VIDEO- Martin Heidegger e i Quaderni Neri

Heidegger è stato antisemita? Di che tipo di antisemitismo si tratta? La Judenfrage è davvero il cuore degli Schwarze Hefte? Che tipo di responsabilità si possono ascrivere alla filosofia di Heidegger davanti all’orrore dell’Olocausto? Perché questa ossessione solo per il “caso Heidegger” e non nei confronti di altri filosofi, dichiaratisi apertamente antisemiti e nazisti? E perché questo diffuso anti-heideggerismo di ritorno? Come collocare l’interpretazione di Heidegger nella storia della filosofia dopo la pubblicazione dei Quaderni Neri? Ha senso pronunciare ora, allo stato attuale della pubblicazione della Gesamtausgabe, giudizi definitivi o tentare ricostruzioni a posteriori? Queste sono alcune delle domande alla base del libro. Il lavoro sulle Überlegungen II-XV e sul recentissimo volume delle Anmerkungen I-V ha rappresentato un’occasione importante per praticare un’ermeneutica scrupolosa e libera da ideologie di ogni sorta; per riflettere sui molti temi contenuti nei Quaderni Neri e problematizzarne le domande radicali, rinunciando alla dicotomia delle risposte che vedono gli interpreti dividersi fra apologeti e detrattori. Ciò che è emerso da questo lavoro è che il pensiero di Heidegger, anche quello caratterizzato dalle affermazioni più abissali e dal buio della storia che le ha alimentate, è qualcosa di più dell’affaire Heidegger. Forse Gadamer non ha mai avuto torto: «Se uno è convinto di essere “contro” Heidegger – o anche se crede semplicemente di essergli “favorevole” – si rende ridicolo. Non è così semplice passare davanti al pensiero».

Quando il governo senza pluralismo attacca la libertà religiosa

 

Quattro notizie apparentemente slegate tra loro hanno contraddistinto la fine del 2015. Subito prima di Natale, il Parlamento greco ha approvato la proposta Tsipras per estendere la regolamentazione della convivenza anche tra persone dello stesso sesso, nonostante la forte opposizione della Chiesa Ortodossa. Appena pochi giorni addietro, in Slovenia gli elettori hanno bocciato, con quasi i due terzi dei voti validi, la legge nazionale in materia di unioni tra persone dello stesso sesso e adozione da parte degli omosessuali. Ancora nei discorsi di auguri, tra Natale e la fine dell’anno, il Premier inglese Cameron aveva ribadito un concetto che ha spesso espresso, anche in modo più diretto, da almeno un anno e mezzo a questa parte: l’inscindibile legame tra l’identità britannica e la tradizione cristiana. Per quanto riguarda gli scenari al di fuori del Vecchio Continente, grosso risalto ha avuto, nella medesima settimana, il rinvenimento di una fatwa che autorizzerebbe il traffico d’organi (degli infedeli) a fini di finanziamento dello Stato islamico e delle sue azioni rivendicative dentro e fuori i confini medio-orientali. C’è di che rabbrividire. Per tutte e quattro le notizie che potremmo e dovremmo ascrivere all’ambito tematico “diritto e religioni”. E che, tutte e quattro, potrebbero benissimo figurare alla voce “malintesi su libertà politiche e religioni”. In Grecia, la crisi sociale è ancora molto forte. Come, con acuti meno gravi, lo è in Italia, nonostante la debole ripresa. Il risultato è persino ovvio: dopo anni di recessione, di contrazione della spesa sociale in Stati tradizionalmente assistenziali, non è un lieve sblocco dei dati macroeconomici a ridipingere tutto di rosa. Perciò, mentre suscita un qualche apprezzamento che la proposta di Tsipras sia proceduta indipendentemente dalle pressioni esterne alle aule parlamentari, non è senza significato che molto elettorato di Sinistra (anche ben al di là del vecchio ed esangue PASOK) cominci a chiedersi dell’utilità della riforma. Quando altri temi -lavoro, previdenza sociale, processo civile e penale, questione sanitaria – richiederebbero ben maggiori sforzi di quelli di un governo, obtorto collo, votatosi all’attuazione “umana” dei memorandum finanziari europei. Tsipras si è imposto come rappresentante di una nuova Sinistra, molto più evoluta della tradizionale socialdemocrazia, ma per molti profili ne rappresenta la continuazione con altri mezzi. L’elettorato giovanile di Tsipras ha certo in mente il tema dei diritti civili ben più di tanti vecchi militanti del Partito Comunista Ellenico: era perciò inevitabile che la legittimazione sociale di Tsipras passasse anche per il riformismo sui temi civili. I quali, del resto, possono ridistribuire benessere sociale, almeno dal punto di vista delle aspettative dei cittadini (meno, nell’immediato, sulle concrete condizioni di vita). Bisognerà vedere bene questa riforma in quale disegno si inserisca. Se in un piano di riassetto del diritto di famiglia, al di fuori dei tradizionali rapporti tra lo Stato greco e la Chiesa ortodossa, o se da “distrattore” rispetto a temi sui quali la convergenza parlamentare sarebbe molto più difficile. In altre parole: in Grecia in questo periodo è molto più semplice varare norme promozionali a favore delle unioni omosessuali che non piani di riorganizzazione dei livelli amministrativi decentrati. E questo in parte svilisce anche il buono che c’era nella proposta Tsipras, dandole il timbro di provvedimento (apparentemente) a costo zero, (ma) in attesa di tempi migliori. Sono ragioni intrinseche non troppo dissimili da quelle che hanno reso largamente prevedibile il voto sloveno. Anche qui le responsabilità dei “vecchi” partiti socialdemocratici, e non solo, sono purtroppo visibili. L’Europa dell’Est è sospesa tra secolarizzazione e riscoperta religiosa, tra istanze comunitarie ed innesti favorevoli a concezioni “spinte” dell’economia di mercato. Lo è da almeno due decenni. Il ruolo dei partiti socialdemocratici doveva consistere nell’apertura alla laicità (contro il modello ateistico e contro le tentazioni confessionali particolaristiche) e all’economia sociale di mercato (contro il capitalismo di Stato e il facile asservimento ai grandi interessi economici zonali). Obiettivi sin qui falliti, se si guardano le legislazioni nazionali di molti Stati della medesima area. Ci sono riforme che nessun politico può pensare di introdurre senza essersi misurato col complessivo cambiamento delle agenzie di formazione e rappresentanza politica. Nessuna coalizione politica oggi attiva in Slovenia avrebbe mai la stessa maggioranza dei contrari alla legge sull’adozione e sulle unioni omosessuali. È un dato che fa riflettere. Se si voleva riformare, si è corso troppo o si è corso “male”. In un territorio piccolo e con ancora percepibili discriminazioni sociali, la tutela dei diritti di libertà non può essere percepita come prioritaria rispetto alla difesa delle forme tradizionali dell’appartenenza. Procedendo come ha fatto il legislatore sloveno, resta invece la sensazione di una scissione innaturale: tra una società evoluta, progressiva, aperta (circa il 40% degli elettori ha votato a favore della legge), e comunque minoritaria, e le afflizioni materiali che sono trasversali alle appartenenze tradizionali, ma che in esse si sentono meglio rappresentate. Questo meccanismo è ben noto a Cameron, che sta dimostrando di saperlo applicare con machiavellico pragmatismo. Lo ricordiamo al tempo della sua prima campagna elettorale. Era il volto trash dei Tories: velatamente favorevole all’abbandono delle posizioni proibizioniste dei conservatori, sostenitore di politiche di libero mercato più aggressive di quelle di Brown (e in parte di Blair). In cinque anni la sua comunicazione ha cambiato pelle. Non doveva stravolgere, doveva stravolgere gli altri, quando ad esempio ha coinvolto i liberaldemocratici, determinandone l’esilio dall’immaginario collettivo, nella discussa riforma sulla tassazione universitaria. Cameron ha abbandonato anche l’idea della “big society”: ha sottratto pluralismo, ha aggiunto sussidiarietà. Scambio di livelli tra pubblico e privato, ma un privato sociale fortemente custode del galateo istituzionale (compresa la tradizione religiosa cristiana e le istituzioni giuridiche che essa ha portato anche in una società secolare come quella inglese). Il successo politico è evidente, meno le prospettive di durata. Come si riarticolerà, qui e ora, la presenza di immigrati di fedi e culture diverse in un Paese che ha pur sempre un tessuto normativo di tradizionali, ampie, garanzie, ma che a parole sembra sempre meno ospitale, sempre sul punto di restringere più che di allargare? Davanti ai diritti civili adoperati come scorciatoia dubbia a riforme radicali (Grecia e Slovenia) e all’identità tradizionale – anche religiosa – collettiva usata come perimetro dell’azione politica (Gran Bretagna), sta da perfetto antagonista cinematografico il cruento e truce ghigno del fondamentalismo armato. Elargendo dottrine che il Corano non sembrerebbe ammettere in alcuna misura. Trafficare le interiora degli apostati, però, non costituisce un aggiornamento delle peggiori (o migliori) dottrine belliciste. È, purtroppo, pure peggio: è mero calcolo. È certezza di avere individuato e, perciò, consentito un settore di elevata e immediata lucratività. Tutto quello che ci aiuta è autorizzato a distruggere gli altri. In tutta evidenza, perciò, il problema non è quello della (ri)conduzione della religione a mero fatto privato, ma di pluralismo (negato) del discorso politico. In questo senso, il 2015 è buon candidato al ruolo di annus horribilis.

Heidegger e Cartesio. La trasformazione heideggeriana della soggettività cartesiana

La VI uscita di Pagine Heideggeriane ospita un paper a firma di Luca Bianchin dell’Università di Padova, in cui l’autore ricostruisce il rapporto fra Heidegger e Descartes attraverso la figura che funge da trait d’union fra i due, cioè Husserl. Attraverso un’analisi del ruolo svolto da Descartes nel pensiero di Heidegger degli anni ’20, in cui l’autore francese sembra essere il grande assente della speculazione heideggeriana, Bianchin delinea con precisione ed acribia il percorso attraverso cui Descartes diventa il polo d’interesse per la critica alla soggettività. Non solo: con estrema puntualità Luca Bianchin riesce a mettere in evidenza come l’inversione di cogito sum in sum cogito permetta a Heidegger di radicare le cogitationes nella trascendenza del soggetto  e di assumere l’espressione sum cogito in una prospettiva fenomenologica tale da poter portare alla luce ciò che lo stesso Cartesio non aveva colto. Appellandosi al reciproco richiamarsi di existere ed ego (ego sum, ego existo), Heidegger elabora un altro fondamentale elemento della costituzione ontologica del Dasein: la Jemeinigkeit.

Francesca Brencio

Heidegger e Cartesio.
La trasformazione heideggeriana della soggettività cartesiana
di
Luca Bianchin

1. La funzione di Cartesio negli anni Venti: né Husserl, né Cartesio

Straniero: Allora di questo ti voglio pregare ancora con maggiore insistenza.
Teeteto: Di che cosa?
Straniero: Non credere che io divenga quasi un parricida.[ref]Platone, Sofista, 241d.[/ref]

È singolare notare come in un testo del 1912, il cui titolo programmatico è Il problema della realtà nella filosofia moderna[ref]M. Heidegger, Il problema della realtà nella filosofia moderna, in Scritti filosofici (1912-1917), a cura di A. Babolin, La Garangola, Padova, 1972, pp. 131-148.[/ref], il nome di Cartesio non ricorra nemmeno una volta. L’omissione di Cartesio in un contesto in cui si tratta della «realtà» nell’epoca moderna stupisce se si pensa al ruolo chiave che le riflessioni heideggeriane negli anni Trenta/Quaranta  fanno assumere al filosofo francese.
Dunque, in che momento Cartesio fa la sua comparsa nei testi heideggeriani? Per quale motivo, quindi, Heidegger sente la necessità di introdurre un confronto specifico col suo pensiero quando, per esaurire l’essenza della modernità, era sufficiente un’analisi limitata a Berkeley, Kant, Hegel[ref]Cfr. ibidem.[/ref]?

La necessità che induce Heidegger a confrontarsi con la filosofia cartesiana si rintraccia nel suo progressivo distanziarsi dalle posizioni filosofiche del maestro, Husserl. Ovvero: l’abbandono e la rielaborazione della fenomenologia husserliana e la lenta conquista dell’ontologia fondamentale. Si è costretti, per soddisfare una legittima esigenza di completezza in merito alle questione trattate, a rinviare ad altri luoghi[ref]Cfr. M. Heidegger, Il problema della realtà nella filosofia moderna, in Interpretazioni fenomenologiche di Aristotele. Introduzione alla ricerca fenomenologica, a cura di E. Mazzarella, Guida, Napoli, 2001; M. Heidegger, Prolegomeni alla storia del concetto di tempo, ed. it. a cura di R. Cristin e A. Marini, Il melangolo, Genova, 1999 (in particolare pp. 17-164). Circa il rapporto tra Heidegger e Husserl negli anni Venti, per un primo, ma puntuale, riferimento, si veda A. Fabris, L’«ermeneutica della fatticità» nei corsi friburghesi dal 1919 al 1923, in F. Volpi (a cura di), Guida a Heidegger, Laterza, Roma-Bari, 2008, pp. 59-111; C. Esposito, Il periodo di Marburgo (1923-28) ed «Essere e tempo»: dalla fenomenologia all’ontologia fondamentale, in ivi, pp. 113-166; F. Volpi, La trasformazione della fenomenologia da Husserl a Heidegger, in «Teoria», IV, 1, 1984, pp. 125-162; A. Masullo, La «cura» in Heidegger e la riforma dell’intenzionalità husserliana, in «Archivio di filosofia», LVII, 1-3, 1989, pp. 377-394. In merito al tema trattato, ovvero il rapporto tra i due pensatori visto alla luce della prospettiva assunta da Cartesio in tale confronto, si veda P.A. Rovatti, La posta in gioco. Heidegger, Husserl, il soggetto, Bompiani, Milano, 1987; R. De Biase, L’interpretazione heideggeriana di Descartes, cit., pp. 11-159; R. Morani, Soggetto e modernità, cit., pp. 244- 295.[/ref]; tuttavia, non ci si esimerà dal tracciare, seppur brevemente, il rapporto tra Husserl e Heidegger nel periodo precedente alla pubblicazione di Essere e tempo. È in tale periodo, infatti, che Cartesio subirà una vera e propria riabilitazione, arrivando Heidegger a identificarlo come il luogo, nella filosofia occidentale, nel quale avviene un’accelerazione storica colpevole di aver impedito a Husserl la completa attuazione delle potenzialità insite nella sua scoperta.

Jean-Luc Marion richiama l’attenzione su un fatto curioso: nel 1923-24, in contesti diversi, Heidegger e Husserl citavano contemporaneamente Cartesio, esprimendone pareri opposti. Se il primo ne dava una lettura (paradossalmente: fenomenologica) negativa, il secondo spendeva per il francese parole di elogio[ref]Ci si riferisce al corso heideggeriano del 1923-24 (Einführung in die phänomenologische Forschung) e alle lezioni friburghesi di Husserl, poi raccolte nell’opera Erste Philosophie (cfr. J.-L. Marion, L’‘ego’ cartesiano e le sue interpretazioni fenomenologiche: al di là della rappresentazione, in J.-R. Armogathe e G. Belgioioso [a cura di], Descartes metafisico. Interpretazioni del Novecento, Istituto della Enciclopedia Italiana Treccani, Roma, 1994, pp. 181). È giusto sottolineare i diversi riferimenti che l’analisi heideggeriana della fenomenologia andava assumendo al principio degli anni Venti: l’attenzione è riposta, infatti, soprattutto sulle Idee per una fenomenologia trascendentale e una filosofia fenomenologica, testo husserliano nel quale «l’intenzionalità viene definitivamente risolta nell’auto-fondazione di una coscienza pura e assoluta, il cui essere cioè è identificato esaurientemente in una struttura ideale o essenza idealizzata» (C. Esposito, Il periodo di Marburgo (1923-28) ed «Essere e tempo», cit., p. 125).[/ref]. Questa coincidenza deve restare tale. Pur tuttavia ci suggerisce che, proprio quando lo “scontro” tra i due tedeschi assumeva radicalità e incisività, entrambi si sentivano chiamati ad “appellarsi” alla figura di Cartesio: l’uno per attaccare le tesi dell’altro.

Se è vero che «la fenomenologia husserliana aveva […] legato il suo destino a quello dell’interpretazione di Descartes»[ref]J.-L. Marion, L’‘ego’ cartesiano e le sue interpretazioni fenomenologiche, cit., p. 183.[/ref], possiamo dedurre che Heidegger – nell’intento di indagare la radice ontologica della fenomenologia (e per lui significava analizzarne le tre scoperte fondamentali: «in primo luogo l’intenzionalità, poi l’intuizione categoriale e infine il senso autentico dell’apriori»),[ref]M. Heidegger, Prolegomeni alla storia del concetto di tempo, cit., p. 34.[/ref] nel progetto sistematico di «un trapasso dalla prospettiva trascendentale a quella ontologico-ermeneutica»[ref]F. Volpi, La trasformazione della fenomenologia da Husserl a Heidegger, cit., p. 129.[/ref] – fosse necessariamente “costretto” ad individuare in Cartesio il punto archimedeo sul quale attuare la presa di distanza. Le strade che Heidegger indicava come percorribili erano due:

Cartesio è fenomenologo perché anticipa Husserl; la fenomenologia husserliana non è pienamente fenomenologica, perché resta prigioniera di ‘deliberazioni’ cartesiane non sottoposte a critica. Heidegger sceglie senza indugi la seconda via.[ref]J.-L. Marion, L’ego cartesiano e le sue interpretazioni fenomenologiche, cit., p. 183.[/ref]

 Se Husserl, quindi, travisa il senso generale della fenomenologia, privilegiandone l’elemento «teoretico-razionale e specialmente teoretico-conoscitivo e [quello costituito dall’idea] di una scientificità assoluta e rigorosa»[ref]M. Heidegger, Prolegomeni alla storia del concetto di tempo, cit., p. 163.[/ref], lo fa perché «torna ad adagiarsi nella tradizione»[ref]Ivi, p. 162.[/ref]. Di quale tradizione si tratta? Appunto,

nel caso di Husserl, si tratta della recezione della tradizione cartesiana e della problematica della ragione che ne deriva.[ref]Ivi, pp. 162-163. Heidegger, inoltre, adotta maggiore precisione; criticando le quattro determinazioni della coscienza pura husserliana, come essere immanente, esser dato assolutamente nel senso dell’assoluta datità, esser dato assolutamente nel senso del “nulla re indiget ad existendum”, esser puro («ideale, cioè non reale» [ivi, p. 133]), evidenzia che «l’istanza primaria che lo guida [Husserl] è l’idea di una scienza assoluta. Questa idea: ossia che la coscienza deve essere regione di una scienza assoluta, non è semplicemente inventata, ma assilla la filosofia moderna a partire da Cartesio» (ivi, p. 134).[/ref]

Mostrato che Husserl, pur nell’intento di una generale epochè trascendentale, non riesce a svincolarsi da concetti di matrice cartesiana, resta da chiarire di cosa fosse stato allora manchevole Cartesio. Quale errore compì, tale che, dopo tre secoli, ricadde su Husserl, facendogli fallire il progetto fenomenologico?

Cartesio voleva trovare un fundamentum absolutus e inconcussum capace di fondare «la filosofia su basi nuove e più sicure»[ref]M. Heidegger, Essere e tempo, cit., p. 38. Baillet, che riorganizzò le carte cartesiane dell’inventario di Stoccolma, scrive: «Egli stesso ci dice che il 10 novembre 1619, essendo andato a letto “tutto pieno del suo entusiasmo” e tutto preso dal pensiero “di aver trovato quel giorno i fondamenti di una scienza meravigliosa” […]» (R. Cartesio, Olympica, trad. it. E. Garin, in Opere filosofiche, 4 voll., a cura di E. Garin, Laterza, Roma-Bari, vol. I, 2009, p. 4). Non deve stupire se, invece di “filosofia”, il giovane Cartesio parla di “scienza” (‘mirabilis scientiae!): gli sforzi giovanili di Cartesio erano, infatti, volti a fondare un sapere universale che possedesse un principio (un fondamento) tanto certo ed indubitabile che da esso potesse dedursi ogni sapere: anche la filosofia (anche il soggetto pensate, anche Dio). Cfr. F. Alquié, L’idea originaria di un metodo e di una scienza universali (1619-1628), in Lezioni su Descartes. Scienza e metafisica in Descartes, a cura di T. Cavallo, ETS, Pisa, 2006, pp. 9-24.[/ref]. Pensò di scorgerlo quando, sospinto il mondo nell’abisso del dubbio, si accorse che v’era qualcosa dal quale ogni ente di cui si dubitava doveva dipendere. Cosa trovò Cartesio? Non è possibile dare una risposta univoca, ma è necessario avanzare una distinzione[ref]Questa distinzione permetterà di comprendere appieno la sottile ambivalenza che l’analisi heideggeriana mostra in questi anni. Infatti, se Heidegger impiega una serie considerevole di “energie fenomenologiche” per criticare gli esiti teoreticistici e cosalistici del pensiero cartesiano (e quelli che questo ha imposto alla filosofia a seguire – fra tutti, a Kant), contemporaneamente, con sempre misurata prudenza, indicherà alcune possibilità  interpretative da adottare nei riguardi di Cartesio, in grado di collocarlo in una “dimensione ermeneutica” nella quale esso sia capace di dialogare positivamente con presente (ovvero con l’ontologia fondamentale del Dasein).[/ref].

Prior fundamentum (absolutus): l’esistere di un qualcosa, la cui esistenza (non meglio specificata) permette il dubitare[ref]Scrive Cartesio nella Seconda Meditazione: «Ma allora, non sarò qualcosa almeno io? […] Esistevo di certo, se mi sono persuaso di qualcosa! […] non potrà [il genio maligno] mai far sì che io non sia niente, fintantoché penserò di essere qualcosa. Così […] alla fine si ha da stabilire che l’asserto io esisto è impossibile che non sia vero» (R. Cartesio, Meditazioni metafisiche, trad. e intr. di S. Landucci, Laterza, Roma-Bari, 2009, p. 40). Nel testo latino l’espressione «io esisto» è resa, più chiaramente, con «ego sum, ego existo» (cfr. ivi, p. 39).[/ref]. Questa esistenza è la mia esistenza (‘ego sum). La mia: di colui che dubita.
Alter fundamentum (inconcussum): nel nulla in cui io sono inserito come esistente (come indefinito ego sum), specifico la mia natura di res dubitante, cioè di res pensante. Tuttavia, poiché ciò che devo individuare è una certezza (una verità), abbisogno di una proposizione nella quale siano espresse una causalità ed una consequenzialità: cogito, ergo res cogitans sum[ref]Sono note le parole del Discorso: «E osservando che questa verità, penso dunque sono, era così salda e certa da non poter vacillare sotto l’urto di tutte le più stravaganti supposizioni degli scettici, giudicai di poterla accettare senza scrupolo come il primo principio della filosofia che cercavo. […] conobbi così di essere una sostanza [une substance] la cui essenza o natura era esclusivamente di pensare, e che per esistere non ha bisogno di alcun luogo e non dipende da alcuna causa materiale» (R. Cartesio, Discorso sul metodo, trad. it di M. Garin, intr. di T. Gregory, Laterza, Roma-Bari, 2008, pp. 44-45, corsivo mio).[/ref].

Heidegger ha chiare queste due distinzioni, e le conseguenze (gli approcci filosofici, di pensiero) da esse derivanti. Non solo. Comprende perfettamente anche l’imporsi di una sola di queste – e, quindi, di una ben determinata problematica filosofica – nella storia della filosofia post Cartesio: la linea-guida che dominerà il pensiero moderno, arrivando ad esercitare in toto la sua influenza anche nella fenomenologia husserliana, è la seconda. L’imporsi con Cartesio della “cura della conoscenza conosciuta”[ref]Con quest’espressione (Sorge um die erkannte Erkenntnis) Heidegger indica, nel primo corso marburghese del  1923-24, il carattere costitutivo della res cogitans e della coscienza husserliana, nell’intento di sottolinearne l’inconciliabile differenza con la Cura (Sorge) del Dasein (cfr. R. Morani, Soggetto e modernità. Hegel, Nietzsche, Heidegger interpreti di Cartesio, Franco Angeli, Milano, 2007, p. 255). «Affrancandosi dalle cose, la conoscenza si avvita su se stessa e si preoccupa soltanto di conseguire la propria autofondazione mediante la scoperta e la conseguente applicazione di un principio di evidenza apodittica. Funzionale a questa svolta epistemologico-teoretica risulta la nozione di verità quale incontrovertibile validità di un enunciato, una dottrina che smarrisce la sua accezione aristotelica di disvelamento e si pone sotto il rassicurante dominio del logos apofantico» (ibidem). Quest’aspetto solleva un’ulteriore questione, la cui importanza impedisce di tralasciarla: la cura della conoscenza conosciuta, per Heidegger, inizia non con Cartesio, ma con Aristotele e la sua scelta «di anteporre la dianoetica alle altre capacità della psyché» (ivi, p. 259). Cartesio, quindi, funge da “catalizzatore storico”: accelera il processo di imposizione della cura della conoscenza conosciuta fino a farle assumere «un’impronta totalizzante», ma non produce, come invece dirà in seguito Heidegger, un pensiero nuovo.[/ref], in cui è privilegiato l’elemento gnoseologico, comporta il ripresentarsi dell’“errore cartesiano”, con diverse forme, in tutta la filosofia successiva. E quest’errore, che per Heidegger è causa del naufragio fenomenologico di Husserl, è la mancata indagine ontologica della res cartesiana e quindi anche della coscienza husserliana:

Due fondamentali lacune possono essere constatate nei riguardi del problema dell’essere [nella scoperta cartesiana della res cogitans e nella ricerca fenomenologia di Husserl]: in primo luogo, si tralascia il problema dell’essere di questo ente specifico [dell’uomo]; in secondo luogo, è tralasciato il problema del senso dell’essere stesso.[ref]M. Heidegger, Prolegomeni alla storia del concetto di tempo, cit., p. 144.[/ref]

Quindi, l’errore di Cartesio, per Heidegger, fu di sottomettere la propria intuizione (l’esistenza di un io) al peso della tradizione (la sostanzialità dell’io)[ref]«Quando Cartesio pone in generale il problema dell’essere di un ente, egli si interroga, nel senso della tradizione, sulla sostanza» (ivi, p. 209).[/ref]: quello che avrebbe dovuto fare (per giungere veramente alla conquista di un nuovo principio) era interrogarsi sul sum dell’ego, esplicitare l’ontologia di quell’esistenza allora indeterminata, indagandola nel suo essere. Invece, la dipendenza (linguistico-concettuale) dalla Scolastica lo indusse a ritenere l’io ontologicamente uguale a tutti gli altri enti – ridusse l’ego a res, più precisamente: a un ens creatum[ref]«La res cogitans è determinata ontologicamente come ens, e il senso dell’essere dell’ens è quello stabilito dall’ontologia medievale, che intende l’ens come ens creatum» (M. Heidegger, Essere e tempo, cit., pp. 38-39).[/ref]. Non solo, quindi, l’ontologia cartesiana è manchevole di qualsiasi originalità filosofia, ma anche la determinazione ontica dell’uomo è siffatta che non giunge ad attribuire all’ente-uomo alcun primato rispetto agli enti difformi da esso[ref]Nel corso del 1923-24, Heidegger enucleando le ragioni che certificano la corrispondenza tra il cogito e la cura della conoscenza conosciuta, si sofferma, nell’ultimo aspetto trattato, sulla «mancata interrogazione ontologica della res cogitans» (ivi, p. 276). Scrive Heidegger: «La proposizione cogito sum è il risultato nella forma del fundamentum absolutus simplex, presso cui Descartes si acquieta. […] La questione dell’essere della res cogitans è svolta una volta per tutte. Non si presenta più in Cartesio, poiché per Cartesio non si tratta di giungere da questo fundamentum […] sulla via della deductio a ulteriori proposizioni sulle connessioni dell’essere. [Da ciò consegue che] la base dell’essere è l’esse certum. Fin dall’inizio l’orientamento della ricerca è tale che non si propone affatto di porre una questione dell’essere, nel senso di manifestare liberamente ciò che indaga cosicché esso si esprima a partire dal proprio carattere d’essere. Ciò che è cercato può entrarci solo se soddisfa il senso dell’essere che gli viene attribuito dalla ricerca: essere nel senso dell’esse certum» (M. Heidegger, Einführung in die phänomenologische Forschung, cit. in R. Morani, Soggetto e modernità, cit., p. 51 n).[/ref].
Husserl eredita questi “errori” nel suo pensiero, precludendosi l’approfondimento dell’ originaria (quindi, ontologica) radice della coscienza pura. Infatti, le quattro determinazioni fondamentali che la caratterizzano, per Heidegger, «gli vengono attribuite nella misura in cui questa coscienza come coscienza pura viene posta in determinate angolazioni prospettiche»[ref]M. Heidegger, Prolegomeni alla storia del concetto di tempo, cit., p. 135. Heidegger giustifica scrivendo: «Se la coscienza viene considerata come appresa, si può dire che è immanente; se viene considerata rispetto al suo modo di datità, si può dire che è data assolutamente. Circa il suo ruolo come essere costituente, come ciò in cui ogni altra realità si annuncia, è essere assoluto nel senso del nulla re indiget ad existundum; rispetto alla sua essenza, al suo che-cosa, è essere ideale […]» (ibidem). Cfr. ivi, pp. 129-134.[/ref], cioè «sono tali che non vengono attinte dall’ente stesso»[ref]Ivi, p. 135.[/ref], e, quindi, sono «determinazioni che determinano la regione in quanto regione, ma non riguardano l’essere della coscienza stessa»[ref]Ibidem.[/ref].
In particolare, l’omissione husserliana di una trattazione ontologica della coscienza porta la fenomenologia dinanzi ad un’aporia difficilmente solvibile, che Heidegger evidenzia quando tratta della «coscienza pura come regione propria dell’essere»:[ref]Ivi, p. 119.[/ref] se la coscienza, à la Husserl, è sempre separata, con una frattura assoluta, dalla natura reale «di qualsiasi essere umano fattuale»[ref]Ivi, p. 123. Questo, specifica Heidegger, è indicato chiaramente da «ogni percezione della cosa nella differenza fra immanenza e trascendenza» (ibidem).[/ref], ma, allo stesso tempo, in quanto «componente [dell’] unità animale»[ref]Ibidem.[/ref], è ad essa «unita realmente»[ref]Ibidem.[/ref], resta da chiedersi: com’è in generale possibile

che la coscienza pura, che deve essere separata per mezzo di una cesura assoluta da ogni trascendenza, si unifichi al tempo stesso con la realtà nell’unità di un uomo reale, che pure a sua volta si presenta come oggetto reale nel mondo? Com’è possibile che i vissuti costituiscano una regione dell’essere assoluta e pura e nello stesso tempo si verifichino nella trascendenza del mondo? Questa è l’impostazione problematica in cui si muove la rilevazione del campo fenomenologico della coscienza pura in Husserl.[ref]Ivi, p. 127.[/ref]

È evidente che si ritrova qui espressa, con altri metodi e con altri intenti filosofici, la stessa problematica espressa da Cartesio: la corrispondenza reale dell’ente oggettivo («i corpi che vediamo e tocchiamo»)[ref]R. Descartes, Meditazioni metafisiche, a cura e trad. it. di S. Landucci, Laterza, Roma-Bari, 2009, p. 49.[/ref] con l’idea dell’ente stesso nella sfera del mio pensiero – ovvero della res cogitans con la res extensa[ref]Corrispondenza richiesta dalla loro originaria separazione. Si legge nei Principi: «Mi sembra anche che questo punto sia assolutamente il migliore che possiamo scegliere per conoscere la natura dell’anima, e che essa è sostanza affatto distinta dal corpo: […] per esistere, non abbiamo bisogno di estensione, di figura, di essere in qualche luogo e di nessun’altra cosa che si può attribuire al corpo, e che esistiamo per il fatto solo che pensiamo» (R. Cartesio, Principi della filosofia, trad. it. A. Tilgher, in Opere, 2 voll., 1967, a cura di E. Garin, Laterza, Bari, vol. II, 1967, p. 28). Inoltre, cfr. R. Descartes, Discorso sul metodo, cit., p. 45. [/ref]. L’essenziale richiamo fra i due autori è definitivamente chiarito da Heidegger quando dice che

certamente quello che su un livello superiore dell’analisi fenomenologica è stato enucleato come coscienza pura, è il campo che Cartesio ha in mente sotto il titolo di res cogitans, il campo complessivo delle cogitationes, mentre il mondo trascendente, il cui indice esemplare è individuato da Husserl allo stesso modo nello strato fondamentale del mondo materiale delle cose, in Cartesio è caratterizzato come res extensa.[ref]M. Heidegger, Prolegomeni alla storia del concetto di tempo, cit., p. 126.[/ref]

Resta da esplicitare l’esito ultimo a cui Heidegger giunge. La fenomenologia, pur proponendosi di andare “alle cose stesse”, rientra «definitivamente in quella logica […] moderna di soggetto-oggetto»[ref]C. Esposito, Il periodo di Marburgo (1923-28) ed “Essere e tempo”, cit., p. 125.[/ref] colpevole di non esplicare la relazione originaria tra i due – e quindi «risulta non fenomenologica!»[ref]M. Heidegger, Prolegomeni alla storia del concetto di tempo, cit., p. 161.[/ref]. In conclusione, poiché «il domandare fenomenologico conduce, secondo i suoi tratti più intimi, proprio alla domanda circa l’essere dell’intenzionale e soprattutto dinanzi la domanda circa il senso dell’essere in generale»[ref]Ivi, p. 166 (corsivo mio).[/ref] e poiché tale domanda non è stata ancora affrontata dalla fenomenologia, quello che si dovrà fare, per giungere ad una comprensione autentica tanto dell’essere interrogato quanto dell’essere di colui che interroga, sarà porre nuovamente la domanda sull’essere.
Porre tale domanda, e cercarle una risposta, sarà il compito di Essere e tempo.

2. ‘Essere e tempo’: dialettica della soggettività.

Ma … s’illuminano le lampade, e sul vetro tutt’a un tratto ecco apparire un frammento di viso. […] Se mi avvicino un po’ a quest’io spezzettato d’ombre che mi guarda, l’eclisso, mi abolisco, divento il caos notturno.[ref]P. Valéry, Il suono della voce umana.Variazioni su Cartesio, a cura di F. C. Papparo, Filema, Roma, 2008, p. 38.[/ref]

Nel § 8 di Essere e tempo Heidegger, tracciando lo “schema dell’opera”, annuncia il contenuto tanto dalla prima, quando dalla seconda parte. Questa non vedrà mai la luce, ma lascia chiari gli intenti: «Una distruzione fenomenologica della storia dell’ontologia sulla scorta del problema della temporalità [Temporalität]»[ref]M. Heidegger, Essere e tempo, cit., p. 56.[/ref]. La seconda sezione di questa seconda parte avrebbe dovuto lasciar spazio ad un dettagliato confronto con Cartesio, con lo scopo di studiare «il fondamento ontologico del sum […] e l’assunzione dell’ontologia medievale nella problematica della res cogitans»[ref]Ibidem.[/ref]. Pur venendo alla luce solo le prime due sezioni della prima parte, nei luoghi dell’opera in cui il confronto con Cartesio è esplicito, lo sforzo ermeneutico heideggeriano si avvale di una particolare “dialettica della soggettività” capace di mantenere, nella penetrazione fenomenologica tanto della soggettività tradizionale quanto del Dasein, la figura di Cartesio in un’ambiguità interpretativa costante.

È subito da chiarire un aspetto: le osservazioni su Cartesio sono, quasi sempre, negative[ref]Questa presa di posizione drastica non è, invece, riscontrabile nei riguardi di altri pensatori. Nel § 8, parlando di Kant, Heidegger non esita a riconoscere che fu «il primo e l’unico che percorse un tratto di strada nel senso della ricerca della dimensione della temporalità» (ivi, p. 37). Inoltre, se esso abbandona questa ricerca lo fa perché «accetta dogmaticamente la posizione di Cartesio. […] Per effetto dell’assunzione della posizione ontologica di Cartesio, Kant omette una cosa essenziale: l’ontologia dell’Esserci» (ivi, p. 38).[/ref], collocandosi in terreni di confronto caratterizzati da una forte dinamica distruttiva – terreni nei quali Heidegger si sforza di prendere (apertamente) distanza dagli assunti cartesiani.
Tuttavia, al di là degli intenti programmaticamente dichiarati da Heidegger, si tenterà di mostrare come, offuscato dalla maestosa critica distruttiva, in Essere e tempo vi sia anche un tentativo (sempre prudente) di riappropriarsi di alcune energie racchiuse nel pensiero cartesiano, e mai espresse. Alla critica dell’omissione della mondità del mondo da parte di Cartesio, si farà seguire una breve analisi volta e mostrare il “volto di Giano” dell’interpretazione heideggeriana.

2.1. L’omissione cartesiana della mondità del mondo[ref]Tale critica si trova già, praticamente identica, nel § 22 dei Prolegomeni alla storia del concetto di tempo (M. Heidegger, Prolegomeni alla storia del concetto di tempo, cit., pp. 208-226). Tuttavia, poiché le ragioni che inducono Heidegger a confrontarsi con Cartesio sul terreno della mondità del mondo dipendono e dalla configurazione dell’analitica esistenziale del Dasein e dalla piena maturazione del suo progetto ontologico, e poiché questi aspetti trovano come luogo principe d’espressione Essere e tempo, si è preferito analizzare tale confronto in questo paragrafo.[/ref]

Se nei Prolegomeni alla storia del concetto di tempo Heidegger aveva già individuato l’aporia insolvibile alla quale giungeva la fenomenologia husserliana accettando l’assoluta separazione tra la coscienza intenzionale e l’oggetto intenzionato, tale che si sarebbe richiesta una “fuoriuscita” da una «“sfera interna” [ad] un’altra, “diversa ed esterna”»[ref]M. Heidegger, Essere e tempo, cit., p. 82.[/ref], in Essere e tempo dichiara l’insolvibilità di tale rapporto declinandolo nei termini di Esserci e mondo[ref]Se in precedenza si trattava di “assecondare” la fenomenologia, seguendola nel suo lacunoso terreno teoretico-gnoseologico, ora Heidegger “aggira” la problematica soggetto-oggetto affrontandola fin da subito dal punto di vista ontologico, ovvero esplicitandola nell’analitica esistenziale dell’Esserci.[/ref].
Affrontando, nel § 13, il problema della «conoscenza del mondo» Heidegger afferma

che ancor oggi il conoscere è assunto come una “relazione tra soggetto e oggetto”, il che è tanto “vero” quanto vuoto. Soggetto e oggetto non coincidono con Esserci e mondo.[ref]Ivi, p. 81. La drasticità con cui Heidegger nega tale raffronto è indicata ancor meglio da una nota a margine nella sua copia personale di Essere e tempo, accanto alla frase qui citata. Scrive: «Certo che no! Così poco che già con la combinazione risulta fatale anche la repellenza» (ibidem).[/ref]

Questa coincidenza è tanto meno opportuna, quanto più la tradizione filosofica si è impegnata a trovare nella relazione conoscitiva un “ponte” che, in diversi modi, fosse in grado di collegare le sponde, altrimenti separate, di soggetto e oggetto.
Tuttavia, lo ripetiamo, l’oscurità caratteristica del rapporto conoscitivo è causata dalla mancata posizione del problema ontologico. Solo ora è possibile capire fino in fondo la portata rivoluzionaria della posizione heideggeriana.

Trattare ontologicamente la relazione problematica, “enigmatica” tra soggetto e oggetto, tra uomo e mondo significa paradossalmente chiarire in primo luogo, e soprattutto, «perché mai il conoscere sia tale da costituire un simile enigma»[ref]Ivi, p. 82.[/ref], ovvero, se nel conoscere il rapporto tra uomo, in termini di Esserci, e mondo sia siffatto da portare inevitabilmente ad aporie di stampo teoreticistico o, piuttosto, non debba risolversi positivamente in una coappartenenza originaria di entrambi.
Infatti, dopo aver chiarito la costituzione fondamentale dell’Esserci come essere-nel-mondo (In-der-Welt-sein)[ref]In particolare, Heidegger distingue i tre momenti che compongono la formula essere-nel-mondo, pur presentandola da subito come un «fenomeno unitario» (ibidem): «1) “nel mondo”: in ordine a questo momento occorre indagare la struttura ontologica del “mondo” e determinare l’idea di mondità come tale […]. 2) L’ente che è sempre nel modo dell’essere-nel-mondo […]. 3) L’in-essere come tale […]» (ivi, p. 73-74). Di particolare importanza sono le brevi considerazioni sull’in-essere proposte da Heidegger nel § 12 (cfr. ivi, p. 74), poiché introducono al “problema” della «conoscenza del mondo» (ivi, pp. 81), presentato come una «esemplificazione dell’in-essere attraverso un modo in esso fondato» (ibidem). La trattazione dell’in-essere come tale è svolta nel capitolo quinto della prima sezione (cfr. ivi, pp. 163-220).[/ref], Heidegger scrive:

Il conoscere è un modo di essere dell’Esserci in quanto essere-nel-mondo e […] ha la sua fondazione ontica in questa costituzione ontologica.[ref]Ivi, p. 82.[/ref]

Cadono i “ponti”. La necessità di trovare un legame tra un “dentro” e un “fuori” viene meno, se si comprende che «nel dirigersi verso … e nel cogliere, l’Esserci non esce da una sua sfera interiore, in cui sarebbe dapprima incapsulato»[ref]Ivi, p. 84.[/ref], ma che, in quanto Esser-ci, nella sua apertura «è cooriginariamente svelato rispetto al mondo […]»[ref]Ivi, p. 244.[/ref].
Non si tratta, quindi, nell’atto conoscitivo del mondo, di “uscire”, poiché l’Esserci è «già sempre “fuori” presso l’ente che incontra in un mondo già sempre scoperto»[ref]Ivi, p. 84.[/ref].

Nel § 43, contenuto nel sesto capitolo della prima sezione, Heidegger esplicita ulteriormente la questione, rapportandola al problema della realtà come essere del “mondo esterno” e della conseguente necessità di poterlo dimostrare. Dopo aver ribadito, stravolgendo una frase di Kant, che «“lo scandalo della filosofia” non consiste nel fatto che finora questa dimostrazione non è ancora stata data, ma nel fatto che tali dimostrazioni continuino ad essere richieste e tentate»[ref]Ivi, p. 249. [/ref], Heidegger, con tagliente chiarezza, afferma:

Il problema non è quello di dimostrare che e come sussista un “mondo esterno”, ma di spiegare perché l’Esserci, in quanto essere-nel-mondo, abbia la tendenza a relegare nel nulla il “mondo esterno” mediante una riduzione “gnoseologica”, per doverlo poi dimostrare come sussistente. La causa di tutto ciò sta nella deiezione dell’Esserci e nel conseguente smarrimento della comprensione primaria dell’essere mediante la sua interpretazione come semplice-presenza. All’interno di questo orientamento ontologico, l’impostazione “critica” del problema trova come realtà semplicemente-presente innanzi tutto e unicamente certa solo la mera “interiorità”. Dopo aver infranto il fenomeno originario dell’essere-nel-mondo, si cerca di gettare un ponte fra i suoi tronconi che rimangono, il soggetto isolato e il “mondo”.[ref]Ivi, p. 251. [/ref]

Quando Heidegger scrive queste righe si riferisce, come testimoniano le citazioni poco precedenti, a Kant[ref]«L’aggrovigliarsi dei problemi, la confusione fra ciò che si vuol dimostrare, ciò che è dimostrato e ciò con cui la dimostrazione è condotta si rivela nella “Confutazione all’idealismo” di Kant» (ivi, p. 247).[/ref]. Tuttavia non pare improbabile, ma, anzi, quasi inevitabile, viste le premesse tratte dai corsi marburghesi precedenti al 1927, estendere queste considerazioni anche alla posizione di Cartesio (come non ricordare, inoltre, che proprio la sesta delle Meditazioni aveva titolo L’esistenza delle cose materiali, e la distinzione reale della mente dal corpo?)[ref]R. Descartes, Meditazioni metafisiche, cit., p. 119.[/ref].

Non è un caso, quindi, che Cartesio compaia nei §§ 19-21 del terzo capitolo della prima sezione, interamente dedicatigli. Il titolo del punto B del terzo capitolo, in cui sono compresi i suddetti paragrafi, è fin troppo chiaro: «Contrapposizione dell’analisi della mondità all’interpretazione del mondo in Cartesio»[ref]M. Heidegger, Essere e tempo, cit., p. 115. Corsivo mio.[/ref]. Si tratta, dunque, da parte di Heidegger di opporre all’analisi ontologica del mondo, il cui significato genuino è tratto a partire dall’analitica esistenziale dell’Esserci, un contro esempio «negativo»[ref]Ibidem.[/ref] che possa mostrare «perché l’Esserci, nel modo di essere della conoscenza del mondo, salta onticamente e ontologicamente il fenomeno della mondità»[ref]Ivi, p. 88.[/ref].

Heidegger avanza subito una distinzione. Il termine substantia, pur indicando nel suo significato generale l’«essere di un ente che è in se stesso»[ref]Ivi, p. 116.[/ref], veicola due concetti fondamentali, di natura diversa: da un lato, l’essere di un ente che è in quanto sostanza, ovvero la sostanzialità, dall’altro, l’ente stesso, cioè una determinata sostanza. In seguito, relaziona tale distinzione alla teoria cartesiana della res corporea, chiedendosi se sia possibile determinare, a partire dai testi cartesiani, la sostanzialità della res corporea[ref]«La determinazione ontologica della res corporea richiede l’esplicazione della sostanza, cioè della sostanzialità di questo ente in quanto è una sostanza» (ibidem). Si legge nei Principi: «Ma poiché tra le cose create alcune son di tale natura da non poter esistere senza alcune altre, noi le distinguiamo da quelle che non hanno bisogno che del concorso ordinario di Dio, chiamando queste sostanze, e quelle, qualità o attributi di queste sostanze» (R. Cartesio, Principi della filosofia, cit., p. 52).[/ref].
Ogni sostanza possiede degli “attributi”: proprietà specifiche della sostanza stessa capaci di esprimerne «l’essenza della sostanzialità»[ref]M. Heidegger, Essere e tempo, cit., p. 116.[/ref]. L’attributo che esprime la sostanzialità della sostanza corporea è rintracciato da Heidegger nell’extensio: «L’essere della res corporea è l’extensio»[ref]Ivi, p. 118.[/ref].

Individuata qual è la sostanzialità (l’essere) della res corporea, Heidegger prosegue cercando di verificarne la legittimità dei fondamenti ontologici. Sennonché, Heidegger, richiamandosi ai Principi («Ma quando si tratta di sapere se qualcuna di queste sostanze esiste veramente, cioè se essa è attualmente nel mondo, non basta che esita in questo modo perché noi la percepiamo […]. Bisogna, oltre di questo, che essa abbia alcuni attributi»)[ref]R. Cartesio, Principi della filosofia, cit., p. 52 (corsivo mio). La citazione, riportata in latino, è in M. Heidegger, Essere e tempo, cit., p. 120.[/ref], sottolinea l’ambiguità in cui cade vittima Cartesio, riconoscendo nell’estensione la sostanzialità della sostanza corporea e insieme dichiarando la sostanzialità inaccessibile in se stessa a partire sa se stessa, ma coglibile solo tramite un suo attributo.
Stando così le cose, è evidente per Heidegger che Cartesio confonde il principale attributo della res corporea, ovvero l’extensio[ref]Si legge nel 53 dei Principi: «Ma, benché ogni attributo sia sufficiente per far conoscere la sostanza, ve n’ha tuttavia uno in ognuna, che costituisce la sua natura o essenza, e dal quale tutti gli altri dipendono. Cioè l’estensione […] costituisce la natura della sostanze corporea; ed il pensiero costituisce la natura della sostanza pensante» (R. Cartesio, Principi alla filosofia, cit., pp. 52-53). [/ref], con il suo carattere dell’essere, in un’ambiguità generale che gli impedisce di comprendere l’autentica sostanzialità della sostanza corporea. Heidegger, quindi, può conclude asserendo che

in questa determinazione della sostanza in base a un ente sostanziale sta la ragione del doppio significato del termine. Si mira alla sostanzialità e la si intende come una qualità ontica della sostanza. Poiché l’ontico sottende l’ontologico, l’espressione substantia è intesa ora in senso ontologico, ora in senso ontico, ma per lo più in un senso confusamente ontico-ontologico.[ref]M. Heidegger, Essere e tempo, cit., p. 121.[/ref]

Cartesio omette la trattazione autentica della mondità del mondo, credendo di aver trovato nell’estensione l’essere dell’ente. Ciò che più di ogni cosa lo ostacola nell’elaborare un’ontologia del mondo è, per Heidegger, «il predominio incontrastato dell’ontologia tradizionale»[ref]Ivi, p. 123.[/ref], la quale è soprattutto: «essere = semplice-presenza costante»[ref]Ibidem. Il ragionamento heideggeriano può così esser riassunto: è importante stabilire una via d’accesso privilegiata al fenomeno della mondità; tale via è ricavata da Cartesio «nel conoscere, l’intellectio» (ivi, p. 122); tale conoscere è inteso «nel senso del conoscere fisico-matematico» (ibidem); nel rapporto conoscitivo matematico, l’ente conosciuto è «caratterizzato dall’esser sempre ciò che è. Ne deriva che si assumerà come essere autentico dell’ente che si esperisce nel mondo quello di cui si potrà dimostrare il carattere di permanenza costante […]. È autenticamente ciò che permane perennemente» (ibidem).[/ref].
Dunque, di contro ad ogni sottolineatura del carattere matematico del pensiero cartesiano, che pur è presente, Heidegger tuttavia riconosce come

ciò che determina l’ontologia del mondo [come extensio] non è in primo luogo il ricorso a una scienza casualmente privilegiata, la matematica, ma l’assunto ontologico fondamentale dell’essere come semplice-presenza costante.[ref]Ivi, p. 123. Un passo del § 43 recita: «Se l’espressione “realtà” significa, come infatti significa, l’essere dell’ente (res) semplicemente-presente dentro il mondo, l’analisi di questo modo di essere dovrà attenersi al seguente principio: l’ente che è dentro il mondo, l’ente intramondano, è determinabile ontologicamente solo se è stato chiarito il fenomeno dell’intramondanità. Ma quest’ultima si fonda nel fenomeno del mondo, il quale, da parte sua, in quanto momento essenziale della struttura dell’essere-nel-mondo, rientra nella costituzione fondamentale dell’Esserci. L’essere-nel-mondo, a sua volta, è legato ontologicamente a quella totalità strutturale dell’essere dell’Esserci che fu caratterizzata come Cura. Sono questi i fondamenti e gli orizzonti la cui chiarificazione rende possibile l’analisi della realtà. Solo in questo contesto diviene comprensibile ontologicamente il carattere dell’in-sé» (ivi, pp. 253-254). Inoltre, si sottolinea, come già fatto, la dipendenza, anche qui espressa, di Cartesio con la tradizione. Solo che, questa volta, l’accento è posto da Heidegger più che sull’influenza esercitata dalla scolastica nel caratterizzazione la res come ens creatum, su Parmenide, ovvero sull’«inizio di quella tradizione ontologica […] che restò per noi decisiva» (ivi, pp. 127-128).[/ref]

Di fronte a tutte queste “mancanze” di Cartesio, inaspettatamente Heidegger non indietreggia voltando bruscamente le spalle ad ogni contenuto speculativo presente nei testi cartesiani, ma tenta un recupero in extremis di alcune posizioni filosofiche di fondo.
Due tentativi di recupero, in verità: il primo, più evidente ed esplicito, in relazione alla mondità del mondo e il secondo, estremamente più prudente, nella relazione cogito sum/res cogitans.

2.2. “ … mi sono state rivolte solo due obiezioni degne di nota”

Forse stupisce, considerato il percorso heideggeriano precedente ad Essere e tempo, che Heidegger, nei capitoli dedicati a Cartesio, là dove impiega il maggior numero di energie per realizzare il suo progetto distruttivo, si impegni, seppur timidamente, in una valorizzazione degli sforzi cartesiani di individuare un carattere dell’ente-mondo quanto più vicino a costituirne l’essere.
Heidegger, sorprendentemente, sostiene che nelle Meditazioni Cartesio non fosse solo preoccupato di «porre il problema “dell’io e del mondo” ma pretendesse risolverlo in modo radicale»[ref]Ivi, p. 125. Subito dopo, però, Heidegger chiarisce: «Se poi il suo orientamento ontologico di fondo sulla tradizione, alieno da ogni critica positiva e fedele, gli abbia reso impossibile scoprire una problematica ontologica dell’Esserci ordinaria e gli abbia inevitabilmente precluso l’accesso al fenomeno del mondo, provocando il capovolgimento dell’ontologia del “mondo” nell’ontologia di un determinato ente intramondano, tutto questo è quanto la discussione ora fatta intendeva dimostrare» (ibidem).[/ref].

Heidegger individua tale tentativo cartesiano di risolvere radicalmente il problema del rapporto uomo-mondo, senza ridurlo immediatamente ad una relazione gnoseologica tra soggetto conoscente e oggetto conosciuto, nella fondazione da parte della res extensa di tutte «le determinazioni che si presentano come qualità, ma che, “in fondo”, sono modificazioni quantitative dei modi dell’extensio stessa»[ref]Ivi, pp. 125-126, corsivo mio.[/ref]. Da queste “qualità” derivano poi, secondo Cartesio, delle qualità specifiche[ref]«Come il bello, il brutto, l’adatto, il non adatto, il conveniente e il non conveniente» (ibidem).[/ref], categorizzabili come «predicati di valore non quantificabili, in virtù dei quali le cose, dapprima soltanto materiali, vengono fornite di valore»[ref]Ibidem, corsivo mio.[/ref].

In questa caratterizzazione qualitativa e non quantitativa basata su quell’ente «che fonda nel suo essere ogni altro ente, cioè la natura materiale»[ref]Ivi, p. 125.[/ref], Heidegger vede prender forma la configurazione di quest’ente stesso come «mezzo utilizzabile»[ref]Ivi, p. 126.[/ref].
In chiusa al § 21, Heidegger scrive:

Se tuttavia si ricorda che la spazialità contribuisce evidentemente a costituire l’ente intramondano, diviene alla fine possibile un “salvataggio” dell’analisi cartesiana del “mondo”. Concependo il termini radicali l’extensio come praesuppostium di ogni determinazione della res corporea, Cartesio ha preparato la comprensione di un a priori il cui contenuto sarà fissato più rigorosamente da Kant. Entro certi limiti l’analisi dell’‘extensio’ resta indipendente dalla omissione di un’interpretazione esplicita dell’essere dell’ente stesso. L’assunzione dell’extensio come determinazione fondamentale del “mondo” ha un suo diritto fenomenologico […] [ref]Ivi, p. 128. In realtà Heidegger osserva grande cautela nell’attribuire meriti a Cartesio; infatti, dopo aver chiarito la possibilità che l’assunzione cartesiana dell’estensione  come sostanzialità della sostanza materiale si dia come fondamento per la costituzione dell’ente intramondano – attraverso la derivazione, dall’extensio, di proprietà di valore –, ricorda che Cartesio, «in verità, […] non colse l’essere della sostanza» (ivi, p. 127), in quanto, come detto prima, l’extensio è, di questa, un attributo – il principale, ma tale da non costituirne l’essere, comunque inaccessibile. Inoltre, Cartesio non riesce a svincolarsi dall’ontologia tradizionale che intende l’essere come semplice-presenza, e anche nella formulazione dei predicati di valore (i quali dovrebbero introdurre ad una definizione dell’ente intramondano, e quindi avvicinarsi ad una caratterizzazione della mondità del mondo), i valori stessi «sono determinazioni semplicemente-presenti di una data cosa. L’aggiunta di predicati di valore non può affatto fornire alcuna nuova spiegazione sull’essere dei “beni”, ma non fa che presupporre, anche per essi, il modo di essere della semplice-presenza» (ivi, p. 126). La conclusione a cui giunge Heidegger non può che essere coerente con il quadro programmatico generale di Essere e tempo e con le considerazioni fin qui svolte: «[…] il ricorso a essa [l’extensio] non rende possibile la comprensione ontologica della spazialità del mondo e della spazialità, scoperta per prima, dell’ente che si incontra innanzi tutto nel mondo-ambiente, e tanto meno la spazialità dell’Esserci stesso» (ivi, p. 128).[/ref]

Heidegger, quindi, pur consapevole che le posizioni cartesiane non possono in alcun modo (almeno nei loro punti essenziali) accordarsi al suo progetto filosofico, in quanto a respingersi vicendevolmente sono le stesse fondamenta ontologiche, tenta una valorizzazione proprio di queste posizioni, che pur si impegna a distruggere.
Il luogo in cui Heidegger, però, rischia “il tutto per tutto” è la distinzione tra res cogitans ed ego cogito, nel tentativo di condurle a due diverse modalità d’essere dell’Esserci.

Seguendo l’accurata analisi di Roberto Morani[ref]Di notevole spessore ermeneutico sono le considerazioni di Morani (qui richiamate) in merito al duplice atteggiamento di Heidegger nei confronti delle posizioni cartesiane. Cfr. R. Morani, Heidegger, Cartesio e la questione del soggetto, in Soggetto e modernità, cit., pp. 243-361. In particolare, sono rilevanti, per questi riguardi, le pagine conclusive del par. 3.2.3. (cfr. ivi, pp. 278-281), quelle del par. 3.2.4. (cfr. ivi, pp. 293-295) e, infine, l’intero punto ‘c’ del par. 3.2.5. (cfr. ivi, pp. 308-320).[/ref], si nota che, già a partire dagli anni Venti, Heidegger «instaura un duplice movimento di demarcazione e di riappropriazione della soggettività cartesiana, più precisamente di distacco dalla res cogitans e di presa di possesso dell’ego sum, in quanto anticipazione del Dasein»[ref]Ivi, p. 308.[/ref].
Non si può, quindi, guidati da questi suggerimenti interpretativi, restare indifferenti a quanto scritto da Heidegger in chiusura del punto ‘b’ del § 43:

Se il cogito dovesse servire come punto di partenza dell’analitica esistenziale dell’Esserci, esso dovrebbe non solo essere invertito, ma altresì sottoposto ad una nuova verifica ontologico-fenomenologica del suo contenuto.[ref]M. Heidegger, Essere e tempo, cit., p. 256. Corsivo mio.[/ref]

Due aspetti di questa frase lasciano sconcertati.
Il primo: nello sforzo heideggeriano di formulare un’analitica dell’Esserci, capace di evidenziarne le forme autentiche e quelle deiette, con lo scopo di prendere da queste ultime le distanze – che si traduce nel congedo di una «soggettività autocentrata [in favore di] una figura eterocentrica del soggetto»[ref]R. Morani, Soggetto e modernità, cit., p. 257.[/ref] – Heidegger, dopo aver chiaramente criticato Cartesio per le sue omissioni ontologiche, arriva a ipotizzare che il cogito possa tradursi positivamente nel punto di partenza dell’analitica esistenziale stessa[ref]«Il fatto stesso che Heidegger lo riproponga [il cogito …] deve essere soprattutto inteso come la cauta e circospetta ammissione, prudentemente dissimulata dal periodo ipotetico, dello stretto legame fra l’ego e il Dasein, dell’assunzione entro il proprio pensiero dell’eredità cartesiana» (ivi, p. 309).[/ref].
Il secondo: non solo il cogito cartesiano viene, per un breve momento, investito di una dignità tale da presentarlo come momento preparatorio dell’analisi sull’Esserci, ma se ne auspica anche una rilettura fenomenologica capace di tradurre le sue potenzialità inespresse e di portare a manifestazione ciò che in esso non si è (ancora) manifestato. Heidegger, quindi, spiega in cosa consisterebbe questa «nuova verifica» e continua scrivendo:

La prima parte diverrebbe allora il sum e precisamente nel senso di: io-sono-in-un-mondo. In quanto tale, io «io sono» nella possibilità di esser-per diversi comportamenti (cogitaziones) quali modi di esser-presso l’ente intramondano.[ref]M. Heidegger, Essere e tempo, cit., p. 256.[/ref]

L’inversione di cogito sum in sum cogito permette a Heidegger di «radicare le cogitationes nella trascendenza del soggetto»[ref]R. Morani, Soggetto e modernità, cit., p. 310.[/ref], e assumere l’espressione sum cogito in una prospettiva fenomenologica tale da poter portare alla luce ciò che lo stesso Cartesio non aveva colto. Le potenzialità inespresse del cogito sono sì riconosciute da Heidegger che, se possibile, si spinge oltre.
Richiamandosi alla distinzione, esaminata in precedenza, che sussiste nella formulazione cartesiana di un soggetto pensante – tale che si avrebbe, in un primo momento, l’esistenza di un io e, successivamente, la determinazione di questo ego come res cogitans – Heidegger, dopo aver recuperato positivamente la formula sum cogito, cerca di guadagnare, appellandosi al reciproco richiamarsi di existere ed egoego sum, ego existo»), un altro fondamentale elemento della costituzione ontologica del Dasein: la Jemeinigkeit. Scrive Morani:

Declinando l’essere alla prima persona, per non confonderlo con una proprietà necessaria e neutra posseduta da una sostanza, Cartesio opera la conversione egologica dell’ontologia e pertanto determina, almeno auroralmente l’essere del sum.[ref]Ivi, p. 312.[/ref]

Assunte queste considerazioni, sembrerebbe che Heidegger veda nella soggettività cartesiana, al di là di tutto, un precoce (e positivo) presentarsi di alcune fra le caratteristiche ontologiche più importanti dell’Esserci. Tuttavia, per quanto l’importanza di queste osservazioni sia sempre minata da un’ambiguità di fondo, ci sono almeno due aspetti che non possono non essere rilevati; aspetti che fanno emergere, contro lo sforzo heideggeriano di recupero, la ben più tenace forza con cui Heidegger si distanzia da Cartesio.

La prima questione da rilevare è il riferimento dell’ego sum con la Jemeinigkeit. Se è vero che Heidegger, implicitamente, cerca di avvicinare questi due fenomeni, sottolineandone la somiglianza nel riferimento dell’io all’essere, è anche (e soprattutto) vero che questi si esprimono in modi totalmente diversi nei due autori. Se per Cartesio, il fatto di esistere (che lui fosse esistito) è «impossibile che non sia vero»[ref]R. Descartes, Meditazioni Metafisiche, cit., p. 41.[/ref], per Heidegger l’essere dell’Esserci è, sì, «sempre mio»[ref]M. Heidegger, Essere e tempo, cit., p. 60.[/ref], ma in una modalità d’essere che l’essenza, ovvero l’esistenza «di questo ente consiste nel suo aver-da-essere»[ref]Ibidem.[/ref].

L’indubitabilità di esserci (di esistere) riscontrabile in Cartesio, nella quale ego e sum sono legati indissolubilmente da una conoscenza di tipo teoretico-matematica, non è per Heidegger assolutamente accostabile al fenomeno autentico dell’Esserci, il quale «comprende sempre se stesso in base alla sua esistenza, cioè in base a una possibilità che ha di essere o non essere se stesso»[ref]Ivi, p. 25. Corsivo mio. Dirà anche Heidegger: «L’essere di questo ente è sempre mio. Nell’essere che è proprio di esso, questo ente stesso si rapporta al proprio essere. Come ente di questo essere, esso è rimesso al suo aver-da-essere» (ivi, p. 60). Cfr. M. Heidegger, I problemi fondamentali della fenomenologia, a cura di F.-W. von Herrmann, ed. it. a cura di A. Fabris, intr. di C. Angelino, Il melangolo, Genova, 1988, pp. 147-150.[/ref].
Il secondo aspetto che induce Heidegger a dissociarsi dalla posizioni cartesiane è rintracciabile nella ricaduta sostanzialistica dell’ego: nel passaggio dall’ego sum alla res cogitans Cartesio smarrisce per sempre tanto il (possibile) positivo riferimento di ego ed esse, quanto la possibilità di fondare un’ontologia svincolata dalle determinazioni imposte dalla Scolastica.

Nel § 6 Heidegger, scrivendo che Cartesio «lascia indeterminato […] il modo di essere della res cogitans»[ref]M. Heidegger, Essere e tempo, cit., p. 38.[/ref], specifica che «non poteva che omettere il problema dell’essere [poiché] conduce le sue indagini fondamentali nel senso di un’applicazione dell’ontologia medievale»[ref]Ibidem.[/ref], quindi restando ancorato ad una visione che concepisce «l’ente […] nel suo essere come “presenzialità”»[ref]Ivi, p. 39.[/ref].

Per concludere, si può dire che l’interpretazione heideggeriana di Cartesio si presenta, all’interno di Essere e tempo, duplice: al progetto di «distruzione fenomenologica» dell’ontologia cartesiana[ref]Forse, a ben guardare, sarebbe più opportuno parlare di non-ontologia cartesiana, per due motivi: primo, perché Cartesio, come sottolineato continuamente da Heidegger già nel corso del 1925, non si pone né il problema dell’essere dell’uomo, né il problema dell’essere in generale; secondo, perché, se in Cartesio è riscontrabile un’ontologia, essa non è assunta come problematica specifica del suo filosofare, ma assimilata passivamente dalla Scolastica.[/ref], segue un tentativo, seppur debole, di recuperare alcune funzionalità del pensiero cartesiano. È interessante notare il diverso atteggiamento adottato da Heidegger, nei confronti del filosofo francese, negli anni Trenta/Quaranta e quello negli anni marburghesi fino al 1927. Se le riflessioni del “secondo” Heidegger sembravano circoscrivere Cartesio in un ben delineato hic et nunc storico, nel quale non poteva dialogare se non, necessariamente, con Nietzsche, ora Heidegger pare “liberare” Cartesio da qualsivoglia necessità storica, e, tramite una serrato confronto col suo pensiero, porlo in sinergia col Dasein.

Tale accostamento Cartesio-Dasein, infine, sembra essere costitutivamente diverso da quello Cartesio-Nietzsche. Se, in quest’ultimo, Heidegger “paralizza” i due pensatori, facendo convergere i loro rispettivi pensieri in un continuum storico nel quale si svela la necessità del fondamento, ora la soggettività cartesiana e l’analitica dell’Esserci sono complici di una dialettica capace di far “rimbalzare” il passato nel presente, reinvestito, quindi, della sua natura di possibilità[ref]A tal proposito, risulta esemplificativo il tentativo heideggeriano di individuare, all’interno della storia della filosofia occidentale, i sedimenti della cura della conoscenza conosciuta, col fine di mostrare come l’esito teoreticistico a cui giunge la fenomenologia husserliana non sia inevitabile, necessitato da alcunché: «Con il ritorno a Cartesio e con l’esplorazione della storicità della Sorge um die erkannte Erkenntnis, Heidegger si propone di sottrarre all’oggi all’oggi il suo carattere violento di dato indiscutibile e autoevidente: denunciare le radici storiche della configurazione cognitiva, osservativa e scientifica della cura equivale a strappare al presente il volto implacabile della necessità» (R. Morani, Soggetto e modernità, cit., p. 259): questa logica, che nel primo Heidegger si impone diffusamente, è successivamente oscurata dalla nuova struttura ontologica che domina l’operazione ermeneutica del Nietzsche.[/ref].

Luca Bianchin si è laureato all’Università degli Studi di Padova, discutendo con il professor Giovanni Gurisatti una tesi dal titolo Il pudore del pensiero. Una ricostruzione filosofica del percorso intellettuale di Franco Volpi (2014). Nel 2012 pubblica, insieme a un gruppo di studenti e docenti dell’Università di Padova, un volume collettaneo contente gli atti di un seminario svoltosi nel 2011 a Conco (Filosofia&Montagna [a cura di], Montagne mute, discepoli silenziosi. Percorsi di filosofia della montagna, il Poligrafo, Padova, 2012).

Bibliografia

1) Opere di Renato Cartesio citate e di riferimento (in ordine cronologico):

Discours de la méthode, (1637), trad. it. di M. Garin Discorso sul metodo, intr. di T. Gregory, Laterza, Roma-Bari, 2008;

Meditationes de prima philosophia, (1641), trad. it. di S. Landucci Meditazioni metafisiche, a cura di S. Landucci, Laterza, Roma-Bari, 2009;

Meditationes de prima philosophia. Objectiones cum responsionibus authoris, (1642), trad. it. di A. Tilgher Meditazioni metafisiche. Obbiezioni e risposte, in Opere, 2 voll., 1967, a cura di E. Garin, Laterza, Bari, vol. I, 1967;

Principia philosophiae, (1644), trad. it. di A. Tilgher Principi della filosofia, in Opere, cit., vol. II, 1967, pp. 5-369;

Regulae ad directionem ingenii, (1701), trad. it. di G. Galli Regole per la guida dell’intelligenza, in Opere filosofiche, 4 voll., a cura di E. Garin, Laterza, Roma-Bari, vol. I, 2009, pp. 15-94;

Tutte le lettere. 1619-1650, ed. it. a cura di G. Belgioioso, Bompiani, Bologna, 2009.

2) Opere di Martin Heidegger citate e di riferimento (in ordine cronologico):

Phänomenologische Interpretationen zu Aristoteles. Einführung in die phänomenologische Forschung, (1921-22), trad. it. di M. De Carolis Interpretazioni fenomenologiche di Aristotele. Introduzione alla ricerca fenomenologica, a cura di E. Mazzarella, Guida, Napoli, 1990;

Prolegomena zur Geschichte des Zeitbegriffs, (1925), a cura di R. Cristin e A. Marini Prolegomeni alla storia del concetto di tempo, il Melangolo, Genova, 1999;

Sein und Zeit, (1927), nuova ed. it. di F. Volpi sulla vers. di P. Chiodi, Essere e tempo, Longanesi, Milano, 2010;

Die Grundprobleme der Phänomenologie, (1927), trad. it. di A. Fabris I problemi fondamentali della fenomenologia, a cura di A. Fabris, intr. di C. Angiolini, Il melangolo, Genova, 1988;

Aus der letzten Marburger Vorlesung, (1928), trad. it. di F. Volpi Dall’ultimo corso di lezioni a Marburgo, in Segnavia, a cura di F. Volpi, Adelphi, Milano, 1987, pp. 35-57;

Was ist Metaphysik?, (1929), trad. it. di F. Volpi Che cos’è metafisica?, in Che cos’è metafisica?, a cura di F. Volpi, Adelphi, Milano, 2001, pp. 35-67;

Vom Wesen des Grundes, (1929), trad. it. di F. Volpi Dell’essenza del fondamento, in Segnavia, cit., pp. 79-131;

Die Frage nach dem Ding. Zu Kants Lehre von den transzendentalen Grundsätzen, (1935-1936), trad. it. di V. Vitiello, La questione della cosa. La dottrina kantiana dei principi trascendentali, cura di V. Vitiello, Guida, Napoli, 1989;

Wer ist Nietzsches Zarathustra?, (1953), in Vorträge und Aufsätze, trad. it. di G. Vattimo Chi è lo Zarathustra di Nietzsche?, in Saggi e discorsi, cit., pp. 5-27;

Die Frage nach der Technik, (1953), in Vorträge und Aufsätze, trad. it. di G. Vattimo La questione della tecnica, in Saggi e discorsi, cit., pp. 5-27;

Zur Seinsfrage, (1955), trad. it. di F. Volpi La questione dell’essere, in Oltre la linea, a cura di F.

3) Opere sul rapporto fra Martin Heidegger e Renato Cartesio citate e di riferimento (in ordine alfabetico):

DE BIASE R., L’interpretazione heideggeriana di Descartes. Origini e problemi, Guida, Napoli, 2005;

MARION J.-L., L’‘ego’ cartesiano e le sue interpretazioni fenomenologiche: al di là della rappresentazione, in J.-R Armogathe e G. Belgioioso (a cura di), Descartes metafisico. Interpretazioni del Novecento, Istituto della Enciclopedia Italiana fondata da Giovanni Treccani, Roma, 1994, pp. 179-193;

MESSINESE L., Heidegger e la filosofia dell’epoca moderna, Pontificia Università Lateranense, Roma, 2000;

MORANI R., Soggetto e modernità. Hegel, Nietzsche, Heidegger interpreti di Cartesio, Franco Angeli, Milano, 2007;

ROVATTI P.A., La posta in gioco. Heidegger, Husserl, il soggetto, Bompiani, Milano, 1987;

RICCI. R., Da Heidegger a Marion: riflessioni sulla metafisica cartesiana come onto-teo-logia, in «Discipline filosofiche», I, 1, 1991, pp. 151-173;

ROSSI A., ‘Cogito’ e coscienza. Heidegger interprete di Descartes, in «Giornale di metafisica», XXV, 1, 2003, pp. 47-63;

ZANARDO S.,         Il legame del dono, Vita e Pensiero, Milano, 2007.

4) Studi su Renato Cartesio citati o di riferimento (in ordine alfabetico):

ALQUIÉ F., Lezioni su Descartes. Scienza e metafisica in Descartes, a cura di T. Cavallo, Edizioni ETS, 2006;

BERTACCO D., Descartes e la questione della tecnica, presentazione di G. Brianese, il Poligrafo, Padova, 2003;

CRAPULLI G., Introduzione a Descartes, Laterza, Roma-Bari, 2005;

GARIN E., La vita e le opere di Cartesio. Notizia biobliografica, in Cartesio. Opere, cit., vol. I, pp. VII-CLXXXVI;

LOJACONO E., Le letture delle Meditazioni di Jean-Luc Marion, in J.-R Armogathe e G. Belgioioso (a cura di) Descartes metafisico, cit., pp. 129-151;

MARION J.-L., Il prisma metafisico di Descartes. Costituzioni e limiti dell’onto-teo-logia nel pensiero cartesiano, trad. it. F. C. Papparo, Guerrini e Associati, Milano, 1998;

VALÉRY P., Il suono della voce umana. Variazioni su Cartesio, a cura di F. C. Papparo, Filema, Roma, 2008.

5) Studi su Martin Heidegger citati o di riferimento (in ordine alfabetico):

MASULLO A., La «cura» in Heidegger e la riforma dell’intenzionalità husserliana, in «Archivio di filosofia», LVII, 1-3, 1989, pp. 377-394;

VITIELLO V., Heidegger: il nulla e la fondazione della storicità. Dalla ‘Überwindung der Metaphysik’ alla ‘Daseinsanalyse’, Argalìa, Urbino, 1976;

VITIELLO V., Utopia del nichilismo. Tra Nietzsche e Heidegger, Guida, Napoli, 1983;

VOLPI F., (a cura di), Guida a Heidegger, Laterza, Roma-Bari, 2008;

VOLPI F., ‘Itinerarium mentis in nihilum’. Heidegger e l’ascesi del pensiero, in «Archivio di filosofia», LVII, 1-3, 1989, pp. 239-264;

VOLPI F., La trasformazione della fenomenologia da Husserl ad Heidegger, in «Teoria», IV, 1, 1984, pp. 125-162.

6) Altre opere citate o di riferimento (in ordine alfabetico):

PLATONE Sofista, intr., trad. it. e note di F. Fronterotta, BUR, Milano, 2008.

Quell’ostinato domandare. Heidegger e i Quaderni Neri

“La filosofia non può scadere nel giornalismo e le divisioni manichee non servono a nulla” così dichiara Francesca Brencio in una sua intervista per Filosofia in Movimento, “L’uso ideologico di Heidegger, a destra come a sinistra, è quanto di più lontano dal suo pensiero”

È da poco stata pubblicata per il quotidiano indipendente online Lettera43  un’intervista a Francesca Brencio, ricercatrice della Western Sydney University e membro del TORCH della University of Oxford, attualmente a Freiburg per terminare il suo post-doc, curatrice del volume La pietà del pensiero. Heidegger e i Quaderni Neri. Filosofia in Movimento l’ha incontrata in occasione della presentazione romana del volume, svoltasi il 4 Dicembre, e ne è nato un dialogo ricco di stimoli. 

F. Della Sala: Dottoressa Brencio, grazie per concederci questa intervista, sapendo soprattutto quanto è ricalcitrante dall’apparire sui giornali e nei media. Lei collabora con Filosofia in Movimento in qualità di responsabile di Pagine Heideggeriane, una sezione ricca di contributi volti ad approfondire il pensiero di Martin Heidegger e ha da poco curato un corposo volume sui Quaderni Neri. Dopo sei mesi dall’uscita del libro, cosa pensa del “caso Heidegger”?

F. Brencio: Penso che Heidegger rimanga la più grossa “patata bollente” della storia della filosofia del XX secolo e questo egli stesso lo sapeva, come appunta in uno dei fogli che sono stati editati nel primo volume della Gesamtausgabe (l’opera completa della sue opere n.d.r.): è Heidegger stesso a definirsi così, “una patata bollente”.  La ricezione degli Hefte, sia in Germania sia altrove, rende chiaro un fatto: c’è un assunto che non si problematizza, che si prende per vero e dal quale ne discendono molteplici interpretazioni, le quali spesso generano una notevole confusione. L’assunto è che Heidegger è stato antisemita. Da esso ne discende che anche tutta la sua filosofia è antisemita e per questo andrebbe rimossa dalla storia della filosofia, così come qualche interprete americano ha suggerito. Dopo quasi due anni di lavoro sugli Schwarze Hefte, la mia posizione è che questo assunto non solo non è dimostrato in modo rigoroso, sistematico e coerente attraverso un uso consapevole delle fonti, cioè delle opere di Heidegger attualmente pubblicate, ma anche che, volendo e dovendo collocare le proposizioni in cui Heidegger parla degli ebrei, occorre farlo in modo ermeneuticamente corretto, evitando la tentazione di costruire interpretazioni che si basino su petitio principii e che alimentino solo le convinzioni personali dell’interpretans. Questi taccuini di pensieri, proprio per il loro carattere a-sistematico, sono estremamente facili da depredare: si può facilmente costruire un’interpretazione attingendo in modo sparso alle oltre 1900 pagine di questi primi quattro volumi per proporre la propria interpretazione. Se considera che poi sono stati redatti da un uomo che è stato sostenitore del nazismo per un certo periodo della sua vita, il cerchio si chiude alla perfezione. Heidegger è stato nazista, scopriamo dai Quaderni che è stato anche antisemita e il processo mediatico si imbastisce subito.  A me sembra che la questione non solo sia più complessa, ma anche che ciò che si dà per certo, ai miei occhi non lo è. E su questo punto voglio essere chiara: non sto negando la presenza di proposizioni che hanno un sapore antisemita, o più esattamente antigiudaico – non indugio sulla distinzione concettuale fra questi due termini, voglio credere che partiamo dalla comune conoscenza della differenza di queste parole – bensì quel che io e gli altri studiosi che hanno contribuito a scrivere il volume sui Quaderni Neri abbiamo fatto è stato indagare e capire se filologicamente, ermeneuticamente e teoreticamente quei passaggi possano autorizzarci a parlare di antisemitismo nella filosofia dell’autore. Siamo partiti tutti da una domanda comune: alcuni fatti biografici che riguardano l’uomo Heidegger sono chiari, sono altrettanto chiare anche le implicazioni filosofiche che questi fatti hanno generato nel suo pensiero? Per giungere ad una posizione così netta come si è letto in questi 21 mesi in varie sedi, si sarebbe dovuto in primis mappare la presenza di alcuni elementi e la cornice concettuale in cui essi sono presenti sia nella Gesamtausgabe che nei fogli extra Nachlass per poter arrivare a delle conclusioni così perentorie, ma questa operazione non è stata fatta. Si sono estrapolate delle frasi il cui senso è di una complessità abissale, perché iscritto all’interno della domanda sul senso dell’essere e sulla metafisica occidentale in cui la matrice giudaico-cristiana è chiamata in causa come varco per l’oblio dell’essere, e le si sono consegnate al lettore, sia curioso che esperto, insieme ad un’immagine foriera di pregiudizi. Forse occorreva una maggior prudenza. Una cosa che mi ha colpita, ad esempio, è il fatto che qualora non si condivida l’assunto fondamentale, cioè che Heidegger è stato un antisemita e la sua filosofia sic et simpliciter sia pervasa da antisemitismo, si finisca sotto la buffa etichetta di conservatori, di apologeti, creando così dicotomicamente una significativa frattura: o si conviene sull’antisemitismo o si è apologeti. Tertium non datur. Ecco, ai miei occhi questa divisione manichea non solo non aiuta a capire e a capirsi, ma non risolve nemmeno la questione.

F. Della Sala: Secondo Lei perché si sta dedicando tutta questa attenzione esclusivamente ad Heidegger quando, se il problema fosse davvero una presunta responsabilità della filosofia all’ecatombe nazi-fascista, si può disporre di una lista assai più lunga di pensatori (non solo tedeschi) che, in modo ben più diretto di Heidegger, non nascondono né le loro simpatie politiche né il loro antisemitismo?

F. Brencio: Questa è un’ottima osservazione di cui io stessa parlo nell’Introduzione a La pietà del pensiero. L’attenzione all’ “affair Heidegger” è abbastanza naïve: non è la prima volta che accade e credo, purtroppo, che non sarà nemmeno l’ultima. Credo che la ragione ultima, o forse prossima a quella ultima, è che Heidegger non è un autore che si piega a niente e che non lascia spazio per alcun valore ultimo a cui aggrapparsi in modo fondazionalista. Questo suo essere completamente libero da ogni tentativo ideologico, lo rende un pensatore scomodo, fra i più scomodi del XX secolo. Per questo un attento conoscitore del suo pensiero dovrebbe sapere che un uso ideologico del pensiero heideggeriano non solo è quanto di più lontano dal suo contenuto, ma è anche un’operazione tendenziosa. Heidegger non pensava per valori e non era nemmeno un fautore del nichilismo, anzi: ha dedicato buona parte della sua esistenza a combattere il nichilismo, ma allo stesso tempo ha anche messo in guardia contro una filosofia che si basi sui valori – potrei citarle dei brani dal Nietzsche o dal corso su Schelling o da quello su Kant per darle esempi di ciò. Spesso e da più parti è stato accusato anche di questo, di non pensare per valori. È proprio nel volume 94 degli Hefte che egli scrive della necessità di andare contro tutto, di rischiare tutto, per tentare un pensiero che sia davvero libero. Mi torna in mente la Arendt quando dice che pensare per valori è quanto di più pericoloso si possa fare perché da un momento all’altro i valori possono essere sostituiti proprio con altri valori che ai primi si possono opporre. Lei diceva che dobbiamo pensare senza ringhiera (denken ohne Geländer) perché la ringhiera, cioè i valori, ci possono essere sostituiti senza preavviso e se non sappiamo pensare senza, potremmo rischiare nuovamente di smettere di interrogarci su ciò che facciamo perché siamo certi di essere aggrappati ad una sicura ringhiera – questa la lezione che lei imparò dal processo ad Eichmann e dal totalitarismo.  

F. Della Sala: Nel tentativo di provare l’antisemitismo di Heidegger si è smesso di rivolgere l’attenzione ad un aspetto altrettanto determinante: perché Heidegger – almeno per un breve momento – ha pensato di tesserarsi al NSDP? C’è in questo avvicinamento una motivazione schiettamente filosofica? 

F. Brencio: Per rispondere alla sua domanda vorrei partire da un dato storico squisitamente italiano: nella sola Italia al momento dell’insediamento del fascismo, solo una manciata di professori universitari – circa 15 su oltre 1200 – si rifiutò espressamente di prestare giuramento al fascismo. Costoro ebbero come conseguenze non solo la perdita della cattedra ma anche ripercussioni politiche e personali importanti. Molti accademici vicini alla sinistra aderirono al giuramento auspicando di poter svolgere una politica antifascista mantenendo la cattedra, così come la maggior parte dei cattolici, il quali su suggerimento di Papa Pio XI , prestarono giuramento “con riserva interiore”. Vi fu anche chi prestò fede al giuramento, come Guido Calogero e Luigi Einaudi, su invito di Benedetto Croce, in modo da poter rimanere all’interno dell’università per continuare a insegnare in spirito di libertà e aderendo al manifesto dell’antifascismo, ma furono pur sempre meno di una sessantina di intellettuali. La stragrande maggioranza del mondo accademico ed intellettuale italiano, pur con riserve di forma a cui non seguirono, se non in casi eccezionali, riserve sostanziali, aderirono al fascismo e giurarono fedeltà ad esso – così come giurò fedeltà Heidegger al regime nazista al momento dell’assunzione dell’incarico di Rettore dell’Università di Freiburg. Non solo: in tutti i Quaderni Neri, dal volume 94 al 97, assistiamo ad un crescendo di affermazioni di Heidegger sul suo legame con il partito, sugli anni del rettorato e sul possesso della tessera del partito. In quelle pagine, che volutamente sono state fatte passare sotto silenzio da qualche interprete, Heidegger parla di quegli anni e di quei fatti come di un errore, e torna con insistenza su questi temi, senza farsi sconti di alcuna sorta. Le critiche che muove al regime, ad Hitler, al razzismo come un principio barbarico, sono state taciute fino ad oggi. Queste affermazioni sono in piena sintonia con i pensieri già pubblicati in altre opere: sia nei Beiträge zur Philosophie, che nel primo volume della Gesamtausgabe, che nelle lettere (a Jaspers, alla Arendt, a Marcuse, solo per citarne alcuni) Heidegger torna sulla questione del suo tesseramento al partito e lo fa con chiarezza, senza sollevarsi da alcuna responsabilità. Quanto al silenzio di Heidegger, anche in questo caso, non vorrei ripetermi, ma è proprio nei carteggi, editati quasi tutti in lingua italiana, ad eccezione di quello con Löwith e di qualche altro con i famigliari, che Heidegger non tace nulla della sua adesione al nazismo. Nella lettera dell’8 aprile 1950 scrive a Jaspers di essersi comportato come un bambino che sognava qualcosa di insperato dal regime; in una lettera a Marcuse dice chiaramente le ragioni di quello che è conosciuto come il “silenzio” di Heidegger. Ora gli Hefte forniscono al lettore l’occasione di capire se davvero Heidegger sia stato in silenzio o no, ma di questo non si parla. Così come non si parla del fatto che dopo nove mesi di rettorato, subito dopo le dimissioni, veniva spiato dai servizi segreti del partito, non poteva pubblicare le sue opere e era altamente inviso dai vertici della dirigenza del partito. A me sembra che Heidegger debba essere demonizzato, sempre e comunque: o per ragioni politiche, o per ragioni filosofiche – noto il pregiudizio che lo vede interessarsi all’essere piuttosto che all’uomo – o in nome di una filosofia che non si fondi sui valori, sulla vita, sulla persona etc. L’essenziale è che lo si demonizzi, magari arricchendo la sua immagine di pensatore arcano con tinte fosche e linguaggio “heideggerese”.

F. Della Sala: Che relazione vede fra la Seinsgeschichte e l’antisemitismo? Come spiegherebbe la storia dell’essere? 

F. Brencio: Quello di Seinsgeschichte è uno dei concetti più difficili dell’ontologia heideggeriana, dal momento che, dopo l’interruzione linguistica di Sein und Zeit, egli si trova a dover pensare come uscire da quella stessa metafisica che ha obliato il senso dell’essere. Ecco allora che intorno al 1930 inizia ad introdurre il carattere della storicità dell’essere. E’ proprio nei Beiträge zur Philosopie che Heidegger compie un passaggio fondamentale per la sua filosofia, passaggio che è essenziale per comprendere quanto espresso nei Quaderni Neri. Questo passaggio sta nel formulare la domanda sull’essere (Seinsfrage) non più nei termini dell’analitica esistenziale  – come accadeva in Sein und Zeit – ma in quelli di storia dell’essere. Da ora Heidegger parlerà di storicità dell’essere (Seinsgeschichtlichkeit) come del luogo in cui l’essenza dell’essere si dispiega attraverso l’Ereignis. Con i Contributi si assiste ad una vera e propria fenomenologia dell’essere che si manifesta per tappe storiche, per figure epocali, sino ad arrivare all’Ereignis.  Il passaggio che dall’opera del 1927 – Essere e tempo – arriva agli scritti della metà degli anni’30 delinea uno slittamento della medesima domanda (quella sull’essere) che parte dal senso per arrivare alla verità e infine al luogo, dando vita ad una vera e propria topologia dell’essere. Heidegger non usa mai l’espressione “storia dell’essere” per indicare la storia dell’umanità, del genere umano nella sua interezza e questo chiarimento va costantemente ricordato anche quando negli Hefte si leggono delle affermazioni su questo tema. È nel Nietzsche, opera che raccoglie le lezioni tenute all’Università di Freiburg fra il 1936 e il 1940, che troviamo questa preziosa indicazione, che aiuterà a comprendere le affermazioni contenute nei Quaderni Neri in relazione all’elemento ebraico. In quest’opera egli scrive che la storia dell’essere non è né la storia dell’uomo e di una umanità né la storia del riferimento umano all’ente e all’essere. La storia dell’essere è l’essere stesso e soltanto esso. E sempre nel Nietzsche Heidegger continua dicendo che il coinvolgimento dell’uomo nella storia dell’essere è tale solo in funzione della fondazione dell’ente e solo di volta in volta nel modo in cui egli (l’uomo) «assume, perde, trascura, libera, sonda o prodiga la sua essenza». Per Heidegger l’uomo non appartiene alla storia dell’essere in vista del suo sussistere, agire o operare, ma solo perché egli può arrischiare la propria essenza e in tal modo rendere manifesto l’Ereignis. Proprio alle luce di queste brevi considerazioni su ciò che la storia dell’essere è, non mi azzarderei a pensare ad un antisemitismo che entri in essa, dal momento che proprio l’elemento più strettamente umano non appartiene alla storicità dell’essere, né avanzerei ipotesi per le quali la storia dell’essere possa essere ridotta ad una filosofia della storia o ad una narrazione. Quindi, per rispondere alla sua domanda, il nesso fra storia dell’essere e antisemitismo non solo per me non è chiaro, così come è stato posto fino ad oggi, ma direi anche non pertinente. Quando Heidegger nelle Überlegungen XIV dice che la questione del ruolo dell’ebraismo mondiale non è razziale, bensì è metafisica sta dando un’indicazione metodologica chiara che non dovrebbe essere scambiata per una qualche forma di antisemitismo metafisico o ontologico: egli sta accennando a quella matrice metafisica che accomuna giudaismo e cristianesimo nell’oblio dell’essere. Un elemento ad esempio di cui si parla pochissimo in relazione ai Quaderni Neri è la dura critica al cattolicesimo ed al cristianesimo, critica che viene declinata in un crescendo di affermazioni dal volume 94 al volume 97 degli Hefte: alcuni attacchi di Heidegger alle conversioni forzate sui pagani, o altri diretti ai gesuiti, fanno saltare dalla sedia, e di questo ho reso ragione nel mio lavoro. E’ mia convinzione che la critica al cristianesimo, così come essa emerge dai Quaderni, potrebbe inaugurare una dimensione teoretica che apre a questioni di maggior rilevanza rispetto alla relazione fra Seinsfrage e fede, e si spinge molto più avanti di quanto fino ad oggi gli interpreti abbiano considerato.

F. Della Sala: Nella sua Appendice a La pietà del Pensiero, Lei lavora sul volume più recente dei Quaderni Neri, il 97, in cui è contenuta la famosa espressione sull’autostermininio degli ebrei. Davvero Heidegger ha sostenuto che gli ebrei si sono annientati o, anche in questo caso, attraverso un’indagine ermeneutica più profonda è possibile risalire ad un significato differente ? 

F. Brencio: La mia interpretazione è molto diversa da quanto lei afferma. Se ha la pazienza di seguire il testo heideggeriano magari le posso indicare una chiave ermeneutica diversa. Nelle Anmerkungen, cioè il volume 97 della Gesamtausgabe, Heidegger continua a sviluppare un concetto esposto anche nei quaderni precedenti, cioè quello in base al quale lo spazio-tempo dell’occidente è quello della metafisica e la sua origine consiste nell’elemento cristiano, il quale a sua volta proviene dalla matrice giudaica, cioè da quello che egli chiamerà  l’elemento ebraico in senso metafisico. Se la metafisica occidentale si fonda sulla matrice giudaico-cristiana che ha aperto il varco per l’oblio dell’essere a vantaggio di una rappresentazione di questo basata sulla semplice-presenza o su un valore religioso – penso all’inversione di segno fra la concezione parmenidea dell’essere e a quella neoscolastica, ad esempio, l’essere diventa Dio, il rapporto fra ente e essere primo viene declinato in una nuova concezione, creazionista –, allora la distruzione di quella matrice è la medesima distruzione di quell’elemento originario, cioè dell’elemento ebraico. In questa essenza giudeo-cristiana egli annovera anche la Machenschaft, la tecnica, la modernità tutta, il destino del nichilismo occidentale che nei campi di concentramento manifesta solo la porzione più esigua di tutta la sua portata distruttiva. Non azzarderei mai un’interpretazione che spieghi il passaggio sull’auto-nientificazione dell’elemento ebraico nei termini di un auto-sterminio degli ebrei attraverso l’abisso dell’Olocausto, come se essi si fossero auto-sterminati, e men che mai lo confonderei con una qualche forma di negazionismo di natura politica. Qui Heidegger sta facendo un discorso metafisico che ci porta indietro nei secoli, cioè ci sta invitando a guardare alla concezione della mathesis universalis con occhi diversi, cosa che già nei Beiträge aveva invitato a fare. L’auto-nientificazione è una sorta di implosione della matrice giudaico cristiana su cui si regge tutta la metafisica occidentale. Tre sono le sequenze che aiutano a comprendere questa riflessione così densa e problematica e tutte e tre sono poste consecutivamente. L’autodistruzione dello spazio-tempo della metafisica occidentale si compie come una sorta di implosione dell’essenza giudaico-cristiana. La distruzione della Machenschaft è una forma di questo auto-annientamento di cui Heidegger aveva già parlato in qualche passaggio prima: il più alto livello della tecnica è già ora raggiunto dal momento che può solo consegnarsi all’auto-distruzione. Si consuma così l’essenza storico destinale dell’essere, cioè la sua cifra metafisica, o detto altrimenti, la sua rappresentazione giudeo-cristiana. Ecco perché Heidegger scriverà che «la catastrofe dell’essere è la sua escatologia». 

F. Della Sala: Dunque, cosa raccomanderebbe al lettore italiano?

F. Brencio: Di leggere sempre tutto ciò che viene pubblicato, sempre. Solo così si può pensare con la propria testa. Alla fine la prova con i testi scritti dall’autore, chiunque esso sia, è la cartina tornasole di noi interpreti. Il prossimo mese è atteso, ad esempio, un libro che ritengo dirimente sul molto clamore che la ricezione degli Hefte ha suscitato, quello scritto dal prof. Von Herrmann e dal Prof. Alfieri. Sarà un testo prezioso perché corredato da una sezione di inediti di Heidegger e forse potrà aiutare a riportare le cose al loro peso specifico. Gadamer diceva che se uno è convinto di essere a favore o contro Heidegger si rende ridicolo perché non è così facile passare davanti al pensiero e credo fermamente che avesse ragione. Anche di questo mi sono proposta di rendere ragione nel mio nuovo libro sui Quaderni Neri, in Primavera in uscita in Italia…ma avremo modo di parlare ancora di queste cose in un’altra occasione. Grazie. 

F. Della Sala: Grazie a Lei per questo dialogo.

pietà

L’intervista è stata realizzata a seguito del convengo “I quaderni neri di Martin Heidegger” tenutosi il 4 Dicembre a Roma

VIDEO LIBRO – Il revisionismo storico. Problemi e miti, Laterza 2002

A distanza di quasi vent’anni, Laterza ripubblica in versione notevolmente ampliata “Il revisionismo storico. Problemi e miti”, di Domenico Losurdo. Un testo che, con una mole impressionante di aneddoti e riferimenti, spiega ampiamente come e perché a scrivere la Storia sono sempre quelli che vincono. Con buona pace di quella vittima designata che è la Verità. Domenico Losurdo, professore emerito di filosofia a Urbino, ci spiega i tratti salienti della nuova edizione del suo grande classico.

Il futuro della libertà religiosa

La libertà religiosa, prima ancora che come “diritto”, rappresenta quello spazio di massima espressione della personalità umana che va oltre il perimetro ascrivibile alla dimensione del “giuridico” per ricomprendere istanze di natura lato sensu culturali. Si intende con ciò dire che la forza culturale della religione, il suo agire dinamicamente in latenza, possiede una matrice che genera specificazioni antropologiche in grado di incrementare lo spazio della quotidianità ridefinendo la sintassi dei comportamenti (anche giuridicamente determinati) a prescindere che si sia realmente fedeli oppure atei.

Quando invece la libertà religiosa dispiega le sue dinamiche innervando le pieghe del “potere”, offrendo la sua spinta propulsiva all’azione che le organizzazioni (religiose) svolgono nello spazio pubblico, ebbene, in quel caso, si tratta di spostare l’attenzione su un altro piano, quello degli strumenti di natura giuridica (oltre che delle premesse politiche che giustificano un determinato prodotto normativo) che il diritto, nelle sue complesse articolazioni, appresta per garantire a tutti i soggetti, singoli e collettivi, la giusta quota di rappresentatività.

Questo essere della libertà religiosa un po’ come “Giano bifronte”, con lo sguardo rivolto verso l’alto e verso il basso (interessi, bisogni, conflitti, etc.), si offre meglio di qualsiasi altro fatto sociale a fungere da misuratore del grado di democraticità di un ogni contesto pubblico.

Con lo sguardo del giurista, è possibile analizzare il fenomeno in questione muovendo dal punto di vista dello stato (dunque in chiave “interna”) e delle realtà sovranazionali.

1. Sul primo fronte (quello statuale), l’analisi della libertà religiosa risulta fortemente condizionata dal complesso sistema di eventi storico-politici che hanno caratterizzato l’affermazione di questo particolare paradigma politico, almeno a partire dalla prima metà dell’Ottocento. In Italia, in particolare, la presenza del Vaticano, il “peso” politico e giuridico dei Patti lateranensi durante la fase della dittatura fascista e a seguire con l’entrata in vigore della Costituzione e le trasformazioni sociali in senso sempre più multiculturali legate al presente, esigono (a nostro avviso) una rivisitazione complessiva della disciplina giuridica del fenomeno religioso. Ma le resistenze sono diverse e variamente articolate, cagionate dall’assenza di un modello oggettivo di laicità in massima parte condiviso. Il “buon senso” però ci invita quanto meno e valutare l’opportunità di (provare a) ricondurre sotto il segno della legge la definizione, in via generale, delle disposizioni di garanzia a beneficio dei singoli e dei gruppi, e alla legislazione c.d. “negoziata” (Concordato, intese), l’individuazione delle norme di “promozione”, necessitate dalla diversità e dalla specificità delle numerose chiese, associazioni, comunità religiose, ma anche organizzazioni filosofiche e non confessionali.

2. Sul fronte esterno, quello europeo e internazionale, la storia della libertà religiosa ha seguito altri percorsi. Certamente i singoli ordinamenti nazionali hanno “esportato”, sulla scia dell’adesione alle diverse organizzazioni sorte a protezione dei diritti fondamentali, materiali utili a definire il perimetro di una forma di costituzionalismo funzionale alla massima protezione della libertà religiosa. Ma questa attenzione si è concentrata più sulla persona che sui gruppi. L’approccio è stato, cioè, di matrice liberale, indirizzato a creare spazi di libera competizione tra organizzazioni, senza corsie preferenziali per alcuna di esse.

Nell’Unione europea, soprattutto dopo l’adozione della Carta dei diritti fondamentali (2000) la persona umana, con la sua dignità e con le sue libertà, è diventata il fulcro attorno a cui è stato costruito il “diritto comune” dei diritti fondamentali. Questo ha ridotto “a zero” l’eventualità di qualunque ipotesi di “relazione strutturata” tra gli apparati istituzionali di vertice dell’UE e le comunità religiose. Non che la spinta a procedere in tal senso sia mancata, ma il fronte “laico” ha saputo contenere le spinte lobbistiche avanzate da alcuni stati (come l’Italia) e da alcune organizzazioni religiose (Chiesa cattolica in testa) affinché si addivenisse a modelli di rapporti molti simili ai concordati.

Allargando ancora di più l’orizzonte, e osservando cosa è accaduto oltre oceano, in particolare negli Stati Uniti, qui la libertà religiosa ha assunto storicamente una posizione peculiare. Sotto il segno della Costituzione del 1789 e lungo il corso dei secoli fino al presente, questo diritto ha assunto una connotazione privilegiaria sconosciuta altrove. Ad essere circondata di maggiore attenzione è stata di più la galassia delle credenze di matrice cristiana, ma nello stesso tempo l’impianto ideologico di matrice separatista caro a Madison e Jefferson, ha prodotto un “modello statunitense” fondato sul diritto comune e sull’azione contenitiva verso qualsiasi opzione confessionista. Quest’approccio ha fortemente condizionato la leadership politica americana, influendo sulle azioni di politica interna e soprattutto estera finalizzate al mantenimento della pace in diverse aree del mondo, alla messa in protezione delle minoranze religiose in alcuni contesti politici “controllati” dall’azione di gruppi fondamentalisti e al dialogo tra organizzazioni religiose.

La libertà religiosa, rappresenta perciò il prisma ideale per continuare a interrogarsi sulle trasformazioni della democrazia in Occidente (e non solo), sulle dinamiche tra politica e religione all’interno di molti paesi di cultura islamica e sul ruolo di alcune grandi potenze, come la Cina, l’India, la Russia, in rapporto col resto del mondo.

Laicità e diritti civili intende proporre una riflessione ampia e articolata sul ruolo delle religioni nello spazio pubblico e sulla dimensione dinamica del diritto di libertà religiosa sia a livello nazionale che internazionale. Partendo da recenti pubblicazioni sull’argomento, ma anche ritornando a riflettere sui “classici” in materia, come pure prendendo spunto dalle tanti “questioni pratiche” legate a questo fondamentale diritto nel presente multiculturale, questa è l’occasione per cimentarsi in ricerche e lavori di scrittura finalizzate ad arricchire il ventaglio delle opzioni interpretative.

Costruire lo spazio dei diritti e della cooperazione

La proposta di Bruno Montanari mi sembra decisiva da più di un punto di vista. Innanzitutto, perché coglie una delle maggiori urgenze del nostro tempo: quella di costruire un soggetto collettivo che, di fronte alla crisi dei sindacati, dei partiti e delle istituzioni intermedie che mediavano fra la sovranità e la società, sappia costruire, all’interno della mercificazione totale ad opera del mercato, un nuovo orizzonte di relazione e di cooperazione. In secondo luogo, Montanari coglie la valenza politica di tale processo. Destrutturando l’organizzazione sociale messa in atto dal capitale, si pongono le basi per una riappropriazione della politica e per la costruzione di istituzioni che riconoscano sostanzialmente dignità e diritti fondamentali, assumendo la centralità dei beni comuni e della cooperazione sociale.

Il capitale ha sempre fatto leva sulla sovranità e sulle sue istituzioni per fare presa sulla società. Esse, però, favorendo la costituzione di soggettività collettive, hanno sempre al contempo costituito delle minacce alla sua stabilità. E’ stata questa contraddizione a determinare il progressivo passaggio dalla sovranità ad un potere che, con Foucault, potremmo definire governamentale, diffuso e decentrato. Sul fronte del lavoro e della produzione, l’emergere di una molteplicità di soggetti non riconducibili figura del lavoratore garantito, inquadrato stabilmente in un posto e in una mansione, ha rotto il compromesso fordista su cui si reggeva l’architettura costituzionale, che aveva sottratto il lavoro al piano negoziale attraverso la contrattazione collettiva. Oggi la produzione è connessa con capacità cognitive e relazionali che si sviluppano soprattutto al di fuori del posto di lavoro e le aziende organizzano persino la cooperazione delle comunità di utenti, che divengono serbatoi di identità. Con la mercatizzazione totale della società e la privatizzazione di settori più ampi della sfera pubblica, il diritto non scompare ma, piuttosto che tendere all’omogeneizzazione degli status giuridici e delle forme della produzione, controlla le differenze e moltiplica i dispositivi in senso governamentale. C’è però un fenomeno a cui bisogna prestare attenzione. Nascono dappertutto in Europa esperienze di cohousing, coworking, di condivisione e cooperazione che si pongono sempre più spesso al di fuori dell’architettura istituzionale fondata sulla dicotomia pubblico/privato e producono forme di autogestione e autoregolazione. Esse non solo, attraverso il mutualismo e la solidarietà, suppliscono alle carenze di un welfare ancora tarato sulla figura del cittadino lavoratore padre di famiglia, ma rompono la valorizzazione capitalista, senza rifugiarsi in una qualche idea di autenticità perduta. Essi costruiscono valore nella crisi, si riappropriano dei diritti dal basso, creano forme di relazione e di senso senza sottrarsi alle contraddizioni del mercato. Diviene necessario, come scrive Montanari, tradurre il sociale nel politico, per fare in modo che le istituzioni esprimano la complessità del lavoro e della produzione e riconoscano la capacità della cooperazione di produrre valore e beni comuni. Tale processo costituente non può che avere di mira il piano europeo, in cui una governance trans-nazionale si è negli ultimi anni verticalizzata nelle forme del comando e dell’imposizione. La troika, attraverso il ricatto del debito, si è servita delle politiche nazionali per tradurre le categorie dell’austerity e delle privatizzazioni nell’unica formula concepibile di risposta alla crisi. La vicenda greca ci mostra come solo un fronte internazionale anti-austerity può mordere i rapporti di forza sul piano europeo e innescare un processo costituente. Non è tempo per piangersi addosso o per rifugiarsi in qualche isola felice da cui guardare le brutture del mondo. E’ il momento di riappropriarsi dello spazio della politica, di riconoscere la forza di produrre valore e diritti da basso e di innescare un processo costituente che porti le istituzioni europee a riconoscere diritti, dignità e democrazia per tutti.

Ridare un futuro ai giovani. L’elogio alla follia.

di
Luciano Monti

 

Il disagio delle generazioni più giovani è sotto gli occhi di tutti, come il fallimento di ogni tentativo volto a scardinare i diritti acquisiti da coloro che si sono precostituiti rendite e privilegi palesemente non sostenibili nel medio lungo periodo e i cui oneri gravano e graveranno sulle generazioni future. Basti pensare, tra i molti, al debito pubblico, al sistema previdenziale, ai costi connessi ai mutamenti climatici e al conseguente adattamento, alle rendite di posizione di caste e potentati economici o finanziari.
Una follia sotto il profilo scientifico, non essendovi apparentemente solidi appigli per costruire un modello che possa “misurare” in concreto il costante ritardo nel quale vivono i giovani chiamati a realizzare le loro aspettative e, lasciata la scuola, a entrare nel mondo del lavoro.
Una follia sotto il profilo giuridico, pensare che sia possibile scalfire la solida costruzione di diritti acquisiti da coloro che, più fortunati, hanno potuto beneficiare di decenni di crescita economica e di ricorso facile alla finanza. Diritti in difesa dei si è posta la Corte Costituzionale con numerose sentenze delle quali non tanto la legittimità, ma l’equità appare questionabile.
Una follia sotto il profilo politico, perché provare a porre sul tavolo il tema della solidarietà generazionale e conseguente ridistribuzione delle ricchezze è dai media considerato sconveniente e politicamente scorretto. I maggiori interessati, cioè i giovani, sono il larga parte politicamente inattivi e scarsamente consapevoli.
Ora, però si può dire che quel pizzico di follia è stato, in larga misura, premiato. Non è certo possibile affermare che è stata trovata la soluzione, o meglio le soluzioni possibili per ricostruire quel “contratto sociale” che vorrebbe ogni generazione lasciasse a quella successiva un mondo migliore o comunque non peggiore di quello da loro vissuto. Un contratto non scritto, che in nome dell’equità generazionale impone di preoccuparsi anche di coloro che, perché non ancora nati, non possono avere diritti sulla carta, ma devono averne nei nostri cuori.
Grazie agli spunti emersi da un’esperienza analoga maturata da qualche anno in Inghilterra con l’introduzione dell’Intergenerational Fairness Index (indice di equità intergenerazionale) e dalle rilevazioni dello Youth development Index (YDI) elaborato dal Commonwealth Youth Programme (CYP) in collaborazione con Institute for Economics and Peace (IEP), con un gruppo di colleghi e ricercatrici ho messo a punto un nuovo indicatore, chiamato Indice di Divario Generazionale (o GDI acronimo inglese di Generational Divide Index) frutto dell’esame di ventisette indicatori elaborati con serie storiche di dati provenienti da fonti istituzionali, tutti misurabili annualmente e basato sul concetto di generational divide (divario generazionale). Una definizione quest’ultima che potrebbe apparire paradossale e pure contraddittoria; soprattutto negli Usa questo termine è usato riferendosi alla forte propensione dei giovanissimi a fare ricorso a strumentazione e piattaforme elettroniche multimediali, assolutamente sconosciute ai propri genitori, qui invece non si prende in considerazione l’aspetto tecnologico ma quello economico e sociale, e in posizione di divide sono i giovani, non i più gli adulti. Un concetto, quello di “ritardo” che induce a considerarne anche i costi, sia in termini individuali sia sociali che i giovani dovranno sostenere.
Il termine divide è, a mio modo di vedere, molto appropriato, perché contiene in sé due elementi che bene circostanziano l’attuale difficile sfida che attende i giovani. Il primo elemento è il costo per recuperare il ritardo accumulato: l’essere in ritardo implica, infatti, degli sforzi addizionali per recuperare il tempo e il terreno perduto; sforzi che a loro volta generano costi maggiori, come, per esempio il ricorso a un mezzo di trasporto più rapido ma più oneroso.
Il secondo elemento è il rischio di non arrivare per tempo a prendere il treno/ opportunità che la vita ci offre. Un rischio che potrebbe quindi escludere dalla collettività un numero sempre maggiore di giovani.
Così il termine divide è qui utilizzato nella accezione di distanza dal percorso ideale e non invece come metro di paragone con lo standard di vita di differenti generazioni (in quel caso si parla di differenza o gap generazionale). Il confronto con gli indicatori di benessere di altre generazioni non è dunque il fine ma semplicemente un mezzo per misurare l’intensità del ritardo accumulato da una generazione che stenta a trovare la via.
Il set di indicatori individuato è dunque molto articolato e mette in relazione il tasso di disoccupazione giovanile, per dirne uno molto noto, al tasso di percezione dello stato di salute, per dirne uno meno noto, e va ben oltre quello utilizzato dal YDI e dall’IF sopra citati e il cui obiettivo principale è quello di comparare differenti realtà paese.
La costruzione del set di indicatori che ha condotto al GDI parte dunque da tre considerazioni. La prima è stata la necessità di dare maggior peso etico alla costruzione dell’indicatore di divario generazionale, grazie a una rifondazione degli elementi che possono/devono contribuire a un sereno e adeguato sviluppo delle generazioni più giovani, quelle, per intenderci, che sono nella delicata fase del ciclo di vita in cui prima ancora che le aspettative, sono le capacità e le vocazioni a essere coltivate. Quella fase in cui “si sviluppa” la maggior parte del capitale umano, cioè quel contenitore nel quale, se solido e capiente, andranno a sedimentarsi, mano a mano, le conoscenze e le esperienze che la vita riserverà a ciascuno. Da questo riesame, gli originari “domini” sono stati arricchiti da altre dimensioni, come quella dell’accesso al mercato, della domanda di mobilità e dal clima di legalità: valori senza i quali altri indicatori, come la spesa in educazione, la salute o la stessa occupazione avrebbero poco significato.
In particolare, relativamente all’accesso al mercato, si è voluto concentrare l’indicatore sulla disponibilità di credito da parte dei giovani e delle famiglie giovani (con capofamiglia under 35) Questo per due ragioni: la prima è che solo con un corretto accesso al mercato del credito è possibile “investire” nel proprio futuro pianificandone le tappe; la seconda è che il credito è uno dei principali volani per rilanciare i consumi.
La seconda considerazione attiene alla necessità di adeguamento della misurazione alle fonti istituzionali disponibili nel nostro paese. Il criterio adottato è stato quello di ricorrere a fonti primarie, come ISTAT e Banca d’Italia, che costituiscono la più attendibile piattaforma di dati e serie storiche. Solo dove non disponibili, si è fatto ricorso ad altre fonti.
Ne è sortita una batteria di indicatori e sotto-indicatori molto articolata che certamente non agevola la comparazione con altre realtà paese (che è lo scopo dichiarato degli indicatori IF e YDI), ma può essere considerato un valido strumento di misura per il nostro paese o realtà locali nelle quali si voglia verificare in concreto la sostenibilità intergenerazionale di un’azione di riforma o di un intervento specifico. E’ questa la terza considerazione a base dell’indagine, che ha l’obiettivo appunto non tanto di comparare, ma di misurare l’impatto di determinate azioni sul divario generazionale e provare a creare le basi per intervenire sul destino delle giovani generazioni che, aldilà dei già pur allarmanti dati sulla disoccupazione giovanile e sui Neet, impongono soluzioni tempestive e soprattutto “calate” nel contesto specifico.
Troppe volte, e questo è anche l’errore in cui spesso cadono anche gli amministratori di Bruxelles, si è pensato che una medicina possa andare bene per tutti i pazienti. L’impasse in cui si è venuta a trovare la Garanzia Giovani (strumento di politica attiva del lavoro per accompagnare i giovani) proprio nella sua fase di avvio in alcune delle regioni italiane più colpite dalla disoccupazione giovanile, ne sono la testimonianza acclarata.
Torna allora la domanda iniziale e cioè se non sia folle provare a misurare un complesso di situazioni che per loro natura sono difficilmente comparabili. Eppure, quel senso di dismisura che pervade molte testimonianze di giovani ai quali è pure negato il diritto di sognare una vita, ebbene proprio allora si è capito che dismisura non equivale a non misura. Una cosa è talmente lontana da non poter essere vista, ma non per questo non è detto non possa essere raggiunta.
Immaginando che un giovane normodotato possa percorrere una strada piana di cinque o sei chilometri in circa un’ora, dobbiamo presupporre che se la stessa è irta di ostacoli (muri, fiumi senza ponti, boschi ecc.) il tempo necessario possa dilatarsi sino, teoricamente, ad arrivare all’infinito se un ostacolo si dimostra invalicabile.
Così, il GDI non pretende di “misurare” quanto tempo sia necessario per raggiungere la meta, ma quanto alti sono gli ostacoli e quanto tempo sarà perso per superarli. Una specie di misurazione al contrario, che, infatti, abbiamo chiamato “ritardo” generazionale.
E’ stato così possibile cominciare a misurare l’aggravarsi della situazione generale nei confronti delle giovani generazioni e in modo inaspettato, scoprire che questo indicatore “peggiora” molto di più dell’economia nel suo complesso. Un indicatore che, questo è un altro fattore importante, ha iniziato a sancire il declino delle giovani generazioni ben prima dell’avvento della attuale crisi.
Fatto 100 il 2004 dunque, ecco come il ritardo aumenta negli anni che seguono, con maggiore intensità dall’avvento della crisi. Nel 2012, ultimo anno di rilevazione con tutte le fonti disponibili per costruire gli indicatori prescelti, questo indice è salito a 135. Lo stesso, seguendo delle previsioni attendibili e presupponendo non intervengano correttivi agli attuali trend, sale a 171.
Immaginiamo che se un giovane di 24 anni nel 2004 avesse impiegato 10 anni per acquisire un lavoro sufficientemente redditizio, l’acquisto, ancorché con mutuo di una casa e costituirsi una vita autonoma da quella della famiglia di provenienza, lo stesso giovane, nel 2020 ci metterebbe 17,1 anni in più. Cosa non da poco, dire a un giovane che sarà “grande” solo ultraquarantenne.
Possiamo però immaginare che la misura del GDI non sia temporale ma spaziale e dunque proviamo a pensare allo stesso giovane di 24 anni che sulla sua strada si trova un muro alto 1 metro. Se si tratta di un giovane normodotato e in salute, con un po’ di fatica e inventiva riuscirà a superarlo. Ma se il muro diventa di 135 cm., solo i giovani “atletici” riusciranno a farlo. Questo significa che un certo numero di giovani non arriverà mai all’obiettivo. E se il muro è alto 171 cm., solo un atleta vero e proprio riuscirà a saltarlo. E gli altri? Ci riuscirà soltanto chi potrà contare su un amico che gli faccia da scaletta, e qui entra in gioco il familismo e in taluni casi estremi la devianza. Dunque chi non ha un amico o non vuole scendere a compromessi, rimarrà al di qua del muro.
I milioni di giovani Neet italiani testimoniano che sono sempre di più quelli che si trovano in questa triste situazione. Il GDI non porta però solo le brutte notizie perché, se è vero, come dicevo, che questo indicatore non ci indica ancora la soluzione, esso è in grado di verificare la bontà o meno di una politica o di una soluzione proposta per uscire dalla crisi e cioè per abbassare il muro o accorciare il tempo per raggiungere la meta, come si preferisce vederla.
Volendo fare ancora un paragone con la Medicina, potremmo affermare che il GDI non è l’antibiotico, ma il termometro che misura la febbre e che, somministrata una qualsivoglia cura, permette di stabilire se l’infezione in corso è sedata o meno.
Continuando dunque con una buona dose di follia bisogna quindi sperare che ora avvenga un miracolo, cioè che questo nuovo indicatore diventi di dominio pubblico ed entri a far parte del dibattito politico e poi, anche nell’azione politica.
Ci sono pagine e pagine di giornali che discutono di spread tra i nostri buoni del tesoro e quelli tedeschi e spagnoli; la folle speranza è che ora si mettano a discutere anche di come e perché dalla crisi bisogna uscire senza sacrificare un’intera generazione. Con la speranza che il GDI sia il termometro della guarigione di una collettività che dall’equità generazionale deve saper ripartire.

Bibliografia

MONTI L.,Ladri di Futuro,La rivoluzione di giovani contro i modelli economici ingiusti, Luiss University Press, Roma 2014
MONTI L.(a cura di), Divario Generaziole. Il senso della dismisura, Ricerche Comitato Scientifico Fondazione Bruno Visentini, Alter Ego edizioni, 2015

Alcune considerazioni sulla «potenza» della prassi politica. La fragilità del presente e il blocco del passato.

Questo breve contributo intende partire da un passaggio importante dell’intervento di Bruno Montanari in cui egli ci spiega che «la frantumazione del legame sociale nel suo complesso è il prodotto più ravvicinato, nella sua attuale visibilità, della destrutturazione della temporalità nella mentalità dell’uomo comune», e auspica «la ri-proposta della temporalità storico-esistenziale nella mentalità della gente comune». Per elaborare una risposta soddisfacente a tale ordine di questioni, può essere utile riflettere sul rapporto problematico che intercorre tra la politica intesa come «potenza» (la pura potenzialità di un passato ancora irrealizzato) e il suo esercizio storico nella decisione risolutiva presa da parte di un leader. Entro tale contesto, il conflitto politico viene ad assumere un ruolo decisivo, proprio in ragione della coincidenza storica fra una certa prassi politica (ad esempio quella rivoluzionaria) e la potenzialità insita nel passato. Nei suoi momenti più celebri, la storia della filosofia politica mostra chiaramente come la dinamica del conflitto sia potuta diventare una vera e propria «arte» nel significato classico del termine: una tékne, un sapere pratico, proiettato, nel suo «valore d’uso» descrittivo o normativo, sulle esigenze e contraddizioni del presente, il quale, non sempre, è il risultato (effettuale, in senso hegeliano) del passato. Nel quadro storico segnato dalla Rivoluzione scientifica moderna, Machiavelli porta avanti una linea investigativa dell’ontologia sociale in termini prettamente naturalistici, orientata a definire le modalità in cui l’organismo politico può efficacemente conservare ed estendere il proprio potere entro una condizione di permanente concorrenza ostile tra i soggetti. D’altronde Machiavelli, nelle sue riflessioni politiche, deve molto a Lucrezio. Se è vero che il desiderio di conquista cresce attraverso le passioni asociali quali l’invidia, l’ingratitudine e l’infedeltà, vediamo che nell’indagine di Machiavelli la natura umana viene a delinearsi come una relazione di reciproca sfiducia tra simili, relazione che riporta al centro del dibattito politico attuale il problema dei limiti del potere, come è possibile evincere, ad esempio, dalle considerazioni del Segretario fiorentino su Girolamo Savonarola, concepito certamente come un grande politico, ma nello stesso tempo come un uomo dalla debole capacità di imporsi. Vediamo così che nella lotta infinita per l’autoconservazione dell’organismo biologico è già inscritto il desiderio di ordine e la ricerca di un agire efficace per il conseguimento del potere decisionale sui propri simili. Ciò è confermato dall’uso che fa Machiavelli della terminologia medico-biologica dell’epoca (addirittura, quando non basta la legge, il principe deve comportarsi come una bestia), in special modo della teoria degli umori come l’odio, la paura, l’invidia o l’ambizione. Dopo le conquiste teoriche di Galileo e Descartes, Hobbes concepisce l’uomo in modo meccanicistico e mostra la condizione generale che verrebbe a realizzarsi tra gli uomini (il bellum omnium contra omnes) qualora venisse ritirato dalla vita sociale ogni organismo politico di controllo. Con l’esplodere della guerra civile (1642-1651) Hobbes sente infatti come imminente la fine della sovranità. Per ottenere il rispetto delle leggi naturali e per sottrarsi alla condizione di guerra permanente è necessario l’uso della forza, la quale può derivare soltanto dalla creazione di quell’«uomo artificiale» o «Dio mortale» che è il Leviatano. La ragione che spinge gli uomini a farsi sudditi del sovrano è dunque il fine della protezione: «The end of obedience, scrive Hobbes, is protection». Una siffatta tendenza, tipica della filosofia politica moderna, a ridurre l’agire statale ad un’affermazione strategica e strumentale del potere come decisione risolutiva di un’autorità, è stata messa in discussione da Rousseau e, più in particolare, da Hegel.
Rousseau compie una «cesura antropologica» utile a spiegare il passaggio dall’amour propre all’amour de soi e finanche all’io sociale, ovvero ad un modello di alterità dipendente da interessi immediatamente coincidenti con quelli della comunità. Nella vita comunitaria, infatti, l’abisso incolmabile tra «essere» e «apparire» viene in qualche misura colmato dal bisogno di identità intesa come sinonimo di autenticità. Rousseau intende pertanto legittimare il contratto pensando la condizione di «alienazione totale» di ciascun singolo individuo nella comunità non come il risultato di una repressione secca dell’amour de soi (la quale determinerebbe solo lo scatenarsi del potere distruttivo dell’amour propre, del gretto egoismo che giustifica l’autoritarismo del decisore), quanto come l’effetto automatico di una sublimazione non repressiva del più originario amour de soi. Riprendendo le parole di Rousseau, al posto della singola persona di ciascun contraente, quest’atto di associazione politica dà la vita a un «corpo morale e collettivo» e da questo stesso atto tale corpo riceve la sua unità, il suo «io comune», la sua vita e la sua volontà. Si tratta pertanto di convertire, attraverso la dinamica del riconoscimento declinato nella modalità dello «sguardo» che valuta e stabilisce cosa sia la stima, l’amour de soi individuale in amour de soi sociale, per poter declinare nell’apprezzamento pubblico gli effetti corrosivi, conflittuali e patologici di ogni amour propre lasciato a se stesso. Concentrando l’attenzione sulla dinamica del «reciproco riconoscimento», Hegel, soprattutto nel periodo di Jena, fonda la storicità del soggetto, lo fa emergere e lo istituisce nella sua identità processuale, ponendolo in rapporto problematico con una potenzialità insita nel passato storico depositato nell’Erinnerung, nel ricordo. Hegel spiega il conflitto come un meccanismo di socializzazione, sviluppando una sorta di «contro-critica» teorica al modello di Hobbes. Come mostra bene Kojève, con il concetto di lotta per la vita e per la morte nella dialettica di signoria e servitù, Hegel ha connesso la possibilità della vita e della libertà individuale alla condizione della certezza anticipata della propria morte. Se il «merito» di Rousseau, lo si è appena visto, è stato quello di aver stabilito come principio dello Stato la volontà, secondo lo Hegel dei Lineamenti di filosofia del diritto l’«errore» di Rousseau sta nel considerare la volontà soltanto nella forma determinata della volontà singola e la volontà universale non come il razionale «in sé e per sé» della volontà. Secondo Hegel l’unione vivente degli individui è il vero fine, e non può essere abbassata ad un mezzo di realizzazione dei loro interessi particolaristici. Entro questa cornice, il concetto di Bildung riveste un ruolo centrale: occorre formare la «società civile» (che secondo Hegel è la «palestra dell’individualismo») attraverso la liberazione del lavoro e dal lavoro, contro ogni tendenza orientata all’«omogeneizzazione», proprio nel significato che a questo concetto ha voluto attribuire Charles Taylor. Se allora ci rivolgiamo a Marx, vediamo che, nelle società di massa, il problema del mutamento sociale, culturale, economico e politico assume contorni sempre più precisi. A tal proposito, Wendy Brown, nel suo volume La politica fuori dalla storia, richiamandosi tra l’altro alle analisi di Derrida in Spettri di Marx, mostra come il suo spettro sia in realtà un revenant, ciò che ritorna da un passato più che remoto e immemoriale, che passa dalla porta dell’avvenire come il fantasma del materialismo storico e dialettico, e che ci impone di tenere in dovuta considerazione le sue imprevedibili manifestazioni.
Non è un caso che, proprio a cavallo tra Otto e Novecento, un outsider della filosofia come Nietzsche, il quale considerava Kant ed Hegel degli «operai della filosofia», abbia scritto che «per ogni agire ci vuole oblio», giacché un eccesso di memoria paralizza l’azione e blocca il futuro, e abbia potuto parlare dell’arte come di una Gegenbewegung, ossia di un «contromovimento». Certo, nel passaggio storico e teorico dalla modernità alla ipermodernità, il conflitto si è indissolubilmente legato non solo alla genealogia e alla metamorfosi del potere in quanto potenza (inteso appunto come una pura potenzialità insita nel passato), ma anche all’atto della sua visibilità nel «qui ed ora» della decisione presa da parte di un leader. A tutt’oggi il problema consiste nel fatto che ogni decisione risolutiva deve misurarsi con un dato talvolta inemendabile: il riversarsi del passato in blocco sul presente, proprio nei casi in cui le sue potenzialità non sono state ancora pienamente attuate. L’indagine della potenza, anche nell’accezione nietzschiana, consente pertanto di verificare come la politica sia, ancora oggi, il «luogo privilegiato» in cui il passato storico continua a riversarsi in blocco sul presente. Ciò è ben esemplificato dalla lettura del concetto bergsoniano di «pura durata» come storia da parte dello storico francese Henri Berr, il quale, a sua volta, influenzò i due fondatori e primi direttori delle Annales d’histoire économique et sociale, Marc Bloch e Lucien Febvre. Occorre dunque rinforzare l’azione politica collettiva dilatando il presente tanto verso il futuro che verso il passato, senza fare tabula rasa della memoria. Perché il conflitto, essendo vincolato al corpo del potere come sua potenzialità esclusiva, è ancora pervasivo della nostra dimensione politica su più livelli: economico, culturale, estetico e normativo. Se il potere possiede, nella sua «attuosità», un corpo che facilita la rappresentazione biopolitica della sua forza (attraverso la quale si generano altri corpi che ne riproducono fatalmente le logiche), occorre allora fare largo a una pratica del «convivere», nel significato dato a questo termine dal sociologo contemporaneo Alain Caillé. L’«arte del vivere insieme» deve poter enfatizzare il «noi» piuttosto che l’«io», ovvero un modello di relazione comprensivo delle potenzialità di ciascuno. Certo, se è vero che il conflitto è plurale, la riflessione filosofica intesa come praxis, non può mai venir meno al suo compito normativo (questo aspetto lo mette bene in chiaro, tra l’altro, Jacques Rancière) di accogliere la difficoltà, l’aporia o il «disagio» della politica. È proprio rilanciando una concezione «alta» della giustizia secondo la sua matrice platonica e aristotelica che la filosofia può e deve ancora oggi interrogarsi sul disaccordo che, come una ferita mai cicatrizzata, continua a infettare il corpo politico. Ferita «antisocratica» per eccellenza che in molti luoghi della storia è replicata da individui tiranni subordinati alla legge della forza, i quali seguono il principio trasimacheo esposto nella Repubblica platonica, secondo cui «il giusto è la volontà del più forte» che è chiamato a decidere, tagliando di netto con la potenzialità insita in ogni passato plurale ancora irrealizzato. Attualmente, giacché tutta la società è investita da una «deriva signorile», il potere è divenuto più facile da conquistare ma più difficile da esercitare e più semplice da perdere. Sulla base di questa consapevolezza, siamo tutti chiamati a compiere una vera e propria «resa dei conti» col presente della società di rete, con le forme svariate della politica mediatica globale che plasma la mente del pubblico, a volte neutralizzando, a volte fomentando il conflitto, mettendo seriamente in crisi la legittimità della politica democratica dei partiti ereditata da due secoli di guerre e battaglie politiche. La crisi resta dunque «aperta» nel futuro del presente come lo è stata nel passato del presente, ponendo la democrazia dentro la dissociazione sistemica tra potere della comunicazione e potere rappresentativo. È in questa «dissociazione» che si apre lo spazio critico della riflessione non solo per lo scienziato sociale ma soprattutto per il filosofo politico.

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