sottolineare un passaggio tratto dall’Introduzione; passo che permette di comprendere tanto il carattere di Anspruch, quanto quello di dominio/organizzazione dell’oikonomia. Dopo aver fatto riferimento alla Politica di Aristotele (1261 a) si afferma che «Il passo è notevole […] perché sottolinea il carattere plurale, differenziato proprio della polis. In secondo luogo, perché indica come caratteristica dell’oikonomia una certa non politicità; e cioè il tendere, insito nell’economico, a una […] “unificazione del molteplice” […] quale quella che opera nell’ “amministrazione familiare” […]» (p.12). Se l’oikos-nomia tende all’unità erodendo la molteplicità è proprio perché il sentirsi-a-casa annulla le distanze, distrugge le differenze, arresta il divenire. Ma se questi sono i termini dell’oikos non è proprio l’Europa quel margine scucito che permette di pensare la possibilità di uno spazio al di là della pretesa di dominio dell’oikonomia?

[28] F. W. Nietzsche, Frammenti postumi 1888-1889, in Opere, a cura di G. Colli e M. Montinari, Adelphi, Milano 1974, p. 16.

[29] M. Cacciari, Europa o Filosofia, in Filosofi per l’Europa. Differenze in dialogo, a cura di L. Alici e F. Totaro, EUM, Macerata, 2006, pp. 21-22.

[30] Per una più completa rilettura della “cosa” in quanto tradizione politica d’Europa si rimanda – nonostante l’estrema differenza d’impostazione e di vedute – ai classici di Severino come Severino E., A cesare e a Dio. Guerra e violenza in controluce,                    Milano, Rizzoli, 2007; Severino E., La potenza dell’errare, Milano, Rizzoli, 2013; Severino E., Téchne. Le radici della violenza, Milano, Rizzoli, 2002.

[31] Cacciari M., Pensiero negativo e razionalizzazione, Venezia, Marsilio, 1977, p.12. Per una rapida lettura storica del “pensiero negativo” e delle sue ricadute politiche si rimanda a Gentili D., Italian Theory: dall’operaismo alla biopolitica, Roma, Il Mulino, 2012; Gentili D., Stimilli E., Differenze italiane. Politica e filosofia: mappe e sconfinamenti, Roma, Deriviapprodi, 2015.

[32] Per una attenta indagine fenomenologica del momento polemico come origine della filosofia e della politica si rimanda a due allievi di Heidegger: Jan Patočka e Hannah Arendt. Si vedano quindi: Patočka J., Platón a Evropa, tr. di G. Grigenti, Platone e l’Europa. Vita e pensiero, Milano 1998; Patočka J., Kacirske eseje o filosofii dejin, tr. di G. Pacini, Saggi eretici sulla filosofia della storia. Giulio Einaudi Editore, Torino 2008; Arendt H., The human contidion, tr. di S. Finzi, Vita activa, Bompiani, Torino 2001.

[33] Volpi F., Il nichilismo, Roma-Bari, Laterza, 2009, p. 145.

[34] Immagine ormai classica della teologia politica. Per una visione più completa si rimanda a Metzger P., Il Katéchon. Una fondazione esegetica in Il Katéchon (2Ts 2,6-7) e l’Anticristo. Teologia e politica di fronte al mistero dell’anomia, rivista Politica e Religione 2008/2009. Morcelliana, Brescia, 2009; Nicoletti M., Tra filosofia della storia e relazioni internazionali. Il concetto di katéchon in Carl Schmitt in Il Katéchon (2Ts 2,6-7) e l’Anticristo. Teologia e politica di fronte al mistero dell’anomia, rivista Politica e Religione 2008/2009. Morcelliana, Brescia, 2009; Cacciari M., Il potere che frena. Adelphi, Milano 2013.

[35] Il riferimento è chiaramente a Bloch E., Der Geist der Utopie, trad. it. V. Bertolino, Lo spirito dell’utopia, Milano, BUR, 2009. Per quanto concerne il rapporto politico tra Utopia ed Europa si rimanda a Cacciari M., Prodi P., Occidente senza utopie, Bologna, Il Mulino, 2016.

[36] Volpi F., Il nichilismo, Roma-Bari, Laterza, 2009, p. 178.

[37] Ibidem.

[38] Gentili D., Italian Theory: dall’operaismo alla biopolitica, Roma, Il Mulino, 2012, pp. 12-14.

Verità e Diritto: episteme o fictio? Ambedue?

1….per cominciare

 

Per l’ “uomo della strada” e, dunque, per il senso comune, il termine “diritto” si accompagna ad un altro termine, “giustizia”, e quest’ultimo, a sua volta, ne evoca un altro ancora: “verità”. Il “chi” sociale accetterebbe forse un giudizio di condanna se non credesse che un tale giudizio fosse “giusto”? E, per esser tale, chi non legherebbe la più immediata, semplice idea di giustizia alla conoscenza della verità? Ogni giudizio, infatti, per il senso comune, deve, innanzitutto, poggiare sull’accertamento di una verità; insomma, si parte sempre dal sapere “come stanno veramente le cose”. Questo percorso, sempre per il senso comune, vale per qualsiasi forma di giudizio, come ho detto; sia esso morale, politico o, infine, giuridico-giudiziario: una sentenza processuale.

Per un senso “meno” comune, che è quello della filosofia teoretica e pratica, il rapporto tra giustizia e verità si presenta assai più articolato e talora problematico; fino al limite della reciproca indifferenza, come appunto accade nel mondo del diritto, nella sua versione positivistico-formalistica.

Anche se, proprio nella versione più rigorosa del formalismo normativo, intendo quella kelseniana, la “verità” trova un suo posto inaspettato. Sappiamo tutti, infatti, che “validità” ed “esistenza” della norma sono qualificazioni formalmente coincidenti; tant’è che una norma non valida “non è una norma”. Allora, per l’equivalenza di Tarski, si può dire che una norma valida è una “vera” norma; in altre parole, la validità, costituendo l’esistenza di una norma, dichiara che è vero che è una norma. Si può dire, quindi, di una prescrizione, che abbia i requisiti della validità formale, che è “vero” che è una norma; e di una prescrizione priva di tali requisiti che è “falso” che sia una norma. La questione è particolarmente significativa, atteso che, di recente, Luigi Ferrajoli ha definito la coincidenza esistenza – validità della norma come un’aporia della dottrina kelseniana ([1]), per ragioni, tuttavia, che non entrano nella questione che sto prospettando e che non intendo discutere qui.

In ogni caso, una prospettiva filosofica dalla quale ragionare attorno al concetto di diritto, così come è venuto sviluppandosi nel corso della storia del pensiero che noi conosciamo, non può non avere a suo centro la tematizzazione teoretica ed epistemologica della “verità”.

Riflettendovi, in questo lavoro, mi limito ad un ambito specifico: quello che ha il suo inizio nella “modernità” della Ragione, per due motivi. Il primo, perché è proprio sulla teoresi della “verità” che viene a giocarsi la soggettività dell’uomo moderno, come ente finito e, al tempo stesso, costituito nella “potenza” della Ragione; il secondo, perché è il razionalismo moderno che opera come fondamento per la scientia juris, nelle versioni giunte fino a noi (sinteticamente: jus naturale, codificazioni, Begriffsjurisprudenz, teorie generali) ([2]), avendo come chiave teoretico-epistemologica l’idea di “ordine”. Basti pensare al tema del governo e della sovranità, nel quale i concetti di “soggettività” e “ordine” sono in continuo e strutturale dialogo: è il tema della “legittimazione” che, costituendo lo spartiacque tra potere arbitrario e potere di governo, distingue il “vero” sovrano dall’usurpatore: la “verità” dell’investitura genera la “giustizia” dell’esercizio (anche se qui “giustizia” può assumere il contenuto formale della “legittimazione”: intreccio complicato!). Fin ai primi decenni del ‘900 viene ribadita una sorta di sinallagma tra giustizia e verità; si ricorderà come, nella polemica attorno alla legge tra Kelsen e Schmitt, quest’ultimo affermasse con vigore che, di fronte all’impersonalità formale della norma, la legge evoca la figura del re “giusto”; che perciò può essere definito “veramente” un re.

La questione, allora, si sposta sull’ “investitura”, la quale rinvia, secondo modelli o paradigmi differenti, ad un “ordine” superiore che ne costituisce la fonte ed il fondamento ([3]): il “potere” deve avere un’origine “oggettiva”; non deve dipendere cioè da un gesto arbitrario. Al di là delle diverse configurazioni e fondazioni dell’investitura, l’ordine sociale, che l’artificio del sovrano deve realizzare, ne è la manifestazione peculiare in continuità con l’ordine della natura. In fondo, anche la sovranità hobbesiana ha il suo più autentico fondamento non tanto in un atto umano (pactum subiectionis), quanto nella “natura” umana, la quale è tale che solo un potere sovrastante gli individui può davvero regolare il loro appetiti, al di là di ogni loro, pur possibile, convenzione (pactum societatis).

 

  1. Il dubbio

 

Dunque, un tema di fondo ed una parola, “Verità”. Parola, peraltro, strutturalmente affetta da un paradosso: chiarezza e ambiguità. Al centro del paradosso, quasi a scioglierlo o comunque a renderlo intellettualmente accettabile, si aggiungono un “pensiero” ed un’altra parola, che il diritto conosce assai bene: “dubbio”. Accettabilità intellettualmente e praticamente sostenibile, proprio se concepita come argine nei confronti di “certezze” facilmente attraenti ed invece bisognose di maggiore e più scrupolosa indagine. E, tuttavia, anche il dubbio si presta ad una ambiguità, contenuta in due espressioni ugualmente utilizzabili: “non ho più dubbi” e “non ci sono più dubbi”. In ogni caso, è il nesso dubbio – Verità ad essere particolarmente significativo, ancora una volta per due ragioni.

La prima, perché scandisce il percorso verso la “Verità” iniziato dal cogito cartesiano, che assumo in questa sede, per ovvia semplificazione, come emblematico della teoresi gnoseologica della modernità razionalistica; la seconda, perché quel nesso pervade il giudizio giuridico più invasivo per l’uomo: quello del processo penale, per riflettersi, nel suo interno svolgersi e complicarsi, in quella modellistica processuale, che va sotto le qualificazioni storiche di processo “inquisitorio” e “accusatorio”, e fino a contemplare quello che potremmo definire il brocardo: “oltre ogni ragionevole dubbio”. Di questo più avanti.

Ma, fin d’ora, il punto che intendo sottolineare è il seguente: il “dubbio” ha un suo significato teoretico, prima ancora che epistemologico, in relazione ad una, altrettanto teoretica, idea di “Verità”. Il suo significato cambia in conseguenza del trasfigurarsi, proprio sotto il profilo teoretico, dell’idea di “verità” in quella di una possibile “rappresentazione teorica” del mondo. E la chiave della questione diviene allora non la “oggettività” del conosciuto, ma la sostenibilità della teoria ([4]). In quest’ultimo contesto, che è quello proprio del sapere contemporaneo, il ricorrere del dubbio, in ambito giuridico, può dirsi il residuo di una idea di verità, che fa riferimento ancora al paradigma cartesiano, ed alla quale, tuttavia, il diritto non può rinunciare, al fine di garantire ciò che è gli è proprio: la costruzione dell’ordine sociale.

Se si guarda, da un lato, alla sequenza giustizia – verità – dubbio, che orienta il ragionare giuridico, e, dall’altro, alla questione epistemologica che trasfigura la “Verità” nella “sostenibilità della teoria”, ne segue che la nostra contemporaneità esibisce, tra diritto e conoscenza, un rapporto, che potrei definire nuovo, rispetto a quello che si era instaurato nel contesto del razionalismo moderno. Rapporto, segnato dalla tensione tra due aspetti dell’esistenza propri dell’uomo come ente finito, l’uno inevitabile e l’altro indispensabile: “incertezza” del sapere e “certezza” del normare.

Vi sono, infatti, settori del vivere sociale, nei quali è possibile tradurre l’incertezza teorica in “complessità” socio-epistemologica e sostituire il concetto razionalistico di ordine con quello pragmatico di equilibrio rappresentato dalla nozione di governance ([5]). Sono questi i settori ove opera il diritto privato, largamente inteso e, in parte, quel che resta del diritto pubblico e costituzionale; per non parlare dell’ambito giuridico del “sovranazionale”. E su questo spenderò qualche parola più avanti.

Vi sono però altri settori, quali quelli che investono la libertà della persona, quelli cioè del diritto penale in genere, dove non è possibile sostituire l’ordine dei “moderni” con la governance dei “contemporanei”. In tali settori, il diritto non può non tener conto dei paradigmi cognitivi che il sapere scientifico oggi propone, ma nello stesso tempo non può rinunciare al paradigma della “certezza”, di cui si è detto, in vista della costruzione di un ambiente sociale sufficientemente stabile. Per una tale stabilità è necessario, infatti, disporre di un affidamento nei processi cognitivi e nelle loro risultanze, che possono essere raccontate come “certe”, e dunque corrispondenti alla nozione di “realtà”, propria del linguaggio comune. Così, il superamento “soggettivo” del dubbio (“non ho più dubbi”) trapassa in un “oltre” ragionevolmente oggettivo: “non ci sono più dubbi”. Lo scarto epistemologico, tuttavia, con ciò che si può definire “conoscenza scientifica”, e con la sua complessità (il termine è molto generico), resta intatto. Proprio a sottolineare tale scarto, grazie alla conversione di “razionale” in “ragionevole”, il “dubbio” riesce a svolgere una sua propria funzione eminentemente pratica, di tipo “critico-cautelare”: è come dire che una good governance della scienza sconfina in un problema di democrazia ([6]).

 

  1. 3. Diritto e “incertezza”

 

Il Diritto, dunque, è, nell’attuale momento storico, al centro di un intreccio epistemologico e pratico, che definirei, senza esagerare, “epocale”: quello tra incertezza cognitiva e governo della società.

La questione dell’intreccio mi sembra complicarsi, se si pensa che all’ “incertezza cognitiva” si aggiunge un altro genere di incertezza: quella che investe il paradigma ed il concetto stesso dell’ “ordine”, quale si è formato nella Modernità e che, in qualche misura – come ho già accennato poco più sopra – la modellistica centrata sullo Stato ha fatto giungere fino al nostro ‘900, salvo l’ultimo decennio. La “globalizzazione”, con la conseguente evaporazione della Sovranità territoriale, e, con essa, l’affermarsi del primato dell’economico “finanziario” sul politico, hanno trasformato le società in ambienti umanamente “complessi”, privi di confini territoriali, e tuttavia segnati da nuovi confini: quelli etnicoculturali. Questa nuova situazione fa sì che al paradigma dell’ “ordine” se ne sostituisca uno di tipo funzionalistico – gestionale: l’ “equilibrio”, che, come è noto, Luhmann aveva già disegnato negli anni ’70, ma con una differenza, rispetto all’oggi, non trascurabile. Luhmann aveva costruito la sua epistemologia “funzionalistica” avendo come riferimento cognitivo un paradigma “sistemico” debitore ancora all’impianto storicistico hegeliano, innervato dal “materialismo” post-marxiano, così come emerge però attraverso la declinazione post-metafisica novecentesca. E’ a partire da qui che occorre comprendere la ragione per cui il nesso complessità – equilibrio si pone come epistemologicamente alternativo all’idea di ordine, fermo restando, però, l’idea del “sociale” è comprensibile come sistema, sebbene non di processi “causali”, ma di sequenze “funzionali”. Basti aver presente la “funzione”, appunto, che Luhmann riconosce alla dogmatica giuridica rispetto al sottosistema politico. Diversamente, il proceduralismo gestionale, affermatosi come conseguenza regolativa della globalizzazione, consiste in un mero pragmatismo negoziale che di per sé trascende il sistema sociale come cornice, ma affida alle forze in campo, quale che sia loro soggettività e ovunque si dispieghino, il formarsi degli equilibri e la loro tenuta. Globalizzazione e pragmatismo negoziale determinano quella “incertezza” che avvolge l’idea stessa di società e di diritto, nel senso, quest’ultimo, di “sistema” capace di organizzazione normativa di un ambiente umano: l’ordinamento giuridico.

Per non arrendersi alla ineffabilità che il mutamento in atto potrebbe a buon diritto legittimare, provo ad indagare meglio il rapporto tra “incertezza scientifica” e quel che resta della tradizione giuridica della quale abbiamo fatto esperienza e di cui resistono tracce formali e semantico-linguistiche.

Innanzitutto si tratta di vedere, in generale, quale tipo di relazione venga ad instaurarsi ed articolarsi tra il momento, giuridicamente qualificante, della tipizzazione del fatto (irrinunciabile, per assolvere alle ovvie finalità regolative) e le problematiche cognitive della “realtà”, promosse da una attenta epistemologia.

Il punto centrale della questione, infatti, è dato dalla considerazione che la trasformazione e riduzione di “eventi” o “accadimenti” naturali in “fattispecie” è la conseguenza di una lettura del “mondo” secondo un paradigma epistemologico, idoneo a dar luogo ad un processo di tipizzazione. Come dire che le condizioni per una tipizzabilità dei fatti sono già contenute nel paradigma di lettura adottato dal soggetto; dipende, cioè, da come il soggetto “osserva” un evento, configurandone cognitivamente quella che definiamo “realtà”.

Basti considerare come l’espressione cognitiva comunemente adoperata – “fenomeno” – sia un prodotto puramente congetturale, e dunque “mentale”, proprio di un certo modello epistemologico, e non la mera traduzione semantica di un dato materiale: in natura non si danno “fenomeni”, ma solo “accadimenti”.

Occorre, perciò, aver presente qualcosa di molto scomodo per la scienza del diritto, soprattutto per le sue applicazioni processuali. E dico soprattutto nell’ambito processuale, e processuale penale, perché, in relazione a questo, non ci si può permettere di civettare con l’altra “incertezza”, quella giuridico-categoriale, che origina dai processi di governance, come invece fa quella dottrina, prevalentemente privatistica, cui ho già fatto cenno, che ritiene di saper cogliere al meglio il mutamento apportato dalla globalizzazione e quindi di essere al passo con i tempi.

Ciò dunque che ho definito “scomodo” per la scienza giuridica è che il “conosciuto”, e che comunemente indichiamo con il termine “realtà”, giunge al termine di una operazione cognitiva umana (che comincia già con l’osservazione e si completa nella astrazione concettuale), consistente nella traduzione semantico-congetturale di un incontro dell’uomo con il “mondo”. Il punto chiave è, però, che tale incontro implica, per lo statuto stesso dell’atto cognitivo umano, uno scarto incolmabile con il referente naturale, che è, nel suo “in sé”, totalmente altro dal soggetto (questione che ho appena introdotto nelle pagine precedenti, facendo riferimento al tema della sostenibilità delle teorie e sulla quale tornerò di qui a pochissimo).

Il fulcro della questione allora è tutto nella determinazione della nozione di “realtà”, in quanto parola che raffigura l’incontro del soggetto conoscente con tutto ciò che è fuori di lui (che per brevità ho già chiamato “mondo”), e che si pretende essere “qualcosa” di analogo a ciò che è davvero. Questo “qualcosa” di analogo a ciò che è davvero viene qualificato spesso, soprattutto nel linguaggio comune, che vorrebbe essere anche “scientifico”, con il vocabolo “oggettività”. Insomma: per il senso comune si dà una sequenza almeno tra tre termini: conoscenza, oggettività, realtà; termini che dovrebbero confluire nel luogo agognato: “verità”.

Verrà fuori in seguito come questa sequenza sia epistemologicamente inesatta, poiché l’ “oggettività” non corrisponde a “ciò che è davvero” (vale a dire “la cosa in sé”), ma è esclusivamente l’esito di una operazione metodico-congetturale del soggetto, chiamata “nesso di causalità”. Fin d’ora si può sottolineare come il sapere giuridico abbia importato nel suo contesto, dall’ambito della scienza naturale, tale piattaforma congetturale, cioè il “nesso di causalità” tra gli eventi-fenomeni che cadono sotto il suo sguardo regolativo, trasformandoli in “fattispecie”, che consentono di costruire quella “certezza” dell’agire pratico, necessaria al mettere in forma l’ordine sociale. La chiave della “certezza” come simulacro di “verità”, in quanto prodotto del legame tra “nesso di causalità” e “fattispecie”, ha storicamente garantito quella oggettività del “conosciuto”, che la dottrina e la scienza giuridica incontrano comunque e sempre nel loro operare.

 

  1. Per salvare il diritto che conosciamo: spunti epistemologici .

 

Se, oggi, invece, si mettono assieme “incertezza scientifica” e “globalizzazione” si va incontro ad un rischio, che considero enorme per le due attività pratiche necessarie alla costituzione di una società: la politica ed il diritto. Tale rischio è il nichilismo pragmatico-economicistico. Cui se ne aggiunge un secondo: una sorta di neo-dogmatismo, che investe il nesso conoscenza – valutazione – decisione normativa. Una polarizzazione, forse propria di ogni momento di mutamento storico profondo, ma capace di condurre verso una conflittualità umana e sociale dagli esiti, questi sicuramente, imprevedibili.

Questo a me pare essere il contesto che si pone di fronte a chi, come me, rifletta sul tema in una prospettiva filosofico-giuridica.

E, allora, l’interrogativo diviene davvero centrale, e addirittura inquietante, se si assume come teoreticamente ineludibile quella “trasfigurazione” della Verità, quale fu concepita dalla “Ragione moderna” in senso “essenzialistico”, in quella che ho più sopra definito come rappresentazione possibile del mondo, affidata al succedersi delle “teorie”, in quanto sistemi di proposizioni.

A mo’ di introduzione al mio ragionamento, valgano le parole di Carlo Sini, a proposito dell’antico logos come “discorso” che mette in forma la cosa, in quanto struttura eidetica della “cosa” stessa: “La mente dunque è un discorso, in quanto proprio il discorso è quella immagine logica (non sensibile) della cosa…. Che possono mai avere in comune i segni del discorso e la cosa che dicono? Ma come potrebbero significare senza avere qualcosa in comune, senza che il discorso (la mente) e la cosa (…) non posseggano una comune natura?…Come però operi (e quindi cosa sia) la mente resta un gran problema, che è appunto l’oggetto specifico della logica: la disciplina filosofica che deve chiarire come la mente vede, comprende e ragiona”. Ma “guardati – incalza subito Sini – dal farti catturare da questi problemi logici…Tutt’al più essi sono demandati alle indagini di discipline particolari…Ma queste analisi parcellizzate ed empiriche [che hanno per oggetto unicamente la struttura linguistica della forma-discorso] con i loro caratteristici e spesso complicatissimi problemi astrattivi, anziché avvicinare alla semplice e originaria domanda sul contenuto della forma, ancor più ce ne allontanano…”[7]. E qualche pagina oltre, a proposito della “verità”: “La verità pubblica, nella quale siamo ancora totalmente immersi, presenta così vari livelli correlativi, che sono costitutivi della mente e del soggetto ‘puri’. C’è la storia, la cui pratica determina la formazione di un soggetto prosaico astratto che cerca, attraverso i ‘documenti’, di creare una prospettiva ‘esterna’…, qualcosa che finge, nella scrittura, una verità degli eventi che è il lor accadere al cospetto dell’universale storico (come se fossero davvero accaduti così). E poi c’è la filosofia, la cui pratica determina la nascita di un soggetto panoramico e teoretico che definisce la verità in sé di tutte le cose, cioè che traduce le cose dal vissuto esperienziale alla loro definizione logica astratta (come se le cose fossero davvero così; e bada che il vissuto esperienziale non è un dato primario, ma a sua volta il risultato di pratiche di parola e scrittura peculiari). Infine c’è la scienza…” ([8]).

Dunque, il tema della “verità”, che io ho trasfigurato attraverso la formula “rappresentazione possibile del mondo”, è la trama di un tessuto nella quale si intrecciano la mente dell’uomo, costituita nella sua ontologica finitudine, il suo logos, cioè il suo essere “parola” ed “eidos” al tempo stesso, e la “forma”, come rappresentazione saputa di una “cosa” (episteme), che “storia”, “filosofia” e “scienza” riconducono al “soggetto”, alla sua mente, alla sua parola, alla scrittura. Un percorso ed un processo, del quale si possono ovviamente studiare analiticamente ed empiricamente le singole parti o gli specifici aspetti, ma nel quale fluisce, come filo conduttore, l’incontro eidetico tra soggetto e mondo.

Appare chiaro, mi sembra, come in questo percorso il tema del “dubbio” abbia una sua cittadinanza unicamente come omaggio alla tradizione cartesiana, dalla quale proveniamo ed alla quale si ispira ancora, nei settori che ho detto, il modo di ragionare del diritto. Quel tema può in qualche misura sopravvivere, insomma, più per semplicità pratica che per ragioni epistemologiche, e forse per ricordarci quale fosse il suo fondamento, questo sì “teoretico”, non “epistemologico”: l’essere il segno della tensione tra la imperfezione umana dell’ io, cum sim res cogitans, e la perfezione di Dio ([9]). In particolare, al dubbio era ascritta la proprietà razionale di essere passaggio obbligato per eliminare quei pregiudizi che intralciano la via per la definizione di ogni certezza ([10]).

Già all’interno del razionalismo moderno, tuttavia, la questione aveva acquistato una luce del tutto nuova, che poi si sarebbe proiettata nel tempo a venire, con la Critica kantiana. Possiamo assumere, come “chiave” impressionistica della forza speculativa del passaggio in questione, proprio la critica esplicita che Kant rivolge alla dottrina del cogito cartesiano, in una nota che si trova nella “Dialettica trascendentale”.

Sottolineando la differenza da Cartesio, Kant chiarisce il senso dell’ “io penso” nella prospettiva fondante della precedenza dell’esistere sul pensare; meglio, Kant stabilisce teoreticamente il radicamento esistenziale del pensiero, senza tuttavia ridurre quest’ultimo ad una dimensione meramente empirico-fenomenica. ([11]).

Se quel testo kantiano viene letto ed interpretato con gli occhiali del “dopo”, questo, allora, può essere assunto come la base teoretica dalla quale si diparte l’epistemologia del ‘900. Mi spiego, pensando al modo in cui Sini fa i conti con la “modernità” attraverso il pensiero antico.

Nel testo kantiano vi è la chiara sottolineatura della finitudine della “soggettività”; finitudine della quale era ben consapevole anche Cartesio, ma dalla quale Kant trae tutte le conseguenze, in quanto limite e potenza del pensiero umano, senza alcun appello al Trascendente. Potenza, proprio in quanto prodotto di un limite che non è solo ontico-naturale, ma ontologico-esistenziale. Tale limite, infatti, contiene in sé la capacità di pensare oltre il dato empirico-fenomenico. Capacità razionale (ogni “limite” implica razionalmente un oltre, appunto), che a sua volta contiene la provvisorietà del risultato cognitivo, poiché ogni dato conosciuto, rientrando nell’esperienza, è solamente una possibilità del pensiero strutturalmente finito, retta dalla logica interna della pensabilità ([12]). E qui si gioca davvero la differenza della finitudine kantiana rispetto a quella cartesiana. Ed è qui che prende avvio l’epistemologia contemporanea: la possibilità che il costrutto operato dal pensiero si presenta sotto forma di “teoria” e l’oggettività altro non è che quel livello di stabilità cognitiva, che usiamo chiamare “risultato” e che, proprio perciò, può essere messo in comune. Una tale stabilità del dato svolge una funzione decisiva soprattutto quando si opera nel settore della “pratica”, come accade appunto nel campo dell’obbedienza normativa.

Vale la pena di ricordare quanto spiegava Ernst Cassirer nel suo corso invernale 1920 – ’21, presso la sua Università di Amburgo, intorno ad una questione allora impellente e di rilievo epocale. Si trattava, infatti, della riflessione filosofica originata dalla teoria della relatività generale di Einstein([13]). Voglio ricordare alcuni di quei pensieri in un contesto come questo, con uno spettro tematico ben più limitato di quello nel quale si muoveva Cassirer, perché aiutano a capire quale sia il rapporto tra risultanze cognitive e senso comune, sul quale grava una relazione fondamentale: quella tra “verità” dell’attività conoscitiva e rappresentazione simbolica. E’ un modo per proiettare Kant nel XX secolo.

Spiega Cassirer: «La concezione ingenua del mondo ritiene di cogliere immediatamente la realtà delle cose, della natura delle percezioni sensoriali; ma già fin dai primordi delle considerazioni scientifiche del mondo si scopre la relatività e la mutevolezza dei contenuti della percezione sensibile e si mostra con ciò che essi non possono essere attribuiti all’oggetto “stesso”»([14]).

Da qui in poi Cassirer evidenzia, attraverso numerosi esempi, come la conoscenza scientifica incorpori o sconti uno “scarto” tra la verità scientifica contenuta in una formula matematica, quale quella che viene costruita da una determinata “teoria”, e la verità che proviene dalle rappresentazioni sensoriali, per la cui inaffidabilità basti pensare al ruolo che gioca la “direzione dello sguardo”: «…nella stessa osservazione, nella determinazione del suo contenuto e del suo significato non si tratta appunto mai solamente dell’accaduto passivamente, bensì anche della specifica disposizione spirituale, della specifica direzione dello sguardo. E’ questa direzione dello sguardo che distingue il procedimento del fisico da ciò che comunemente si chiama “esperienza sensibile” »([15]).

Perché mi spingo così lontano, fino a toccare un ambito di questioni che ai giuristi può sembrare irrilevante per l’attualità del loro lavoro? La ragione è la seguente e spero di darne conto in modo convincente e condivisibile, anche se sono costretto ad esporla in modo sintetico e per grandi punti.

 

  1. Dall’epistemologia ai modelli processuali

 

Ho ritenuto di dare un certo spazio dal punto di vista epistemologico al tema, che è innanzitutto teoretico, della “verità”, poiché questo conforma la questione, più specifica e lessicalmente affine, che riguarda l’esperienza giuridica: il tema della “verità”, quando questa è messa alla prova nel processo penale. Qui entrano in gioco due capisaldi del diritto processuale: la prova scientifica ed il libero convincimento del giudice ([16]). Come dire, per usare l’espressione di Cassirer, formule matematiche (lato sensu) di una possibile rappresentazione teorica dell’evento e, non uno, ma due sguardi: quello dell’investigatore e quello del giudice. Ed alla fine del percorso, la necessità del diritto: la “certezza” del giudicato, nella quale la forma processuale viene intesa come rappresentazione corrispondente ad una “sostanza accertata”.

Ed è ancora qui che prende forma la fictio terminologica, “verità”, ed assume senso, esclusivamente pratico, il “dubbio”, nella sua trasmigrazione dal necessariamente soggettivo al ragionevolmente oggettivo, cui poi si lega l’ “oltre…”.

La scienza giuridica ha sempre avuto contezza che operava tramite una fictio; ma una fictio, alla quale non ha mai potuto sottrarsi. Ha aggirato invece il problema, di una teoria che deve farsi “pratica”, delegandone la risoluzione alla qualificazione-configurazione dei soggetti processuali, che ha condotto a delineare i due modelli: l’inquisitorio e l’accusatorio.

In altre parole, la “verità” del giudizio viene a dipendere dalla legittimazione degli sguardi dei soggetti processuali. Prova ne sia, che nel tempo in cui si riteneva che la verità del giudizio non potesse essere una fictio dell’uomo, lo “sguardo” cui si ricorreva era quello di Dio (che stava dietro anche alla confessione del supposto reo). Lo mostra bene Franco Cordero, in un suo celebre testo ([17]), evocando l’origine del modello processuale che ne verrà fuori: l’ “inquisitorio”. Il suo contrappunto epistemologico è il modello “accusatorio”.

Intendo sottolineare che la differenza processuale tra i due modelli ha la sua radice proprio in un contrappunto epistemologico, legato al significato dei due termini-chiave, che danno il nome ai rispettivi modelli: la “colpa” e l’ “accusa”.

La “colpa” esige la dimostrazione della verità; l’ “accusa”, al contrario, chiede l’argomentazione logica di una possibile e plausibile ricostruzione dell’evento operata dal magistrato dell’istruzione ([18]). La “colpa”, allora, si inscrive nell’orizzonte logico del vero/falso; essa altro non è che la radice animistica originaria del concetto di “causa” di un evento, come ebbe a sottolineare Kelsen, risalendo al greco aitia, che comprendeva le due declinazioni di colpa e causa ([19]). Il modello inquisitorio è tutto raccolto in questa configurazione razionale, ed il ricorso al “Cielo”, di cui parla Cordero, ne è la testimonianza più suggestiva ed immaginifica.

Giustizia e verità sono termini che evocano, nel loro strettissimo legame concettuale, uno scenario teoretico-argomentativo di tipo sostanzialistico. L’attività corrispondente è attribuita ad un Ente, lo Stato, come autore supremo della Legge; tale attribuzione, per quanto esclusiva, si fonda però su di un presupposto formale, la legittimazione, e viene esercitata da soggetti, dotati anch’essi dell’investitura, ancora formale, della “competenza”, dipendente dall’ essere organi dello Stato. In definitiva, la fictio consiste nel soddisfare alla domanda di verità, che è “ontologica”, attraverso una modalità argomentativa che, però, è formalistico-funzionale, fermo restando – ancora un “però” – il fine: l’affermazione della giustizia, che è un concetto, a sua volta, di ordine di nuovo sostanziale.

Il paradigma concettuale dell’ “accusa” è del tutto differente. “Accusare”, nella tradizione storica e nella sua struttura concettuale, individua una iniziativa di origine privata, individuale o sociale, ma comunque non pubblica, almeno nel senso che non ha la sua origine nello Stato. Un individuo accusa un altro individuo dell’offesa ricevuta e l’offensore, a sua volta, contesta l’accusa su di un piano di parità. Una tale fenomenologia riposa sull’idea che la verità umana si manifesti per via argomentativa e dialettica.

Da qui segue che la caratteristica peculiare di questo modello: la centralità cioè del profilo retorico – epistemologico. Alla “verità”, sia pure nella sua accezione processuale, si sostituisce il concetto di ipotesi sostenibile, che porta con sé, a sua volta, due conseguenze teoriche dagli importanti riflessi pratici. Accusa e difesa vengono incarnati da soggetti processuali pari ordinati, coerentemente con la premessa che il magistrato che promuove l’azione penale non attribuisce una “colpa” con le relative “prove”, ma prospetta solo una “ipotesi” argomentativamente sostenibile attraverso elementi di prova; e la difesa, a sua volta, potrà fornire una diversa “ipotesi”, attraverso altri elementi di prova.

Insomma, nel modello processuale accusatorio l’uomo sperimenta tutta la sua finitudine. Non presume di conoscere la verità, ma solo cerca, a volte drammaticamente, di inseguire una possibilità, nella quale la dimensione epistemologicamente “ipotetica” può essere corroborata solo dalla sostenibilità retorica, messa alla prova attraverso il confronto tra parti, processualmente pari ([20]). Al giudice, non solo super partes, ma soggetto altro dalle parti, spetta di formarsi una “opinione”, che valga come “giudizio”. Tutto ciò significa che il confronto tra ipotesi retoricamente ed argomentativamente sostenibili si traduce, nella mente del giudice, in una rappresentazione plausibile, che dà luogo alla sentenza. E non senza significato: appellabile.

In altre parole, nel modello accusatorio prende forma la “verità” intesa, in generale, come “rappresentazione possibile del mondo”, alla quale ho fatto riferimento nelle pagine introduttive.

 

  1. Per finire…una “puntualizzazione”

 

Pensando a questo modello di “verità”, quale si manifesta nel processo penale sotto la veste dell’ “accusatorio”, non intendo ascrivere al processo, ed al diritto di cui è manifestazione decisiva, una sorta di relativismo scettico. Intendo invece costruire una sorta di “arca”, nella quale salvare il tema cruciale per il pensiero e per l’agire dell’uomo, in quanto ente finito: il tema della episteme, dando il rilievo che merita alla dimensione empirica della mente umana, come visione, logos, ragione, idea, discorso e, al tempo stesso, dando altrettanto rilievo al fatto di esistere al mondo, di appartenere al mondo e di incontrare il mondo, come realtà altra dall’uomo come soggetto pensante e agente.

Il termine “possibile” indica, allora, lo spazio logico, nel quale il soggetto -“ente finito” si confronta con una dimensione altra da sé: quella che ho definito, appunto, “mondo”. Il “possibile” va inteso come uno “spazio reale”, proprio in quanto corrispondente ad una possibilità di rappresentazione offerta dalla esistenza di una “cosa”. Entro un tale spazio, il soggetto elabora le sue conoscenze (ricostruzioni e interpretazioni “possibili”, e dunque discutibili), le sue valutazioni (giusto – ingiusto)e, infine, motiva le sue decisioni.

Insomma, puntualizzando. In termini più generali, “rappresentazione possibile del mondo” può riassumersi nei seguenti 5 punti:

  1. Esiste un “mondo”, altro dal soggetto, di cui quest’ultimo dà una “rappresentazione”, attraverso un atto cognitivo;
  2. Si dà uno scarto tra l’in sé di questo mondo e la sua rappresentazione possibile da parte dell’uomo (se si vuole, è un’allusione alla noumenicità kantiana);
  3. Da qui, la molteplicità delle rappresentazioni possibili, tutte però riferibili al “mondo”;
  4. Le radici soggettive dell’oggettività, il che significa che il concetto di oggettività è strettamente legato a quello di possibilità, poiché il possibile individua lo spazio di agibilità logica tra soggetto e mondo esterno;
  5. Rispetto e dialogo sul piano delle ricadute pratiche, non come opzioni soggettivistiche, ma come dovere morale derivabile dalla lettura critica della realtà, che dalla “rappresentazione possibile” discende (a-dogmatismo).

Due parole ancora sull’oggettività, che è un tema che affanna i giuristi di tutti i settori, come generico contrappunto della “soggettività”. Tale contrappunto è epistemologicamente inesatto, poiché l’ oggettività è comunque l’esito di quel ragionamento che ha origine soggettiva, in quanto proviene dalla “testa” di un uomo. La peculiarità dell’ “oggettivo”, invece, si pone in contrasto con un altro aggettivo: soggettivistico, in quanto indica quel dato che, pur avendo una origine soggettiva, non coincide con una mera opinione individuale (“soggettivistica”, appunto), ma assume una forma argomentativa tale da essere generalizzabile, e quindi capace di fornire una rappresentazione del mondo “possibile”, ma, al tempo stesso, idonea a soddisfare attese sociali. Proprio perciò pur rimanendo discutibile, lo è su quel piano epistemologicoargomentativo che ha origine soggettiva, ma che non è soggettivistico. Prova ne sia l’imprescindibilità della “motivazione” negli atti giudiziari

Questa è la “mia” arca, che mi sembra possa navigare attraverso il mare del pragmatismo, dagli esiti scettici e nichilisti, e destreggiarsi tra gli scogli del dogmatismo del pensiero.

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

[1] L.Ferrajoli, La logica del diritto. Dieci aporie nell’opera di Hans Kelsen, Laterza, Roma – Bari 2016, in part. la IV aporia.

[2] Per un’analisi dettagliata di questo percorso, mi permetto di rinviare al mio Ragionare per decidere. Dalla scientia juris alla governance, in AA.VV. Ragionare per decidere, a cura di G.Bombelli e B.Montanari, Giappichelli, Torino 2015, pp. 1 – 33.

[3] Su questo punto, ancora C.Schmitt, Dialogo sul potere, tr.it. Il Melangolo, Genova 1990

[4] Intorno al tema della “sostenibilità della teoria” ed a quello ad esso strettamente connesso dell’ “incertezza scientifica” resta emblematico un dibattito centrale per l’epistemologia scientifica contemporanea: Kuhn- Feyerabend (cfr., del primo, The Structure of Scientific Revolutions, Chicago University Press, Chicago 1962, tr. it. La struttura delle rivoluzioni scientifiche, Einaudi, Torino 1969; e, del secondo, almeno Against Method. Outline of an Anarchistic Theory of Knowledge, London 1975, tr. it. Contro il metodo, Feltrinelli, Milano 1979). In particolare di Kuhn merita di essere sottolineato come l’affermarsi di un paradigma di “verità” (ovviamente scientifica) dipenda dalla sua “codificazione” manualistica. Quest’ultimo tema fu anticipato da Kuhn in un lungo saggio precedente al 1962 e pubblicato, insieme due lettere di Feyerabend, da Cortina nel 2000 (Dogma contro critica, Milano). Cfr. intorno a questo tema il saggio, breve ma assai intrigante di Giorgio Agamben, Che cos’è reale? La scomparsa di Majorana, Neri Pozza, Vicenza 2016.

[5] Mi permetto su questi punto di rinviare al mio Dall’ordinamento alla Governance, in “Europa e diritto privato”, n. 2/2012, pp. 397-436, ed alle riflessioni ivi espresse

[6] Cfr. su questo tema il bel saggio di Mariachiara Tallacchini, Between uncertainty and responsability. Precaution and the complex journey towards reflexive innovation, in AA. VV., Trade, Health and the Environment: The European Union Put to the Test, Routledge, London 2014, pp. 74-88 (in part. pp. 78-81), nel quale si fa il punto, con il corredo di una amplissima bibliografia, sul tema della “incertezza scientifica” in specifico rapporto alle ricadute sociali, sul piano delle decisioni politiche e della statuizioni giuridiche. In part., p. 81 con il riferimento al testo di S.Jasanoff, Science and public reason, Oxon, Routledge, 2012

[7] C.Sini, L’alfabeto e l’Occidente, Opere vol.III / I, La scrittura e i saperi, Jaca Book, Milano 2016, pp. 27 e 26.

[8] Ivi, p.44

[9] Il tema è sviluppato, come è più che noto, nelle Meditations Métaphisiques, nelle due ed. il latino (1641-’42) ed in quella in francese (1647). L’espressione cit. è nella. Med. III, ma cfr. anche, in part. la II, la IV e la VI. (Flammarion, Paris 1979)

[10]Cumque attendo me dubitare, sive esse rem incompletam et dipendentem, adeo clara et distincta idea entis indipendentis et completi, hoc est Dei, mihi occurrit” (IV, ed. cit., p.130)

[11] Critica della ragion pura, Libro II, tr.it. Laterza, Bari 1972, p.334, nota

 

[12] Ho trattato questo tema più ampiamente nel mio Potevo far meglio. Kant e il lavavetri. Ovvero: l’etica discussa con i ventenni, CEDAM, Padova 2008 (3^ ed.), cui mi permetto di rinviare.

[13] E.Cassirer, I problemi filosofici della relatività. Lezioni 1920-1921, tr.it a cura di R.Pettoello (con Premessa e note del traduttore-curatore editoriale), Mimesis, Milano-Udine 2015

[14] Ivi, p.57

[15] Ivi, p.70.

[16] Si veda, ad es., il ricchissimo testo M. Bertolino – G. Ubertis (a cura di), Prova scientifica Ragionamento probatorio e Decisione giudiziale (Atti del Convegno tenutosi all’Università Cattolica del Sacro Cuore il 10 e 11 ottobre 2014), Jovene, Napoli 2015. Sulla questione di un possibile modello di “verità” riferibile agli enunciati normativi cfr. ancora F.D’Agostini, cit., p.36 e ss. Alla crisi culturale del nostro tempo presta la sua attenzione anche G.Forti nella sua Introduzione al testo La “verità” del precetto…, sopra citato, pp. 3 – 23, in part. le osservazioni di p. 10 e ss, La questione è partitamente analizzata da G.Forti, in un “chapter”, in corso di redazione per un testo che avrà come ed. Sprjnger, dal titolo From scientific evidence to scientific proof: Daubert standard and medical standard care.

[17] F,Cordero, Riti e sapienza del diritto, Laterza, Bari 1981, in part. p.556 e ss.

[18] Cfr. R. Alexy, Theorie der juristischen Argumentation. Die Theorie des rationalen Dioskurseswe als Theorie der iuristiscen Begrundung, Suhrkamp, Frankfurt a.M. 1978, tr.it. Teoria dell’argomentazione giuridica, Giuffré, Milano 1998, p.171.

[19] H.Kelsen, Reine Rechtslehre, Wien 1960, tr.it. Einaudi, Torino 1966, p. 103

[20]In argomento, cfr., il significativo testo di P.Ferrua, Il giudizio penale: fatto e valore giuridico, in Diritto e Processo. Studi in memoria di Alessandro Giuliani, ESI, Napoli 2001, vol. III, pp. 315 – 368.

SE DIO E IL DIRITTO SI METTONO TRA LE DUE COREE

Molti media cominciano a dare per acquisito che tra la Corea del Sud e la Corea del Nord sia in atto una vera e propria guerra di nervi, anche perché tutti gli Stati in rotta con l’unilateralismo statunitense iniziano a ritenere il leader nord-coreano Kim Jong-un un elemento non troppo affidabile, minaccioso nella sua pericolosità, ma proprio per questo inidoneo ad esercitare un vero movimento controegemonico.

È come se Kim Jong-un fosse rimasto un capofila della guerra missilistica: chi mostra più lance in faccia al rivale vince la partita, anche quando il tuo arsenale è un bluff. Il suo contraltare, va detto, è un elogio di post-modernismo dove gli Stati Uniti, la Russia e la Cina spesso convergono, nonostante i loro interessi concreti e quotidiani siano nella pratica divergenti soprattutto sui diversi obiettivi, programmi e affari di politica economica.

In questo complicato scacchiere, dove nessuno sembra così senza peccato da potere bruciantemente scagliare la prima pietra, le nostre analisi rischiano di eliminare dal quadro la riflessione sulle condizioni sostanziali del popolo coreano. Finiamo, cioè, per non riflettere affatto su quali siano le garanzie che possono essere fatte valere in ordinamenti distanti, ove più ove meno, dal profilo repubblicano, liberale, democratico cui siamo più abituati.

Corea del Nord e Corea del Sud, tanto per cominciare, in un’ottica formalistica del diritto internazionale pubblico, sono Paesi ancora in guerra: hanno concluso un armistizio che non è stato seguito da un accordo di pace. Né tali possono essere definiti, negli anni Duemila, gli accordi programmatici e i memorandum sui trasporti e sull’amministrazione. Paradossalmente, questo stato di cose non dipende direttamente da un frazionismo civile “interno”, ma dal diverso quadro di rapporti internazionali seguiti alla seconda guerra mondiale: il Sud occupato dagli Stati Uniti, il Nord dalle forze dell’Unione Sovietica.

Nonostante il differente ruolo delle forze egemoni, il popolo coreano aveva intendimenti e radici comuni: la politica ha inasprito le differenze, non le ha gestite; ha agito espressamente contro la riappacificazione, anzi, tranne pochi casi (il sud-coreano Kim Dae-Jung), ha alimentato il consenso allontanando drasticamente le ipotesi di riappacificazione.

È caricaturale poi ritenere che la Corea del Sud sia sempre stata il volto democratico e plurale del complesso mosaico coreano. In Corea del Sud il riformismo giuridico è stato portato, forse più che dall’alleanza statunitense, dalle contestazioni studentesche del 1960 e del 1980 che reagirono a due esecutivi dubbiamente legittimi e autocratici, il secondo dei quali instaurato con un vero e proprio colpo di Stato. E il livello di benessere in Corea del Sud si è rafforzato grazie al riformismo economico e all’internazionalizzazione (ivi comprese le celebri Olimpiadi del 1988), non sulla base di alchemiche revisioni costituzionali – invero dagli anni Novanta ad oggi cavalcate assai più spesso e con gravi squilibri in Corea del Nord.

Certo, comprendere gli equilibri coreani, rappresentando angeli e demoni, forze del bene e forze del male, democratici e stalinisti, capitalisti e terzomondisti … significa perdere il senso della misura.

La struttura molto accentrata dello Stato nord-coreano ha favorito alcune eccellenze che anche nella loro ambiguità dovrebbero suggerire qualche spunto più articolato: nel locale sistema scolastico, ci sono picchi di alfabetizzazione sconosciuti in altri Paesi della medesima area (il gigante cinese e quello indiano compresi). E c’è una conoscenza di base dell’inglese e del russo, ministerialmente perseguita sin dagli anni Ottanta.

Il sistema sanitario, all’opposto, dietro una veste formale tendenzialmente universalistica, ha nei fatti un’ampia farraginosità che rende ancora endemiche malattie gravi.

Le due Coree, inoltre, hanno fortissime radici comuni nella religiosità tradizionale e nella cultura, nonostante la Corea del Sud desuma dal costituzionalismo liberale la sua disciplina giuridica del fatto religioso e la Corea del Nord riproponga l’ateismo di Stato maoista e sovietico in senso fortemente personalistico (la devozione alla famiglia regnante come unico “culto” ufficiale).

In entrambi i Paesi, la religione arcaica tradizionale è lo sciamanesimo coreano, un filone mistico ed esoterico originale, conseguente ai processi di divaricazione dall’influenza cinese e giapponese. Anche il buddhismo rappresenta un sorprendente elemento di continuità. Nella Corea del Sud è praticato da almeno un cittadino su quattro, benché le diverse scuole siano difficilmente riconducibili ad unità. Nella Corea del Nord le percentuali sembrano molto più basse, ma l’attitudine del buddhismo a valicare la stretta appartenenza cultuale e a farsi sistema teorico, cultura e approccio di base, lo rende in pratica molto riconosciuto e seguito. Ed è parimenti problematica nei due Stati la rappresentanza politica del movimento ceondoista. Quel culto, infatti, che pure ha maturato una teologia universalistica, monoteistica e panteistica, nasce da agitazioni rurali, soprattutto meridionali, che avevano comunque una collocazione nazionalistica e velatamente populista.

L’espansione politica di questi istituti testimonia un’unitarietà di fondo della cultura tradizionale coreana, tanto rispettosa delle tipicità locali regionali, quanto capace di proiettarsi (e con tenacia quasi esclusivistica) nel progetto di uno Stato nazione.

Dal punto di vista giuridico-costituzionale, oltre che da quello delle abitudini di vita e delle relazioni politiche, un fronte pan-coreano sarebbe oggi localmente ostracizzato, minoritario nella contesa elettorale e probabilmente screditato presso l’opinione pubblica internazionale.

Quel che è verosimile, però, è che la pacificazione tra le due Coree, se avesse potuto prescindere dalla politica interna, forse già apparterrebbe al vissuto storico del popolo coreano.

 

Antropologia politica (una considerazione preliminare)

La nostra vita quotidiana ce lo testimonia incessantemente: viviamo impulsi talmente imperiosi – quasi sempre legati alla sfera materiale – da farne apparire indispensabile la soddisfazione. Non se ne può fare a meno ma i desideri che ci possiedono appaiono spesso in contraddizione l’uno con l’altro: bisognerebbe necessariamente rinunciare a qualcuno di loro. Come fare, però, se essi appaiono tutti – davvero – indispensabili? Indispensabili ma impossibili da cogliere contemporaneamente – incompossibili. Si vede, tuttavia, che si tratta d’una condizione al limite della follia. Come immaginare dunque una scala gerarchica, un ordine di importanza? Quali criteri utilizzare?
Sarebbe necessario de-cidere. Fendere. Tagliare una parte di noi. Farlo però non è possibile, poiché ciò significherebbe un sacrificio che, in un tempo antisacrificale quale il nostro, l’uomo non può permettersi.

Alla fine della cultura cristiana – cultura monoteistica – riemerge dunque la tragedia del politeismo. Ma di quale politeismo sto parlando? A guardar bene, non vi è, né può esservi oggi alcun politeismo. Non esiste, infatti, alcun tempo ciclico su cui appoggiarsi – cosi com’era, ad esempio, per i greci. Il tempo ciclico è indispensabile per aprire una dimensione religiosa di tipo politeistico. Ora il tempo (ancora cristiano) rimane lineare, e orientato verso un fine – verso “la fine” dei tempi. Epperò, mentre la forma è rimasta la stessa, è andata via la sostanza: viviamo in un mondo che ha rinunciato al telos ma è ancora convinto che bisogna andare avanti nella dominazione del mondo perché il nostro Regno appartiene ad un altro mondo. Il dramma morale della società contemporanea nasce appunto da questo…
Oggi, tuttavia, diversamente da quanto accadeva nel politeismo antico, nessuna “misura” ci può aiutare: la bella armonia classica ha lasciato il posto al desiderio irrefrenabile del Kaos. Come il politeismo, lo stesso monoteismo si è svuotato e le nostre vite appaiono appoggiate oggi, inesorabilmente, sul vuoto dell’assenza.

E’ necessario ammetterlo: gli antichi Dei hanno ripreso, nel nostro petto, nella nostra emotività più riposta, la loro eterna contesa ma Nemesi è morta e Giove non domina più sulle cime dell’Olimpo.

Il limite è stato oltrepassato…

L’oltrepassamento del limite ha due grandi protagonisti, la tecnica e il denaro: il denaro in quanto tecnica e la tecnica in quanto denaro. Davanti a queste divinità, immani volontà di potenza del nostro tempo, l’uomo appare in una funzione estremamente gregaria. Anche ad una analisi sommaria, i nostri contemporanei si mostrano come piccoli quanto insignificanti ingranaggi d’un apparato tecnico sempre meno controllabile dal suo costruttore. Gli uomini oggi sono poggiati, in quanto singoli e in quanto specie, su un terreno che di stabile non ha più nulla.

Proprio in questo tempo, tuttavia, e proprio perché esso sembra procedere in direzione specularmente opposta, occorre ricordarsi dell’interezza dell’uomo e del destino comune a tutti noi.

Ogni comunità storica implica un peculiare modo di essere al mondo. Ciascuna di esse non potrebbe (non avrebbe potuto, non potrà) sopravvivere se non costruendo un “cerchio magico” intorno a cui sia possibile de-finire la propria visione del mondo. Il cerchio magico significa valori di riferimento, realtà introiettate e ritenute auto-evidenti tanto da costituire dispositivi di verità strutturati in quanto edificio di vita e di senso. Non si può in alcun modo rinunciare ad un ethos condiviso; meno ancora si può supporre che la frammentazione globale possa fare a meno d’una visione dell’intero, ossia un patrimonio di “beni comuni” e risorse pubbliche.

L’uomo è – appunto – un intero. Non solo. In un periodo storico segnato dalle grandi conquiste della tecnica, va ricordato che esso non può che essere e rimanere parte costitutiva dell’intera umanità: in un tempo segnato dalla globalizzazione culturale, sociale, economica, ciò è del tutto evidente sul piano socio-politico. Ancor più evidente e decisiva dovrebbe apparire, però, l’interrelazione ambientale in una fase storica nella quale un qualsiasi “incidente” di tipo tecnico è in grado di diffondersi su larga scala, producendo danni catastrofici quanto irreversibili.

Occorre pertanto ripensare insieme l’uomo e il suo mondo. E’ necessario farlo, però, con la consapevolezza che è senz’altro l’uomo a produrre il proprio mondo ma che il mondo stesso possiede delle leggi che non possono essere alterate senza che gli individui ne debbano risentire.

A tal fine, pertanto, non bastano più le discipline settorializzate. In modo particolare per le scienze filosofiche, bisogna entrare nell’ottica secondo la quale la conoscenza serve all’uomo “integralmente” e che nessuna particella di essa può rendersi autonoma in maniera anarchica, nella convinzione che l’intero non reagisca.

Per pensare adeguatamente il proprio tempo non è sufficiente concentrarsi sulle istituzioni politiche e sulle forme della sovranità, sulla configurazione del diritto e sulla gestione dell’economia. Non vi è dubbio: un’analisi specifica e interstrutturale di questi settori è imprescindibile. Si tratta, però, di una condizione necessaria ma non sufficiente.

L’analisi degli ambiti suddetti, infatti, per quanto tecnicamente raffinata possa essere, non serve a niente se non si osserva, comprende e descrive, nella maniera più accurata possibile, il modello umano – di donna e di uomo – che un determinato tempo è in condizione di esprimere. È necessario, pertanto, compiere un lavoro ulteriore: al fine di risalire ad una prospettiva fedele e mettere capo ad uno sguardo lucido sul reale, diventa indispensabile retrocedere fino alle passioni più intime dell’uomo contemporaneo. Occorre, cioè, entrare nelle dinamiche emozionali, comprendere nello stesso modo le forme dell’amore e quelle dell’odio, concentrarsi sulle modalità della cura. Tutto ciò costituisce presupposto indispensabile per un’indagine scientifica affidabile. A saper guardare, dice molto di più, della qualità e del tipo di comunità, una visita in una corsia di ospedale che uno studio pluriennale di ingegneria costituzionale.

Credo dunque che, da questo punto di vista, la filosofia sia anzitutto una politica. Per converso, ritengo anche che quest’ultima non abbia e non debba avere alcun valore riconosciuto se non coinvolge nel suo senso la filosofia, ossia una visione complessiva sull’uomo in quanto singolo e in quanto specie. L’uomo che deve essere preso in considerazione non può più essere il soggetto razionale della tradizione illuministica, o il cittadino della tradizione statualistica moderna, e neppure l’agente economico tipico delle posizioni liberali, bensì un essere peculiare che si caratterizza essenzialmente per un’esposizione radicale all’evento della sua stessa esistenza.

In questo senso, pertanto, vanno valorizzati studi ed esperienze le più diverse: anche quelle che non avevano mai raggiunto la dignità di “scienza accademica”. A patto, però, che tutto questo reticolo scientifico possa essere riconnesso al senso filosofico più generale e originario possibile.

Costituirebbe una buona filosofia quella che ritornasse a porre domande ingenue, come quelle dei bambini o dei poeti, tali cioè da porre in un colpo solo davanti ai tanti paradossi e alle innumerevoli contraddizioni dell’esistere. Sarebbe altresì necessario che la filosofia diventasse una visione dell’uomo esprimibile attraverso una politica. Sarebbe urgente che la filosofia si mutasse in antropologia politica.

Forse la Cina ha ucciso un nobel, ma l’occidente rischia di farne solo un soprammobile

Liu Xiaobo è il primo Nobel per la pace a morire da detenuto e malato dal lontano 1939. Prima della scomparsa del critico letterario cinese, l’ultima personalità della cultura a finire i suoi giorni terreni con in tasca il Nobel, e negli occhi i ristretti orizzonti della repressione statale, fu il giornalista socialdemocratico e convinto pacifista Carl von Ossietzky. Fine editorialista di origini polacche, alla compiaciuta erudizione che talvolta circolava persino nei fogli clandestini del Reich, preferiva lo stile comunicativo dei periodici berlinesi. All’alba della sua formazione politica, il giovane Carl era stato certamente un utopista democratico, un fautore del cosmopolitismo non interventista. Col tempo, dopo i processi e le detenzioni, passando dalla disillusione alla sconfitta, la sua opposizione al regime nazionalsocialista, più che teoretica e idealistica, era divenuta eminentemente pratica. Von Ossietzky non disegnava più le coordinate del regime giuridico perfetto, ma considerava con pragmatismo e tenacia come alla nazione tedesca, per insorgere contro il vittorioso partito hitleriano, servisse anche l’intervento degli Stati esteri e dei circoli internazionali.

Nella vicenda politica, biografica e bibliografica di Liu Xiaobo, il primo dissidente cinese di una certa fortuna in Occidente, esiste un crinale simile già tra il 1988 e il 1989, persino prima dei moti popolari di Piazza Tienanmen. In quegli anni, analizzando la situazione politica di Hong Kong, il futuro Nobel per la pace individuava l’influenza e la dominazione inglese tra gli elementi che avevano favorito l’emancipazione e lo sviluppo dell’ex Protettorato britannico tornato alla Cina nel 1997.

Nella formazione politico-culturale di Liu Xiaobo hanno specifico rilievo pure l’educazione cristiana ricevuta nell’ambiente familiare e la riscoperta dei filoni letterari nazionali di ispirazione confuciana e neo-confuciana. Lo scrittore cinese rivela entrambe queste matrici nel suo programma teorico. Il modello di riferimento sembra molto più concretamente quello del cattolicesimo liberale che non quello del socialismo libertario di Chomsky. Liu Xiaobo non è, cioè, un sovversivo, un avanguardista, un anarchico, un anticonvenzionale a tutti i costi. Per le categorie d’analisi del pensiero occidentale, il programma politico dell’A. è una visione persino riduttiva dello Stato costituzionale: libertà di stampa, libertà di culto e, soprattutto!, autonomia statutaria delle confessioni religiose, superamento del monopartitismo e introduzione di misure sociali per regolamentare il disorganico sviluppo economico cinese. Poco, a ben vedere, sulla rovina ambientale che spesso incombe silente sulle megalopoli cinesi, poco sulla nascita di una opposizione politica dei lavoratori manuali, ma anche poco sulla questione di genere, sui “nuovi” diritti civili, sull’unilateralismo statunitense nella politica globale.

Il manifesto politico “Charta 08”, documento di cui Liu Xiaobo fu primo firmatario e che si richiamava sin dalla titolazione all’omologo documento dei dissidenti cecoslovacchi anticomunisti “Charta 77”, è una presa di posizione utile da leggere, soprattutto perché propone di bilanciare gli squilibri del colosso economico cinese col ricorso al liberalismo giuridico di matrice occidentale. E si tratta, molto significativamente, dell’atto politico che ancora determinava la condizione di ristretto di Xiaobo, al momento della sua morte per un cancro al fegato, probabilmente non adeguatamente curato in tutte le fasi del suo pervasivo sviluppo.

Quel documento, in fondo, immagina una Cina reale più vicina alla sua Costituzione formale, che in molti aspetti, effettivamente, pur ben esponendo la sua intestazione di Repubblica popolare, “cede” a istituti della politica liberale, in particolar modo nella disciplina delle cd. “libertà negative” – quelle libertà, cioè, che si garantiscono in primo luogo con l’astensione del potere politico dall’ingerenza nella vita dei cittadini.

Tutta la vicenda umana, politica e culturale di Liu Xiaobo può essere retrospettivamente riletta nel rapporto tra la cultura cinese e il modello statunitense. Tenzone forse mai espressamente dichiarata, eppure sotto pelle palpitante, come se la vera transizione istituzionale del governo di Pechino si fosse già esaurita. Dalla via cinese (e maoista) al socialismo sovietico alla via cinese (popolare, nazionale, monopartito e carente di legislazione sociale) al capitalismo americano. Liu Xiaobo è l’intellettuale moderato che vuole l’ancoraggio del suo Paese al treno dei diritti politici intesi all’occidentale.

Il professore di Changchun ha immolato la propria stessa vita a questo scopo. La Repubblica Popolare non lo ha ascoltato, ma il ceto intellettuale europeo e statunitense ne ha fatto un campione di cartapesta per il western lifestyle, anche nelle sue posizioni filoisraeliane in politica medio-orientale. Piuttosto che investigare criticamente le contraddizioni del modello pechinese e anche quelle dei suoi oppositori, l’Ovest preferisce, come fu per gli intellettuali islamici degli anni Ottanta e Novanta, la voce esotica di chi si oppone con compiutezza di sguardo, ma a distanza dalla prima linea, come il grande giallista Qiu Xiaolong. Talmente ignoriamo dei nostri fantasmi che poco ci importa di conoscere quelli degli altri.

Crisi di rappresentanza e globalizzazione dei mercati

Questo saggio è lo schema della lezione tenuta da Giorgio Rodano il 21 aprile 2017 a Roma, Villa Mirafiori, Dipartimento di Filosofia,  cattedra di Filosofia politica.

Domenica ci saranno le elezioni presidenziali in Francia. Rischiano di essere esclusi dal ballottaggio i due partiti (quello socialista e quello conservatore, quello che una volta veniva chiamato gollista) i quali da oltre cinquant’anni (da quando esiste la cosiddetta quinta repubblica) hanno espresso tutti i presidenti della repubblica e tutti i governi. La stessa cosa è successa negli scorsi mesi in Austria (dove al ballottaggio si sono sfidati un verde e un estremista di destra). È un chiaro segnale di crisi di rappresentanza.
La cosa è parecchio diffusa. Tira un brutto vento per i partiti e i movimenti che hanno guidato i paesi dell’occidente nei decenni passati: in molti paesi hanno ottenuto rilevanti successi elettorali candidati e movimenti esplicitamente e spesso violentemente critici nei confronti dell’establishment politico. Il caso più clamoroso è quello di Trump. Ma si possono ricordare i successi (finora solo parziali) della Le Pen (Francia), di Wilders (Olanda), di Podemos (Spagna), e anche, ovviamente, dei cinquestelle nostrani. Anche alcuni candidati sconfitti hanno comunque basato il loro consenso sulla critica dell’establishment: per esempio Sanders (Usa) e Corbyn (Uk). Persino in Germania i movimenti anti politica hanno visto crescere il loro spazio.
I recenti successi, in Europa, dei movimenti populisti e dei sovranisti suggeriscono che tira una brutta aria per la coesione e il futuro dell’Unione europea (come è cambiato il vento in soli vent’anni!). Lo shock della Brexit rischia di essere (anche se non è detto) il punto di inizio di un più generale processo di disgregazione. E in questo non aiuta certo l’atteggiamento dei paesi dell’ex blocco sovietico aderenti alla Ue (fortemente sovranisti, e che vedono nell’Ue quasi esclusivamente un baluardo in chiave anti Russia).
Insomma gli equilibri politici, da noi come altrove, stanno cambiando, e non lo stanno facendo in modo ordinato. Forse è più corretto dire che quelli vecchi sono venuti meno, e che nuovi equilibri non ci sono ancora; e non se scorgono neppure le caratteristiche generali. Se uno guarda al passato remoto viene in mente il dubbio che siamo alla vigilia di grandi cambiamenti di cui però non riusciamo a intravedere la direzione e i possibili risultati. La società (le società) appaiono in crisi, sono scosse da tensioni che la politica ha crescenti difficoltà a gestire e che, per ciò stesso, appare sempre più delegittimata. La storia ci dice che in queste situazioni sono elevate le possibilità di cambiamenti radicali (con possibili sbocchi rivoluzionari o reazionari, ma quali?).
Senza scomodare i grandiosi travagli del quinto secolo (a.d.) che portarono alla fine dell’impero romano d’occidente e all’avvento dei secoli del medio evo, possiamo pensare ai periodi che precedettero le grandi rivoluzioni (inglese, francese, russa); e possiamo pensare anche, in Italia, agli anni successivi alla prima guerra mondiale o, allargando lo sguardo, agli anni della grande depressione degli anni trenta del secolo scorso. Tutti periodi socialmente turbolenti e forieri di grandi cambiamenti (non sempre in meglio). Per riprendere le immagini di un grande poeta italiano del secolo scorso (che però parlava dell’inizio degli anni cinquanta), ci sembra di vivere in un vuoto della storia, in una ronzante pausa, quando appunto nel mondo, qualcosa crolla, e si trascina il mondo, nella penombra (Pasolini).
Per concludere con queste considerazioni, mi sento a disagio (e ritengo di essere in numerosa compagnia). Le cose cambiano ma non riesco a vedere la direzione e gli sbocchi. Forse è perché sono vecchio. Ma ho l’impressione che il disagio (diffuso) non sia un fatto generazionale. Direi che anche i giovani si sentono molto a disagio. Per certi versi, anche più degli anziani. E — come cercherò di mostrare in seguito — hanno più di una ragione per essere insoddisfatti di come vanno le cose e delle prospettive nebbiose (eufemismo) che si trovano davanti.
Tuttavia credo di essere stato chiamato a parlarvi oggi non in quanto vecchio e pensionato (anche se purtroppo lo sono) ma in quanto studioso (ex professore) di economia, di quella che una volta è stata chiamata dismal science, la scienza triste (dismal può essere tradotto anche come tetra, il che non ci è di molto conforto).
Immagino che la mia presenza qui sia stata sollecitata dalla speranza, che la scienza economica possa aiutarci a capire quello che sta succedendo. Non ne sarei così sicuro. C’è un terribile aforisma che riguarda gli economisti che recita più o meno così: «l’economista è colui che domani ti spiegherà perché oggi non si è verificato quello che aveva previsto ieri». Insomma saremmo bravini a spiegare dopo (ex post) quel che non avevamo capito prima (ex ante). È vero che, come pare abbia ironicamente detto una volta un grande fisico del secolo scorso (Niels Bohr) «fare previsioni è molto difficile, soprattutto per quanto riguarda il futuro», ma un po’ di sana cautela per quanto riguarda le previsioni degli economisti è doverosa (io li conosco; faccio parte della categoria).
Un esempio tipico: la stragrande maggioranza degli economisti non aveva previsto la grande crisi economica mondiale scoppiata nel 2007 e che ha trascinato le sue conseguenze per parecchi anni (in Italia almeno fino al 2014, anche se molti sostengono che non è ancora finita). Ci torneremo. Comunque assumo per buona la domanda: «L’economia è in grado di aiutarci a capire qualcosa dell’attuale malessere sociale (in Italia, in Europa, nel mondo)?» Proverò ad argomentare la seguente risposta: «Forse sì (ma non aspettatevi troppo)». Poi c’è subito un’altra domanda importante: «Quanto dell’attuale malessere sociale è colpa dell’economia?». Chiaramente sto usando la parola economia in due modi diversi. Nella prima domanda economia sta per scienza economica, ossia per una disciplina che cerca di spiegare, dal suo particolare punto di vista, la realtà sociale. Nella seconda domanda la parola economia sta per struttura economica o, se si preferisce, per meccanismi economici (nella lingua inglese si usano due parole diverse: economics ed economy). Naturalmente potrei usare altri termini, come capitalismo, mercati, finanza, globalizzazione, ecc. Più avanti lo farò.
Premetto che la parola colpa non mi piace. Preferisco termini meno pesanti come causa (se vogliamo restare sull’oggettivo) o responsabilità (se proprio vogliamo aggiungere una connotazione politica o morale). Comunque non mi sottrarrò al compito di tentare anche qui una risposta. Che, anticipando, è questa: «A mio avviso, parecchio». Nel seguito cercherò di essere un po’ meno sintetico, e forse dirò cose che non vi aspettate.
Cominciamo da una prima possibile risposta (alla seconda domanda): il malessere sociale è una conseguenza diretta della crisi economica. Non voglio sottovalutare l’importanza per certi aspetti epocale di questa crisi (di gran lunga la più grossa, almeno per il nostro paese, della sua storia in tempo di pace; più della stessa grande depressione degli anni trenta del secolo scorso). Ma cercherò di argomentare la seguente tesi: la crisi ha contato e conta (matters), soprattutto in Italia; ma se allarghiamo lo sguardo al resto del mondo, ci accorgiamo che le cose sono un po’ più complicate. Per anticipare uno spunto: negli Usa, grazie alle politiche tempestive ed efficaci dell’amministrazione Obama e della Fed, la crisi economica è stata superata molto rapidamente: dopo poco più di un anno l’economia americana era in chiara ripresa, e oggi ha largamente recuperato i livelli pre-crisi. Ma il malessere sociale si è accentuato, e si è tradotto nella vittoria di Trump (un outsider; come in Francia, come in Austria, come, forse, domani in Italia).
Alcuni numeri della crisi economica (per l’Italia). Tra il 2007 e il 2013 il Pil è diminuito dell’8,7% (appunto, mai così tanto e così a lungo in tempo di pace). Conseguenza: si è perduto oltre un milione di posti di lavoro (700 mila dipendenti). Li ha persi non solo l’industria (come avviene di solito nelle recessioni moderne); stavolta l’emorragia ha colpito (ovviamente di meno) settori di solito risparmiati (come il commercio) e settori che in passato hanno svolto una funzione compensatrice (le amministrazioni pubbliche). Ben oltre la metà dei posti perduti (57,8%) ha riguardato il Mezzogiorno; poi il Nord (28,3%); è andata relativamente meglio per il Centro (13,9%). Tasso di disoccupazione in salita: prima della crisi era sceso al 5,7%; dopo era risalito a un massimo del 13,1%. In grande salita quello dei giovani: dal 18,1% al 43,9% (sempre nel periodo della crisi).
Negli anni più recenti le cose hanno cominciato ad andare un po’ meglio. Non tanto, ma un po’ sì. L’economia ha ricominciato a crescere (poco, meno del resto dell’Europa), l’occupazione ad aumentare, la disoccupazione a diminuire (perfino, anche se poco, quella giovanile). Ma le cose non sono andate in modo uniforme. Il Centro-Nord ha recuperato quasi integralmente riportandosi sui numeri del periodo precedente la crisi (che, va aggiunto per completezza, non erano un granché). Il Mezzogiorno no. L’economia delle regioni del Sud ha continuato a ristagnare, e lo stesso vale per l’occupazione e la disoccupazione. E anche per i giovani le cose non stanno andando affatto bene. L’altro ieri il direttore dell’Istat, in un’audizione alla Camera, ci ha ricordato che il tasso di occupazione dei giovani (tra 15 e 34 anni) sfiorava il 40% (contro il 54% dell’area euro e il 56,4% dell’Unione europea).
La tesi che cercherò di illustrare è, molto in sintesi, la seguente. La grande crisi economica mondiale e il successivo periodo di ristagno hanno dislocato nel profondo gli equilibri sociali e perciò sono stati il fattore scatenante e l’elemento amplificatore della crisi di rappresentanza politica che ha portato alla diffusione dei movimenti anti-politica (o, meglio, anti establishment), a matrice populista e sovranista. Ma la causa economica di questa crisi di consenso va cercata altrove. Dove? La risposta che suggerisco e che proverò ad argomentare è: in alcune conseguenze della globalizzazione dei mercati.
Sospetto che se avessi chiesto a voi di proporre delle risposte, la globalizzazione sarebbe stata abbastanza gettonata. Ma sospetto anche che se vi avessi chiesto di dirmi che cosa si deve intendere per globalizzazione le cose si sarebbero fatte un po’ più confuse. Perché non è corretto liquidare la faccenda inserendo la globalizzazione in un elenco di cattivi, assieme alla finanza, alle banche, alle multinazionali, all’Europa, alle burocrazie di Bruxelles, alla trojka (Bce, Fmi, Commissione europea), all’euro, alla Germania, ai governi (piove, governo ladro); e, già che ci siamo, ai mercati, alle tasse, agli immigrati (e via seguitando). Non è per caso che ho parlato di conseguenze della globalizzazione.
Avendone il tempo, dovrei essere in grado di spiegare (è il mio mestiere) che nessuno dei reprobi che compaiono nell’elenco (e che tanto spesso ci conforta additare alla gogna) è veramente cattivo (anche se — per carità — non è neanche veramente buono). Dato che, però, il tempo è tiranno, mi limiterò a ragionare sulla globalizzazione e sul suo ruolo (durante il percorso sarà inevitabile incontrare anche qualche altro dei personaggi dell’elenco).
Ci serve innanzitutto una definizione. Possiamo articolare il processo di globalizzazione dei mercati in quattro fasi (logiche, ma in parte anche storiche): (i) allargamento dei mercati dei prodotti (e delle materie prime); (ii) apertura dei mercati finanziari; (iii) mobilità delle risorse; (iv) decentramento produttivo. Ma vediamo più in dettaglio.
Allargamento dei mercati dei prodotti. Come viene realizzato: cambi fissi, moneta unica, trattati internazionali, abbattimento delle barriere, armonizzazione delle normative, trasporti e comunicazioni. Conseguenza: cresce la torta. Questo risultato è sostenuto, al di là di ogni ragionevole dubbio, da solidi argomenti teorici e da una massa enorme di evidenza empirica e storica. Importante caveat: questo non significa che a tutti viene data una fetta più grossa; significa solo che sarebbe possibile dare a tutti una fetta più grossa. Vedremo però che la distribuzione dei frutti della globalizzazione non è stata egualitaria.
Apertura dei mercati finanziari. Ci sono i lenders (quelli che hanno i soldi e sono disposti a prestarli) e i borrowers (quelli che li vogliono in prestito). Risparmio e investimento. Di solito chi risparmia (famiglie) è diverso da chi investe (imprese e Stato). Qualcosa di simile succede con gli Stati (Germania vs Grecia). Che succede se non si incontrano? Manca la domanda per i prodotti e c’è la crisi (o comunque una minore crescita economica). Chi fa incontrare il risparmio e l’investimento? Gli intermediari finanziari e i mercati finanziari. Come si aprono i mercati finanziari? Liberalizzandoli (!). Conclusione: anche questo aspetto della globalizzazione è potenzialmente positivo. Ma c’è anche il lato oscuro della finanza.
Le magagne della finanza. Prima. Gli intermediari e i mercati portano il risparmio dove rende di più, e non è detto che sia l’investimento produttivo. Può essere la finanza stessa (speculazione; e prima o poi le bolle scoppiano). Possono essere i debiti pubblici. Anche qui si deve distinguere tra spesa pubblica buona (investimenti) e cattiva (certi consumi). Seconda. Come la finanza porta i fondi, così può anche portarli via, lasciando il debitore in brache di tela. Può succedere perché il debitore si rivela poco affidabile (rischio di default; rischio paese). Ma può succedere perché i lenders hanno meno soldi da prestare. Esempio. La crisi economica riduce il Pil tedesco; perciò si riduce il risparmio tedesco; chi prendeva soldi a prestito dai tedeschi (la Grecia) si trova in difficoltà.
Mobilità delle risorse. Si muovono i capitali e il lavoro. Entrambi si dirigono dove il rendimento atteso è più alto. I capitali vanno verso i paesi arretrati. Il lavoro si dirige verso i paesi ricchi. Flussi disordinati creano problemi (gli immigranti e gli immigrati). Ma anche questo terzo aspetto della globalizzazione è potenzialmente positivo, tanto più che anche i paesi ricchi, per continuare a crescere, hanno bisogno di più lavoro (e i ricchi fanno sempre meno figli).
Decentramento produttivo. Le imprese dei paesi ricchi spostano parte delle proprie attività (di solito quelle a minor contenuto tecnologico) nei paesi poveri. Perciò nei paesi poveri cresce la produzione (e l’occupazione) e cresce il Pil (e i redditi). La globalizzazione rende i paesi poveri meno poveri. Li sfrutta? Certo! Ma è altrettanto certo che la popolazione dei paesi poveri, tra l’alternativa di morire di fame e quella di essere sfruttata, preferisce di gran lunga la seconda. Un paragone con l’ottocento inglese (Engels e Marx). Un paragone con gli anni cinquanta italiani (l’esodo dalle campagne).
E a noi che ce ne viene? Quando le economie dei paesi arretrati crescono (e negli ultimi decenni sono cresciute molto: Cindia), aumenta la richiesta per i prodotti dei paesi avanzati e cresce perciò il Pil sia dei paesi ricchi che dei paesi poveri (che diventano meno poveri). Cominciano a farci concorrenza nel campo dei prodotti tradizionali? Certo! Ma anche questo, per certi aspetti, è un vantaggio: (i) per chi li acquista nei paesi ricchi quei prodotti costano meno; (ii) l’aumento della concorrenza nei mercati fa crescere la torta (questo è un risultato che nessuno studioso mette in discussione). Insomma la concorrenza è buona per tutti quanti (tranne qualcuno: chi la subisce).
Tutto bene, allora? Ma non avevo detto prima che la globalizzazione è la causa prima del nostro attuale malessere? L’avevo detto e lo ribadisco. Premessa. La globalizzazione è (complessivamente) vantaggiosa, ma è fragile. Paragone con l’autostrada: finché tutto va liscio, si corre allegramente; ma se c’è un incidente, si rimane imbottigliati (e non si può sfuggire). Traduco: la globalizzazione alimenta la crescita (fa aumentare le dimensioni della torta) ma, se scoppia una crisi, questa tende a diventare globale e ad alimentarsi a sua volta (e la torta si sbriciola). Nulla di nuovo sotto il sole (sono cose che Marx diceva già nell’ottocento).
Ma le ragioni del nostro malessere derivano soprattutto dalla distribuzione ineguale dei vantaggi della globalizzazione. Chi ci guadagna? Innanzitutto — lo abbiamo detto prima — le popolazioni dei paesi poveri (che dalla globalizzazione ottengono lavoro e redditi). Ci guadagnano anche i lenders che finanziano i flussi di capitali (che risiedono nei paesi ricchi) e i percettori dei profitti delle attività produttive decentralizzate (che ugualmente risiedono nei paesi ricchi). Ci guadagnano gli intermediari finanziari e soprattutto i loro dirigenti (anche loro risiedono nei paesi ricchi). Ci guadagnano i consumatori (dei paesi ricchi e di quelli poveri). Chi ci rimette? Soprattutto coloro che lavoravano nelle attività che successivamente la globalizzazione avrebbe decentrato nei paesi arretrati (Detroit e la cintura della ruggine).
Finché non c’è la crisi questo malessere cova sotto la cenere. Gli sconfitti della globalizzazione possono trovare abbastanza facilmente delle alternative, se non per loro per i propri figli. Finiscono delle opportunità (non si vendono più finimenti per cavalli) ma se ne creano continuamente di nuove, secondo il processo di continua distruzione creatrice (Schumpeter) che ha sempre animato il capitalismo.
Ma — come abbiamo appena detto — la globalizzazione è fragile. Quando la crisi scoppia, le opportunità si fanno sempre più rare e il malessere diventa esplicito. Si accusa l’establishment della responsabilità di aver costruito l’autostrada in cui ora si è imbottigliati, senza speranza. Lo si accusa di essere privilegiato, di non pagare i costi della crisi (anzi di guadagnarci). E si chiede di tornare indietro. E se questo non avviene, si sposano i temi dell’antipolitica, e ci si fa incantare dalle promesse degli outsider.
Ha senso tornare indietro? L’eterno sogno dei laudatores temporis acti (Orazio) è quasi sempre un’illusione. Anche se è indiscutibile che la luce del futuro non cessa un solo istante di ferirci (ancora Pasolini), tornare indietro significherebbe rassegnarsi a una riduzione permanente delle dimensioni della torta (è già successo; per esempio, negli anni trenta del secolo scorso, e quel decennio non è finito bene), e rinunciare ai vantaggi che abbiamo elencato prima. E comunque è un’illusione l’idea che facendo girare le ruote della globalizzazione al contrario si possa tornare alla situazione precedente (ai fasti di Detroit). Non è così. Tornare indietro ci renderebbe semplicemente tutti più poveri (c’è un bell’esempio di teoria dei giochi sul West dei pionieri, che rende bene l’idea). E il malessere, semplicemente, sarebbe più intenso e più diffuso. Non oso pensare con quali conseguenze.
E allora? Se non si pensa a un’alternativa credibile, vincono gli outsider e il sovranismo. Magari qualcuno tifa per questo risultato (forse tanti). Io no. Ma proprio per questo non posso limitarmi a lanciare (pacatamente, cercando di ragionare) un grido d’allarme: «Attenzione! A tornare indietro ci rimettiamo tutti!». Non sarebbe la prima volta che il gioco della democrazia conduce a risultati autolesionistici. La storia è piena di esempi. Anche la cronaca: quella in grande (Trump, Brexit) e quella in piccolo (il comune di Roma).
Un modo per cercare un’alternativa è quello di riflettere su un caso di successo, anzi, sul principale caso di successo di tutta la storia del capitalismo: il ventennio dal 1950 al 1970, quando le economie occidentali hanno conosciuto (tutte!) la più forte crescita economica della loro storia e quando le economie arretrate hanno cominciato a uscire dal loro millenario ristagno. Quel periodo viene chiamato dagli storici economici come la Golden Age (l’età dell’oro del capitalismo mondiale).
Perché proprio la Golden Age? Perché essa presenta interessanti somiglianze col processo della globalizzazione. Ma presenta anche importanti differenze. Le somiglianze. (i) L’apertura dei mercati (cambi fissi, abbattimento delle barriere doganali, trattati di libero scambio); (ii) Il finanziamento degli investimenti (tanti!), ossia del principale motore della domanda aggregata (nel breve periodo) e della crescita economica (nel lungo periodo); (iii) La mobilità degli input, in particolare del lavoro (dalle campagne alle città, dall’agricoltura all’industria, dai paesi arretrati a quelli avanzati). Le differenze. (i) È stato sostanzialmente assente il quarto punto (decentramento delle attività produttive). (ii) Molti dei motori della Golden Age sono stati fortemente intermediati e gestiti dalla politica, che in questo modo li ha resi meno fragili.
Vediamo meglio. (i) Non solo cambi fissi ma il sistema di Bretton Woods, che attivava importanti correttivi istituzionali come il Fmi (che aveva gli strumenti per gestire gli squilibri temporanei), la Banca Mondiale (che aveva il compito di finanziare le esigenze di lungo periodo dei paesi arretrati), e i Dsp (che dovevano assicurare una creazione ordinata della liquidità internazionale). Non tutto ha funzionato per il meglio (anzi) ma certamente ha aiutato parecchio. (ii) Non solo riduzione delle barriere commerciali, ma trattati che promuovevano sì il libero scambio (come quelli della globalizzazione) ma anche l’integrazione (in prospettiva anche politica) delle economie. (iii) Il trasferimento del risparmio verso gli investimenti non era affidato esclusivamente agli intermediari e ai mercati finanziari (oltretutto molto meno sviluppati di quelli attuali) ma a una massiccia politica di aiuti pubblici (Piano Marshall) e a politiche di redistribuzione del reddito e della ricchezza, che rendevano più equilibrata la diffusione del potere d’acquisto (secondo la vecchia, ma ancora attuale, idea keynesiana, che nel breve periodo il risparmio non è il motore della crescita, perché sono soldi che non si traducono in domanda di prodotti; ed è la domanda che genera il Pil ed è il Pil che genera il risparmio). Il principale strumento di questa redistribuzione era costituito da un sistema di tassazione (dei redditi e dei patrimoni) fortemente progressivo.
Sarebbe possibile inserire elementi del genere, ovviamente in forme nuove e adeguate alle circostanze fortemente mutate) nei mercati globalizzati del nostro inquieto presente? Ritengo di sì. Non sarebbe facile ma si potrebbe fare. Non posso entrare nel dettaglio ma garantisco che si possono fare tante cose (forse non basterebbero, ma aiuterebbero, e parecchio).
Qui voglio dire qualcosa sugli ostacoli, sul perché non ci si prova. Mi limito a due considerazioni generali. La prima: le idee. Diceva Keynes, che la principale difficoltà a pensare il nuovo sta nel liberarsi dal peso delle idee preesistenti. La maggioranza degli advisors della politica prima dell’avvento della crisi riteneva che la globalizzazione fosse la soluzione di tutti i problemi. Adesso si pensa che essa sia, invece, la causa di tutti i problemi. Con questa polarizzazione è difficile andare avanti.
La seconda difficoltà: gli interessi costituiti. Il tema è quello della logica dell’azione collettiva (Olson). Si riescono a fare cambiamenti importanti quando la gente ha poco da perdere (dopo una guerra o una rivoluzione). Le cose si fanno molto più difficili, quando nella società esistono gruppi, anche di piccole dimensioni, ma molto coesi, che hanno qualcosa (o molto) da perdere da un cambiamento. Per superare queste resistenze occorrerebbe che la politica fosse più gestita da uomini di Stato (quelli che decidono pensando alle generazioni future) che da uomini di governo (quelli che decidono pensando alle prossime elezioni).

 

Perchè se tradiamo l’abolizionismo penale cade la democrazia laica

La norma penale ha sempre avuto una duplice proiezione nella rappresentazione collettiva. Da un lato, essa è lo strumento del controllo, che attraverso la sanzione mira a reprimere il reo e nondimeno a suscitare la riprovazione dei consociati anche in funzione preventiva. D’altra parte, la norma penale è sempre stata, persino nello Stato liberale che dichiarava di porla in condizioni di progressiva residualità, pure un’ottima leva per ottenere il consenso e la legittimazione sociale. Cosa viene punito in una società non solo è spesso direttamente indicativo delle paure (ancor prima che dei “valori”) di quella certa società, ma è anche determinante per comprendere chi e come governa. Questi processi sono stati finanche estensivamente analizzati da Michel Foucault, almeno da “La société punitive” fino a “Sécurité, territoire, population”.

Di là dalle premesse teoriche, la società italiana vive una vera e propria reviviscenza della dimensione populista della norma penale. Il crimine più abietto, sia o meno riconducibile a una fattispecie già codificata, richiama, nell’opinione dei cittadini-elettori, oggi soprattutto utenti della comunicazione sui social network, oltre che da tempo consumatori, l’esistenza di una disposizione specifica a reprimerlo. In alcuni casi questo processo può implicare un’evoluzione tecnica del diritto penale sostanziale, perché ci si rende conto che una migliore descrizione delle condotte punibili è sempre giovevole, anche a fini di garanzia degli indagati e degli imputati, oltre che delle vittime stesse.

In altre circostanze, però, la norma penale colma il vuoto di effettività dell’azione applicativa della legge, che solitamente spetta agli organi dell’esecutivo. È esattamente contro un uso politicista del diritto penale e contro una sua declinazione giudiziaria tutta basata sull’esecuzione frettolosa del presunto reo che ebbero origine gli studi teorici di Luigi Ferrajoli sul garantismo penale.

Nell’ordinamento italiano questi timori erano sorti, più recentemente, nell’ambito del diritto migratorio e del contrasto al traffico delle sostanze stupefacenti. Nel primo caso, ci si è illusi e ci si illude che l’inasprimento della sanzione penale o la sua germinazione possano fungere da deterrente non già al fenomeno migratorio in quanto tale, semmai ai suoi specifici e in larga misura inevitabili aspetti deleteri. Tutti, invece, legati alle difficoltà, oggettive e non retoricamente anche “soggettive”, di integrazione del migrante nel contesto sociale.

Peggio si era fatto in materia di sostanze stupefacenti, pretendendo che l’abolizione della distinzione “tabellare” tra droghe pesanti e droghe leggere convincesse tutti della pari gravità del loro consumo. Impresa fallita: le sostanze stupefacenti sono aumentate di numero, tipo e platea di consumatori e anche quelle (non più) ritenute leggere oggi hanno processi di lavorazione meno genuini e più pericolosi per gli assuntori.

La corsa alla norma penale, coi suoi esiti all’apparenza trionfalistici e più spesso tronfi, non si è fermata qui.

L’espansione della legittima difesa, l’omicidio stradale, il femminicidio, lo stalking, le “nuove” violenze domestiche, la pedopornografia, l’arruolamento con finalità di terrorismo anche internazionale … rappresentano tutti esempi, di diversa fondatezza giuridica, della medesima richiesta di norma penale a causa di alterata percezione dell’allarme sociale. Proviamo a darne conto.

La legittima difesa viene sempre più spesso invocata in occasione di minacce all’integrità psicofisica che partono, però, dalla commissione di reati contro il patrimonio. Si tratta spesso dell’assalto di un rapinatore armato in un esercizio commerciale o della rapina in villa compiuta con efferata violenza fisica contro i proprietari dell’immobile sorpresi nel sonno. È davvero così utile l’espansione della legittima difesa che si invoca da più parti, in senso persino più ampio di quanto già non abbiano ammesso prima le riforme legislative effettivamente compiutesi e poi i testi di modifica volta per volta all’esame delle Camere?  La richiesta di sicurezza e incolumità è probabilmente fondata perché attacchi alle proprietà altrui vengono compiuti facendo leva su progressivamente truci forme di violenza contro i proprietari legittimi. Eppure, questa stessa richiesta corrisponde anche a un periodo storico in cui quella tipologia di reati è oggettivamente in calo. Il problema, perciò, è che quella richiesta di sicurezza sociale ha avuto molto, molto, spazio nella discussione pubblica, non solo per la sua fondatezza, ma anche perché è divenuta moneta sonante nelle campagne elettorali, soprattutto locali, motivo di discredito verso l’avversario (qualunque esso fosse), facilmente additato come lassista nei confronti dell’ordine pubblico.

E che dire dell’omicidio stradale? Le stragi che si compiono per un uso imprudente del mezzo automobilistico saranno sempre e comunque troppe, anche poggiandoci sulla considerazione empirica che molte d’esse potrebbero essere evitate con una mera osservanza di limitazioni già esistenti (sulla droga, sugli alcolici, sulla velocità, sui distrattori di telefonia mobile alla guida). È qui che la nuova richiesta di norma penale sublima la propria idiozia: ci si propone di rispondere al dolore dei familiari delle vittime e al decadimento del senso di responsabilità generalmente osservabile, ma non si tiene conto della più efficace risolvibilità del problema con sistemi assai più pratici e meno coercitivi.

Un discorso simile potrebbe riguardare anche il femminicidio o un’applicazione inadeguata delle recentemente novellate discipline sulle molestie e sulla violenza familiare. Non v’è dubbio che anche stavolta si sia in presenza di accadimenti che turbano le coscienze. Il fatto che la richiesta di norma penale pretenda di sanare questo turbamento è, purtroppo, contemporaneamente indice della sua stessa superficialità. La coscienza sociale, infatti, dedica ad accadimenti del genere amplissimo ma troppo estemporaneo risalto quando divengono oggetto di informazione – sia detto segnatamente: spesso pruriginosa e scandalistica, oltre che malamente condotta dal punto di vista tecnico-giudiziario. Eppure la coscienza sociale accetta senza alcun timore molti dei presupposti materiali e culturali che facilitano l’insorgenza di quelle violenze: sperequazioni lavorative, nuclei familiari con debole attenzione ai minori, esibizione essenzialmente possessiva del corpo femminile.

Sembrano già diversi i casi degli abusi sessuali commessi contro i minori o delle nuove modalità d’azione del terrorismo internazionale. In queste circostanze la norma penale intercetta realmente una modificazione sostanziale dei presupposti che originano la fattispecie, vuoi perché cambiano i ritrovati tecnici che facilitano la commissione delle condotte lesive, vuoi perché alcune di queste condotte davvero sono entrate solo di recente nella realizzazione dell’attività criminosa. La richiesta di norma penale, in casi del genere, implica una maggiore riprovazione sociale, che altrimenti non avrebbe sollecitato la conseguente richiesta di una maggiore consapevolezza da parte del legislatore. Quest’ultimo, però, non dovrebbe neanche in buona fede assecondare richieste siffatte, se poi esse non sortiscono gli effetti per cui erano state formulate. E cioè: se l’ipertrofia legislativa non determina un maggiore senso di sicurezza ma si atteggia in modo ambiguo.  O come un serpente che si morde la coda (maggiore panico richiama più norme, l’aumento delle norme determina un aumento del panico, maggiore panico richiama più norme e così via), o come il fattore che mena il cane per l’aia (intervenire senza migliorare incisivamente norme già esistenti).

La sensazione di sicurezza che viene dalla dichiarazione di presenza di un potere forte o dall’ostensione delle spoglie del reo potrebbe, forse, andar bene per la società dei gladiatori. La democrazia esigente, al contrario, nasce solo dal processo di eliminazione delle costrizioni che essa fa corrispondere a un miglioramento delle condizioni di vita. È una forma della politica che radicalizza fino in fondo il motto di Von Jhering, affinché la storia della pena continui a essere la stessa storia della sua abolizione, a parità e aumento dell’incolumità pubblica e privata.

“Ricercare” l’Europa

Pensare un oggetto impone sempre una sua costruzione e una sua definizione preliminare. Pensare, ed osservare, l’oggetto ‘Europa’ ‒ ciò a cui questo spazio intende contribuire ‒ impone, poi, uno sforzo aggiuntivo. Esso, infatti, non è né palpabile, né tantomeno prevedibile. L’Europa è un processo di cui non si conosce la direzione ed ogni scenario futuro è dunque possibile. Storicamente, poi, è noto, l’Europa è stata “inventata” dagli “europei” per definire quel lembo di terra finale ad ovest del continente asiatico, centro della civiltà umana all’inizio della storia (la «piccola propaggine dell’Asia», come l’ha definita Paul Valéry). Oggi, molto tempo dopo, siamo ancora alle prese con la stessa questione: definire quello spazio che ostinatamente continuiamo a chiamare Europa, ma i cui contorni appaiono poco definiti, spesso confusi con quelli dell’Occidente o della cultura giudaico-cristiana. Del resto, non è forse vero che il rilancio del processo di costruzione europea, iniziato oltre cinquant’anni fa con i Trattati di Roma, avveniva con l’obiettivo di mettere pace e armonia su di un territorio dilaniato dalle divisioni e dalle guerre e per dar vita ad un entità presente forse già nelle premesse (come per quasi tutti gli stati-nazione europei)? Non era forse questo il progetto dei primi europeisti, di quelli del Manifesto di Ventotene ‒ con Spinelli, Rossi e Colorni (e, prima ancora, Einaudi) ‒ nonché di uomini come Churchill, Monnet e Schumann, che hanno fatto sì la storia dell’Unione europea, ma il cui principale obiettivo era allora contenere la forza devastante della Germania da un possibile eterno ritorno? Ecco dunque il problema: quale è il progetto di costruzione dell’Europa, se costituzione di una nuova entità geografica, politica, economica e sociale, con una sua specifica identità culturale o più semplicemente un progetto asettico, limitato alle sole dimensioni funzionali alla sua amministrazione, o peggio di cinghia di trasmissione del turbocapitalismo imperante oramai nel globo, in cui la risultante identitaria e culturale sia solo appendice a margine e del tutto insignificante del progetto?

L’identità europea, perché di questo si tratta, sembra per ora stagliarsi solo lontanamente all’orizzonte. Essa appare come una nube fitta che stenta a diramarsi per lasciare definire i contorni del paesaggio che copre. Un’identità difficile, come in molti l’hanno definita, la cui dimensione culturale parte da molto lontano, addirittura dal mito di Europa raccontato dagli antichi greci. Una storia millenaria che percorre tutto l’impero romano, con la centralità del Mediterraneo, l’impero carolingio, i piccoli principati e le grandi monarchie, gli stati-nazione, i Trattati di Roma del ‘57, l’Unione europea, l’Euro e che si arricchisce nel tempo – stratificandosi – di sempre nuovi elementi culturali. Una lunga narrazione che fa del comune codice culturale del cristianesimo, a sua volta elaborato da quelli greco e romano, la cornice generale entro la quale verranno nel corso del tempo costruite nuove identità politiche particolari. Perfino i conflitti, sia quelli “interni” all’Europa, sia quelli con i “non europei” contribuiscono alla sua identificazione. Il conflitto con i musulmani, ad esempio, ha contribuito a trasferire lentamente a Nord il centro della civiltà europea, verso i franchi e i germani, e ad abbandonare progressivamente il Mediterraneo, rimasto centrale per tutto il periodo greco-romano (è questa, ad esempio, la tesi di M. Bloch, ripresa dal suo allievo L. Febvre, secondo la quale «l’Europa sorge quando l’Impero romano crolla»). La scoperta dell’America, ci ricorda T. Todorov, ha poi svolto un compito importante nel processo di costruzione dell’identità europea e della modernità. Aprendo le vie delle Americhe, Cristoforo Colombo non solo dà un apporto notevole, anche se involontario, al definitivo declino del Mediterraneo nella geo-politica europea, ma permette agli europei di fare la conoscenza di un «altro» profondamente diverso, sul quale riflettere per prendere consapevolezza di sé. Una identità, quella europea, che ancora si nutre di questa riflessione.

Dunque, una lunga storia, quella dell’Europa, che fa sentire tutto il proprio peso sulla costruzione di una identità collettiva, la cui radice, innegabilmente comune, non è tuttavia sufficiente al processo di costruzione di uno spazio unico europeo. Formalmente, esistono dei confini geografici: ora sono quelli dei 28 paesi che comprendono l’Unione, con una geografia politica e culturale molto diversa e che rendono ancora più frastagliato lo spazio comune europeo. Paesi come la Svezia o la Danimarca condividono un territorio istituzionale (ma non l’Euro) che include anche Cipro e Bulgaria; e domani forse anche l’islamica Turchia siederà al tavolo del Consiglio Europeo a discutere di norme e a sottoscrivere trattati con le cattoliche Portogallo, Spagna, Italia e con l’ortodossa Grecia, nemica di vecchia data. All’inizio certo era tutto più facile. I sei paesi fondatori della Comunità economica erano tutti cristiani e democratici, il terreno comune era molto più esteso e definito. Oggi, e domani ancor di più, le basi comuni si restringeranno e lasceranno spazio ad una ancor più difficile, astratta, definizione dell’identità comune. Se è vero, come di fatto sta accadendo, che i confini politici dell’Europa tendono sempre più a spostarsi verso est e ad includere paesi slavi, ex comunisti e ortodossi di religione, è chiaro che la linea politica diventerà sempre meno quella dell’integrazione sostanziale e sempre più quella della integrazione formale. Cosa potranno avere in comune gli europei occidentali «cristiani», gli europei musulmani del sud e gli europei slavi cristiano-ortodossi dell’est? Forse, come afferma Habermas con il suo patriottismo costituzionale, si potrà avere sempre meno una identità culturale e sempre più (forse) un senso delle istituzioni europee?

Puntare sulla formazione di una società europea tramite il processo formale di integrazione ha però i suoi rischi e non è detto che ciò possa produrre risultati positivi, come dimostra l’inconsistente risultato dell’integrazione economica realizzata con l’Euro e con le istituzioni economiche che ne governano il funzionamento (Banca Europea, trattati del libero scambio). D’altra parte è innegabile che vi siano tentativi lungo la direzione di una più profonda trasformazione verso l’integrazione sociale e culturale degli europei. L’Unione possiede di fatto una normativa in graduale sviluppo e una Corte di giustizia in grado di amministrarla. Non solo, ma una serie di misure adottate già con il Trattato di Maastricht (cittadinanza europea, euro, accento sull’importanza dei diritti dell’uomo, tutela della cultura come patrimonio dell’umanità) hanno di certo determinato uno spostamento di attenzione dell’opinione pubblica europea e l’assunzione di aspettative più stringenti nei confronti del progetto costitutivo europeo. Se da una parte si chiede più Europa, e meglio, allo stesso tempo quel meccanismo ha pure contribuito ad accentuare gli atteggiamenti più euroscettici, quando non propriamente antieuropei. Così che certi comportamenti individuali e pubblici, come il ‘no’ di Francia e Olanda del 2005 all’adozione del “Trattato che istituisce la Costituzione europea”, lasciano più di un dubbio sul consenso in corso nei confronti del ‘progetto Europa’. Perché l’Europa, viene detto, non può essere solo utile ma deve essere anche riempita di significati. In altre parole, senza un’anima, che Europa è?

Da questo punto di vista, uno sforzo di comprensione e di orientamento viene chiesto proprio alle scienze sociali, e alla sociologia in particolare. È indubbio infatti che nel corso di pochi decenni, il tema dell’Europa si sia prepotentemente affermato in diversi settori disciplinari. In sociologia, poi, non si è trattato solo di capire quali siano i termini di una possibile società europea in divenire e se e quanto questa sia o meno in procinto di costituirsi in una forma più integrata. La ricerca ha riguardato a fondo gli stessi fondamenti della disciplina, mettendo in risalto i limiti di un approccio secolare fondato sulla metodologia e sui concetti improntati su di un nazionalismo metodologico e di un’ontologia dello stato-nazione. Fino al punto che, non v’è dubbio, non è errato ritenere oggi la sociologia nel bel mezzo di una disputa epocale, allo stesso tempo epistemologica e metodologica, che contrappone coloro che ritengono la comparazione tra società nazionali ancora lo strumento conoscitivo principe per comprendere le trasformazioni in atto oltre e dentro gli stati nazionali e i nuovi adepti di quel «cosmopolitismo metodologico», per i quali invece è necessario inforcare occhiali diversi, aderire ad un approccio globale dei processi sociali per rilevarne composizione e intrecci complessivi. Quello che in questo momento manca alle scienze sociali, questo è almeno il nostro pensiero, è sia schemi generali di pensiero per interpretare processi complessi in atto in Europa e nel mondo e inquadrare avvenimenti ‒ come appunto il ‘no’ di Francia e Olanda di cui si diceva ‒ sia più ricerche e meglio mirate su specifici oggetti transnazionali. Occorre cioè promuovere ancor di più la ricerca sull’Europa, almeno in Italia, dove questa latita.

La ricerca sociologica sull’Europa ha bisogno di indagini empiriche, ma anche di riflessioni più generali. Innanzitutto, occorre domandarsi cosa significa parlare di società europea e se questa esista o meno; in secondo luogo, bisogna capire se le categorie di analisi finora utilizzate per le società nazionali possano ancora andare bene per quelle sovranazionali. La questione, viene affermato, è che la sociologia è stata sempre abituata a ragionare in termini di società nazionali. Lo ricordavamo anche poc’anzi. Essa ha sempre parlato di società italiana, francese, tedesca e mai di società europea, asiatica, africana o globale e nemmeno di società padana, catalana, basca e così via. La perplessità dei critici è quindi legittima. Inoltre, negli ultimi tempi, il dibattito ha riguardato perfino il canone classico della sociologia, quello dei suoi padri fondatori. Stabilito che il mondo in cui viviamo oggi è manifestamente diverso da quello in cui vivevano i padri fondatori della sociologia, anche il loro pensiero, viene affermato, deve essere, di conseguenza, inattuale. Ad essere sotto accusa è soprattutto l’efficacia di questo canone, quanto e se esso sia ancora adeguato ai fini di una appropriata comprensione del mondo di oggi, caratterizzato da un alto livello di connettività globale, da una certa opacità dei confini geografici e da una condizione cosmopolita di vita sempre più accentuata dalla interconnessione tra locale e globale.

In particolare, l’accusa rivolta alla sociologia classica sembra avere una duplice natura, sebbene intrecciata. Da una parte, ad essere criticata è una visione della società che avrebbe eluso ‒ dicono i contemporanei ‒ la problematizzazione del rapporto tra lo spazio sociale e quello geografico di una nazione, arbitrariamente delimitato da confini politici e giuridici, e dunque di aver operato una conflazione concettuale tra stato-nazione e società con la conseguente riduzione epistemologica, teoretica e metodologica della realtà. Dall’altra, l’accusa – operata per lo più da storici del nazionalismo ‒ va invece nella direzione di rimproverare ai classici della sociologia di non aver avuto una chiara consapevolezza dei processi di costituzione degli stati nazionali di allora, del fenomeno etnico, del nazionalismo e della loro relativa interconnessione a livello globale, o, quando presente, di aver inteso la società nazionale alla stregua di un contenitore compatto di relazioni sociali stabili e definite dentro confini definiti (arbitrariamente), finendo così col ‘naturalizzare’, potremmo dire, lo stato-nazione. In questo ultimo caso, ad essere disapprovata è la perfetta coincidenza tra lo studio rivolto alla società (nazionale) del loro tempo e la solidarietà sociale (nazionale). Un assunto, inoltre, non solo esplicitamente dichiarato errato da alcuni studiosi, tra cui il sottoscritto, ma che, soprattutto, ha finito col legarsi inevitabilmente all’altro nodo del problema, rafforzandolo. Nel momento in cui si afferma infatti che i classici della sociologia hanno mancato l’obiettivo di differenziare il costituirsi nel tempo delle società e delle nazioni (a discapito di quest’ultime), è anche inevitabile sostenere che gli stessi avrebbero confuso lo spazio sociale con quello geografico. Con ciò contribuendo a irrobustire il giudizio circa la validità, loro contestata, di ‘nazionalismo metodologico’. Le due critiche, cioè, si rafforzano a vicenda.

Il problema epistemologico per le scienze sociali, qui appena richiamato, è dunque semplice, addirittura banale. La domanda è la seguente: come può questo tipo di sociologia – che si muove su di un certo ordine di realtà ‒ comprenderne un altro che le è superiore, almeno dal punto di vista sistemico? E tuttavia anche la risposta non può che essere banale. A differenza dei suoi critici, si può certamente affermare che è almeno da tre decenni che la sociologia, e le scienze sociali in genere, hanno preso consapevolezza con i caratteri della globalizzazione e cominciato a vedere il mondo come un contesto storico di eventi degno di essere osservato come un oggetto specifico di studi. Si tratta di una circostanza che tuttavia non esclude il fatto che le interconnessioni su scala più o meno globale fossero un fenomeno reale già nel passato più lontano o riconosciute come tali e pertanto segnalate già da molti degli autori classici (Marx ed Engel, solo per fare un esempio, nel Manifesto del Partito Comunista parlavano già all’epoca di scambio e di interdipendenza ‘universali’ e di come ‘l’unilateralità e la ristrettezza nazionali diventano sempre più impossibili’; Durkheim, dal canto suo, discuteva di civiltà insieme al nipote-allievo M. Mauss).

Oltre l’idea di Europa e la costruzione di griglie operative, c’è la realtà dell’Europa e la strada da compiere lungo il cammino dell’integrazione sociale europea è lunga. Su questo non ci sono dubbi. Tra l’altro, non è detto che questa strada abbia una fine e, soprattutto, che questa sia quella che noi vorremmo per essa. Per quello che ci riguarda, riteniamo di indubbia utilità cominciare comunque a rilevare il modo in cui l’Europa si sta realizzando, sia istituzionalmente che nella teste delle persone. Come cioè, si «diventa europei». C’è un termine che designa tutto questo, ed è ‘europeizzazione’. L’europeizzazione – accorre in nostro aiuto Sergio Fabbrini ‒ è un processo che segnala un approfondimento qualitativo del processo di integrazione europeo. In altre parole, esso designa ‒ almeno tra gli studi politologici dove il concetto ha maggiormente trovato applicazione ‒ la diffusione e la penetrazione, graduale e differenziata, nei singoli paesi di valori, norme e direttive specifiche generati dalle istituzioni di governance europee. In pratica è una misura dell’adattamento dei sistemi subnazionali al sistema normativo e politico europeo. Da una parte c’è una istituzione politica, l’Europa, che lavora per coordinare le singole istituzioni nazionali; dall’altra ci sono quest’ultime e gli organismi territoriali più piccoli (province, contee, aree metropolitane, comuni), con i loro uomini in carne ed ossa ed i loro interessi corporativi che reagiscono a questa pressione. L’europeizzazione è la risultante del loro adattamento reciproco.

Sarebbe però un errore limitare il significato di europeizzazione al solo adattamento istituzionale. La sociologia, ad esempio, la intende e la impiega in maniera assai più estensiva della ricerca politologica. Europeizzazione qui diventa ad esempio sinonimo di congruenza tra schemi di significati esistenti in un paese e quelli che si affermano a livello europeo oppure di estensione progressiva di uno spazio sociale europeo con concomitante diffusione di codici culturali e stili di vita comuni. Con approcci di sociologia culturale o istituzionale, poi, l’europeizzazione è giunta addirittura a designare la graduale, seppure nebbiosa, costruzione di una identità europea. Quando poi si è occupata, come abbiamo fatto noi, di europeizzazione istituzionale, essa non ha mancato di intendere il cambiamento domestico, come questo viene elaborato, alla luce di dinamiche di adattamento cognitivo e di logiche interattive. Con un approccio che si rifà, nel complesso, al costruttivismo sociale. Questa è la specificità dell’europeizzazione dal punto di vista sociologico. Così facendo, poi, esso probabilmente evita di cadere nell’errore di scambiare ogni processo di integrazione sistemica con uno di tipo sociale e di pensare che esista una logica sequenziale tra l’europeizzazione istituzionale e quella sociale e culturale. Da questo punto di vista – come già per i concetti di modernizzazione, modernità e sviluppo ‒ i concetti di Europa, europeizzazione e Unione europea rischiano di apparire come termini lineari di una sequenza evolutiva che dalla vecchia Europa arriva fino alla nuova. Al contrario, l’Europa sociale e culturale segue processi suoi propri, lunghi e complessi. Per quanto la ricerca sociologica non sempre riesca a decifrarli adeguatamente.

 

Tratto dall’Introduzione di Tra sogni e realtà, Rubbettino, Soveria Mannelli, 2012

Senso comune e fine dell’Utopia

Con la fine dell’impero sovietico il “mondo libero” ha perduto l’occasione storica per consolidare le democrazie parlamentari Continua a leggere

Heidegger interprete di Hölderlin

 

La contemporaneità di un poeta non è nel contenuto, ma talvolta è malgrado il contenuto, quasi a suo dispetto
M. Cvetaeva Il poeta e il tempo

   

I. “Il più grande lirico tedesco dopo Goethe”

Il XIX secolo ha partorito una generazione ardente,

audace e focosa, sorgendo dalle zolle aperte d’Europa, fa impeto contemporaneamente da tutte le direzioni incontro all’aurora della libertà nuova […]. Uno, uno solo della sacra schiera, il più puro, rimane ancora  a lungo sulla terra senza più Dei: Hölderlin; ma la sorte lo ha trattato nel modo più strano. Il suo labbro fiorisce ancora, il suo corpo che invecchia brancola ancora sulla terra tedesca […] ma i suoi sensi […] si annebbiano in un sogno senza fine […]. Gli Dei gelosi non hanno ucciso colui che ha spiato i loro segreti, ma si sono limitati ad accecargli lo spirito […]. Un velo s’è steso a oscurargli la parola e l’anima […]. E quando, un giorno, egli si stende pianamente e muore, questa morte silenziosa non suscita nel mondo tedesco maggior rumore d’una foglia d’autunno che scenda incerta a terra […]. Il messaggio eroico di quest’ultimo, di questo puro tra i più puri della sacra schiera, resta non letto, non ascoltato per una generazione intera [ref]S. Zweig, La lotta col demone. Hölderlin, Kleist, Nietzsche, trad. it. a cura di A. Oberdorfer, Sperling & Kupfer, Milano 1934, pp. 25 e ss.[/ref].

Con queste suggestive parole Stephan Zweig racconta rapidamente la vita di Friedrich Hölderlin (1770-1843), “il più grande lirico tedesco dopo Goethe, un romantico che visse fuori dei confini del romanticismo vero e proprio”[ref]L. Mittner, Storia della letteratura tedesca, Einaudi, Torino 1971, vol. II, tomo III, p. 707 s.[/ref], colui che ha avuto la presunzione di servire soltanto l’arte e non vita, gli Dei e non gli uomini; un poeta che ha sperimentato la sofferenza tipica di una grande anima che geme e si sdegna di fronte alla brutalità spirituale che la sua epoca nutriva: “Ombroso, angosciato, tormentato, conscio della forza del suo spirito solo per soffrirne imponentemente […]. Diffidente, suscettibile[ref]S. Zweig, La lotta col demone. Hölderlin, Kleist, Nietzsche, cit., p. 38 s.[/ref]”, egli sceglie di ‘dar gloria a ciò che eccelle’, nella consapevolezza che questa missione lo priverà di molte gioie: “Hölderlin è della razza di coloro cui non è dato di posare in un luogo […]. Incomincia, inavvertito, il “mirabile desiderio dell’abisso”, quell’attrazione misteriosa che cerca la sua propria profondità”[ref]Ivi, p. 84 s.[/ref]. In una lettera del 1798 Hölderlin scrive:

Vorrei vivere per l’arte alla quale appartiene il mio cuore, e invece debbo faticare tra gli uomini, tanto che spesso sono assai stanco di vivere…non sarei il primo che naufraga; molti, nati per essere poeti, ne sono periti. Non viviamo nel clima della poesia[ref]Lettera di Hölderlin in K. Jaspers, Genio e follia, trad. it. a cura di U. Galimberti, Rusconi, Milano 1990, p. 135.[/ref].

Hölderlin è un poeta ‘moderno’: in lui lo sradicamento esistenziale convive con quello intellettuale. È un poeta che non fa del suo “poetico” la conquista dell’autonomia estetica romantica, piuttosto consegna a questo “poetico” la dimensione religiosa, facendone la sua missione:

Nessun poeta tedesco ha creduto mai come Hölderlin nella poesia e nella divina origine di essa, nessuno ne ha difeso con tanto fanatismo l’incondizionatezza, l’incontaminatezza da ogni cosa terrena […]. La poesia […] è per Hölderlin il senso della vita […]. Essa colma l’abisso che c’è tra il sopra e il sotto dello spirito, fra gli dei e gli uomini[ref]S. Zweig, La lotta col demone. Hölderlin, Kleist, Nietzsche, cit., p. 49.[/ref].

È intorno al 1930 che Martin Heidegger si avvicina alla poesia di Hölderlin, incontro questo che durerà per tutta la vita del filosofo. In una lettera del 31 Dicembre 1934 all’amica Elisabeth Blochmann, Heidegger scrive:

Nella mattina in cui Lei leggeva Hölderlin (6. XI) ho iniziato il mio corso, e ho letto dei passi proprio dalla lettera dell’1.I.1799. E ieri ho chiuso il corso con quella impressionante lettera del 4. XII. 1801 […]. Hö[derlin] ha pre-istituito la miseria – che ha un rinnovato inizio – del nostro esserci storico, affinché essa ci attenda. E la nostra miseria è la mancanza di miseria, l’impotenza a un’esperienza originaria della problematicità dell’esserci. E l’angoscia di fronte all’interrogare giace sull’Occidente; esilia i popoli in sentieri invecchiati e li ricaccia in fretta in dimore ormai decrepite[ref]M. Heidegger/E. Blochmann, Carteggio 1918-1969, trad. it. a cura di R. Brusotti, Il Melangolo, Genova 1991, p. 135 s.[/ref].

Nel 1936 egli è a Roma, su invito di Giovanni Gentile, con una conferenza su Hölderlin e l’essenza della poesia, in cui si dedica ampiamente all’interpretazione delle tesi capitali che animano la concezione poetica del lirico e che diverranno tema privilegiato della riflessione sul pensiero poetante: il dominio della poesia come luogo del linguaggio, la poesia come fondamento dell’essere e come suprema necessità del pensare. Su questo scenario di indagine ermeneutica si inseriscono i chiarimenti sulle liriche di Hölderlin: del 1939 è l’esegesi di Come quando al dì di festa, in cui il tema privilegiato è il rapporto che lega la Natura al poeta; del 1943 sono invece i testi nati dalle “delucidazioni” intorno alle poesie Rammemorazione e Ritorno a casa, i cui motivi di fondo tornano ad essere quelli del rapporto tra il Sacro e il poeta, della reciproca implicazione tra il linguaggio e il poeta, e della rammemorazione. Sarà proprio attraverso le meditazioni su Hölderlin che Heidegger approfondirà il suo congedo dall’estetica in vista dell’ontologia dell’arte.

Hölderlin gode di un primato indiscusso sugli altri poeti che Heidegger prende in esame (Hebel, Rilke, Trakl e George)[ref]Sul senso dell’interpretazione heideggeriana dei poeti sopra citati si rimanda a L. Amoroso, Quando domandare è (cor-)rispondere, in “Teoria”, n. 1, 1982, pp. 75 e ss.; L. Amoroso, Lichtung. Leggere Heidegger, Rosenber & Sellier, Torino 1993; f. de alessi, Heidegger lettore dei poeti, Rosenberg & Sellier, Torino 1991; e. mirri, La resurrezione estetica del pensare, Bulzoni, Roma 1976; e. oberti,  Lineamenti di un’estetica di Heidegger in un saggio su Rilke, in “Rivista di filosofia neoscolastica”, n. 46, 1954, pp. 555 e ss.; g. vattimo, Essere, storia e linguaggio in Heidegger, Marietti, Casale Monferrato 1989; g. vattimo, Heidegger e la poesia come tramonto del linguaggio, in Aa. Vv., Romanticismo, esistenzialismo, ontologia della libertà, Mursia, Milano 1979, pp. 290 e ss.      [/ref]; il suo avvicinamento alla figura del lirico tedesco sorge da una necessità del pensiero heideggeriano che è quella di ricevere una parola adeguata per dire ciò che il linguaggio metafisico non è in grado di nominare. Proprio come colui che ricerca, Heidegger accoglie le sollecitazioni, gli aiuti hölderliniani per riscattare l’esperienza del linguaggio di Sein und Zeit[ref]Cfr. L. Amoroso, Nuovi movimenti del “colloquio” Heidegger-Hölderlin, in “Rivista di Estetica”, n. 5, 1980, pp. 97 e ss; E. Landolt, L’essere come ritmo o poesia nell’interpretazione heideggeriana di Hölderlin, in “Sicolorum Gymnasium,  1967, pp. 32 e ss.[/ref]. In questa ambiziosa operazione di ricerca ed accoglienza dell’aiuto proveniente dalla parola poetica, Heidegger sembra “utilizzare” il poeta, asservendo le intuizione filosofiche di questo alle maglie dell’ontologia; così, si staglia sullo sfondo della meditazione heideggeriana il merito hölderliniano di aver saputo intuire l’esito della metafisica occidentale nei termini di estremo oblio dell’essere e di erramento del pensare, presagendo la fine di un’epoca ed inaugurando l’aurora di un secondo inizio, quello del pensiero poetante: “Hölderlin, poetando è arrivato più lontano di tutti nell’epoca in cui il pensiero ancora una volta mirava a conoscere in modo assoluto l’intera storia accaduta”[ref]M. Heidegger, Contributi alla filosofia (dall’Evento), trad. it. a cura di F. Volpi e A. Iadicicco, Adelphi, Milano 2007, p. 213.[/ref].

Il senso ed il limite dell’interpretazione heideggeriana di Hölderlin è stato oggetto dibattuto a lungo da tanta parte della critica filosofica, sotto il duplice riguardo sia di una considerazione limitante dell’esegesi heideggeriana, sia di una considerazione tesa ad evidenziarne i meriti. Proprio alla luce dell’abbondante letteratura critica sul tema e da un ripensamento della prospettiva heideggeriana intorno ad Hölderlin, è evidente che Heidegger costruisca intorno al poeta una cornice ermeneutica che risulta forzata dalle necessità imposte dalla domanda sul senso dell’essere. A beneficio di un recupero ontologico della Seinsfrage, Heidegger non esita a mettere quasi in secondo piano quegli elementi che sono essenziali invece per comprendere tutta la portata estetica e teoretica insieme del lirico tedesco. Così prende forma nel “poetico pensare” del filosofo un’immagine di Hölderlin carente di elementi essenziali, come il romanticismo tedesco e l’idealismo, quali fonti privilegiate per la sua formazione lirica. Non solo: portando a compimento la riflessione romantica sul simbolo e sull’allegoria, Heidegger ne coglie il legame con il linguaggio mitopoetico[ref]Cfr. S. Givone, Heidegger e la questione romantica, in “Aut Aut”, 1989, n°. 234, pp. 59 ss.; P. Chiodi, L’estetica di Heidegger, in “Il Pensiero Critico”, 1954, n°. 9-10, p. 11.[/ref], e proprio in tal senso non si allontana molto dal progetto romantico dell’ideale poetico, né riconosce i suoi debiti nei confronti dell’idealismo tedesco[ref]In merito alla questione di un possibile debito del pensiero heideggeriano nei confronti dell’idealismo tedesco, si rimanda a V. Verra, Heidegger, Schelling e l’idealismo tedesco, in “Archivio di Filosofia”, 1974, pp. 51 ss.; P. Chiodi, L’estetica di Heidegger, cit., p. 11 s.[/ref].

II. Hölderlin fra filosofia e religione 

Tutta l’opera di Hölderlin e il suo itinerario poetico devono essere considerati alla luce della formazione dello Stift di Tubinga; in quel contesto culturale, Hölderlin integra la considerazione di Kant con le intuizioni fichtiane alla luce di uno spinozismo dal sapore platonico, permettendo così di flettere l’Uno-Tutto spinoziano attraverso una fantasia mitica che ricomprenda in unione e in armonia la vita. Di Kant egli riconosce l’essenzialità del metodo critico come momento preparatorio per il pensiero, una sorta di propedeuticità al sistema, evidenziando come essa trascenda ogni forma di sensismo[ref]Suggestiva la lettura che fornisce Stephan Zweig della frequentazione kantiana da parte del poeta: “A Weimar questo bambino va alla scuola di Fichte, di Kant, s’ingozza così disperatamente di dottrine filosofiche che lo Schiller stesso deve metterlo in guardia” (S. Zweig, La lotta col demone. Hölderlin, Kleist, Nietzsche, cit., p. 72 s.) e poco oltre: “Il desiderato incontro con i Grandi si trasforma in pericolo e danno, e il libero anno di Weimar, da cui aveva sognato il compimento delle sue opere, passa quasi invano. La filosofia, ‘ospedale per poeti mancati’, non gli ha giovato” (Ivi, p. 79).[/ref]; di Fichte apprezza la profondità del suo pensiero tale da definirlo “un titano che combatte per l’umanità”[ref]G. W. F. Hegel, Epistolario, a cura di P. Manganaro, Guida, Napoli 1983, vol. I, p. 111.[/ref] e riconosce l’estrema importanza che l’opposizione Io e Non-Io riveste nel contrasto tra natura e libertà; di Spinoza, la cui conoscenza gli proveniva soprattutto dall’allora diffusa circolazione delle Lettere sulla dottrina di Spinoza di Jacobi, rileggeva nell’elemento dell’Uno-Tutto non tanto la sostanza infinita onnicomprensiva, quanto piuttosto il sentimento di fondo che lo legava sin dalla giovinezza alla natura ed alle sue potenze; di Platone apprezza le riflessioni sul bello, che tuttavia assumono in Hölderlin il sapore del tragico, e sull’importanza del mito all’interno della sua speculazione: il platonismo che egli abbraccia non è più quello della scissione tra idea e realtà, ma quello per il quale l’idea permea tutta la realtà. Proprio ciò lo sollecita a pensare a una fondazione della “mitologia della ragione”, in cui il mito diviene il punto di unione tra logos e poiesis; elevandosi oltre la simbologia allegorica, il mito produce una forma di spiritualità nuova, in cui persino gli dei stessi sono chiamata ad esistere come potenze originarie e non come semplici concetti. Potenze mitiche e mistiche ad un tempo, di cui tuttavia i poeti non sanno più riconoscerne l’identità:

Freddi ipocriti, non parlate degli Dei. Non siete voi intelligenti? Dunque non credete nel Dio del sole, in quello delle tempeste o del mare. La terra è una cosa morta: come dirle “Io ti ringrazio”? Rassicuratevi o Dei! Voi date la bellezza al canto anche se del vostro nome l’anima è fuggita e si è dispersa. Quando si richiede un grande nome si pensa a te, Natura madre[ref]F. Hölderlin, I poeti ipocriti, in Le Liriche, trad. it. a cura di E. Mandruzzato, Adelphi, Milano 1993, p. 409.[/ref].

Gli dei hölderliniani vivono con il poeta in una profonda intimità, al pari della Natura. Nell’Iperione, “il sogno fanciullesco d’un mondo ultraterreno, dell’invisibile patria terrena degli dei”[ref]S. Zweig, La lotta col demone. Hölderlin, Kleist, Nietzsche, cit., p. 90.[/ref], egli svilupperà la sua concezione della Natura che riesce a superare la morte restituendo alla vita un’armonia perduta, redimendola dalla sua finitudine:

O felice natura! Non mi so render conto di ciò che avviene in me quando levo lo sguardo verso la tua bellezza, ma tutte le gioie del cielo sono nelle lacrime che io verso per la tua bellezza, come l’amante per la sua amata. Tutto il mio essere ammutolisce e sta in ascolto quando le delicate onde del vento giocano intorno al mio petto. Perduto nell’ampio azzurro del cielo, levo lo sguardo su verso l’etra e giù verso il mare sacro e mi sembra che uno spirito fraterno mi apra le braccia e che il dolore della solitudine si sciolga nella vita della divinità. Essere uno con il tutto, questo è il vivere degli dei; questo è il cielo per l’uomo. Essere uno con tutto ciò che vive e ritornare, in una felice dimenticanza di se stessi, al tutto della natura, questo è il punto più alto del pensiero e della gioia, è la sacra cima del monte, è il luogo dell’eterna calma, dove il meriggio perde la sua afa, il tuono la sua voce e il mare che freme e spumeggia assomiglia all’onde di un campo di grano[ref]F. Hölderlin, Iperione, trad. it. a cura di G. V. Amoretti, Feltrinelli, Milano 1981, p. 29.[/ref].

L’animo di Iperione vive in piena sintonia con la Natura, partecipando delle gioie e dei dolori del protagonista. Di questa immagine della Natura gli dei sono presenze reali, che partecipano anch’esse alle vicende del giovane:

Diotima è morta […]. E tu, mio caro Bellarmino, domandi quale sia il mio stato d’animo, mentre ti racconto tutto questo. Ottimo amico, sono calmo perché non voglio avere nulla di meglio di quanto hanno gli dei. Non deve ogni cosa soffrire? E tanto più soffrire quanto più uno eccelle? Non soffre la natura sacra? O mia divinità! Per tanto tempo non mi fu possibile comprendere che tu, beata come sei, potessi soffrire. Ma la voluttà che non soffre è sonno e, senza morte, non c’è vita […]. E ora dimmi, dove troverò ancora rifugio? Ieri salii lassù sull’Etna. Mi ricordai del grande siciliano che, un giorno, stanco di contare le ore, fidandosi dell’anima del mondo e pieno di ardimentoso desiderio di vita, si precipitò nelle splendide fiamme; e un freddo motteggiatore lo irrise dicendo che il freddo poeta aveva dovuto scaldarsi al fuoco. Quanto volentieri avrei preso su di me il peso di questa derisione[ref]Ivi, pp. 168 e ss.[/ref].

La consapevolezza di questa Natura porta il poeta a vivere lo spazio come manifestazione della sua sacralità: “Tutto ciò che può essere nominato si trova all’interno di essa. Essa è l’autentico e l’essenziale, il sacro Tutto al di là di cui non vi è più nulla”[ref]R. Guardini, Hölderlin: immagine del mondo e religiosità, trad. it. a cura di L. Tieck e G. Colombi, Morcelliana, Brescia 1995, vol. I, p. 179.[/ref]. In questa dimensione della Natura, la Jonia e Jena non sono poi così distanti: la Germania è davvero il luogo in cui si compie e si consuma l’esistenza del poeta, o se si vuole, la patria più immediata rispetto alla amata Grecia. E proprio la Grecia per lui non è soltanto terra, popolo, cultura, dei, quanto la realizzazione dell’attesa del futuro avveniente. È dalla Grecia che si attende il compimento della promessa del ritorno degli dei, è dalla Grecia che si attende la nuova aurora. In ciò risiede l’appartenenza di Hölderlin alla grecità, “non meno di Esiodo e di Pindaro”[ref]A. Caracciolo, Prefazione in W. F. Otto, Theophania. Lo spirito della religione greca antica, trad. it. a cura di A. Caracciolo e M. Perotti Caracciolo, Il Melangolo, Genova 1983, p. 17.[/ref].

Hölderlin così riattiva il legame con la Natura, quella “corrispondenza d’amorosi sensi” di cui la sua anima è interamente pervasa. Tuttavia, questa “religione della Natura”, in cui gli dei sono il baricentro da cui si espande il luminoso, gradatamente inizia ad abbracciare ed includere in sé anche l’elemento cristiano, dapprima rimosso e poi presente attraverso la mediazione della figura centrale di Cristo: “Quanto alla religione, si rese sempre più chiaramente conto dell’abisso che divideva la sua poetica religione della natura dal cristianesimo; ma al cristianesimo e in particolare alla figura di Cristo rimase poi sempre disperatamente attaccato”[ref]L. Mittner, Storia della letteratura tedesca, cit., vol. II, tomo III, p. 709.[/ref].

III. La figura di Cristo nell’estetica hölderliniana e la missione del poeta

Hölderlin fu educato dalla madre al pietismo, ma non visse le dottrine e le figure cristiane come espressione immediata della sua vita religiosa, poiché non erano da lui considerate sufficientemente valide ed idonee per realizzare la sua missione di poeta attraverso la loro mediazione. Il pietismo esercitò una certa influenza sulla formazione spirituale del poeta[ref]A. Giannatiempo Quinzio, Influssi pietistici e istanze escatologiche nella poesia di Friedrich Hölderlin, in “Bailamme”, 1993, n°. 14, pp. 143 e ss.[/ref], in particolar modo quell’isolamento spirituale che lo condusse a vivere la religione in solitudine. Il Dio della tradizione cristiana non era in grado di raccogliere entro sé gli elementi che Hölderlin riteneva essenziali per la Volksreligion: il religioso, il popolo e il mondo. Egli “prende le distanze dal messaggio cristiano, trovando l’adeguata espressione della sua esperienza nell’antico mondo degli dei o in numi di creazione originale”[ref]R. Guardini, Hölderlin: immagine del mondo e religiosità, trad. it. a cura di L. Tieck e G. Colombi, Morcelliana, Brescia 1995, vol. I, p. 243. Seguendo l’intuizione di Guardini il rapporto di Hölderlin con il cristianesimo conosce tre fasi articolate in un iniziale periodo di religiosità giovanile, a cui segue la crisi per poi tornare ad appropriarsi della figura del Cristo.[/ref]. Solo in un secondo momento avvertirà l’esigenza di introdurre la figura di Cristo, che acquisterà progressivamente una potenza di sintesi sempre maggiore fino ad entrare in conflitto con gli dei olimpici. Così, dopo un periodo di rifiuto e di distanza dal cristianesimo, la figura di Cristo affiora nella poetica  e si staglia in tutto il suo spessore.

Ma chi è il Cristo di cui parla questo romantico? Sin dal tempo di Tubinga, Hölderlin – insieme a Schelling e Hegel – vede nella figura di Cristo una possibile flessione dell’Uno-Tutto attraverso la quale leggere l’avvento del “Regno di Dio” e della “Chiesa invisibile”. Seguendo l’articolato e complesso itinerario del poeta, dalla formazione teologica dello Stift fino alle ultime liriche in cui il suo spirito era ancora presente a se stesso, il Cristo di cui egli parla non è semplicemente il Gesù storico, dal momento che Hölderlin gli riconosce gli attributi di “Dio” e di “semidio”; attraverso l’uso di questi attributi il suo intento non è quello di sottolineare la kenosis del Dio fatto uomo, quanto piuttosto differenziarlo dal Dio padre. Il poeta riconosce in Cristo una divinità e tuttavia lo colloca nello “splendido trifoglio”, accanto a Eracle e Dioniso; egli è l’ultimo dio, il dio a venire, “colui che visse presentemente in mezzo agli uomini, lasciò a coloro che sono abbandonati nella notte la consolazione e la promessa del ritorno”[ref]H. G. Gadamer, Interpretazioni di poeti, trad. it. dei cap. I e II a cura di M. Bonola e dei cap. III e IV a cura di G. Bonola, Marietti, Casale Monferrato 1980, p. 17.[/ref]. Cristo è il signore dell’epoca futura[ref]Cfr. M. Frank, Il dio a venire. Lezioni sulla nuova mitologia, trad. it. a cura di F. Cuniberto, Einaudi, Torino 1994, pp. 238 ss.[/ref], Egli ha dei tratti che rimandano alla seconda potenza schellinghiana come termine che permette il ritorno alla pienezza dell’unione tra il Padre e lo Spirito[ref]Cfr. F. W. J. Schelling, Filosofia della rivelazione, trad. it. a cura di A. Bausola, Rusconi, Milano 1997, pp. 928 ss.[/ref]; nella terza stesura de L’Unico, Hölderlin scrive:

Cristo però si destina da solo. Ercole è come i prìncipi, Bacco è spirito di comunione. Cristo però è la fine[ref]F. Hölderlin, L’Unico, in Le liriche, cit., p. 965. Cfr. anche R. Guardini, Hölderlin: immagine del mondo e religiosità, cit., vol. II, pp. 716 ss.[/ref].

Cristo è il momento di passaggio, è “presenza nel destino storico dell’Occidente”[ref]H. G. Gadamer, Interpretazioni di poeti, cit., p. 16.[/ref].

Il fatto di essere la fine lo distingue dai due fratelli. Eracle è nel tempo primo; è lottatore, vincitore di potenze avverse, ordinatore del caos, fondatore, sofferente e dominatore allo stesso tempo. Dioniso supera le divisioni dell’esistenza attraverso la potenza che tutto unifica dell’ebbrezza e della trasformazione. Cristo, invece, viene quando il giorno del mondo volge al termine e “si fa sera”. Indica la notte che incombe e vi istituisce  una “promessa”: la celebrazione della “gratitudine”, l’Eucarestia, affinché dia forza ai disposti a credere, li educa a intendere finché viene la soluzione […] la mondanizzazione del Regno di Dio biblico[ref]R. Guardini, Hölderlin: immagine del mondo e religiosità, cit., vol. II, p. 719 s.[/ref].

Cristo entra nella poesia di Hölderlin proprio come assenza, come colui che deve tornare, come “presenza dell’assente nella sua assenza”. Come la intende Hölderlin, la poesia è il risolversi della materia in spirito, una sorta di sospensione della legge di gravità della materia. La sua poesia “non vuole essere mai plastica, ma sempre soltanto luminosa […], non vuole far vedere, descrivendo, qualche cosa di reale sopra la terra, ma portare intuitivamente nei cieli qualche cosa di non sensibile, qualche cosa del sentimento spirituale”[ref]S. Zweig, La lotta col demone. Hölderlin, Kleist, Nietzsche, cit., p. 110 s.[/ref]. La poesia diviene in tal senso una sorta di specchio per la filosofia e ciò segnerebbe il confine che divide Hölderlin dall’idealismo tedesco, quello spartiacque per il quale la sua opera non può far parte dell’idealismo tedesco in toto. Egli vuole risignificare in profondità la poesia, vuole riconferirle una dignità superiore, riconducendola alla sua funzione originaria: educatrice dell’umanità[ref]Cfr. F. Hölderlin, Il più antico programma sistematico dell’idealismo tedesco, in Scritti d’estetica, trad. it. a cura di R. Ruschi, Mondadori, Milano 1996, p. 162.[/ref]. In questa grandiosa operazione di restituzione del proprium alla poesia, Hölderlin compie un vero itinerario filosofico all’interno del poetare, che lo porta a vedere nella poesia l’essenza di ogni sapere, non in ultimo l’essenza stessa della religione, compiendo un itinerario speculare e nel contempo differente a quello hegeliano – come si vedrà più oltre – per il quale “ogni religione sarebbe per sua essenza poetica”[ref]F. Hölderlin, Sulla religione, in Scritti d’estetica, trad. it. a cura di R. Ruschi, Mondadori, Milano 1996, p. 61.[/ref]. È in tal senso che la poesia acquista una dimensione fondativa rispetto al reale e alla religione, dimensione che proprio Heidegger ha avuto il merito di sottolineare. Come osserva Cornelio Fabro,

se l’essenza dell’arte è la Dichtung, l’essenza del Dichtung è la fondazione [Stiftung] della verità, la quale va intesa nel triplice senso di donare [Schenken], fondare o radicare [Gründen] e iniziare [Anfangen]. È anzitutto donare, perché se la verità e la realtà dell’arte è opera, non è deducibile da ciò che già è e precede ma è profusione [Ueberfluss], e quindi una donazione. È radicare, perché il progetto poetizzante della verità che si pone in opera non è lasciato nel vuoto, ma è rivolto all’umanità futura, cioè storica secondo il duplice orientamento del Mondo e della Terra, è un prendere e un creare, non nel senso del soggettivismo moderno, ma in quello del porre il fondamento fondante ed in questo senso si può dire anche del nulla, perché trascende ciò che è dato. È iniziare, in quanto non è mediato da altro, e quindi comporta un salto [Sprung]: così è sempre l’origine [Ursprung] in cui precisamente si pone il fondamento della nuova opera e si mantiene in qualche modo nascosta anche la fine: quindi non va scambiato con la primitività nel senso abituale[ref]C. Fabro, Ontologia dell’arte nell’ultimo Heidegger, in “Giornale Critico della Filosofia Italiana”, n.° 31, 1952, p. 354[/ref].

Nel verso “ciò che resta lo fondano i poeti” è racchiuso tutto il senso della missione hölderliniana: i poeti fondano ciò che è destinato a durare nel quadro della dialettica tra l’eterno e l’effimero, lo fondando a partire dal poetare che dona fondamento all’ente. In base a questa determinazione del poetare, Heidegger scrive:

La poesia è istituzione attraverso la parola e nella parola. Che cos’è che viene così istituito? Ciò che resta stabile. Ma ciò che è stabile può mai venir istituito? Non è già sempre presente? No! Proprio lo stabile deve essere fissato, lottando contro il travolgimento; il semplice deve venir strappato alla confusione, la misura deve venir preposta allo smisurato. Deve venir all’aperto ciò che regge e pervade l’ente nel suo insieme[ref]M. Heidegger, La poesia di Hölderlin, cit., p. 49.[/ref].

Cos’è che resta alla cura del poeta?

Il poeta nomina gli dei e tutte le cose in ciò che esse sono. Questo nominare non consiste nel fatto che qualcosa di già noto prima verrebbe soltanto provvisto di un nome, ma, invece, quando il poeta dice la parola essenziale, l’ente riceve solo allora, attraverso questo nominare, la nomina a essere ciò che è. Così viene riconosciuto in quanto ente. La poesia è istituzione in parola (worthaft) dell’essere. Ciò resta non viene perciò mai attinto da quanto è caduco […]. Il dire del poeta è istituzione non solo nel senso della libera donazione, ma anche al tempo stesso nel senso della fondazione dell’esserci umano sul suo fondamento[ref]Ivi, p. 50.[/ref].

È legittimo intendere questo primato della poesia come atto di fondazione del reale rispetto alla filosofia proprio nei termini di una flessione del problema del fondamento verso la direzione individuata dall’ontologia dell’arte. Heidegger aveva già affrontato tale tema nel corso delle lezioni tenute durante il semestre invernale 1955/1956 all’Università di Friburgo, lezioni confluite poi nel bel testo Il principio di ragione, dove il tema del fondamento, oltrepassando l’esito metafisico, può essere salvaguardato nell’orizzonte della poesia[ref]Cfr. M. Heidegger, Il principio di ragione, trad. it. a cura di G. Gurisatti e F. Volpi, Adelphi, Milano 1991, pp. 72 e ss.; M. Heidegger, Dell’essenza del fondamento, in Segnavia, trad. it. a cura di F. Volpi, Adelphi, Milano 1987, pp. 93 e ss.[/ref]. Egli suggerisce di pensare la fondazione operata dalla poesia anche in rapporto alla temporalità dell’esistenza del Dasein, realizzando tuttavia uno svuotamento dell’eternità a favore dell’accadere esistentivo. Ciò sembra essere distante dalla effettiva volontà di Hölderlin che nell’atto di fondazione del reale consegna alla poesia altresì la possibilità di eternizzare il mondo rispetto ai limiti dell’esistenza. La parola del poeta fonda qualcosa che è destinato a rimanere, poiché essa è trascendente. La parola che fonda è così consegnata dal poeta/vate alla storia proprio nel passaggio che va da un’epoca all’altra, in quanto essa risiede nella stabilità, nello stesso perdurare che legittima la fondazione di ciò che resta. Mi sembra corretto vedere in questa volontà da parte del poeta tedesco l’annunciarsi di un itinerario speculativo che vuole affidare alla poesia il compito fino ad allora assolto dalla religione, proprio come ciò che dà esistenza al mondo. Questa volontà prende forma fin dagli appunti giovanili ed è contenuta ne Il più antico programma sistematico dell’idealismo tedesco; qui infatti si legge:

Monoteismo della ragione e del cuore, politeismo dell’immaginazione e dell’arte: è questo di cui abbiamo bisogno! […] Se non daremo alle idee una forma estetica, cioè mitologica, esse non avranno interesse per il popolo, e viceversa: se la mitologia non è razionale, il filosofo ne deve provare vergogna. E così alla fine coloro che sono illuminati e coloro che non lo sono, si uniranno: la mitologia deve diventare filosofica, così da rendere il popolo razionale, e la filosofia deve diventare mitologica, così da rendere sensibili i filosofi […]. E potremmo sperare allora in un armonico sviluppo di ogni capacità, nel singolo come nella totalità degli individui. Nessuna capacità sarà più repressa; finalmente regnerà una grande libertà e uguaglianza degli spiriti! Uno spirito superiore inviato dal cielo dovrà fondare tra noi questa nuova religione; sarà l’estrema, la più alta opera dell’uomo![ref]F. Hölderlin, Il più antico programma sistematico dell’idealismo tedesco, in Scritti d’estetica, trad. it. a cura di R. Ruschi, Mondadori, Milano 1996, p. 162 s.[/ref]

Mentre gli amici degli anni dello Stift (Schelling ed Hegel) avvertono fondamentale sanare la scissione, il dissidio, la lacerazione, quella che Hegel chiamerà “l’infelicità della coscienza”, Hölderlin invece sa che tale scissione è insanabile poiché essa è ciò che caratterizza l’anima stessa dell’uomo. Il poeta non accetta nessuna mediazione concettuale, nessuna Aufhebung, e rinuncia dapprincipio ad ogni forma di mediazione dialettica[ref]O. Pöggeler, Hölderlin, Schelling und Hegel bei Heidegger, in “Heidegger Studien”, vol. 28, 1993, pp. 320 e ss.[/ref];

Hölderlin incontra i concetti fondamentali dell’idealismo filosofico e se ne impossessa; ma poiché questi concetti in lui si radicano in altre premesse spirituali, essi assumono per lui un altro significato e per così dire un altro colore, rispetto a quelli che possiedono per i fondatori della speculazione idealistica[ref]E. Cassirer, Hölderlin e l’idealismo tedesco, trad. it. a cura di A. Mecacci, Donzelli, Roma 2001, p. 30.[/ref].

IV. La bellezza che accoglie la scissione

È all’interno di questa “infelicità consapevole”, di questa accettazione del dolore e della lacerazione come termini inconciliabili, che nasce la categoria estetica del bello, la quale trova la sua più compiuta formulazione nell’Iperione, a cui Hölderlin lavora tra il 1792, nella forma di abbozzo preliminare, e il 1797. Proprio in questo romanzo il poeta scrive una delle pagine più belle e ricche di spunti filosofici per comprendere la sua derivazione dall’idealismo e nel contempo il suo oltrepassamento:

La prima creatura della bellezza umana e della bellezza divina è l’arte. In essa l’uomo divino si ringiovanisce e si rinnova. Vuole prendere coscienza di sé, per questo egli si colloca di fronte alla propria bellezza. In tal modo l’uomo si creò i suoi dei. Perché in principio l’uomo e i suoi dei erano una cosa sola, quando ignota a se stessa, esisteva l’eterna bellezza […]. La seconda creatura della bellezza è la religione. Religione è l’amore della bellezza. Il saggio ama proprio lei, l’infinita che tutto contiene; il popolo ne ama le creature, gli dei che gli appaiono sotto varie forme[ref]F. Hölderlin, Iperione, cit., p. 99 s.[/ref].

E nella prefazione alla penultima stesura del romanzo scrive:

Noi tutti percorriamo una traiettoria eccentrica e non vi è altra via che possa condurre dalla fanciullezza al compimento. La divina unitezza, l’essere nel significato autentico della parola, è per noi andato perduto, e doveva essere perduto per poterlo poi desiderare, riconquistare […]. Spesso per noi è come se il mondo fosse tutto e noi nulla, però anche come se noi fossimo tutto e il mondo nulla. Anche Iperione era lacerato tra questi due estremi. Porre fine all’eterno contrasto tra il nostro essere e il mondo, ristabilire la pace di tutte le paci, che è superiore a ogni ragione, riunificarci alla natura in un tutto infinito, questo è il fine di ogni nostra aspirazione […]. Non avremmo però alcun presentimento di quella pace infinita […] se quell’unificazione infinita, quell’essere, nel significato autentico del temine non fosse già presente. È presente come bellezza[ref]F. Hölderlin, “Prefazione” [alla penultima stesura dell’ ”Iperione”], in Scritti d’estetica, trad. it. a cura di R. Ruschi, Mondadori, Milano 1996, p. 54 s.[/ref].

L’ideale hölderliniano della bellezza racchiude in sé il tragico da cui non può esserne scisso. La bellezza non è serafica, non è consolatoria, bensì è conciliazione “entro la discordia stessa”[ref]F. Hölderlin, Iperione, cit., p. 178.[/ref], è ciò che rende possibile l’unione pur mantenendo la distinzione degli elementi opposti e il loro conflitto, è sottrazione della coscienza rispetto al dominio estetico, è segno del negativo. La bellezza hölderliniana sembra avere quello stesso sapore amaro scoperto da Rimbaud, se pur nella totale ed esclusiva diversità della scoperta e dell’accettazione del proprio sé: mentre Rimbaud ha dovuto sperimentare il fallimento e la dissoluzione, ha dovuto “farsi pieno di deserto” per scoprire la desolazione delle albe, Hölderlin ha dovuto “farsi pieno di dei” per riscoprire il volto mistico della natura, ha dovuto in definitiva scoprire nella bellezza il segno di un’assenza. Questa bellezza, così prossima alla soglia del nulla[ref]Cfr. L. Chiuchiù, Soglia della bellezza. Hölderlin, in “Davar”, n. 3, 2006, pp. 73 e ss.[/ref], ha in sé il tratto distintivo di questa vicinanza abissale, una porzione di negativo che forse, nemmeno nella più alta speculazione di Hegel riesce a mostrare tutta la sua portata fino a s-fondare il campo dell’estetica. Infatti, nella riflessione del pensatore di Stoccarda il negativo è pensato attraverso un alto sforzo speculativo nell’orizzonte di fondazione della dialettica, costituendone il nerbo logico oltre che reale; il negativo assume, in un primo momento, la forma della disuguaglianza dell’Io con la sua propria sostanza e, in un secondo momento, la disuguaglianza della sostanza con se stessa. All’interno dello sviluppo dello Spirito, solo nella veste del concetto il pensiero riesce a formulare un’adeguata comprensione del negativo, e tale veste è anche quella che nelle lezioni di estetica porta Hegel a parlare di Auflösung: dissoluzione”, “risoluzione”, proprio per esprimere l’esigenza dialettica del sistema per la quale l’arte, come primo momento della filosofia dello Spirito, deve essere superata, e quindi deve dissolversi, in una forma più adeguata per esprimere la vera forma dell’Assoluto. Quindi, in Hegel la portata del negativo è pur sempre funzionale alla Aufhebung che non tollera la dissoluzione, la “conciliazione entro la discordia” e che per realizzare la marcia trionfante dell’Idea assoluta è pronta a lasciare il negativo al di fuori dell’estetica. Hölderlin sembra muoversi nella direzione opposta: egli pensa il negativo interno alla bellezza proprio a partire dal tragico, il quale è la categoria più propria a determinare la doppia appartenenza che la bellezza ha verso il nulla e verso l’essere. E’ in tal senso che Hölderlin s-fonda l’estetica poiché pensa il negativo contenuto nella bellezza come sua dimensione più originaria. Egli porta la coscienza alla consapevolezza che la bellezza è estranea all’Aufhebung, che al suo posto vi è solo conciliazione entro discordia. Questo è il senso del seme tragico della poetica hölderliniana che trova la sua rappresentazione più compiuta in Empedocle. Il progetto per la stesura de La morte di Empedocle è già contenuto, in filigrana, nell’Iperione, proprio nel periodo francofortese. Empedocle sintetizza i due stati d’animo già presenti in Iperione: la venerazione per la divinità della Natura e la fuga da una vita insoddisfacente per l’uomo:

Empedocle è figlio del suo cielo, della sua epoca, della sua patria, figlio delle forti opposizioni tra natura e arte, con cui il mondo si mostrò ai suoi occhi. È l’uomo in cui quegli antagonismi si conciliano così profondamente da divenire in lui unità, abbandonando e invertendo la loro forma distintiva originaria […] Il suo destino si rappresenta in lui come conciliazione momentanea, che tuttavia è costretta a dissolversi per accrescersi[ref]F. Hölderlin, Fondamento dell’ “Empedocle”, in Scritti d’estetica, trad. it. a cura di R. Ruschi, Mondadori, Milano 1996, p. 84 e ss.[/ref].

Rispetto ad Iperione, la novità di Empedocle risiede nel fatto che la sua anima è coinvolta all’interno del dissidio, di questa dialettica inconciliabile tra l’Io e il Non-Io. Forse non è errato considerare Empedocle come un eroe tragico in senso moderno poiché in lui si manifesta una lacerazione non solo morale ma anche psicologica. Di fronte a questa lacerazione egli sceglie la morte, ma non come un personaggio della tragedia greca, non come una maschera eschilea che sopporta la morte tragicamente sofferta, piuttosto egli sceglie la morte liberamente, con consapevolezza gioiosa: “La morte sola può salvare quel che c’è di sacro del poeta. Il suo intatto entusiasmo non contaminato dalla vita; solo la morte può eternare la vita in un mito”[ref]S. Zweig, La lotta col demone. Hölderlin, Kleist, Nietzsche, cit., p. 103.[/ref]. La morte non è il semplice avvenimento che chiude un ciclo biologico, ma un evento che si compie in riferimento al Tutto e che, se da un lato priva l’uomo di ciò che è dato, dall’altro lo riconsegna a ciò che all’uomo  è sottratto.

Empedocle non può, o forse non vuole ulteriormente, essere parte della tensione verso l’Uno-Tutto. Empedocle è l’eroe tragico che non si accontenta della logodicea hegeliana; piuttosto, egli permane, parafrasando Hegel, all’interno della potenza del negativo. Attraverso questo personaggio Hölderlin accetta e si fa carico del travaglio del negativo, rinunciando ad ogni soluzione che tenti di conciliare gli opposti, di oltrepassare il negativo. Piuttosto, egli resta nel negativo, sperimentandolo fino in fondo come dolore, limite, assenza, portando a compimento la dialettica del sentimento, opposta ed opponentesi alla dialettica del concetto. È in questo ordine di trame emotive che forse il limite di Empedocle, quel limite per il quale egli ha scelto la morte, risiede nel fatto di non poter rendere ragione esteriormente dell’unità interiore intessuta tra il suo Io e la Natura:

sempre più si avvicina la mia ora e dai dirupi giunge sino a me il fido araldo della notte, il vento della sera, messaggero d’amore. È maturato il tempo. Palpita, giacché lo spirito sta sopra di te come astro luminoso, mentre in cielo trasmigrano le nubi senza patria, sempre in fuga. Che sento? Mi stupisco come se la mia vita cominciasse, perché tutto è diverso e solamente ora io sono… […] e tu, Natura, mi porgi il calice tremendo e spumeggiante, affinché il tuo cantore possa bere l’entusiasmo supremo! Sono felice, non cerco altrove il luogo della fine[ref]F. Hölderlin, Empedocle, trad. it. a cura di E. Pocar, Garzanti, Milano 1998, p. 127 s.[/ref].

V. Heidegger e Hölderlin

Nell’intervista rilasciata a Der Spiegel Heidegger affermava:

Il mio pensiero sta in un rapporto inaggirabile con la poesia di Hölderlin. Io non considero Hölderlin come un qualunque poeta, la cui opera gli storici della letteratura prendono in considerazione accanto a quella di molti altri. Per me Hölderlin è il poeta che indica verso il futuro, che attende il Dio[ref]M. Heidegger, Ormai solo un dio ci può salvare, trad. it. a cura di A. Manni, Guanda, Parma 1987, p. 147.[/ref].

Proprio in qualità di colui che indica,

Hölderlin non è stato scelto perché la sua opera, come fra le altre, realizzi l’essenza generale della poesia, ma unicamente perché la poesia di Hölderlin è poeticamente determinata e destinata a poetare espressamente l’essenza stessa della poesia. Hölderlin è per noi in un senso eminente il poeta del poeta[ref]M. Heidegger, La poesia di Hölderlin, trad. it. a cura di L. Amoroso, Adelphi, Milano 1988, p. 42.[/ref].

Egli è per Heidegger il termine necessario che fa del fondamento un tema intimo alla poesia e alla filosofia, snodo concettuale essenziale attraverso cui rendere ragione della flessione della Seinsfrage dopo l’incompiutezza di Sein und Zeit. Il poetare è in questa direzione il continuamento e l’inveramento delle posizioni contenute nell’opera del ’27. Forse il maggior merito dell’interpretazione heideggeriana è quello di aver compreso come l’essenza della poesia di Hölderlin sia storica in sommo grado. La filosofia della storia che soggiace alla sua produzione è tutta tesa a mettere in evidenza come la storia sia estrinsecazione del divino. La storia è historia signa temporum ma sotto il segno del negativo, cioè della mancanza del divino nel presente, quindi tempo di povertà; ma anche storia dei segni della presenza del divino nel tempo che viene, cioè storia dell’epifania del divino a partire da una dialettica di assenza/presenza. La storia ha un significato provvidenziale ed è storia escatologica: questo senso religioso della storia destina tutte le cose ad una loro trasformazione:

Questa dottrina è applicata da Hölderlin al compimento che deve realizzarsi nel corso della storia quando quest’ultima è giunta in un vicolo cieco. Ciò che ritorna non è più Cristo, ma la Grecia. Colui che manda non è il Padre, ma l’Etere, la forza operativa non è più lo “Pneuma di Cristo”, ma la pienezza dionisiaca dello spirito. Il nodo da sciogliere non è il peccato dell’umanità, ma l’intrinseca mancanza di sbocchi della storia[ref]R. Guardini, Hölderlin: immagine del mondo e religiosità, cit., vol. I, p. 220 s.[/ref].

La fiduciosa attesa per la realizzazione dell’eschaton e il compimento non solo dell’idealizzato “Regno di Dio” di provenienza degli anni giovanili ma anche della venuta degli dei dell’età matura, e più in generale della Grecia, sono il sigillo con cui al poeta è concesso di cantare il tempo dell’attesa, il “venerdì santo poetico”. Come giustamente afferma Romano Guardini, Hölderlin non è più un’artista, ma diventa un vate[ref]Ivi, p. 7.[/ref] che vede e si commuove, in cui l’elemento visionario non va “inteso come “fenomeno psicologico”, bensì come “processo di donazione”, attraverso cui possono emergere fenomeni e connessioni altrimenti nascosti”[ref]Ivi, p. 10.[/ref]. Come vate, egli pretende fede, che si creda cioè al ritorno della Grecia, alla trasformazione della vita che “si ricolma di senso divino”. Il concetto di futuro che sottende a questa concezione della storia contiene in sé il riferimento all’eternità, a ciò che deve prepararsi per venire in eterno. Non si tratta di chiliasmo, ma di fiduciosa attesa del momento in cui “il non terreno entra nel terreno, l’eterno nel temporale, ma in modo tale di mantenere il terreno terreno ed il temporale temporale. Questo significa però che la storia e la non-storia, la terra e il cielo, l’economia escatologica e il decorso dell’esistenza si ritroveranno in uno”[ref]Ivi, p. 227.[/ref]. Proprio alla luce di questa esigenza così stringente del pensiero e della poetica di Hölderlin è allora possibile comprendere tutta la portata della missione poetica, del canto come rammemorazione, come ricordo delle promesse: “Custodire la memoria è da sempre la missione del poeta. Questa sua missione assume qui il significato di risvegliare e suscitare ciò che è assente”[ref]H. G. Gadamer, Interpretazioni di poeti, cit., p. 18.[/ref]. Nella stesura aggiuntiva della lirica L’arcipelago Hölderlin scriveva:

Ma poiché così prossimi sono gli Dei presenti debbo essere come se fossero lontani, e oscuro tra nubi deve esserci il loro nome , solo prima che il mattino splenda, prima che arda la vita del mezzogiorno li nomino per me in silenzio, perché il poeta abbia ciò che è suo, ma quando la luce celeste discende volentieri penso al passato e dico – fiorite intanto[ref]F. Hölderlin, L’arcipelago, in Le liriche, cit., p. 950.[/ref].

Come osserva Remo Bodei, “nella lontananza massima del dio dall’uomo, traspare quasi per absentiam l’unità dell’essere e la presenza del divino”[ref]R. Bodei, Hölderlin: la filosofia e il tragico, in F. Hölderlin, Sul tragico, trad. it. a cura di G. Pasquinelli e R. Bodei, Feltrinelli, Milano 1989, p. 18.[/ref]. In Vocazione del poeta si legge:

No, non la sorte e non l’ansia dell’uomo o nella casa o sotto il cielo aperto, anche se egli si adopera e se si nutre più nobilmente della belva – altro conta, cura e missione dei poeti. È l’Altissimo, a cui apparteniamo, perché nuovo nel canto e più vicino l’accolga in amicizia il cuore umano[ref]F. Hölderlin, Vocazione del poeta, in Le liriche, cit., p. 449.[/ref].

La mancanza non è solo privazione ma è anche destino storico, nominato dal poeta sulla soglia del compimento della promessa, “la sacra Memoria che serbi desta lungo le notte”[ref]F. Hölderlin, Pane e Vino, in Le liriche, cit., p. 521.[/ref]. Tutta la poesia di Hölderlin è una teofania vespertina:

Romantica è la poesia hölderliniana della natura, perché la teofania, che ne è il fulcro ed il senso, vi costituisce un breve momento, un momento che nella sua brevità appare quasi illusorio. Essa si compie sempre nell’ora del crepuscolo […]Prima che la luce svanisca del tutto, per un attimo, per un attimo solo, il nume scende misteriosamente sulla terra, sembra toccare i vertici degli alberi più alti e chi sotto gli alberi giace in mezzo ai fiori, è colmo della certezza inebriante che è scomparsa ogni distanza tra la terra e il cielo, fra gli uomini e gli dei, tanto che la lieve aura vespertina che avvolge e compenetra i sensi dei mortali, ravvivandoli dopo l’arsura meridiana, sembra concreta emanazione dell’anima invisibile e pur sempre presente dell’universo[ref]L. Mittner, Storia della letteratura tedesca, cit., vol. II, tomo III, p. 713.[/ref].

Quando si avverte di nuovo la luce sulla terra, il dio abbandona il mortale e torna nel numinoso spazio dove egli abita. Gli dei vivono nell’eterna gloria che pur non avvertono: per questo si fanno vicini agli uomini, affinché essi attestino il rapimento che la gloria olimpica esercita su di loro. Gli dei hanno bisogno del cuore degli uomini, poiché attraverso questo essi sanno il loro eterno splendore.  Nel tanto noto Perché i poeti Heidegger prende le mosse proprio povertà spirituale e intellettuale dell’epoca contemporanea, pur inserendola nel solco della già tracciata critica alla metafisica:

Con la venuta e il sacrificio di Cristo ha avuto inizio, secondo la concezione storica di Hölderlin, la fine del giorno degli dei. È caduta la sera. Da quando i “tre che sono uno”: Ercole, Dioniso e Cristo, hanno lasciato il mondo, la sera del tempo mondano va verso la notte. La notte del mondo distende le sue tenebre. Ormai l’epoca è caratterizzata dall’assenza di Dio, dalla “mancanza” di Dio. La mancanza di Dio, come venne sentita da Hölderlin, non nega la persistenza di un atteggiamento cristiano verso Dio […]. La mancanza di Dio significa che non c’è più nessun Dio che raccolga in sé gli uomini e le cose […]. Ma nella mancanza di Dio si manifesta qualcosa di peggiore ancora. Non solo gli dei e Dio sono fuggiti, ma si è spento lo splendore di Dio nella storia universale. Il tempo della notte del mondo è il tempo della povertà perché diviene sempre più povero. È già diventato tanto povero da non poter riconoscere la mancanza di Dio come mancanza[ref]M. Heidegger, Perché i poeti?, in Sentieri interrotti, cit., p. 247.[/ref].

Il compito del poeta si colloca all’inizio di un’apertura storica: il poeta si fa solo esecutore del processo storico a cui l’essere lo chiama a partecipare con la funzione di nominare questa mancanza originaria. Nell’adempimento di questo compito egli deve anche mantenere il mistero dell’origine che determina il rapporto tra essere ed uomo, facendosi carico di una vera e propria missione: egli deve fare epoca, nominando l’epoca della povertà a cui esso presiede e la modalità con cui l’essere si disvela. Suggestivamente Heidegger scrive: “Il poeta, come semidio, è l’opera degli dei e degli uomini, cioè il frutto della festa nuziale”[ref]M. Heidegger, La poesia di Hölderlin, cit., p. 135 s.[/ref]. Per questa vicinanza che egli ha con il divino, il poeta può apparire simile ad un profeta:

I poeti possono dire ciò che, prima del loro poetare e per esso, è la poesia, solo se dicono ciò che precede ogni reale: ciò che viene [….]. I poeti, se sono nella loro essenza, sono profetici. Ma non sono “profeti” nel significato giudaico cristiano del termine […]. Essi predicono subito il dio come sicura garanzia di salvezza nella beatitudine ultraterrena. Non si sfiguri la poesia di Hölderlin con “il religioso” della “religione”, la quale è e rimane un modo romano d’interpretare il rapporto fra gli uomini e gli dei. Non si prostri l’essenza di questa missione poetica facendo del poeta un “veggente” nel senso dell’indovino. Il sacro annunciato primieramente nella poesia non fa che aprire lo spazio-tempo di un’apparizione degli dei ed indicare la località dell’abitare dell’uomo storico su questa terra[ref]Ivi, p. 136 s.[/ref].

Nella sua prossimità con il divino, il poeta rende ragione anche del Sacro. Hölderlin adopera tre distinte espressioni per nominare il Sacro: das Heilige, das Höchste ed infine der Abgrund, tre parole che vengono usate dal poeta quasi indifferentemente, sebbene l’ultima assuma un’accezione più ampia in quanto rimanda all’abisso che si cela dietro al Sacro. Nello heil risuona

quell’idea di vigore, vitalità, impeto […]. È attributo di venti, cavalli, uomini, città […] ma anche di cose […] colte […] in un istante culminante della loto potenza […]. Heilig conserva intatto questo significato in Hölderlin; etimologicamente, dunque, esso si oppone ad ogni idea di sacralità[ref]M. Cacciari, Il problema del sacro in Heidegger, in “Archivio di filosofia”, n. 1, 1989, p. 205 s.[/ref].

Questo termine assume il senso che conosciamo dalle parole del poeta a seguito di una trasformazione che lo colpisce e lo suggestiona; deve esserci qualche elemento che rapisce Hölderlin e che lo spinge a parlare di Sacro. Il Sacro non è il divino: essi sono distinti; il Sacro è ulteriore al divino, è “ ‘ciò’ da cui ek-siste”[ref]Ivi,  p. 206.[/ref], ciò che rimanda ad un’apertura originaria fondativa. La fedeltà alla verità che il Sacro rappresenta è il tratto più caratteristico della poetica di Hölderlin; in Come al dì di festa si legge:

L’attesi, l’ho veduto venire. Quello che vidi, il Sacro, sia la mia parola. La Natura più antica delle età, sopra gli Dei d’oriente e d’occidente, si è ora destata con un suono d’armi, e dall’Etere alto ai fondi abissi secondo leggi ferme, come un tempo quando la generò il sacro Caos sente in sé nuova quella che tutto crea, l’estasi ardente[ref]F. Hölderlin, Come quando al dì di festa, in Le liriche, cit., p. 571.[/ref]

Nella fedeltà alla parola di Hölderlin, il riconoscimento del Sacro conduce alla sua conservazione, la quale avviene nella rammemorazione, rimedio che lenisce l’assenza e la fuga degli dei.

Il luogo a partire dal quale il poeta deve nominare gli dei deve essere tale che coloro che vanno nominati gli restino lontani nella presenza del loro venire, restando, proprio in questo modo, coloro che vengono. Affinché questa lontananza si apra come lontananza, il poeta deve ritrarsi dalla vicinanza angustiante degli dei e “nominarli solo quietamente”[ref]M. Heidegger, La poesia di Hölderlin, cit., p. 226.[/ref].

 In questa visione del mondo, il canto è inno all’avvenire e speranza del compimento, narrazione di una promessa che dice il ritorno.

Nessun poeta tedesco ha mai creduto come Hölderlin nella poesia e nella divina origine di essa, nessuno ne ha mai difeso con tanto fanatismo l’incondizionatezza, l’incontaminatezza di ogni cosa terrena […]. Perfino per Goethe la poesia non è che una parte della vita, mentre per Hölderlin essa è, incondizionatamente, il senso che per lui sta al di sopra della sua persona, è una necessità religiosa[ref]S. Zweig, La lotta col demone. Hölderlin, Kleist, Nietzsche, trad. it. a cura di A. Oberdorfer, Sperling & Kupfer, Milano 1934, p. 49.[/ref].

Come suggerisce Heidegger sulla scia delle considerazioni di Bettina von Arnim,

il dio si sarebbe servito del poeta come freccia per scoccare il suo ritmo dall’arco e chi non lo percepisca e non vi si adegui non avrà mai né destino né virtù atletica da poeta e sarà troppo debole per potersi dare una forma, sia nel materiale, sia nella visione del mondo degli antichi, sia nel modo moderno di rappresentarci le nostre tendenze, e nessuna forma poetica gli si rivelerà. I poeti che riprendono scolasticamente forme date possono poi soltanto ripetere lo spirito già dato: essi si collocano come uccelli su un ramo dell’albero della lingua e vi si cullano e secondo il ritmo originario che esso ha nelle radici; ma un poeta di tal sorta non prenderà mai il volo quale aquila dello spirito, covata dalla spirito vivente della lingua[ref]M. Heidegger, La poesia di Hölderlin, cit., p. 185.[/ref].

Forse proprio l’incondizionatezza della poesia, il vivere per la poesia, l’adempiere fino in fondo la sua “vocazione di poeta” fu una delle cause della follia che colpì Hölderlin, di quella follia “che doveva rinchiuderlo per anni come un sepolcro […] nel più puro linguaggio sofocleo e in una inesauribile ricchezza di profondi pensieri”[ref]F. Nietzsche, La mia vita, trad. it. a cura di M. Carpitella, Adelphi, Milano 1977, p. 106.[/ref].

Le tracce della malattia si manifestarono già a partire dal 1801. Nella sua patologia non c’è un crollo netto o un offuscamento della propria conoscenza di sé: tutt’altro. Se trova corrispondenza clinica l’analisi di Karl Jaspers per la quale la malattia di questo poeta è scandita da due fasi – una, intorno al 1801 che segna il passaggio dalla salute alla malattia, e un’altra, intorno al 1805-1806, per la quale si assiste allo sviluppo morboso della stessa – , proprio nel passaggio da una fase all’altra Hölderlin lotta contro l’ “accecamento” dello spirito, disciplinando se stesso per evitare che la frantumazione del sé prenda il sopravvento. Gradatamente la sua sensibilità diventa malata, “gli slanci della sua anima diventano esplosioni del corpo”[ref]S. Zweig, La lotta col demone. Hölderlin, Kleist, Nietzsche, cit., p. 120.[/ref]. In una lettera del 1796, scritta al fratello, egli si paragonava ad una vecchia pianta in un vaso, caduta già una volta sulla strada e che avendo perdute le gemme, ferita alla radice, trapiantata ora in un terreno nuovo, a fatica, con attente cure, è stata salvata dal rinsecchire pur rimanendo ancora in parte avvizzita. E in un’altra missiva del 1799 scriveva: “I miei atti e le mie parole sono così spesso maldestri e assurdi, perché al pari delle oche sto con piedi piatti nell’acqua, sbattendo le ali impotenti verso il cielo greco”[ref]Lettera di Hölderlin in K. Jaspers, Genio e follia, trad. it. a cura di U. Galimberti, Rusconi, Milano 1990, p. 136.[/ref]. Questa conoscenza di sé nel periodo a cavallo della manifestazione evidente della malattia sarà sempre più chiara, così come sarà sempre più chiara la sua prigionia nella realtà. Per quarant’anni Hölderlin sarà trascinato nel vortice della pazzia, il suo sé diventerà Scardanelli; parlerà confusamente usando parole senza forma; eppure le liriche di questo periodo sono semplici, chiare, strofe brevi, generose nella descrizione; il tema privilegiato la Natura e le stagioni:

Talvolta siede al pianoforte e suona per ore e ore; ma non trova più sequenze, non ne cava una piena serie di suoni: solo un morto armonizzare, una ripetizione testarda, fanatica della stessa melodia povera e breve; e le unghie delle dita, cresciute selvaggiamente, battono spettralmente sui tasti scordati […]. Se qualcuno fa imprudentemente il nome di Hölderlin, Scardanelli scatta in un impeto d’ira. Se il colloquio si prolunga troppo il malato diventa a poco a poco inquieto e nervoso, perché lo sforzo del pensare e la tortura dell’intendere sono troppo grandi per il suo cervello stanco: e allora il visitatore lo lascia, accompagnato fino alla porta tra uno spavento d’inchini e di riverenze[ref]S. Zweig, La lotta col demone. Hölderlin, Kleist, Nietzsche, cit., p. 135 s.[/ref].

* Il presente contributo è stato pubblicato per la prima volta in Estetica 2/2008, pp. 77-95 con il titolo “Ciò che resta lo fondano i poeti”. Fondamento e poesia tra Heidegger e Hölderlin. In questa sede si ripropone con delle lievi modifiche.

Bibliografia delle opere citate e di studi sul tema

M. Heidegger, Sentieri interrotti, trad. it. a cura di P. Chiodi, La Nuova Italia, Firenze 1997 M. Heidegger, Contributi alla filosofia (dall’Evento), trad. it. a cura di F. Volpi e A. Iadicicco, Adelphi, Milano 2007 M. Heidegger, La poesia di Hölderlin, trad. it. a cura di L. Amoroso, Adelphi, Milano 1988 M. Heidegger, Il principio di ragione, trad. it. a cura di G. Gurisatti e F. Volpi, Adelphi, Milano 1991 M. Heidegger, Segnavia, trad. it. a cura di F. Volpi, Adelphi, Milano 1987 M. Heidegger, Ormai solo un dio ci può salvare, trad. it. a cura di A. Manni, Guanda, Parma 1987 M. Heidegger/E. Blochmann, Carteggio 1918-1969, trad. it. a cura di R. Brusotti, Il Melangolo, Genova 1991

F. Hölderlin, Le Liriche, trad. it. a cura di E. Mandruzzato, Adelphi, Milano 1993 F. Hölderlin, Iperione, trad. it. a cura di G. V. Amoretti, Feltrinelli, Milano 1981 F. Hölderlin, Empedocle, trad. it. a cura di E. Pocar, Garzanti, Milano 1998 F. Hölderlin, Scritti d’estetica, trad. it. a cura di R. Ruschi, Mondadori, Milano 1996 F. Hölderlin, Sul tragico, trad. it. a cura di G. Pasquinelli e R. Bodei, Feltrinelli, Milano 1989

F. W. J. Schelling, Filosofia della rivelazione, trad. it. a cura di A. Bausola, Rusconi, Milano 1997, pp. 928 ss.

G. W. F. Hegel, Epistolario, a cura di P. Manganaro, Guida, Napoli 1983

F. Nietzsche, La mia vita, trad. it. a cura di M. Carpitella, Adelphi, Milano 1977

Aa. Vv., Romanticismo, esistenzialismo, ontologia della libertà, Mursia, Milano 1979 Amoroso L., Lichtung. Leggere Heidegger, Rosenber & Sellier, Torino 1993 Amoroso L., Nuovi movimenti del “colloquio” Heidegger-Hölderlin, in “Rivista di Estetica”, n. 5, 1980 Amoroso L., Quando domandare è (cor-)rispondere, in “Teoria”, n. 1, 1982 Bodei R., Hölderlin: la filosofia e il tragico, in F. Hölderlin, Sul tragico, trad. it. a cura di G. Pasquinelli e R. Bodei, Feltrinelli, Milano 1989 Bodei R., L’estetica del bello, Il Mulino, Bologna 1995 Cacciari M., Il problema del sacro in Heidegger, in “Archivio di filosofia”, n. 1, 1989 Caracciolo A., Prefazione in W. F. Otto, Theophania. Lo spirito della religione greca antica, trad. it. a cura di A. Caracciolo e M. Perotti Caracciolo, Il Melangolo, Genova 1983 Cassirer E., Hölderlin e l’idealismo tedesco, trad. it. a cura di A. Mecacci, Donzelli, Roma 2001 Chiodi P., L’estetica di Heidegger, in “Il Pensiero Critico”, 1954, n°. 9-10 Chiuchiù L., Soglia della bellezza. Hölderlin, in “Davar”, n. 3, 2006 Cvetaeva M., Il poeta e il tempo, trad. it. a cura di S. Vitale, Adelphi, Milano 1984 De alessi F., Heidegger lettore dei poeti, Rosenberg & Sellier, Torino 1991 Fabro C., Ontologia dell’arte nell’ultimo Heidegger, in “Giornale Critico della Filosofia Italiana”, n.° 31, 1952 Frank M., Il dio a venire. Lezioni sulla nuova mitologia, trad. it. a cura di F. Cuniberto, Einaudi, Torino 1994 Gadamer H. G., Interpretazioni di poeti, trad. it. dei cap. I e II a cura di M. Bonola e dei cap. III e IV a cura di G. Bonola, Marietti, Casale Monferrato 1980 Giannatiempo Quinzio A., Influssi pietistici e istanze escatologiche nella poesia di Friedrich Hölderlin, in “Bailamme”, 1993, n°. 14 Givone S., Heidegger e la questione romantica, in “Aut Aut”, 1989, n°. 234 Guardini R., Hölderlin: immagine del mondo e religiosità, trad. it. a cura di L. Tieck e G. Colombi, Morcelliana, Brescia 1995 Jaspers K., Genio e follia, trad. it. a cura di U. Galimberti, Rusconi, Milano 1990 Jaspers K., Genio e follia, trad. it. a cura di U. Galimberti, Rusconi, Milano 1990 Landolt  E., L’essere come ritmo o poesia nell’interpretazione heideggeriana di Hölderlin, in “Sicolorum Gymnasium,  1967 Mirri E., La resurrezione estetica del pensare, Bulzoni, Roma 1976 Mittner L., Storia della letteratura tedesca, Einaudi, Torino 1971, vol. II, tomo III Moretti G., Il poeta ferito. Hölderlin, Heidegger e la storia dell’essere, La Mandragora Editrice, 1997 Moretti G., Introduzione all’estetica del romanticismo tedesco, La Nuova Cultura 2007 Oberti E.,  Lineamenti di un’estetica di Heidegger in un saggio su Rilke, in “Rivista di filosofia neoscolastica”, n. 46, 1954 Otto W. F., Theophania. Lo spirito della religione greca antica, trad. it. a cura di A. Caracciolo e M. Perotti Caracciolo, Il Melangolo, Genova 1983 Pöggeler O., Hölderlin, Schelling und Hegel bei Heidegger, in “Heidegger Studien”, vol. 28, 1993 Vattimo G., Essere, storia e linguaggio in Heidegger, Marietti, Casale Monferrato 1989 Vattimo G., Heidegger e la poesia come tramonto del linguaggio, in Aa. Vv., Romanticismo, esistenzialismo, ontologia della libertà, Mursia, Milano 1979 Verra V., Heidegger, Schelling e l’idealismo tedesco, in “Archivio di Filosofia”, 1974 Zweig S., La lotta col demone. Hölderlin, Kleist, Nietzsche, trad. it. a cura di A. Oberdorfer, Sperling & Kupfer, Milano 1934