Aristotele, Etica Nicomachea

Aristotele, Etica Nicomachea

di Francesco Fronterotta

Lo statuto dell’etica, nella concezione aristotelica delle scienze, è ben preciso. Al di sotto delle scienze teoretiche (matematica, fisica e filosofia prima) si collocano infatti rispettivamente le scienze pratiche e le scienze poietiche, queste ultime dedicate espressamente a finalità produttive. Fra le scienze pratiche, che, in quanto “scienze”, possiedono una struttura dimostrativa e mirano, secondo la caratteristica concezione aristotelica, alla conoscenza delle cause delle cose, ma si indirizzano alla realizzazione di fini “pratici”, si collocano appunto l’etica e la politica, che assumono come fine le “cose degli uomini”, la prima in quanto individui, la seconda in quanto cittadini.

Dei tre trattati etici di Aristotele, l’Etica Nicomachea, l’Etica Eudemia e i Magna Moralia (su parti dei quali, specie nel caso dei Magna Moralia, pesano seri dubbi di autenticità), l’Etica Nicomachea è certamente il più importante. Anche per questa opera, che raccoglie materiali non destinati alla pubblicazione, ma all’indagine e alla discussione interna alla scuola di Aristotele, si pongono i consueti problemi relativi alla sua composizione, alla sua genesi, alla sua cronologia e alla sua unità, benché il suo svolgimento tematico sia, nell’insieme, sostanzialmente coerente. Prendiamo dunque in esame almeno alcune delle principali linee argomentative che caratterizzano i dieci libri di cui essa si compone.

Il problema centrale da cui l’analisi di Aristotele prende avvio nel primo capitolo del I libro dell’opera è quello della ricerca e della realizzazione della felicità. Ogni individuo tende infatti naturalmente al perseguimento e alla realizzazione di certi fini che sono, per chi li persegue, altrettanti beni: alcuni di essi, spiega Aristotele, sono fini, o beni, perseguiti in vista di altri fini e si presentano perciò come relativi e sostanzialmente strumentali, ossia piuttosto come mezzi che non come autentici fini. Ma l’intera gerarchia dei fini, o dei beni, va posta in relazione con un fine ultimo o con un bene supremo, che consisterà necessariamente nella felicità (eudaimonia). Questa posizione eudaimonistica non è nuova, naturalmente, nella storia dell’etica antica e non mancano fra i predecessori di Aristotele sostenitori della tesi secondo cui l’obiettivo di ogni vivente, e in primo luogo dell’uomo, risulta coincidente con la felicità: sarebbe anzi ben strano proporre un fine della vita diverso da questo. Ma al di là di una considerazione di carattere alquanto generale come questa, Aristotele è certamente il primo ad aver affermato con assoluta radicalità e nettezza l’esigenza di una piena realizzazione individuale come scopo di una disciplina etica e dello studio dei comportamenti e delle azioni degli uomini.

Che la felicità sia il fine ultimo di ogni ente e di ogni vivente, secondo Aristotele, è questione sulla quale tutti concordano; ma quale sia la sua natura è invece oggetto di controversia e dissenso. È a questo punto che viene introdotto, come di consueto, l’esame degli endoxa, delle opinioni comuni più diffuse o comunque delle più autorevoli, particolarmente dei predecessori: vi è infatti chi pone la felicità nel piacere, e si tratta dei più, ma Aristotele giudica questa forma di soddisfazione immediata degna delle bestie e degli schiavi, non certo degli uomini liberi; altri individuano piuttosto l’onore come fine ultimo, e si tratta in tal caso di un’opinione più evoluta e raffinata, che fa presa soprattutto fra coloro i quali si dedicano all’attività politica, ma Aristotele rileva ancora come l’onore non sia davvero perseguito di per sé, bensì per il riconoscimento che ne deriva a chi lo ottiene e in quanto è dunque segno di virtù: ciò implica allora che l’onore risulta subordinato alla virtù e soltanto strumentale rispetto a essa; a maggior ragione da respingere come fine della vita umana e come bene sommo è l’accumulazione delle ricchezze, che Aristotele considera senza mezzi termini come contro natura, perché le ricchezze possono fungere al più come mezzi che ampliano possibilità e potenzialità di chi le possiede, e non certo come fini in sé, neanche per chi è preso dalla brama di accumularne senza sosta né termine.

In questo contesto si inserisce la celebre critica che Aristotele rivolge alla concezione platonica del bene sommo, tratteggiata specialmente nei libri centrali della Repubblica, secondo la quale il bene si colloca in una dimensione radicalmente trascendente e oltremondana, come idea o forma intellegibile del bene, modello eterno, universale e separato, e perciò stesso paradigmaticamente valido in ogni possibile circostanza, di ogni valutazione, azione o comportamento. A una simile prospettiva Aristotele obietta intanto che una nozione così astratta e trascendente finisce per essere non solo praticamente irraggiungibile, ma anche in ultima analisi indesiderabile per gli uomini; inoltre, la concezione di Platone suppone evidentemente un significato univoco di “bene”, da intendere cioè come un concetto unico capace di definire allo stesso titolo il fine di ogni ente e di ogni vivente, ciò che Aristotele contesta vivacemente in favore di una nozione plurivoca del bene, al quale si deve riconoscere che possiede, per ogni ente e per ogni vivente, un significato proprio e specifico per quell’ente e per quel vivente.

Il bene sommo o il fine ultimo per l’uomo deve consistere allora nella realizzazione dell’opera che gli è propria, della sua attività naturale specifica. Ma qual è tale “opera” o “attività”? Anche su questo punto le opinioni divergono: non può trattarsi però del semplice “fatto” di vivere, che è comune anche alle piante; né del “percepire” o “sentire”, che è comune anche agli animali; dovrà trattarsi quindi dell’unica attività propria esclusivamente dell’anima umana, vale a dire del pensiero e dell’attività razionale. Ecco in cosa consiste la “virtù” (arete) dell’uomo, più esattamente quell’“eccellenza” piena che ne realizza la felicità. Occorre preliminarmente precisare che una simile concezione che fa coincidere la felicità con l’esercizio della facoltà razionale e del pensiero non presenta agli occhi di Aristotele nessun tratto ascetico né tantomeno astratto: egli sottolinea infatti che, per poter essere compiutamente dispiegata, l’attività razionale deve essere accompagnata da sufficienti beni materiali, la cui assenza ne comprometterebbe invece la realizzazione. A ciò bisogna aggiungere che tale attività, con la felicità che a essa è associata, non è neanche esente da piacere, giacché il piacere ne rappresenta anzi un’implicazione e un coronamento. Ciò suppone, pur se a determinate condizioni, un parziale accostamento di Aristotele alle concezioni edonistiche della felicità e un netto distacco dalle tesi anti-edonistiche più o meno radicali che dovevano avere un significativo sostegno all’interno dell’Accademia, anche se, forse, non necessariamente da parte di Platone.

Se dunque la felicità dell’uomo consiste nell’attività della sua anima secondo “virtù” o “eccellenza” (arete), ciò consente di transitare verso un secondo tema cruciale dell’Etica Nicomachea, appunto quello della natura e della classificazione delle virtù. Quali sono infatti le virtù propriamente e specificamente umane? Non quelle che appartengono all’anima vegetativa, comune a tutti i viventi; piuttosto all’anima sensitiva che, pur essendo propria di tutti gli animali, si pone in certa misura in rapporto con la facoltà razionale; e soprattutto, come era facile attendersi, all’anima razionale, la sola esclusivamente umana. Aristotele parla, nel caso della funzione sensitiva dell’anima, di virtù “etiche”; mentre, al livello dell’anima razionale, parla di virtù “dianoetiche”. Per quanto riguarda le virtù etiche, ne vanno stabiliti caratteri e natura. Nel libro II, Aristotele fa derivare le virtù etiche dall’abitudine o habitus, dall’esercizio del controllo degli impulsi immediati: compiendo atti giusti, si diviene giusti, cioè si acquisisce un habitus peculiare, quello della giustizia; agendo moderatamente , si apprende il modus operandi o l’habitus della moderazione, e così via. Tali comportamenti, ciascuno con il relativo habitus, in cui consistono le virtù etiche, si trovano in qualche modo unificati dalla comune definizione del loro statuto. La virtù etica consiste infatti in generale nella giusta proporzione, o via mediana, fra due estremi. La definizione è celebre: per ogni habitus comportamentale, o etico, la virtù si situa nella posizione intermedia fra eccesso e difetto, in un esercizio di controllo e moderazione dell’impulso sensibile corrispondente, purché si intenda tale posizione intermedia non come una sintesi immediata fra eccesso e difetto, ma come una posizione che supera eccesso e difetto e ne neutralizza gli aspetti negativi e irrazionali.

Nell’esame fitto e dettagliato delle virtù etiche, dal II al V libro, spicca il caso della giustizia, che Aristotele considera come la principale, e a cui dedica l’intero libro V, definendola come in qualche modo capace di ricapitolare tutte le virtù etiche: essa consiste in senso proprio nella giusta e proporzionata ripartizione tanto dei beni quanto dei mali, mentre l’ingiustizia si colloca in relazione a entrambi gli estremi, quando cioè prevale una ripartizione squilibrata dei beni e dei mali.

Alle virtù dianoetiche, proprie della sola anima umana e della sua facoltà razionale, è dedicato l’intero libro VI dell’opera. Anche qui Aristotele distingue fra due funzioni dell’anima razionale, una con competenze pratiche, che presiede alla conoscenza delle cose contingenti e mutevoli, come i comportamenti umani, e una con competenze teoretiche, che si rivolge alla conoscenza delle cose necessarie e immutabili, cioè dei principi delle scienze e delle scienze stesse. A entrambe queste funzioni, seguendo la logica già nota dell’indagine di Aristotele, corrisponde una “virtù” o “eccellenza” (arete) specifica, rispettivamente la phronesis, o saggezza, e la sophia, o sapienza.

La phronesis è la disposizione virtuosa che permette di dirigere la condotta umana, discriminando fra bene e male e adottando i comportamenti che consentono di realizzare i fini ultimi, ossia il bene, dell’uomo. Ciò che la phronesis indica sono dunque criteri e fine dell’agire umano, ma tale fine si persegue concretamente attraverso l’esercizio delle virtù etiche. Queste ultime, a loro volta, sarebbero come “cieche” senza la phronesis che ne fornisce l’indirizzo. Al culmine della gerarchia delle virtù si pone la sophia, che deve il suo statuto supremo al fatto che suo oggetto non sono l’uomo e i suoi comportamenti e fini, ma le cose “più divine”, cioè i principi di tutte le cose. Senza addentrarci nell’esame complesso e articolato che Aristotele dedica alla sophia e alle sue forme, possiamo comprendere come egli giunga così a stabilire, parallelamente alla gerarchia delle virtù, un’analoga gerarchia dei gradi di felicità realizzabile per l’uomo – ciò che costituiva l’obiettivo fissato all’inizio dell’Etica Nicomachea.

Il terzo e ultimo fondamentale asse teorico dell’opera da me evocato qui, che è oggetto dell’analisi condotta nei capp. 7-9 del libro X, è dunque rappresentato dall’indicazione della vita “contemplativa”, cioè dedita all’esercizio della ragione nella conoscenza dei principi delle scienze, come condizione suprema e massimamente desiderabile, quella cui presiede appunto la virtù della sophia. Solo in via secondaria si potrà considerare felice la vita “pratica”, regolata dalla phronesis e dalle virtù etiche. La contemplazione avvicina l’uomo alla condizione divina, quella della contemplazione permanente ed eterna cui l’uomo, o alcuni fra gli uomini, accedono a tratti.

Questa celebre prospettiva della felicità umana, cui Aristotele assegna, come già detto, un indubbio quoziente di piacere, è destinata ad assumere un ruolo fondamentale nella storia della filosofia posteriore, classica e non solo.

 

Bibliografia essenziale

Edizioni
Aristotelis Ethica Nicomachea, recognovit F. Susemihl, editio tertia curavit O. Apelt, Teubner, Leipzig 1912.

Traduzioni italiane
Aristotele, Etica Nicomachea, traduzione, introduzione e note di C. Natali, Laterza, Roma 201410.

Studi
C. Natali, La saggezza di Aristotele, Bibliopolis, Napoli 1989.
M. Nussbaum, The Fragility of Goodness, Cambridge Univ. Press, Cambridge 1986.
M. Vegetti, L’etica degli antichi, Laterza, Roma 200611.
E. Berti (a cura di), Guida ad Aristotele, Laterza, Roma 20125.

Aristotele, De anima

Aristotele, De anima

di Francesco Fronterotta

[drop_cap style=”2″ bgcolor=”#dddddd” color=”#787882″]A[/drop_cap]nche per il De anima vale in generale quanto detto per la Metafisica rispetto ai noti problemi che riguardano il titolo dell’opera, la sua struttura, la sua composizione e la sua cronologia. Basti ricordare però, a mo’ di premessa, che il titolo peri psuches è usato da Aristotele per riferirsi a questa opera in altri suoi scritti; che, rispetto alla Metafisica, il De anima appare dotato di un’assai maggiore compattezza e continuità; e che, anche in questo caso, si è creduto di poter rinvenire un mix di spunti teorici di matrice platonica, che spingerebbero a una datazione giovanile dell’opera, e di spunti più decisamente anti-platonici, che invece suggerirebbero una datazione più tarda. Ma tutto ciò, come già ricordato in relazione alla Metafisica, rimane molto controverso ed è impossibile discuterne a fondo in questa sede.

Il De anima si compone di tre libri. Il libro I esamina innanzitutto le teoria psicologiche dei predecessori. Se Aristotele condivide la tesi generale dei presocratici e di Platone, che fa dell’anima un principio di movimento, sensazione e conoscenza, egli rivendica però per sé il merito di aver introdotto uno studio e una disciplina dell’anima “nuovi” e “originali”. L’anima va considerata infatti phusikos, da un punto di vista “fisico”, cioè esaminando scientificamente, tramite l’osservazione e la dimostrazione, cosa e come essa “operi” e “funzioni”. Attraverso una rassegna delle principali aporie intorno all’anima e delle opinioni dei predecessori, Aristotele giunge a definire l’anima, nei primi due capitoli del libro II, come «forma e atto primo di un corpo naturale che sia strumentalmente disposto alla vita», cioè come il principio vitale che realizza e attua le funzioni potenziali di un corpo. Con un esempio: non basta possedere gli occhi per “vedere”: gli occhi di per sé sono soltanto strumenti della vista, mentre occorre, per “vedere”, un principio che realizzi e attui la vista. E così pure per tutte le funzioni vitali e biologiche, primarie e secondarie, semplici e complesse. Ne segue che, in quanto tale, nella sua dimensione funzionale di forma del corpo materiale, l’anima non è separabile dal corpo e non sussiste indipendentemente dal corpo. Si tratta del celebre “ilemorfismo” aristotelico, per cui l’anima è appunto la morphe, la forma, della hule, della materia, corporea. Nessun dualismo di sostanze è quindi possibile nella psicologia di Aristotele né dell’anima si può dare una descrizione “materiale” o “sostanziale” autonoma, cioè come qualcosa che si generi o sussista di per sé, ossia autonomamente dal corpo.

Queste, per dirle semplicemente, sono le principali critiche rivolte ai predecessori e a Platone soprattutto: l’anima non è una realtà composta di elementi fisici o naturali (come vogliono i presocratici) né una realtà dotata di statuto e capacità psichiche distinti, capaci di tradursi in azioni fisiche nel corpo (come vuole Platone), perché il vivente è un’unità indissolubile di cui anima e corpo manifestano l’aspetto funzionale, cioè formale, e strumentale, cioè materiale. Si noterà per quale motivo, ed entro quali limiti, il filosofo della mente Hilary Putnam abbia potuto vedere in Aristotele il lontano progenitore della sua spiegazione “funzionalista” del rapporto anima-corpo.

Il libro II prosegue con l’esame delle facoltà dell’anima, che coincidono con altrettante funzioni biologiche, muovendo dalle prime due. L’anima esercita infatti, in primo luogo, una funzione nutritiva o vegetativa, che è propria di tutti i viventi, comprese le piante, e che presiede alla nutrizione e alla riproduzione; quindi una funzione sensitiva, che appartiene a tutti gli animali, e che ha a che fare con la percezione sensibile, ma anche con gli appetiti e con gli impulsi al movimento e all’azione. Nel contesto dell’indagine sulla facoltà sensitiva, Aristotele passa in rassegna natura e modi dei cinque sensi, giungendo ad alcune importanti acquisizioni. Innanzitutto, viene negato il carattere “passivo” della sensazione, perché il percepire implica l’attività dell’organo di senso nella percezione: non si tratta pertanto esclusivamente di subire il contatto con un oggetto esterno, perché tale contatto “attiva” l’organo di senso che, solo quando è in atto, “sente” propriamente e percepisce. Un altro esito importante di questa sezione dell’opera consiste nella distinzione fra sensibili “ propri”, cioè quelli percepibili solo da un senso specifico (come il colore è il “sensibile” proprio soltanto della vista), e sensibili “comuni”, ossia quelli che possono essere percepiti da più sensi (come il movimento, che può essere percepito sia dalla vista sia dal tatto). Sui primi, secondo Aristotele, non è possibile nessun errore percettivo; sui secondi, invece, l’errore è certamente possibile.

Il libro III del De anima esamina infine la facoltà più alta dell’anima, che appartiene solo agli uomini, quella intellettuale. Aristotele prende le mosse dalla transizione dalla sensibilità all’intelletto, considerandone i diversi passaggi. Egli si interroga dapprima sulla possibilità che esista un “sesto” senso oltre i cinque, un senso “comune”, capace di “unificare” l’esito della percezione dei primi cinque. Ma la risposta è negativa: non esiste nessun “sesto” senso, ma ognuno dei cinque sensi percepisce e ha coscienza della percezione compiuta, sicché non occorre un “senso” superiore che raccolga e unifichi le percezioni. L’unità delle percezioni deriva dal fatto che essa riguarda i già citati sensibili “comuni”, ossia quelli percepiti da più sensi contemporaneamente: è da questa percezione integrata, o appunto “comune”, che dipende la possibilità di acquisire una prospettiva unificata e plurale dell’atto percettivo.

Ma il passaggio dalla sensazione al pensiero e all’intelletto è ancora mediato dalla presenza di una facoltà intermedia, la phantasia. Normalmente resa con “immaginazione”, la phantasia adempie alla funzione di produrre phantasmata, cioè immagini derivate da una precedente sensazione in atto che a loro volta costituiscono l’insieme di materiali su cui si esercita l’azione dell’intelletto. Siamo giunti così al nous, all’intelletto o facoltà intellettuale. Si tratta di un questione assai complessa e sostanzialmente concentrata nei capp. 4-5 del libro III. Aristotele formula una premessa per questa parte della sua trattazione: come nell’intera natura, anche nell’anima e rispetto alle sue facoltà, conviene distinguere una dimensione formale e una materiale. Vi sarà perciò un intelletto analogo alla materia e un intelletto analogo alla forma. O meglio: vi saranno una dimensione o uno stato dell’intelletto analogo alla materia e uno analogo alla forma. L’intelletto analogo alla materia è concepito come pura potenza ricettiva degli intellegibili, vale a dire dei contenuti della conoscenza intellettuale – degli oggetti dell’intelletto –, e non potrà coincidere con nessuno di essi prima di pensarli effettivamente. Su questo piano vi è una certa analogia fra il “pensare” e il “percepire”, in entrambi i casi avendo luogo un “subire” l’azione dell’oggetto pensato o percepito da parte della corrispondente funzione dell’anima. Ma questa analogia ha naturalmente un limite, perché, mentre la facoltà sensitiva è connessa ai sensi, cioè a organi corporei, la facoltà intellettiva non è “mescolata” al corpo né dispone di un organo fisico specifico. Ciò giustifica il dubbio che Aristotele esprime, se cioè l’indagine di questa facoltà spetti alla psicologia oppure alla disciplina più alta, la filosofia prima, che si occupa degli enti immateriali.

Ma questo intelletto analogo alla materia, questo intelletto in potenza, che è in potenza, prima di pensarli, tutti i suoi oggetti, cioè gli intelligibili, come giunge a pensare? In altre parole, come passa dalla sua condizione potenziale alla conoscenza in atto, al pensiero degli intellegibili, al loro effettivo possesso? Siamo qui di fronte, nel cap. 5 del libro III, alla principale e più nota difficoltà dell’opera, su cui sono stati versati fiumi di inchiostro e suggerite le interpretazioni più divergenti. L’intelletto “agente” o “attivo” è paragonato a una sorta di luce che rende i colori in potenza colori in atto e permette perciò di coglierli, come pure a una causa efficiente che “produce” i propri effetti; esso è tuttavia “nell’anima”, come suo stato o condizione. E’ importante precisare questo punto perché, notoriamente, alcune importanti interpretazioni antiche hanno voluto concepire l’intelletto agente come un principio esterno, un intelletto divino, perfino coincidente con il primo motore immobile di cui parla il libro XII della Metafisica, che sarebbe responsabile della produzione delle forme intellegibili e della loro trasmissione all’intelletto umano solo passivo o in potenza.

Per quanto ingegnosa, questa interpretazione non trova chiaro fondamento nel testo aristotelico, se la conclusione del cap. 5 insiste sul carattere divino dell’intelletto agente e sulla sua separabilità dal corpo prevalentemente nel senso che si tratta di un’attività intellettuale “pura”, che non si esercita tramite il corpo, e che, come tale, attinge in qualche modo all’immortalità. Ma “quale” immortalità? Anche questo punto è controverso: mi limiterei personalmente a constatare, concludendo su tale aspetto, che Aristotele ripete qui che la conoscenza in atto, cioè il pensiero che pensa, cioè ancora l’attività intellettuale realizzata, è identica al suo oggetto, il che implica necessariamente che consiste nell’identificarsi con il proprio oggetto. L’intelletto in atto, l’intelletto che pensa, è dunque forse soltanto da intendersi come quella funzione intellettuale che, pensando gli intellegibili, si rende identica a essi, differenziandosi così dalla sua condizione solo potenziale, che consiste invece nella disposizione non ancora realizzata ad accogliere gli intellegibili.

Se le cose stessero in questi termini, la separazione, l’eternità e l’immortalità dell’intelletto agente o in atto si rivelerebbero semplicemente come tratti che appartengono agli oggetti intellegibili con cui del resto esso si identifica. In tale ottica sarebbe allora legittimo sostenere che «esso soltanto è ciò che è veramente», anche se, come Aristotele aggiunge, «noi non ricordiamo», appunto nella misura in cui non vi sarebbe nessun “noi” al livello di questo intelletto che è in atto i suoi oggetti, di questa attività intellettuale considerata di per sé, che è ricondotta, senza residui, alla dimensione oggettiva dei suoi contenuti.

 

Bibliografia essenziale

Edizioni
Aristotle De anima, edited with introduction and commentary by W.D. Ross, Clarendon Press, Oxford 1961.

Traduzioni italiane
Movia, Aristotele, L’anima, a cura di G. Movia, Loffredo, Napoli 19912.

Studi
M. Nussbaum e A.M. Rorty (a cura di), Essays on Aristotle’s De anima, Clarendon Press, Oxford 1992.
G. Cambiano e L. Repici (a cura di), Aristotele e la conoscenza, LED, Milano 1993.
E. Berti (a cura di), Guida ad Aristotele, Laterza, Roma 20125.

Il rifiuto e l’oltrepassamento: la Seinsfrage e la passione per la libertà

di
Francesca Brencio

 

Non si raggiunge la cosa del pensiero mettendo in giro una serie di chiacchiere sulla “verità dell’essere” e sulla “storia dell’essere”. […]
Anche se non sono destinate all’eternità, le cose che hanno importanza arrivano ancora in tempo anche se arrivano all’ultima ora.
M. Heidegger

 

I. La domanda sul senso dell’essere e l’ostinazione heideggeriana

Nel 1962 Heidegger scrive:

Nietzsche sapeva bene che cos’è la filosofia. Questo sapere è raro. Solo i grandi pensatori lo posseggono nel modo più puro, nella forma di un costante domandare. La domanda fondamentale, in quanto domanda che fonda in modo autentico, in quanto domanda sull’essenza dell’essere, non è sviluppata come tale nella storia della filosofia. […] La domanda posta chiede che cos’è l’ente. Chiamiamo questa tradizionale “domanda capitale” [Hauptfrage] della filosofia occidentale la domanda guida [Leitfrage].Ma essa è soltanto la penultima domanda. Quella ultima, e cioè la prima, chiede: che cosa è l’essere stesso? Chiamiamo questa domanda, da sviluppare e da fondare per prima, la domanda fondamentale [Grundfrage] della filosofia, perché in essa soltanto la filosofia domanda del fondamento dell’essere in quanto fondamento e al tempo stesso cerca di ottenere, domandando, il proprio fondamento e si sfonda. Prima che questa domanda sia posta espressamente, la filosofia, se vuole fondarsi, deve sempre mettersi al sicuro percorrendo la via di una teoria della conoscenza o della coscienza, deve sempre restare su un cammino che, per così dire, si muove nello spazio antistante la filosofia e non gira al suo centro. La domanda fondamentale rimane estranea a Nietzsche come alla storia del pensiero a lui precedente[ref]M. Heidegger, Nietzsche, trad. it. a cura di F. Volpi, Adelphi, Milano 1994, pp. 31-77.[/ref].

La domanda fondamentale è la domanda sul senso dell’essere, è «il pensiero più grave della filosofia perché è il suo pensiero più intimo e più esteriore allo stesso tempo. È il pensiero con il quale essa sta e cade»[ref]Ibidemp. 34.[/ref]. Lo scopo dichiarato di Essere e tempo è quello di «riproporre il problema sul senso dell’essere (Die frage nach dem Sinn von Sein)»[ref]M. Heidegger,, Essere e tempo, trad. it. a cura di P. Chiodi, Longanesi, Milano 1976, p. 14.[/ref], problema che compare come un filo d’Arianna in tutta la meditazione del filosofo tedesco e che appare come l’unica domanda fondamentale della filosofia. Sein und Zeit inizia con una epigrafe che Heidegger prende a prestito dal Sofista di Platone, in cui Socrate dice ad un sofista: «È chiaro infatti che voi da tempo siete familiari con ciò che intendete quando usate l’espressione essente; anche noi credemmo un giorno di comprenderlo senz’altro, ma ora siamo caduti nella perplessità»[ref]Ivi.[/ref]. Heidegger scrive subito dopo:

È dunque necessario riproporre il problema sul senso dell’essere […]. Lo scopo del presente lavoro è quello dell’elaborazione del problema del senso dell’ “essere”. Il suo traguardo provvisorio è l’interpretazione del tempo come orizzonte possibile di ogni comprensione dell’essere in generale[ref]Ivi.[/ref].

Il problema sul senso dell’essere si inscrive nel pensiero heideggeriano non come un problema filosofico tra molteplici problemi filosofici, ma come il problema per eccellenza della filosofia. Riproporre la Seinsfrage significa riformulare il problema della comprensione dell’essere stesso, oltrepassando la metafisica ed il suo pensare rappresentazionalistico che ha contribuito ad obliare la domanda fondamentale della filosofia.

La centralità di questo domandare, che solo l’esserci (il Dasein) riesce a porre in atto, chiama in causa tutta la storia della filosofia occidentale e della metafisica, la quale deve essere oltrepassata perché incapace di rispondere alla domanda fondamentale: che cos’è l’essere? Tale incapacità non è soltanto la caratteristica più propria del pensiero filosofico occidentale, ma si accompagna all’oblio dell’essere da parte della metafisica stessa, in modo destinale. E’ proprio il destino dell’essere che annovera, fra le sue molteplici figure, quella dell’oblio, creando una vera e propria fenomenologia dell’essere che progressivamente, nel corso della storia, manifesta ed occulta se stesso, facendo sì che «la questione dell’essere rimane sempre la questione dell’ente»[ref]M. Heidegger, Lettera sull’umanesimo, in Segnavia, trad. it. a cura di F. Volpi, Adelphi, Milano 1987, p. 284.[/ref].

Già in Essere e tempo Heidegger scriveva:

Benché la rinascita della metafisica sia un vanto del nostro tempo, il problema dell’essere è oggi dimenticato. Si crede infatti di potersi sottrarre ad una rinnovata γιγαντομαχία περί τῆς οὐσίας. Eppure non si tratta di un problema qualsiasi[ref]M. Heidegger, Essere e tempo, cit., p. 53.[/ref].

La metafisica occidentale oblia la differenza ontologica e crea una sovrapposizione fra essere ed ente. Il tratto della semplice presenza, come caratteristica tipica con cui la metafisica pensa l’essere, è la grande impasse in cui tutta la filosofia è incappata.

L’interpretazione antica dell’essere dell’ente trae il suo orientamento dal “mondo” e dalla “natura” nel senso più ampio e che, di fatto, essa ricava dal “tempo” la sua comprensione dell’essere. La prova (…) di ciò è la determinazione del senso dell’essere come παρουσία, o di ουσία, che ha il significato ontologico-temporale di “presenzialità”. L’ente è concepito nel suo essere come “presenzialità”, cioè viene compreso in riferimento ad un determinato modo del tempo, il presente[ref]Ibidem, p. 44.[/ref].

Concependo l’essere come semplice presenza[ref]Cfr. M. Heidegger, Seminario di Zäringhen (1973)in Seminari, trad. it. a cura di M. Bonola, Adelphi, Milano 1992, p. 176.[/ref], la filosofia occidentale si ostina nel suo ambito con l’intenzione di spiegarlo senza capire che l’essere non si lascia rappresentare come un oggetto:

Finché la filosofia non fa che precludersi costantemente la possibilità di accedere alla cosa del pensiero, cioè alla verità dell’essere, essa è assicurata contro il pericolo di infrangersi sulla durezza della sua cosa. Per questo c’è un abisso tra il “filosofare” sul naufragio e un pensiero che davvero naufraga[ref]M. Heidegger, Lettera sull’umanesimo, in Segnavia, trad. it. a cura di F. Volpi, Adelphi, Milano 1987, p. 296.[/ref].

Tesa a questa comprensione oggettivata di ciò che l’essere “rappresenta”, la metafisica occidentale oblia la differenza ontologica che la domanda sul senso dell’essere reclama, impedendo la reale comprensione di ciò che l’essere è; infatti, «l’essere stesso può illuminare – aprire la differenza in esso custodita di essere ed essente nella sua verità solo quando la differenza stessa espressamente accade»[ref]M. Heidegger, L’oltrepassamento della metafisica (1946), in Saggi e discorsi, trad. it. a cura di G. Vattimo, Mursia, Milano 1976, p. 50.[/ref].

II. L’essere ed i “pensatori iniziali” 

Che cos’è l’essere di cui Heidegger parla?

Esso è se stesso […]. L’essere non è né un Dio né un fondamento del mondo[ref]M. Heidegger, Lettera sull’umanesimo, in Segnavia, cit., p. 284.[/ref].

Come si legge nei verbali del seminario di Zurigo (1951)[ref]Cfr. M. Heidegger, Seminario di Zurigo, in Seminari, cit., pp. 206-207.[/ref], essere e Dio non sono identici; in Proscritto a “Che cos’è metafisica?” Heidegger dice che l’essere non è un prodotto del pensiero, ma il pensiero essenziale è un evento dell’essere[ref]M. Heidegger, Proscritto a “Che cos’è metafisica?”, in Segnavia, ed. cit., p. 262.[/ref], e nella Lettera sull’umanesimo Heidegger continua affermando che «in quanto tale l’essere è misterioso, la semplice vicinanza di un dominare non invadente»[ref]M. Heidegger, Lettera sull’umanesimo, in Segnavia, ed. cit., p. 286.[/ref].

È molto difficile trovare delle definizioni positive dell’essere nell’opera heideggeriana, poiché esso è per lo più definito attraverso via negationis. Ciò che colpisce della definizione che Heidegger dà dell’essere è la sua non concettualizzabilità, la sua inoggettivabilità, cioè il suo non ridursi ad oggetto, ad ente, a semplice-presenza[ref]Cfr. M. Marassi, Presenza e differenza. Heidegger e l’unità originaria, in AA. VV., La differenza e l’origine, Centro di Ricerche di Metafisica dell’Università Cattolica del Sacro Cuore di Milano, Milano 1987, pp. 302-351.[/ref]. E proprio questo non ridursi a semplice-presenza fa dell’essere il fondamento infondato del discorso heideggeriano. Tuttavia tale non ridursi a concetto (di ciò che l’essere rappresenta) e il suo non ridursi ad oggetto non sono sinonimo di una insignificanza dal momento che non occorre confondere il senso [Sinn] con il significato [Bedeutung], cioè con ciò che è articolabile in una definizione.

La riflessione che Heidegger compie sul senso dell’essere conduce ad una via verso i pensatori iniziali dal momento che nelle loro parole è celato il senso più profondo della domanda: «La parola del pensiero iniziale custodisce “ciò che è oscuro”»[ref]M. Heidegger, Eraclito, trad. it. a cura di F. Camera, Mursia, Milano 1993, p. 26.[/ref]. In questa parola è contenuto, pensato e nominato l’essere, sebbene essa rimanga per l’uomo contemporaneo, figlio della tecnica e della metafisica occidentali, la parola più estranea ed inascoltata.

Heidegger inizia proprio dal pensiero greco. A tal proposito Gadamer ha osservato che, pur avendo il pensiero greco svolto sempre un ruolo privilegiato di confronto con la filosofia tedesca, tuttavia egli osserva che «con Heidegger viene introdotto qualcosa di nuovo, una nuova prossimità e una nuova interrogazione critica degli esordi greci del filosofare»[ref]H. G. Gadamer, I sentieri di Heidegger, traduzione italiana a cura di R. Cristin e (solo per il cap. VIII) di G. Moretto, Marietti, Casale Monferrato 1987, p. 125.[/ref]. L’insistenza heideggeriana sulla necessità di tornare ai pensatori dell’inizio non va intesa come un ritorno sic et simpliciter ai Greci o ai presocratici, bensì deve essere compreso come un ritrovare nelle loro parole ciò che caratterizza la storia dell’essere entro cui noi ci inscriviamo, come “l’impensato”.

Cos’è questo impensato?

Nel corso del seminario tenuto a Friburgo nel semestre inverale del 1966/67, in collaborazione con Eugen Fink, Heidegger disse: «Faccio una proposta: l’impensato è l’ ἀλεθήια. Sull’ ἀλεθήια in quanto ἀλεθήια in tutta la storia greca non c’è nulla»[ref]M. Heidegger/ E. Fink, Colloquio intorno ad Eraclito (1977), trad. it. a cura di M. Nobile, Coliseum, Milano 1992, p. 301.[/ref]. L’ ἀλεθήια è forse la dimensione più propria con cui definire l’essere: essa è la svelatezza che si occulta, il non nascondimento (Unverborgenheit), l’apparizione fugace e nascosta; è il mostrarsi-occultarsi di ciò che l’essere è. L’ ἀλεθήια non ha nulla a che fare con il concetto di verità: piuttosto si configura come ciò che abbraccia convenientemente τἀ εόντα, non è una vuota apertura, ma il disvelamento che circonda l’εόν. L’ ἀλεθήια attesta che prima della verità del giudizio vi è quella delle cose, della loro presenza e del loro essere accanto all’uomo[ref]Cfr. C. Fabro, Ontologia dell’arte nell’ultimo Heidegger, in “Giornale critico della filosofia italiana”, n. 31, 1952, p. 345 e s.[/ref].

Nel § 44b di Sein und Zeit, in relazione all’ ἀλεθήια si dice: «La traduzione con la parola verità, e più ancora le definizioni concettuali teoretiche di questa espressione, velano il senso di ciò che i greci, come comprensione prefilosofica, posero ovviamente a base dell’uso terminologico di ἀλεθήια. ἀλεθήια, pensata in quanto ἀλεθήια, non ha nulla a che fare con “verità”, ma significa disvelamento. Ciò che ho detto allora in Sein und Zeit va già in questa direzione. L’ ἀλεθήια come disvelamento mi ha sempre tenuto occupato, ma si frapponeva sempre la “verità”. L’ ἀλεθήια come disvelamento va nella direzione di ciò che è la Lichtung»[ref]M. Heidegger / E. Fink,  Dialogo intorno Eraclito, cit., p. 301.[/ref].

In una prima fase del suo pensiero (fino agli anni ’30), in questo contesto interpretativo, il pensiero greco è interpretato in maniera monolitica: Parmenide è chiamato in causa da Heidegger come l’iniziatore del predominio della considerazione ontica su quella ontologica, inaugurando la strada della soggettività, ed Aristotele come colui che porterà a termine questo predominio con l’ ουσία. Tuttavia, intorno agli anni ’30 l’interpretazione della grecità muta di segno in Heidegger tanto che egli non parlerà più di pensiero dell’inizio in termini uniformi bensì leggerà in esso delle dicotomie, arrivando ad individuare alcuni filosofi che hanno pensato l’origine (l’essere) ed altri che hanno aperto la strada alla metafisica come oblio dell’essere. In questa nuova cornice interpretativa, tra i pensatori dell’origine capaci di aver pensato l’essere,  ora Heidegger annovera proprio Parmenide nei termini di colui che ha custodito l’essere nella enigmaticità delle sue parole. È da qui che egli attingerà per formulare il discorso sull’ ἀλεθήια. Tra coloro, invece, che hanno inaugurato la strada della metafisica come oblio dell’essere Heidegger pone Platone ed Aristotele[ref]Cfr. L. Ruggiu, Heidegger e Parmenide, in AA. VV., Heidegger e la metafisica, Marietti, Casale Monferrato 1991, pp. 49-81.[/ref].

A tal proposito Gadamer dice: «Tutte le successive pubblicazioni di Heidegger concernenti il suo rapporto con i Greci, iniziate con il saggio su Anassimandro apparso in Sentieri interrotti, non condividono più nella stessa misura la fusione di orizzonti che negli studi precedenti era stata spinta fin quasi all’identificazione»[ref]H. G.Gadamer, I sentieri di Heidegger, cit., pp. 126-127.[/ref]. Heidegger intese il rapporto con i Greci non solo come un ripercorrere la storia della filosofia compresa nei termini di apparizione ed oblio dell’essere, ma anche (e soprattutto) come un colloquio profondo ed intimo. Egli «nei Greci trovò fin dall’inizio i suoi veri interlocutori. Essi richiedevano a lui costantemente di pensare in modo ancora più greco e di trovare e “ripetere” in loro il suo proprio interrogare»[ref]Ibidem, p. 126.[/ref]. Se è vero che Heidegger usava i testi presocratici con una certa violenza[ref]Ibidem, p. 128.[/ref], è altresì vero che fu dallo studio di Aristotele[ref]Ivi.[/ref] che l’esperienza iniziale del pensiero greco gli si rivelò in tutta la sua portata; proprio Aristotele gli servì come alleato contro Platone e contro le sue posizioni[ref]Cfr. H. G.Gadamer, I sentieri di Heidegger, cit., pp. 71-82.[/ref]:

Hegel dice della filosofia dei Greci: “In essa si può trovare soddisfazione solo fino a un certo grado” e cioè la soddisfazione dell’impulso dello spirito alla certezza assoluta. Questo giudizio di Hegel su ciò che è insoddisfacente della filosofia greca è pronunciato a partire dal compimento della filosofia. Nell’orizzonte dell’idealismo speculativo, la filosofia dei greci rimane nel “non ancora” del compimento. Se però ora prestiamo attenzione all’enigma dell’ ἀλεθήια che domina sull’inizio della filosofia greca e sul corso dell’intera filosofia, allora anche al nostro pensiero la filosofia dei greci si mostra in un “non ancora”. Solo che questo “non ancora” è il “non ancora” dell’impensato, non un “non ancora” che non ci soddisfa, ma un “non ancora” al quale noi non bastiamo e che non soddisfiamo[ref]M. Heidegger, Hegel e i Greci, in Segnavia, cit., p. 391.[/ref].

Un altro termine attraverso il quale Heidegger tenta di spiegare l’essere è offerto dalla φύσις. Essa indica “ciò che sboccia da sé”, esprimendo la spontaneità dell’aprirsi, della presenza indipendente della soggettività. La φύσις è una delle figure dominanti del weg heideggeriano:

Nella Fisica, Aristotele concepisce la φύσις come l’enticità di un particolare ambito dell’ente, quello degli enti naturali […]. Se non che il trattato che compare nel libro G della Metafisica […] dice esattamente il contrario: la φύσις (l’essere dell’ente come tale nella sua totalità) è φύσις τις – una certa qual φύσις […]. in questo inizio l’essere è pensato come φύσις [ref]M. Heidegger, Sull’essenza e sul concetto della φύσις, in Segnavia, cit., p. 253 e s.[/ref].

 Se la φύσις ha qualche possibilità di nominare l’essere nei termini di “la presenza di ciò che appare”[ref]Cfr. M. Heidegger, Che cosa significa pensare? (1952), trad. it. a cura di U. M. Ugazio e G. Vattimo, Sugarco, Milano 1972, vol. II, pp. 93 e ss.[/ref], il suo “sbocciare” genera la molteplicità degli enti – attraverso quello stesso procedimento che Eraclito chiamava πόλεμος – e tramite questi appare entificata. La φύσις porta l’essere al di là della metafisica; la sua caratteristica è duplice: essa è l’Aufgehen, il dispiegarsi, e la Beraubung, il trattenere in sé.

III. Dal non-nascondimento alla correttezza, verso il fondamento

La riduzione metafisica dell’essenzialità dell’essere è fatta risalire ai pensatori successivi ai presocratici, a coloro che hanno interpretato la verità come conformità tra la sintesi del conoscere e la sintesi dell’ente. Platone, secondo Heidegger, ha interpretato il concetto di svelatezza, di non nascondimento, cioè il concetto di ἀλεθήια, come “correttezza” (ὀρθότης), attribuendo così al non nascondimento una dimensione ontica, oggettiva[ref]Cfr. M. Heidegger, Domande fondamentali della filosofia. Sezione di “Problemi della Logica” (1984), trad. it. a cura di U. M. Ugazio, Mursia, Milano 1988, pp. 48-51.[/ref]. Se la svelatezza si fa correttezza, essa è spinta tra la molteplicità degli enti e la verità non è più la manifestazione di ciò che si nasconde, ma il corretto riferimento tra ciò che nel mondo sensibile si percepisce e l’idea corrispondente nell’Iperuranio; è così che la verità si pone sotto il giogo dell’idea – e con essa anche il linguaggio[ref]Cfr. U Galimberti, Linguaggio e civiltà. Il linguaggio occidentale nella lettura di Heidegger e Jaspers, Mursia, Milano 1977, pp. 125 e ss.[/ref] – e l’essere sotto quello del dover essere, cioè dei valori che ne determinano la bontà. Ma la verità così intesa non fa altro che trascrivere in termini di semplice-presenza ciò che in realtà non lo è, facendo diventare l’essere una παρουσία dell’ente stesso.

Anche Aristotele e Tommaso d’Aquino sono da Heidegger considerati come interpreti della verità nei termini di ὀμοίωσις; è stato Aristotele a dire che «il vero e il falso non sono nelle cose […] ma solo nel pensiero»[ref]Aristotele, Metafisica, trad. it. a cura di G. Reale, Rusconi, Milano 1993, E4, 1027b, 25-27, p. 281.[/ref] aprendo la strada al principio dell’adeguatio intellectus et rei, che nel medioevo ha trovato tanta fortuna e che ha avuto la sua formulazione più compiuta con Tommaso[ref]Cfr. Tommaso d’Aquino, Liber de veritate catholicae fidei contra errorem infidelium, in Summa contra gentiles, Marietti, Casale Monferrato 1961, vol. II, libro I, cap. 4, pp. 5 e ss.[/ref]. Questo principio, che ormai ha totalmente dimenticato e abbandonato l’originarietà dell’ ἀλεθήια, nel pensiero moderno sarà preso da Cartesio come incipit della Regula VIII nell’opera Regulae; lì si legge: «Veritatem proprie vel falsitatem non nisi in solo intellectum esse posse»[ref]R. Descartes, Regulae ad directionem ingenii, in Discorso sul metodo. Regole per la ricerca della verità, trad. it. a cura di G. Galli, Laterza, Bari 1968, p. 33.[/ref]. E’ così che il non nascondimento della verità viene smarrito lungo la via del pensiero occidentale, delineando la verità nei termini di conformità (Übereinstimmung) del conoscere, cioè di rapporto fra l’atto predicativo con l’oggetto del giudizio. La cosa, per essere detta vera, deve uscire allo scoperto, deve venir fuori dal nascondimento e porsi nella sintesi di soggetto e predicato. Così concepita, la verità diventa una specie di aggiunta dell’essere in ambito logico (nei termini di conformità del giudizio) o in ambito metafisico (nei termini di conformità alle idee separate o in Dio).

Su questa via, fatta di sovrapposizioni e smarrimenti, si pone anche la definizione del pensare non più come νοεῖν o come λέγειν, ma come l’attività sintetica a priori del soggetto, che in Kant trova il suo magistrale compimento come con-cepire. A pensiero diventato ormai rappresentazione e giudizio è conforme il principio omne ens habet rationem; nihil est sine ratione: nessun ente si sottrae alla legge del fondamento. Proprio la riflessione sul fondamento conduce Heidegger a tornare a Leibniz e lo conduce a porsi una domanda: il principio di ragion sufficiente ha una ragione? Il principio di ragione parla della totalità dell’essente: esso dice omne ens, quindi parla dell’essente nella sua totalità, dunque dell’essere.

Bisogna ora veder il fatto che, e il senso in cui, qualcosa come il fondamento appartiene all’essenza dell’essere. Essere e fondamento si coappartanegono. Dalla sua appartenenza all’essere in quanto essere, il fondamento riceve la sua essenza. Viceversa, è dall’essenza del fondamento che l’essere domina in quanto essere. Fondamento ed essere sono lo stesso, ma non l’identico, come indica già la differenza tra i termini “essere” e “fondamento”. L’essere è nella sua essenza fondamento. Per questo l’essere non può avere ancora un ulteriore fondamento che dovrebbe fondarlo. Quindi il fondamento rimane via (Weg, ab) dall’essere. Nel senso di un tale rimanere-via (Ab-bleiben) del fondamento dall’essere, l’essere “è” il fondo abissale, l’Ab-grund. In quanto l’essere come tale è in sé fondante, rimane esso stesso privo di fondamento. L’essere non rientra nel dominio della tesi del fondamento, bensì solo l’ente[ref]M. Heidegger, Il principio di ragione (1957), trad. it. a cura di F. Volpi e G. Gurisatti, Adelphi, Milano 1991, p. 94.[/ref].

 Heidegger insiste costantemente sulla differenza che separa il versante logico del principium rationis da quello ontico del medesimo e fa discendere la logica dalla metafisica, conferendo a quest’ultima un primato sulla prima. Come lo aveva pensato Leibniz, il principio di ragione aveva una topologia tale da caratterizzarsi in tre livelli: quello della soggettività, quello gnoseologico e quello divino (Dio), fondamento infinito dei primi due. Secondo Heidegger tra il principium rationis e Dio esiste una circolarità: il principio è valido in quanto esiste Dio che lo conferma e lo concretizza; e Dio esiste proprio perché il principio è valido. Si è in presenza di un principio che si muove in circolo ed il cui orizzonte di rimando è quello ontico-teologico, ma non ontologico.

Il principio di ragione costituisce per Heidegger il primo pilastro della metafisica e altresì la prima formulazione della differenza ontologica. Il principio di ragione rimane fuori dal luogo originario di indagine: esso sta sulla soglia, non al suo interno, facendo sì che il problema dell’essere rimane è senza fondamento. Tuttavia, c’è anche un senso ulteriore per il quale l’essere è senza fondamento e, se si vuole, tale senso è quello che più da vicino caratterizza la meditazione heideggeriana:  l’essere in quanto tale è senza fondamento, cioè Ab-Grund, in quanto non fondato. L’essere è detto Ab-Grund invece proprio mentre si predica (nel senso di predicato) il suo essere la stessa cosa con il Grund. Il principio di ragion sufficiente non vale per l’essere perché l’essere stesso è la ragione di se medesimo: esso è co-originario al fondamento e nello stesso tempo come radicalmente differente ad esso. L’essere è un abisso senza fondo che la metafisica non è riuscita a pensare.

IV. Il fondamento – ovvero della libertà

Il problema del principio di ragion sufficiente è strettamente legato al tema del fondamento, che tanto spazio ha occupato nella speculazione heideggeriana, e alla questione del rapporto tra essere ed ente, con il conseguente accento sulla libertà dell’uomo – cioè sulla libertà del Dasein. Il fondamento secondo Heidegger non va trovato nel principio di ragione, poiché esso è pre-logico:

Il “principio di ragione”, come “principio supremo”, sembra escludere fin dall’inizio che vi sia un problema del fondamento. Ma il “principio di ragione” dice qualcosa sul fondamento come tale? Come principio supremo, svela forse l’essenza del fondamento? Nella sua formulazione più comune e più breve, il principio dice: nihil est sine ratione, niente è senza fondamento, mentre nella sua formulazione positiva: omne ens habet rationem, ogni ente ha un fondamento. Il principio fa un’asserzione sull’ente, e precisamente in riferimento a qualcosa come il suo “fondamento”. Ma in che cosa consista l’essenza del fondamento, in questo principio non è specificato. Anzi per questo principio, l’essenza del fondamento è presupposta come una “rappresentazione” per sé evidente. Ma anche per un altro verso il “supremo” principio di ragione fa uso dell’essenza non chiarita del fondamento; infatti il carattere specifico di principio di questo principio in quanto principio “fondamentale”, principium grande (Leibniz), può essere determinato in modo originario soltanto in riferimento all’essenza del fondamento. Occorre pertanto mettere in questione il “principio di ragione” sia per il modo in cui si pone, sia per il “contenuto” che pone, se si vuole che, al di là di una “rappresentazione” indeterminata e generica, l’essenza del fondamento diventi un problema […]. Anche se non getta alcuna luce sul fondamento come tale, il principio di ragione può tuttavia servire come punto di partenza per una prima connotazione del problema del fondamento[ref]M. Heidegger, L’essenza del fondamento, in Segnavia, cit., pp. 82-84[/ref].

 Sull’essenza del fondamento fu pubblicato due anni dopo Essere e Tempo (quindi nel 1929, lo stesso anno in cui egli pronunciò il discorso d’apertura per quell’anno accademico all’Università di Freiburg, la prolusione Che cos’è metafisica?), e in quell’opera Heidegger partì dall’analisi del principio di ragion sufficiente di Leibniz, o se si vuole, dal principio di causalità, per discutere nuovamente della differenza ontologica. Prendendo le distanze dalla tradizione filosofica per la quale il vero sapere si configura come sapere di cause (vere scire est per causas scire), Heidegger si interessa del fondamento della differenza ontologica chiamando in causa la trascendenza dell’esserci: «Il problema dell’essenza del fondamento diventa il problema della trascendenza»[ref]Ibidem, p. 91.[/ref]. La trascendenza indica, in questo contesto, ciò che vi è di più proprio dell’essere umano, come ciò che lo costituisce e fonda ogni possibile comportamento e atteggiamento. La trascendenza è, in altre parole, ciò che costituisce l’ipseità (Selbstheit)[ref]Cfr. Ibidem, p. 95[/ref], ciò che pone l’esserci nella condizione di oltrepassare costantemente la natura[ref]Cfr. Ibidem, p. 95-97[/ref], gli enti intramondani e il mondo[ref]Cfr. Ibidem, p. 99-118, con particolare attenzione alla nota 59 presente nell’edizione Adelphi (p. 118).[/ref] (che Heidegger chiama “l’in vista di”) per affermare la propria libertà.
Scrive Heidegger:

L’oltrepassamento verso il mondo è la libertà stessa. Ne consegue che la trascendenza non si imbatte nell’ “in vista di” (il mondo – n.d.a.) come in un valore o in un fine per sé sussistenti, ma è la libertà, proprio in quanto libertà, a pro[ref]Corsivo di Heidegger nell’edizione Adelphi.[/ref]-porre a se stessa l’ “in vista di” […]. Solo la libertà può lasciare che all’esserci  un mondo si imponga (walten) e si faccia mondo (welten)[ref]Anche qui corsivo di Heidegger, come nella riga seguente.[/ref]. Il mondo, infatti, non è mai, ma si fa mondo[ref]Ibidem, p 120.[/ref].

L’esserci non è fondato né autofondato: non è un Io alla maniera idealistica capace di concepire e porre il non-io e la realtà tutta. Piuttosto, l’esserci è la trascendenza stessa che si manifesta attraverso il suo superamento e, per mezzo di essa, fa il mondo, lo rende possibile.  Come Sein und Zeit aveva già chiarito, allorquando Heidegger spiegava la deiezione, l’essere-per-la-morte e la progettualità, l’esserci  reclama una libertà appassionata ed affrancata dal mondo la quale, solo e proprio in virtù di tale affrancamento, permette al mondo di essere possibile. La libertà dell’esserci (cioè dell’uomo), corre costantemente il rischio di essere smarrita e di far vacillare l’esserci nelle sue scelte, di imprigionare il mondo in una realtà che esautori la possibilità della sua esistenza, una libertà che ammette al suo interno lo smarrimento e l’errore. In antitesi con la tesi sartriana per la quale l’uomo è condannato alla libertà, Heidegger afferma che è la libertà ad avere l’uomo. Come già indicato in Sein und Zeit insegna, l’uomo  è un esserci che “ha da essere”, l’unico ente capace di progettarsi e di farsi carico del proprio “poter essere”, cioè della propria libertà, parola che nello scritto del ’27 è prudentemente evitata e sostituita con sinonimi: «apertura», «risolutezza» o «progetto». Solo con il confronto con Kant e con Schelling (durante il corso tenuto nel 1936) Heidegger maturerà un’interpretazione della libertà nei termini di un fenomeno generato dalla coappartenenza di essere e uomo, sia nei termini di  «libertà da» ma anche di «libertà per».

In tal senso, la libertà quale emerge dallo scritto del ’29, è ancora più originaria di ogni decisione che spetta al Dasein poiché il suo Grund è nell’Abgrund, cioè nello stesso fondamento che le viene tolto. La libertà dell’esserci può essere esperita e compresa nella sua autentica abissalità:

La libertà come trascendenza non è tuttavia solo una particolare “specie” di fondamento, ma l’origine del fondamento in generale. La libertà è libertà di fondamento (Freiheit zum Grunde)[ref] Ibidem, p. 121 – corsivo di Heidegger.[/ref].

In questo senso l’ontologia si fa strumento di conoscenza della finitezza dell’uomo e si flette in direzione di una nuova soggettività che fa del trascendentale kantiano un momento da superare[ref]Cfr. F. Brencio, Scritti su Heidegger, Aracne, Roma 2013.[/ref]. La citazione contenuta in Sein und Zeit che recita “Più in alto della realtà si trova la possibilità” (Höher als die Wirklichkeit steht die Möglichkeit) sembra indicare proprio l’apertura ad una dimensione della soggettività ancora più radicalmente libera di quanto la Daseinsanalyse indichi; forse questo è quanto due anni dopo, nel Kantbuch, egli affiderà al primato dell’immaginazione trascendentale sull’intelletto.

Il Kantbuch di Heidegger, infatti, ripropone la domanda sull’essere al fine di comprendere correttamente il suo rapporto con il tempo, ripensando radicalmente la finitezza dell’essere dell’esserci e mettendo in questione questa stessa in quanto possibilità per lo svelamento della finitezza dell’essere stesso. Heidegger intende andare oltre Kant: questo significa concretamente radicalizzare la struttura trascendentale della soggettività, piegandola alle esigenze speculative del suo pensiero. In Kant e il problema della metafisica (1929) Heidegger vuole liberare i germi potenziali che costituiscono la possibilità della conoscenza ontologica, cioè la trascendenza dell’esserci. Come è noto, con questa sua impostazione speculativa egli critica la posizione postkantiana della scuola di Marburgo e più in generale la tendenza a far confluire e dissolvere l’estetica trascendentale nella logica trascendentale. Heidegger legge la Critica della ragione pura come una tematizzazione della ragione umana finita: questo significa contrapporre alla lettura dei marburghesi un ripensamento fenomenologico. Per riassumere, si può affermare che tra pensiero ed intuizione occorre che ci sia una intrinseca affinità affinché il pensiero possa unirsi all’intuizione stessa, quindi una sintesi che permetta all’oggetto di divenire manifesto; Heidegger nomina questo processo sintetico “sintesi veritativa” (veritative Synthesis): una sintesi capace di integrare al suo interno la sintesi predicativa e la sintesi apofantica. La sintesi veritativa è il rendere manifesto in qualità di oggetto l’ente incontrato, mostrarlo nella sua verità: l’oggetto, in quanto Gegen-stand, può darsi esclusivamente per la conoscenza finita. Conoscere ciò che si mostra significa nella lettura hiedeggeriana conoscere il fenomeno, ovvero conoscere l’ente stesso, la cosa in sé.

Questa lettura fenomenologica del fenomeno implica una rielaborazione mutata del concetto stesso di fenomeno: in esso non si conosce solo l’oggetto ma l’ente stesso, o meglio, in generale la finitezza. L’esserci, in quanto finito, comprende il suo proprio essere progettandolo nell’orizzonte temporale di trascendenza e in questa progettualità si rivela la stessa finitezza irradiandosi nella libertà. Proprio a partire da questa finitezza, il Dasein ridesta l’originaria domanda metafisica producendo un’inversione nell’algebra della conoscenza: l’ontologia si manifesta come ratio cognoscendi della finitezza e la finitezza come la ratio essendi dell’ontologia.

V. La soggettività moderna: il rifiuto e lo smarrimento

Nel pensiero metafisico accade la riflessione sull’ente e sulla sua conoscibilità: il pensiero diventa quindi un pensiero dell’ente e non più dell’essere. Questa caratteristica è ancora più accentuata nell’epoca moderna dove la certezza del rappresentare l’ente costituisce la verità intorno all’ente. È con Cartesio che inizia l’interpretazione dell’uomo come subjectum[ref]Cfr. M. Heidegger, L’epoca dell’immagine del mondo, in Sentieri Interrotti, cit., pp. 84 e ss.; inoltre, M. Heidegger, Essere e tempo, cit., pp. 129 e ss.[/ref], la quale  crea un’antropologia del pensiero in base a cui sull’uomo – inteso come soggetto (subjectum) e non come oggetto (ὑποκείμενον) – si fonda ogni altro ente e da esso trae il proprio principio di legittimazione. La parola subjectum pretende di tradurre il greco ὑποκείμενον ma in realtà tradisce il senso più profondo contenuto in questa parola. Per il greci, ὑποκείμενον indicava

ciò che sta al fondo e che precede ogni determinazione […]. L’interpretazione occidentale dell’essere dell’ente comincia con l’assunzione di termini greci nel pensiero romano-latino; ὑποκείμενον diviene subjectum, ὑποστάσις diviene substantia, συμβεβηκός diviene accidens. Questa traduzione latina dei termini greci non è per nulla quel processo “innocuo” che è ancor oggi ritenuto. Dietro questa traduzione letterale si nasconde il tradursi in un modo di pensare diverso dalla sperimentazione greca dell’essere […], la mancanza di base del pensiero occidentale incomincia proprio con questo genere di traduzione[ref]M. Heidegger, L’origini dell’opera d’arte, in Sentieri Interrotti, cit., p. 8 e s.[/ref]

Il subjectum, la certezza fondamentale, è l’oggettività; l’essere soggetto dell’uomo, in quanto essere pensante è posta al servizio del subjectum:

In quanto subjectum l’uomo è la co-agitatio dell’ego. L’uomo fonda se stesso come criterio di ogni misura con cui viene misurato e commisurato (calcolato) ciò che deve valere come certo […], come vero […], come essente[ref]M. Heidegger, L’epoca dell’immagine del mondo, in Sentieri Interrotti, cit., p. 92.[/ref].

La co-agitatio dell’io è la coscientia, che però è già in se stessa un volere, un velle; la co-agitatio rappresenta la volontà nella sua essenza. Nell’opera del 1962, il Nietzsche, si legge:

Nella metafisica moderna ciò si manifesta nel fatto che la certezza di tutto l’essere e tutta la verità viene fondata sull’autocoscienza del singolo io: ego cogito ergo sum. Il trovarsi lì nel proprio stato, il cogito me cogitare, dà luogo anche al primo “oggetto” assicurato nel suo essere. Io stesso e i miei stati siamo l’ente primo e autentico[ref]Ivi, p. 91 e s.[/ref].

La metafisica moderna inizia a concepire l’io, il soggetto, come la certezza fondamentale su cui si articola tutto il discorso filosofico; l’io diventa così il nucleo tematico che garantisce la fondazione autentica di ogni discorso teoretico; l’antropologia pretende di trascrivere in termini di ad essa consoni (il cogito di Cartesio, l’Io penso di Kant, la volontà di Schelling e Schopenhauer, la volontà di potenza di Nietzsche) tutto il discorso ontologico.

La filosofia è diventata antropologia, e su questa via si è trasformata in una preda per la discendenza della metafisica, cioè per la fisica intesa nel suo senso più vasto, che comprende la fisica della vita e dell’uomo, la biologia e la psicologia. Divenuta antropologia, la filosofia stessa perisce a causa della metafisica[ref]M. Heidegger, L’oltrepassamento della metafisica, in Saggi e discorsi, cit., p. 56.[/ref].

Sin dagli anni ’30 Heidegger sviluppa nei suoi corsi universitari un lavoro storiografico volto a delineare la storia della metafisica come storia dell’oblio dell’essere; passando attraverso Cartesio, Leibniz, Kant, l’idealismo tedesco (Schelling ed Hegel) e Nietzsche, Heidegger legge tutta la storia della filosofia occidentale come storia della metafisica, cioè come storia del lungo oblio dell’essere. È con lo studio di Schelling e con la sua metafisica della volontà che Heidegger legge la filosofia a seguire come uno sviluppo del passaggio dalla co-agitatio dell’io alla volontà di potenza nietzscheana. Proprio Nietzsche è considerato da Heidegger come colui che porta a compimento la metafisica occidentale rimanendo tuttavia anche egli inscritto all’interno di questa storia.

            E’ su queste preliminari considerazioni interpretative che va compresa anche la questione dell’umanesimo. Nel 1946 Heidegger scrisse una lettera all’amico Jean Beaufret, pubblicata l’anno successivo (1947) e conosciuta come Lettera sull’umanesimo. Questa lettera è considerata da molti come una specie di riabilitazione teoretica della figura di Heidegger dopo i fatti inerenti al rettorato del 1933 ed è ricca di riflessioni su molteplici temi. La lettera nasce da una domanda posta ad Heidegger dall’amico Beaufret su come fosse ancora possibile trovare un senso del termine umanesimo. La risposta a questa domanda inizia con una presa di posizione da parte di Heidegger nei riguardi della tecnica e dell’agire, per poi arrivare a domandare se sia necessario ancora attribuire una qualche valenza al termine umanesimo. Heidegger è dell’avviso che la tradizione latina e quella umanistica in particolare abbiano solo accentuato il carattere di povertà della Seinsfrage, cioè abbiano ancora una volta posto la domanda sull’ente e non sull’essere, ponendo al centro della riflessione filosofica la moderna antropologia.
Scrive Heidegger:

Ogni umanesimo o si fonda su una metafisica o pone se stesso a fondamento di una metafisica del genere. È metafisica ogni determinazione dell’essenza dell’uomo che già presuppone, sapendolo o non sapendolo, l’interpretazione dell’ente, senza porre il problema della verità dell’essere[ref]M. Heidegger, Lettera sull’umanesimo, in Segnavia, cit., p. 275.[/ref].

Heidegger critica senza indugio ogni sorta di umanesimo poiché in esso ciò che il pensiero domanda è ancora l’essere dell’ente e non l’essere tout court, facendo sì che l’umanesimo si inscriva ancora all’interno della metafisica e come tale sia degno di essere oltrepassato.

L’oblio dell’essere e della differenza ontologica, che anche nella Lettera viene nominato, rimane interno all’essere stesso e destinale alla sua storia, poiché l’oblio dell’essere è un momento della storia dell’essere stesso. In tal senso Heidegger insiste sul fatto che lo scandalo della filosofia moderna non sia tanto nel fatto che essa non pensi l’essere nella modalità che più le appartiene – dal momento che l’oblio stesso è una modalità della storia dell’essere – ma che essa non rammenti questi oblio. In tal senso, la filosofia moderna dimentica la propria dimenticanza, dimentica cioè di dimenticare, ed il dimenticato (in questo caso la differenza ontologica) non viene richiesto come contenuto del dimenticare, ma rimane al di là della stessa dimenticanza. È in virtù dell’oblio dell’oblio, della dimenticanza della dimenticanza che il pensiero dell’essere diventa il pensiero più sconosciuto della filosofia moderna[ref]Si vedano a tal proposito i preziosi volumi Überlegungen II-VIÜberlegungen VII-XI e Überlegungen XII-XV, a cura di P. Trawny, Klostermann, Frankfurt a. M., 2014, in cui Heidegger torna con insistenza sul tema dell’oblio dell’essere, del destino della filosofia occidentale, della necessità di una filosofia inattuale, della centralità della Seinsfrage ed argomenti simili, con ampi passaggi su Nietzsche, Leibniz, Aristotele, Husserl, ed altri ancora. L’importanza di questi tre testi eccede di gran lunga il tema dell’antisemitismo e dell’adesione al nazismo, che sembrano essere i soli ad aver catalizzato l’attenzione degli interpreti di Heidegger. La loro ricchezza e complessità dovrebbe configurarsi come la fonte principale su cui insistere per capire il pensiero di Heidegger nel corso della sua formazione. Sui temi sovra menzionati – l’adesione al nazionalsocialismo da parte di Heidegger, il suo antisemitismo, e la politica – se ne renderà ragione nelle prossime uscite. [/ref].

L’ultima figura attraverso la quale Heidegger penserà l’essere è quella dell’Ereignis ma di essa si tratterà altrove.

 

Bibliografia delle opere citate

Opere di Martin Heidegger:
Essere e tempo, trad. it. a cura di P. Chiodi, Longanesi, Milano 1976;
Nietzsche, trad. it. a cura di F. Volpi, Adelphi, Milano 1994;
Segnavia, trad. it. a cura di F. Volpi, Adelphi, Milano 1987;
Saggi e discorsi, trad. it. a cura di G. Vattimo, Mursia, Milano 1976;
Seminari, trad. it. a cura di M. Bonola, Adelphi, Milano 1992;
Eraclito, trad. it. a cura di F. Camera, Mursia, Milano 1993;
Che cosa significa pensare? (1952), trad. it. a cura di U. M. Ugazio e G. Vattimo, Sugarco, Milano 1972, vol. II
Domande fondamentali della filosofia. Sezione di “Problemi della Logica” (1984), trad. it. a cura di U. M. Ugazio, Mursia, Milano 1988;
Il principio di ragione, trad. it. a cura di F. Volpi e G. Gurisatti, Adelphi, Milano 1991;
Sentieri Interrotti, trad. it. a cura di P. Chiodo, La Nuova Italia, Firenze 1997;
Überlegungen II-VI, Überlegungen VII-XI e Überlegungen XII-XV, a cura di P. Trawny, Klostermann, Frankfurt a. M., 2014;
M. Heidegger/E. Fink, Colloquio intorno ad Eraclito (1977), trad. it. a cura di M. Nobile, Coliseum, Milano 1992, p. 301.

Altre opere citate e studi sul tema:

AA. VV., Heidegger e la phénoménologie, Vrin, Paris 1990
Aristotele, Metafisica, trad. it. a cura di G. Reale, Rusconi, Milano 1993
F. Brencio, Scritti su Heidegger, Aracne, Roma 2013
F. Chiereghin, Einführung, Ueberwindung, Verwindung: tre modi di rapportarsi alla metafisica in Heidegger, in AA. VV., La metafisica e il problema del suo superamento, a cura di Scuola di Perfezionamento in Filosofia dell’Università degli Studi di Padova, Libreria Gregoriana, Padova 1985
P. Chiodi, L’ultimo Heidegger, Taylor, Torino 1960
G. Chiurazzi, Hegel, Heidegger e la grammatica dell’essere, Laterza, Roma-Bari 1996
A. Colombo, Martin Heidegger. Il ritorno all’essere, Il Mulino, Bologna 1964
R. Descartes, Regulae ad directionem ingenii, in Discorso sul metodo. Regole per la ricerca della verità, trad. it. a cura di G. Galli, Laterza, Bari 1968
C. Fabro, Ontologia dell’arte nell’ultimo Heidegger, in “Giornale critico della filosofia italiana”, n. 31, 1952
Id., Dell’essere, dell’ente, del nulla, in Tomismo e pensiero moderno, Libreria Editrice della Pontificia Università Lateranense, Roma 1969
G. FIGAL, Martin Heidegger. Fenomenologia della libertà, Il Melangolo, Genova 2007
U. Galimberti, Linguaggio e civiltà. Il linguaggio occidentale nella lettura di Heidegger e Jaspers, Mursia, Milano 1977
H. G. Gadamer, I sentieri di Heidegger (1983), trad. it. a cura di R. Cristin e (solo per il cap. VIII) di G. Moretto, Marietti, Casale Monferrato 1987
J. B. Lotz, Identità e differenza in un confronto critico con Heidegger, in AA. VV., La differenza e l’origine, Edizioni del Centro di Ricerche di Metafisica dell’Università Cattolica del Sacro Cuore di Milano, Milano 1987
J. Malpas, The Trascendental Heidegger, Stanford Univ. Press 2007;
M. Marassi, Presenza e differenza. Heidegger e l’unità originaria, in AA. VV., La differenza e l’origine, Centro di Ricerche di Metafisica dell’Università Cattolica del Sacro Cuore di Milano, Milano 1987
J. L. Marion, L’essere e la rivendicazione, in AA. VV., Heidegger e la metafisica, a cura di M. Ruggenini, Marietti, Casale Monferrato 1991
A. Massolo, Heidegger e la fondazione kantiana, in Ricerche sulla logica hegeliana, Marzocco, Firenze 1950
R. Morani, Essere, fondamento e abisso. Heidegger e la questione del nulla, Mimesis Edizioni, Milano 2010
L. Pareyson, Heidegger: la libertà e il nulla, in “Annuario filosofico”, n. 5, 1989
P. Rebernik, Heidegger interprete di Kant. Finitezza e fondazione della metafisica, ETS, Pisa 2006
M. Ruggenini, L’uomo e la differenza, in “Archivio di Filosofia”, n°. 1-3, 1989
L. Ruggiu, Heidegger e Parmenide, in AA. VV., Heidegger e la metafisica, Marietti, Casale Monferrato 1991
Tommaso d’Aquino, Liber de veritate catholicae fidei contra errorem infidelium, in Summa contra gentiles, Marietti, Casale Monferrato 1961, vol. II.
G. Vattimo, Essere, storia e linguaggio in Heidegger, Marietti, Casale Monferrato 1989
C. Vigna, Sulla metafisica di Heidegger, in AA. VV., Heidegger e la metafisica, a cura di M. Ruggenini, Marietti, Casale Monferrato 1991
P. Vinci, Soggetto e tempo. Heidegger interprete di Kant, Bagatto Editore, 1988
V. Vitiello, Heidegger: il nulla e la fondazione della storicità. Dalla Überwindung der Metaphysik alla Daseinsanalyse, Argalia, Urbino 1976
F. Volpi, Alle origini della concezione heideggeriana dell’essere: il trattato Vom Sein di Carl Braig, in “Rivista critica di storia della filosofia”, n. 35, 1980

Possibilità e finitezza

di

Francesca Brencio

 

L’esserci è sempre in qualche modo diretto verso…in cammino
M. Heidegger

Sein und Zeit inizia con una dichiarazione di intenti: subito dopo l’epigrafe tratta dal Sofista di Platone, Heidegger scrive:

È dunque necessario riproporre il problema sul senso dell’essere (die Frage nach dem Sinn von Sein) […]. Lo scopo del presente lavoro è quello dell’elaborazione del problema del senso dell’“essere”. Il suo traguardo provvisorio è l’interpretazione del tempo come orizzonte possibile di ogni comprensione dell’essere in generale[ref]M. Heidegger, Essere e tempo (1927), trad. it. a cura di P. Chiodi, Longanesi, Milano 1976, p. 14.[/ref].

 Se l’intento dell’opera del ’27 è quello di proporre una ricerca sul senso dell’essere, tuttavia in quella sede Heidegger analizza la struttura dell’esserci in quanto unico ente in grado di porsi la domanda sul senso dell’essere. Il tentativo di auto comprensione dell’esserci – e quindi tutta l’analitica esistenziale  –  si iscrive all’interno di quella fatticità dell’esserci che determina in modo originario la soggettività.
Il corso di lezioni tenute nel semestre estivo del 1923 fu intitolato da Heidegger proprio Ermeneutica della fatticità ed in questo corso egli fornì il primo orizzonte per la comprensione dell’essere, cioè l’effettività, la quale si configura come «la denominazione per il carattere di essere del “nostro” “proprio” esserci»[ref]M. Heidegger, Ontologia. Ermeneutica dell’effettività, trad. it. a cura di G. Auletta, Guida, Napoli 1998, p.17.[/ref]. L’ermeneutica della fatticità è l’autointerpretazione della fatticità dell’esserci, cioè l’interpretazione – ma anche comunicazione – del carattere ontologico dell’esserci. Questa comprensione, è il passo preliminare e fondamentale per la comprensione dell’essere. Eppure, come nota Gadamer a proposito dell’espressione “ermeneutica della fatticità”,

bisogna rendersi conto che è come dire un ferro di legno, una contraddizione in termini. Infatti la parola fatticità significa proprio la resistenza irremovibile opposta dal fattuale a qualsiasi afferrare e comprendere […]. La comprensione dell’essere che contraddistingue l’esserci umano, in quanto egli si interroga circa il senso dell’essere, è anche in sommo grado un paradosso […]. L’esserci umano, interrogandosi sul senso del proprio essere, si vede piuttosto confrontato con l’inconcettualizzabilità della sua propria esistenza[ref]H. G. Gadamer, I sentieri di Heidegger, cit., p. 48 e s.[/ref].

La fatticità, così come Heidegger la pone, non può essere scissa in alcun modo dalla storicità dell’esserci, in quanto costituzione ontologica della temporalizzazione dell’esserci stesso. Il comprendersi nel proprio essere è per l’esserci, cioè per l’uomo, un sapere, nella propria autocomprensione, di non essere padrone di se stesso, di «ritrovarsi in mezzo all’essente e di doversi accettare come si ritrova»[ref]H. G. Gadamer, I sentieri di Heidegger, cit., p. 87.[/ref].

 Dunque, per rispondere alla domanda “che cos’è l’essere?”, Heidegger parte dalla domanda di che cosa (e non chi)[ref]«Il termine “Esserci” […] esprime l’essere e non il che cosa, come accade invece quando si dice pane, casa, albero», M. Heidegger, Essere e tempo cit., p. 64 e s.[/ref] sia l’esserci; parte, in altri termini, dalla riproposizione della domanda kantiana, chi è l’uomo?, tentando di oltrepassare il versante gnoseologico in vista di un orizzonte più ampio. Il primo passo in direzione dell’ontologia è dunque una chiarificazione del senso dell’esistenza, cioè del modo d’essere dell’esserci:

Quell’essere stesso verso cui l’Esserci può comportarsi in un modo o nell’altro e verso cui sempre in qualche modo si comporta, noi lo chiamiamo esistenza. e poiché la determinazione dell’essenza di questo ente non può non avere luogo mediante l’indicazione della quiddità di un contenuto reale, in quanto la sua essenza consiste piuttosto nell’aver sempre da essere il suo essere in quanto suo, è stato scelto il termine Esserci, quale pura espressione di essere, per designare questo ente[ref]M. Heidegger, Essere e tempo cit., p. 28 e s.[/ref].

L’esserci ha sempre da essere il suo essere, cioè deve autodeterminarsi:

L’essenza di questo ente consiste nel suo aver-da-essere. L’essenza (essentia) di questo ente, per quanto in generale si può parlare di essa, deve essere intesa a partire dal suo essere (existentia). Ecco perché l’ontologia ha il compito di mostrare che, se noi scegliamo per l’essere di questo ente la designazione di esistenza, questo termine non ha e non può avere il significato ontologico del termine tradizionale existentia […].L’Esserci è sempre la sua possibilità, ed esso non l’ “ha” semplicemente a titolo di proprietà posseduta da parte di una semplice presenza […]. L’essenza dell’Esserci consiste nella sua esistenza. Questo ente può, nel suo essere, o “scegliersi”, conquistarsi, oppure perdersi e non conquistarsi affatto o conquistarsi solo “apparentemente”[ref]M. Heidegger, Essere e tempo, cit., p. 64 e s.[/ref].

È nella Lettera sull’umanesimo che Heidegger puntualizza come l’esistenza di cui si parla in Essere e tempo «non si identifica con il concetto tradizionale di existentia, che significa realtà a differenza di essentia intesa come possibilità»[ref]M. Heidegger, Lettera sull’umanesimo, in Segnavia, cit., p. 278.[/ref]. L’esserci è dunque sempre la sua possibilità in quanto poter essere (Seinkönnen).

Il termine Dasein usato da Heidegger indica, quindi,  l’uomo nella sua singolarità come problema aperto per la sua stessa comprensione. Questo termine riscatta l’usura linguistica di cui la parola “uomo” è stata inficiata. «Allorchè parlò di “esserci”, Heidegger non usò semplicemente un vocabolo nuovo e di elementare potenza denominativa, con il quale sostituire i concetti di soggettività, autocoscienza ed ego trascendentale»[ref]H. G. Gadamer, I sentieri di Heidegger, cit., p. 109.[/ref], ma si spinse oltre la metafisica greca per la comprensione dell’essere.

L’uomo dispiega la sua essenza in modo da essere il “ci” (Da), cioè la radura dell’essere. Questo “essere” del “ci”, e solo questo, ha il carattere fondamentale dell’e-sistenza, cioè dell’e-statico stare-dentro (das ek-statische Innestehen) nella verità dell’essere[ref]M. Heidegger, Lettera sull’umanesimo, in Segnavia, cit., p. 278 s.[/ref].

Dasein significa essere-il-Da, cioè essere-il-Ci. Tale Ci è la consapevolezza che il possibile è sempre tale in relazione a qualcosa che va oltrepassato. Nel Ci, futuro e passato  sono sempre la propria storia, il proprio essere, il proprio progetto; il Ci è l’accadere stesso della realizzazione della possibilità che l’esserci sceglie; il Ci traduce in termini ontici per il Dasein ciò che la Lichtung traduce per l’essere: la “radura”.

La realizzazione autentica che l’assunzione del compito di essere il proprio Ci impone è la decisione anticipatrice: l’essere-per-la-morte. Il Dasein è anche già sempre la sua morte; essa è la possibilità più autentica attraverso la quale il Dasein sovrasta se stesso; la morte non è una semplice-presenza, ma una possibilità dell’essere dell’esserci. La decisione anticipatrice dischiude davanti al Dasein l’angoscia: essa pone l’Esserci davanti all’angoscia. «L’essere-per-la-morte è essenzialmente angoscia»[ref]M. Heidegger, Essere e tempo, cit., p. 323.[/ref]. Ma davanti a questa angoscia, la quale si configura come la determinazione della situazione emotiva più propria dell’Esserci, come lo sguardo disincantato di fronte all’inautenticità dell’esistenza, il Dasein concede a se stesso la possibilità di una «libertà appassionata, affrancata dalle illusioni del Si, effettiva, certa di se stessa e piena di angoscia: LA LIBERTA’ PER LA MORTE»[ref]Ibidem.[/ref]. La decisione anticipatrice rappresenta così, al tempo stesso, il punto di contatto tra il livello esistenziale e quello esistentivo: attraverso la comprensione ontologica della propria fine, l’Esserci può realizzare consapevolmente l’esistenza autentica.

L’essere-per-la-morte riesce a rovesciare l’ordine della temporalità quotidiana, scandito dalla tripartizione presente, passato, futuro. Tale rovesciamento si realizza in un duplice movimento, quello dell’anticipazione e quello del ritorno al presente fondando un nuovo margine di temporalità: quella autentica, all’interno della quale esperire la progettualità, la libertà e la storicità dell’Esserci stesso. Solo attraverso la decisione anticipatrice il Dasein si appropria della cifra ontologica che lo costituisce: la finitudine[ref]Cfr. su questo tema G. Strummiello, L’altro inizio del pensiero. I Beiträge zur Philosophie di M. Heidegger, Levante, Bari 1995, pp. 182 ss.[/ref]. Per Heidegger la libertà per la morte non è negatività[ref]Cfr. F. Chiereghin, Dialettica dell’assoluto e ontologia della soggettività in Hegel. Dall’ideale giovanile alla Fenomenologia dello spirito, Edizioni di Verifiche, Trento 1980, pp. 94 ss.[/ref],  al pari di quanto invece è ad esempio per Hegel, piuttosto è la libertà dell’Esserci esperita a partire dalla finitezza che trascende se stessa verso l’essere; per Heidegger la morte addita verso una trascendenza che abbraccia la totalità del finito e che nel finito vuole rimanere ancorata. La declinazione heideggeriana del tema della morte la connota all’interno della finitezza, del regno esclusivo dell’Esserci, rifuggendo ogni tentativo dialettico[ref]Sul problema della morte in Heidegger Cfr. U. M. Ugazio, Il problema della morte nella filosofia di Heidegger, Mursia, Milano 1976; V. Vitiello, Heidegger. Il nulla e la fondazione della storicità. Dalla Überwindung der Mataphysik alla Daseinsanalyse, Argalia, Urbino 1976, pp. 398 ss.; G. Morpurgo Tagliabue, Le strutture del trascendentale, Bocca, Milano 1951, in particolare pp. 251 ss. [/ref].

Il Ci manifesta la sua cooriginaria apertura al “non” dell’ente e al “non” del non essere iscritto in esso nell’angoscia. Proprio nella percezione dell’angoscia, quale situazione emotiva fondamentale e primaria dell’Esserci, quest’ultimo sperimenta il davanti-a-che del proprio essere nel mondo come tale; nello spaesamento che segue all’angoscia, quel “non sentirsi a casa propria in nessun luogo” «si rivela il niente»[ref]M. Heidegger, Che cos’è metafisica? in Segnavia, cit., p. 67.[/ref], ma «non come ente, e tanto meno come oggetto»[ref]M. Heidegger, Che cos’è metafisica? in Segnavia, cit., p. 69. Cfr. a tal proposito G. Agamben, Il linguaggio e la morte. Un seminario sul luogo della negatività, Einaudi, Torino 1982.[/ref]. Se questo Ci dell’esserci è ciò che, come Heidegger afferma, permette all’esserci di abitare presso la radura dell’essere, è altresì ciò che lo conduce verso l’appropriazione della sua negatività, cioè della negatività di cui l’esserci è cifra vivente. Questa è la negatività radicale riposta al fondo dell’esistenza: fondo, poiché essa è il Grund dell’essere dell’esserci.

La riflessione intorno alla negazione (il “non”) ed al vasto problema del nulla è introdotta nell’opera del 1927 attraverso il concetto di colpevolezza dell’esserci. «L’idea di “colpevole” porta con sé il carattere del non»[ref] M. Heidegger, Essere e tempo cit., p. 343.[/ref]: cioè, tale idea è determinata da un “non”, l’ «essere fondamento di una nullità»[ref]M. Heidegger, Essere e tempo cit., p. 343.[/ref]. Questo originario “non” ravvisato da Heidegger è il segno della costitutiva esistenziale gettatezza dell’esserci, per la quale «l’Esserci […] è, come tale, una nullità di se stesso. Ma “nullità” non significa affatto non esser-presente, insussistenza; essa concerne un “non” che è costitutivo dell’essere dell’Esserci, del suo essere gettato»[ref]M. Heidegger, Essere e tempo, cit., p. 345.[/ref]. La deiezione (Verfallen) costituisce la prova più lampante dell’esistenzialità dell’esserci e ne rivela la quotidiana relazione con il mondo.

Il “non” quale costitutivo dell’essere dell’esserci è ciò che indica come il fondamento di questo stesso essere non è riposto nell’esserci, ma altrove. Il non essere fondamento del proprio essere consente all’esserci la sua specifica progettualità, cioè la “non” fondatezza dell’essere dell’esserci fa sperimentare a questo esserci la nullità del suo essere e del suo progetto, senza con ciò indicare un’assenza di valore o un’insignificanza interna all’esserci stesso ed alla propria progettualità. Piuttosto, la «nullità […] fa parte dell’essere-libero dell’Esserci per le sue possibilità esistentive. Ma la libertà è solo nella scelta di una possibilità, cioè nel sopportare di non-aver-scelto e di non-poter-scegliere le altre»[ref]M. Heidegger, Essere e tempo, cit., p. 345.[/ref]. La nullità di cui parla Heidegger è una nullità esistenziale che permette lo sviluppo della libertà autentica; questa nullità non ha il carattere della privazione o della manchevolezza, ma costituisce una positività il cui valore ontologico essenziale «resta ancora oscuro»[ref]M. Heidegger, Essere e tempo, cit., p. 346.[/ref].

Da questa critica all’ontologia tradizionale emerge in filigrana uno dei tratti più caratteristici della heideggeriana Daseinsanalyse: l’esserci ha in sé il negativo, un “non” originario che si costituisce come potenziale positività in quanto permette la determinazione dell’effettivo realizzarsi della libertà esistenziale. Come scriverà più tardi nei Beiträge zur Philosophie, l’esserci è “abissale”, poiché il fondo di negatività che gli è proprio e che lo costituisce è ciò che assegna il compito di «mantener fermo l’abisso e con ciò l’essenza dell’essere. Questo mantenere fermo l’abisso appartiene all’essenza dell’Esserci, in quanto fondazione della verità dell’essere»[ref]«[Das nichtendgültige Wissen] hält den Abgrund una damit das Wesen des Seyns gerade fest. Dieses Festhalten des Abgrundes gehört zum Wesen des Das-seins als der Gründung der Wahreit des Seyns» (M. Heidegger, Beiträge zur Philosophie (vom Ereignis), Klostermann, Frankfurt am Main, 1989, p. 460, trad. mia).[/ref]. Considerando l’essenziale fenditura negativa che abita la struttura dell’esserci Heidegger pensa quest’ultimo come “pastore dell’essere e luogotenente del nulla”, come rimando alla reciproca verità che permette la coappartenenza di essere e niente.

È nell’ampia indagine sulla Befindlinchkeit[ref]Cfr. M. Heidegger, Essere e tempo, cit., pp. 172 ss. In particolar modo si ricordi quanto afferma Heidegger: «La tonalità emotiva porta l’Esserci dinanzi al “che” del suo “Ci”, che gli sta di fronte come un enigma impenetrabile» (M. Heidegger, Essere e tempo, cit., p. 174).[/ref] che emerge l’apertura esistentiva del Ci dell’esserci, rivelando l’ente nella sua totalità e che quindi permette di sperimentare cosa il nulla sia davanti all’esserci: non un qualcosa determinato, ma il progressivo dileguare della determinabilità dell’essere presente. Così, nell’angoscia la totalità dell’ente vacilla: in questo suo vacillare, l’ente nella totalità del suo essere si dilegua. Questo dileguare dell’ente è l’essenza del niente: la nientificazione (Nichtung).

Essa non è un annientamento dell’ente, e neppure scaturisce da una negazione. La nientificazione non è nemmeno commisurabile all’annientamento o alla negazione. È il niente stesso che nientifica. Il nientificare non è un’occorrenza qualsiasi, ma in quanto è un rinviare, respingendolo, all’ente nella sua totalità che si dilegua, esso rivela questo ente, nella sua piena e fino allora nascosta estraneità, come l’assolutamente altro – rispetto al niente[ref]M. Heidegger, Che cos’è metafisica? in Segnavia, cit., p. 70.[/ref].

Il niente di cui fa esperienza l’esserci non è un mero nulla, ma piuttosto una potenza che lascia l’esserci «tenuto immerso nel niente»[ref]M. Heidegger, Che cos’è metafisica? in Segnavia, cit., p. 70.[/ref]. Il nulla è originario rispetto alla costituzione dell’esserci, più originario dell’essere stesso e permette a questo sia il suo puro essere sia la sua propria libertà[ref]Cfr. M. Heidegger, Che cos’è metafisica? in Segnavia, cit., p. 71.[/ref].

La libertà dell’esserci è il suo abisso senza fondo: nella sua essenziale natura trascendente, la libertà dell’esserci pone questo essere nella possibilità più ampia e lo reclama alla scelta del proprio progetto autentico. Nel Denkweg heideggeriano sono il confronto con Kant e con Schelling (nel corso del 1936) a permettere l’approfondimento della speculazione sulla libertà, già inaugurata con Essere e tempo. La «libertà da» e la «libertà per» sono le due determinazioni con cui Heidegger pensa alla libertà come fondo abissale della possibilità dell’esserci di avere da essere.

L’unità dei tre elementi – la fatticità, l’esistenzialità e la deiezione – è rappresentata dalla cura (die Sorge), la quale rivela l’essere dell’esserci:

L’esistere è sempre effettivo. L’esistenzialità è sempre determinata in modo essenziale dalla effettività […]. L’esistere effettivo dell’Esserci non è soltanto […] un gettato poter-essere-nel-mondo, ma è anche già sempre immedesimato con un mondo di cui si prende cura […]. La Cura non caratterizza però la sola esistenzialità, separata dalla effettività e dalla deiezione, ma abbraccia l’unità di queste determinazioni d’essere[ref]M. Heidegger, Essere e tempo, cit., p. 240 e s.[/ref].

Tra gli interpreti di Heidegger, c’è stato chi ha sottolineato la derivazione husserliana del concetto di cura, evidenziando come essa traduca, a partire dal terreno dell’affettività, l’intenzionalità di Husserl, come ad esempio De Waelhens[ref]Cfr. A. De Waelhens, La philosophie de Martin Heidegger, Publications Universitaires, Lovanio 1955.[/ref]. Nel corso del 1927 intitolato Die Grundprobleme der Phanomenologie, effettivamente si viene definendo il concetto heideggeriano di cura a partire dal concreto soggetto dell’esistenza, il Dasein, e non da un qualsiasi soggetto logico. Già in questo corso emerge come la soggettività sia essenzialmente cura e lo sia nella dimensione tipica dell’esistenza: il “fatto della vita umana” è il trascendersi da parte del Dasein nel mondo, cioè il essere già presso le cose e il suo prendersene cura. L’esistenza del Dasein assume il segno dell’affettività e non più di una funzione logica, bensì di un essere che vive, sente, è attraversato dal mondo perché nel mondo trova il proprio posto. «Heidegger ritiene di aver riportato l’intenzionalità dall’immanenza dell’astratta idealità riflessiva […] alla trascendenza del fattuale esistere immediato, la quale invece è assoluta perché è originaria»[ref]A. Masullo, La “cura” in Heidegger e la riforma della intenzionalità husserliana, in “Archivio di filosofia”, a. XVII, 1989, p. 384.[/ref].

Non solo: nel corso svolto nel 1925, Prolegomena zur Geschichte des Zeitbegriffs,  Heidegger, definendo la cura come accesso alla concreta pienezza dell’esser-ci, ovvero del fenomeno l’uomo , pronuncia un giudizio di insufficienza nei riguardi dell’intenzionalità husserliana, la quale solo “frammentariamente” e da un punto di vista “esterno”, rende ragione del fenomeno dell’esistenza del Dasein. Il punto in cui le due prospettive – quella husserliana e quella heideggeriana – si scontrano è la nozione di l’esistenza a partire dall’ “ek”: esso allude all’essere dell’uomo come uno stare-fuori-di-sé, un essere pienamente esposto – o arrischiato, parafrasando Rilke – che gli consente di stare-fuori nella verità dell’Essere. «La attualità dell’esser-ci, concepita da Heidegger, è segnata dall’ “ek” nel senso che l’umanità dell’uomo vi è pensata come l’uscita dall’insignificanza della contingenza ontica e l’ingresso nella pienezza significativa della necessità ontologica»[ref]A. Masullo, La “cura” in Heidegger e la riforma della intenzionalità husserliana, cit., p. 385 e s.[/ref]. Nella comprensione della radice “ek” si gioca la comprensione della soggettività nella speculazione del maestro Husserl e del giovane assistente Heidegger. Con il passaggio dall’intenzionalità alla cura, l’orizzonte trascendentale lascia il posto a quello affettivo quale cifra originaria della soggettività.

Questo passaggio non solo conduce a soppiantare la fenomenologia a favore di un’ermeneutica della fatticità che comprenda l’esistenza come un continuo uscir-fuori di sé – uscire fuori di sé che non ambisce a soggiornare presso l’essere per rimanervi, quanto un continuo movimento di uscita del sé – ma anche a fare della possibilità del soggiornare nel mondo il versante ontico in cui si dispiega la cura.

Bibliografia delle opere citate

M. Heidegger, Essere e tempo, trad. it. a cura di P. Chiodi, Longanesi, Milano 1976;
Id., Ontologia. Ermeneutica dell’effettività, trad. it. a cura di G. Auletta, Guida, Napoli 1998;
Id., Segnavia, traduzione italiana a cura di F. Volpi, Adelphi, Milano 1987;
Id., Beiträge zur Philosophie (vom Ereignis), Klostermann, Frankfurt am Main, 1989;
Chiereghin F., Dialettica dell’assoluto e ontologia della soggettività in Hegel. Dall’ideale giovanile alla Fenomenologia dello spirito, Edizioni di Verifiche, Trento 1980;
De Waelhens A., La philosophie de Martin Heidegger, Publications Universitaires, Lovanio 1955.
Gadamer H. G., I sentieri di Heidegger,
Masullo A., La “cura” in Heidegger e la riforma della intenzionalità husserliana, in “Archivio di filosofia”, XVII, 1989.
Morpurgo Tagliabue G., Le strutture del trascendentale, Bocca, Milano 1951;
Strummiello G., L’altro inizio del pensiero. I Beiträge zur Philosophie di M. Heidegger, Levante, Bari 1995;
Ugazio U. M., Il problema della morte nella filosofia di Heidegger, Mursia, Milano 1976;
Vitiello V., Heidegger. Il nulla e la fondazione della storicità. Dalla Überwindung der Mataphysik alla Daseinsanalyse, Argalia, Urbino 1976.

La filosofia e il suo inizio

Si inaugura l’uscita di Pagine Heideggeriane con un estratto da “Che cos’è la Filosofia?” di Martin Heidegger, nell’edizione citata in nota.

 

Che cos’è la filosofia? [ref]M. Heidegger, Che cos’è la filosofia?, trad. it. a cura di C. Angelino, Il Melangolo, Genova 1997[/ref]

M. Heidegger

 

Con questa domanda tocchiamo un tema molto vasto, cioè esteso. Perché vasto, sembra destinato a restare indeterminato. Perché indeterminato, può essere trattato dai punti di vista più diversi. In ogni caso giungeremo comunque a qualche risultato. Tuttavia, dal momento che nella trattazione di questo tema tanto ampio tutte le considerazioni possibili si intrecciano vicendevolmente, possiamo incorrere nel rischio che il nostro colloquio non attinga il raccoglimento meditativo che la questione richiede.

Dobbiamo perciò cercare di determinare in modo più preciso la domanda. Così facendo daremo una direzione stabile al nostro colloquio; lo porremo perciò stesso su un cammino. Dico: su un cammino. Infatti diamo per scontato che non si tratta certamente dell’unico cammino. Un problema resta comunque aperto, se il cammino che io qui di seguito indicherò è in verità tale da consentirci di porre la domanda e di darle una risposta.

Se diamo per scontato di poter trovare un cammino per determinare  con maggior esattezza la domanda, sorge immediatamente, contro il tema del nostro colloquio, un”obiezione difficilmente evitabile. Domandandoci infatti: che cos’è la filosofia, noi parliamo sulla filosofia. Ponendo la domanda in questi termini, ci collochiamo in una zona che si trova al di sopra e quindi al di fuori della filosofia. Ma lo scopo della nostra domanda è piuttosto quello di penetrare nella filosofia, di prendervi dimora e di comportarci nel modo che le è proprio, vale a dire di filosofare. Il cammino del nostro colloquio non deve perciò avere soltanto una direzione chiara, ma deve al tempo stesso far si che tale direzione ci dia la certezza di muoverci all’interno della filosofia e non di girarvi intorno restandone fuori.

Il cammino che dobbiamo percorrere deve perciò essere di tal natura e muoversi in una direzione siffatta che ciò di cui la filosofia tratta ci riguardi direttamente, ci tocchi e in verità ci tocchi nella nostra essenza.

Ma in tal guisa non diventa la filosofia qualcosa che ha a che fare con il mondo degli affetti e dei sentimenti?

«Con i buoni sentimenti si fa la cattiva letteratura ››. «C’est avec les beaux sentiments que l’on fait la mauvaise littérature ››[ref]André Gide, Dostoevskij, tr. it. di Maria Marocchin, Milano 1946.[/ref]. Questo  motto di André Gide non vale solo per la letteratura ma anche, a maggior ragione, per la filosofia. I sentimenti, anche i più belli, non appartengono alla filosofia. Dei sentimenti si suol dire che sono qualcosa di irrazionale. La filosofia, per contro, non solo è qualcosa di razionale ma rivendica a sé per sua natura il governo della ragione. Con questa affermazione abbiamo già in qualche modo inavvertitamente deciso su ciò che la filosofia è. Abbiamo sopravanzato con una risposta la nostra domanda. Del resto, chiunque considera giusta l’affermazione che la filosofia è una questione della ragione. Ma forse tale affermazione è una risposta affrettata e precipitosa alla domanda: che cos’è la filosofia? Poiché infatti ad essa possiamo  contrapporre nuove domande. Che cos’è la ratio, la ragione? Dove e grazie a chi si è deciso che cos’è la ragione? Non è la ragione stessa ad aver affermato la propria signoria sulla filosofia? Se “ si “, con quale diritto? Se “ no ”, da dove riceve la sua missione e il suo ruolo? Se ciò che s’intende per ragione è stato determinato inizialmente ed esclusivamente dalla filosofia e all’interno del suo processo storico, non vi è alcun valido motivo per spacciare in partenza la filosofia come una questione esclusiva della ragione. Nel momento stesso in cui mettiamo in dubbio la caratterizzazione della filosofia come comportamento razionale, allo stesso modo dobbiamo anche dubitare dell’altra affermazione secondo cui la filosofia apparterrebbe al dominio dell’irrazionale. Infatti chi pretende di determinare la filosofia come irrazionale,  assume il razionale a norma della sua definizione e lo fa in modo tale da presupporre nuovamente come di per sé evidente ciò che la ragione è.

Se al contrario ci richiamiamo alla possibilità che ciò a cui si riferisce la filosofia riguarda noi uomini nella nostra essenza e ci tocca, allora potrebbe verificarsi il caso che un modo siffatto di essere toccati non abbia nulla a che fare con ciò che abitualmente s’intende per affetti e sentimenti, in breve, per irrazionale.

Da quanto si è detto, possiamo innanzitutto desumere questo solo punto: è necessaria un’attenzione più scrupolosa se vogliamo arrìschiarci ad iniziare un colloquio che ha per titolo «che cos’è la filosofia?››.

Per prima cosa dobbiamo cercare di porre la questione su un cammino chiaramente orientato, per non vagabondare fra rappresentazioni della filosofia arbitrarie ed occasionali. Ma come trovare un cammino siffatto, su cui poter determinare la nostra domanda senza correre rischi?

Il cammino cui vorrei ora accennare ci sta  immediatamente davanti. E solo perché è il più vicino lo troviamo con tanta difficoltà e, una volta trovatolo, ci muoviamo pur sempre in esso in modo maldestro. Ci chiediamo: che cos’è la filosofia? Abbiamo già pronunciato a sufficienza la parola filosofia. Ma se non utilizziamo più tale parola come un termine scontato, se invece ascoltiamo la parola “ filosofia ” a partire dalla sua origine, allora essa suona φιλοσοφία. A questo punto la parola “ filosofia ” parla greco. La parola greca, in quanto greca, è un cammino. Questo cammino, per un verso, ci sta di fronte poiché la parola da lungo tempo si è rivolta a noi precedendoci; ma si trova, per altro verso, già alle nostre spalle poiché da sempre abbiamo associato e pronunciato tale parola. La parola greca φιλοσοφία è perciò un cammino su cui camminiamo. Eppure conosciamo molto confusamente questo cammino, anche se sulla filosofia greca possediamo e possiamo divulgare innumerevoli conoscenze storiografiche. La parola φιλοσοφία ci dice che la filosofia è qualcosa che innanzitutto determina l’esistenza del mondo greco. Non solo. La φιλοσοφία determina anche l’intimo fondamento della nostra storia europea occidentale. Questo modo di dire sovente ripetuto, “ filosofia eu-ropea occidentale “, è in verità una tautologia. Perché? Perché la “ filosofia “, nella sua essenza, è greca – e greco significa qui: la filosofia è, quanto all’origine della sua essenza, di tale natura che per dispiegarsi ha fatto innanzitutto appello al mondo greco e di esso si è valsa.

Ma l’essenza originariamente greca della filosofia nell’epoca della sua signoria moderna ed europea è stata guidata e dominata da rappresentazioni provenienti dal cristianesimo. Il predominio di tali rappresentazioni ha nel Medioevo il suo terreno di mediazione. Tuttavia non si può dire che grazie a ciò la filosofia sia divenuta cristiana, cioè una questione propria della fede nella rivelazione e nell’autorità della Chiesa. L’affermazione: la filosofia è greca nella sua essenza non dice nient’altro che questo: l’occidente e l’Europa, e solo essi, sono nel loro più intimo processo storico, originariamente “ filosofici ”. Questo fatto è attestato e dimostrato dal sorgere e dal predominare delle scienze. Se esse sono oggi in grado di dare la propria impronta specifica alla storia dell’uomo sull’intero pianeta, ciò accade perché traggono origine dal più intimo processo storico europeo occidentale, cioè da quello filosofico.

Riflettiamo per un attimo su ciò che significa caratterizzare un’epoca della storia umana come “ era atomica ”. L’energia atomica, scoperta e liberata dalle scienze, viene presentata come la potenza che deve determinare il cammino della storia. Eppure non ci sarebbero mai state scienze se la filosofia non le avesse precedute e anticipate. Ma la filosofia è: ἡ φιλοσοφία Questa parola greca vincola il nostro colloquio ad una tradizione storica. Poiché questa tradizione resta unica, è anche perciò stesso univoca. La tradizione che il nome (φιλοσοφία ci comunica, quella tradizione che la parola storica φιλοσοφία nomina, rende per noi libera la direzione di un cammino percorrendo il quale ci domandiamo: che cos’è la filosofia? La tradizione non ci consegna ad una potenza coercitiva, proveniente dal passato e dall’irrevocabile. Tramandare, délivrer, significa mettere in li-bertà cioè porre nella libertà del dialogo con ciò-che-è-stato. Se ascoltiamo veramente la parola filosofia, e altrettanto veramente meditiamo ciò che abbiamo ascoltato, essa ci convoca nella storia dell’origine greca della filosofia. La parola φιλοσοφία viene per cosi  dire a coincidere con l’atto di nascita della nostra storia, possiamo aggiungere: con l’atto di nascita dell’epoca presente della storia universale che si suole chiamare era atomica. Conseguentemente non possiamo porre la domanda: che cos’è la filosofia, senza affidarci a un dialogo col pensiero del mondo greco.

Ma non solo è greco, quanto alla sua origine, l’oggetto della nostra domanda, la filosofia; è greco altresì il modo in cui la domanda è posta, il modo in cui ancor oggi, in generale, si pongono domande.

Domandiamo: che cos’è ciò…? Questo in greco suona τί ἐστιν? Tuttavia la domanda che si chiede che cosa sia qualcosa pare destinata a restare polisensa. Possiamo chiederci: che cos’è quella cosa laggiù nella lontananza? Riceviamo una risposta: un albero. La risposta consiste nell’assegnare il suo nome ad una cosa che non conosciamo esattamente.

Possiamo porre la domanda in modo ancora più ampio: che cos’è ciò che chiamiamo “albero”? Con questa domanda ci avviciniamo già al greco τί ἐστιν. Si tratta di quella forma del domandare che Socrate, Platone e Aristotele hanno sviluppato. Essi domandano per esempio: che cos’è ciò – il bello? Che cos’è ciò – la conoscenza? Che cos’è ciò – la natura? Che cos’è ciò – il movimento?

Dobbiamo ora concentrare la nostra attenzione sul fatto che nelle domande sopra citate non viene cercata soltanto una più esatta delimitazione di ciò che è natura, movimento, bellezza, ma viene contemporaneamente data un’interpretazione di ciò che significa il “ che cosa “, del senso in cui va compreso il τί. Il significato del “ che cosa “, del quid est, del τὸ quid, viene indicato col termine quidditas, in tedesco die Washeit. Tuttavia la quidditas è stata determinata in modi diversi nelle diverse epoche della filosofia.

 

Letteratura critica di riferimento sul tema “Heidegger e la filosofia”

AA. VV., Heidegger e la metafisica, trad. it. a cura di M. Nobile, Marietti, Casale Monferrato 1991
AA. VV., Guida a Heidegger, a cura di F. Volpi, Laterza, Bari 1997
AA. VV., Eredità di Heidegger, Transeuropea, Bologna 1978
AA. VV., Studi heideggeriani, Edizioni dell’Ateneo, Roma 1983
ALTENBERND JOHNSON P., On Heidegger (Wadsworth Philosophers Series), Wadsworth Publishing, 1999
AMOROSO L., Lichtung. Leggere Heidegger, Rosenberg & Sellier, Torino 1993
BRENCIO F., Scritti su Heidegger, Aracne Editrice, Roma 2013
CARACCIOLO A., Studi heideggeriani, Tilgher, Genova 1989
CLARK T., 2001, Routledge Critical Thinkers: Martin Heidegger, London: Routledge
DREYFUS H.L. and HALL, H. (eds.), 1992, Heidegger: a Critical Reader, Oxford: Blackwell
DREYFUS H.L. and WRATHALL M. A., (eds.), 2002, Heidegger Reexamined (4 Volumes), London: Routledge
DREYFUS H. L. and WRATHALL M. A., (eds.) A Companion to Heidegger, Oxford: Blackwell, 2006
GADAMER H. G., Heideggers Wege. Studien zum Spätwerk, Mohr, Tübingen 1983; I sentieri di Heidegger, trad. it. a cura di R.Cristin e G. Moretto, Marietti, Casale Monferrato 1987
GALIMBERTI U., Invito al pensiero di Heidegger, Mursia, Milano 1986
PÖGGELER O., 1963, Martin Heidegger’s Path of Thinking, translated by D. Magurshak and S. Barber, Atlantic Highlands, N.J.: Humanities Press International, 1987
POLT R., 1999, Heidegger: an Introduction, London: Routledge
RICHARDSON W. J., 1963, Heidegger: Through Phenomenology to Thought, The Hague, Netherlands: Martinus Nijhoff Publishing
SCHULTZ W., Über den philosophiegeschichtlichen Ort Martin Heideggers, in Heidegger. Perspektiven zur Deutung Seines Werks, hrsg. von O. Pöggeler, Köln, Berlin 1970
SEVERINO E., Heidegger e la metafisica, Adelphi, Milano 1994
VATTIMO G., Introduzione a Heidegger,   Laterza, Bari 1992

Come si Configura oggi il Potere?

di
Bruno Montanari

1. Il comune cittadino, italiano e non solo, è quotidianamente sommerso da una cascata di notizie, che, per intensità di conseguenze, talora solo potenziali, appare somigliare ad un vero e proprio bombardamento. E del bombardamento, questo affluire incessante di notizie – eventi produce i suoi effetti più scontati: macerie.

Tra le macerie c’è chi continua a vivere e chi muore; nella esperienza che investe l’attuale ambiente sociale ciò che appare esser morto è l’idea stessa di società, di opinione pubblica, di diritto, di ordinamento giuridico, di legittimità istituzionale. Appaiono essere morte, cioè, quelle figure concettuali attraverso le quali il pensiero politico della “modernità” aveva stabilizzato la relazione tra gli uomini e il potere, imprimendo all’interpretazione di quest’ultimo una direzione sempre più “funzionale”, sostituendo via via gli aspetti “padronali”. Contemporaneamente, a supporto di una tale direzione, era emerso forte il consolidarsi di una idea di società come “opinione pubblica”, con la quale chi detiene il potere deve fare i conti[ref]Basta aver presente il classico J. Habermas, Storia e critica dell’opinione pubblica, tr. it. Roma – Bari 1974.[/ref].

Il Novecento, proprio nella sua “brevità”, è segnato da questo movimento di forte interazione tra potere e società, che trova la sua manifestazione, ora pacifica ora tragicamente conflittuale, nelle vicende politiche del secolo e nelle relative manifestazioni giuridico – ordinamentali.

Tutto ciò appare ora in macerie; si ergono solo le bandiere logore e stracciate, gli spezzoni di edifici… ricordi di un mondo che ha subito la distruzione di un uragano; di un uragano umano.

In questo nuovo mondo sopravvive solo l’effettività potere ed in una conformazione di nuovo “padronale”. Riferendomi ad un altro tempo storico, avrei specificato il senso dell’“effettività” del potere come controllo di un “territorio” o di un “ambiente sociale”. Non credo, invece, che oggi questa terminologia sarebbe appropriata, per la ragione che il “territorio” non è più un parametro rilevante e perché è in corso una frantumazione dell’idea di società a vantaggio di individualismi, di singoli o di gruppi.

Ciò che sopravvive, insomma, è un potere nuovamente “padronale”, la cui iconografia è del tutto inedita, ma perfettamente aderente a quella trasformazione epocale che può essere riassunta sotto l’espressione “governance della complessità”.

L’iconografia “moderna” del potere poteva essere testimoniata da tre immagini: quella classica che avvolge (è il caso di dirlo) il frontespizio dell’edizione del 1651 del Leviatano, o quella dell’uomo seduto sul trono di fronte ad una platea di uomini sotto-posti, alla Canetti, o, infine, quella della piramide, che esprime l’esistenza di un ordine costituito da un vertice e da una base.

Comunque si voglia raffigurare il potere, ci si avvede che nella modernità e fino al Novecento, nella sua accezione “breve”, il fattore costitutivo del potere è un confine, che delimita e determina la sua “effettività”. Sia questo costituito dal corpo del Leviatano, dalla sala di un trono o dalle linee di una struttura burocratica, l’effettività del potere non appare disgiunta dall’esistenza di uno spazio chiuso, dove la sua chiusura coincide con il determinarsi di un sistema, la cui origine è nell’ idea di ordine e il cui fine è nel fatto della stabilità.

In altre parole, l’idea di confine, che evoca, come riferimento immediato, il “territorio”, è ciò che nella cultura della modernità è un fattore costitutivo dell’effettività del potere, così scontato ed indiscutibile che non sfiora nessun pensatore la possibilità teorica di prenderlo in considerazione, se non come ovvia determinazione.

Nel secolo che viviamo, che è indicato dal numero romano XXI, l’iconografia del potere cambia, riflettendo la radicalità di mutamento dei fattori costituenti. Non più territorio – ordine – sistema, ma globalità – complessità – equilibrio.

Il tratto distintivo dell’immagine che ne scaturisce è il suo essere senza confine; tale immagine è la “rete”, che nella sua versione inglese – network – è largamente usata nel lessico comune, per indicare fenomeni di connessione diffusa e plurima.

In effetti la rete, come oggetto fisico, è caratterizzata dal non avere un ambito oggettivamente pre-determinabile; essa si estende fin là dove la si vuol far arrivare e si può continuamente intervenire per modificarne l’ampiezza. La rete, cioè, individua un oggetto di grandezza indeterminata, che dipende da due fattori: dalla orizzontalitàdello svolgersi della trama e dai nodi che ne sorreggono la struttura. Trama e nodi sono elementi che si implicano a vicenda: se non ci fossero i fili non potrebbero costituirsi dei nodi e senza i nodi non si formerebbe una trama. In più: ogni nodo è intersezione di diversi fili, alcuni dei quali, rimanendo gli stessi, vanno a connettersi con altri per mezzo di nuovi nodi.

Ecco, questa è l’immagine del potere così come si presenta oggi nel mondo globale: non più un trono o una piramide, che protegge e ordina, ma una rete, la cui trama include ed esclude. C’è chi appartiene alla rete, e raccoglie puntualmente i frutti della pesca, e chi ne è fuori, e nuota liberamente nel mare aperto, cibandosi di ciò che il mare nella sua naturale, ma anche intermittente, generosità offre. Per rimanere nella metafora, non vanno esclusi neppure gli allevamenti artificiali, dove la rete è il mezzo che assicura la raccolta del prodotto e l’autoriproduzione, lontano da fattori di interferenza ambientale. L’ambiente sociale risulta così diviso a metà in senso orizzontale, tra chi appartiene alla rete e chi non vi appartiene; non una separazione di censo o di cultura, né di classi sociali, ma una semplice divisione tra l’essere “dentro” la trama oppure restarne “fuori”.

La conferma è negli scoop quotidiani dei mass media, che mettono in mostra un ambiente social nel quale, come si usa dire, “si conoscono tutti” tra di loro, come in una enorme comitiva ludica, dai politici agli attori, agli sportivi, ad alcuni industriali, a magistrati e professionisti, fino agli alti burocrati, ai managers, pubblici e privati, ai banchieri.

L’immagine della rete modifica, allora, il paradigma tradizionale del potere, in quantofunzione della politica, rispetto a quello rappresentato dall’immagine della piramide. Modifica anche, e radicalmente, l’ idea che del diritto hanno gli attori del nuovo spazio reticolare: non più apparato di controllo delle decisioni politiche e della loro compatibilità con l’ordinamento giuridico, ma semplice appendice tecnico – normativa delle decisioni economiche.

L’iconografia della piramide mette in chiaro come vertice e base siano tra loro posti in relazione reciproca come i due lati di una sezione triangolare. A buon diritto, può essere considerata come la rappresentazione di quel paradigma relazionale tra società e organi di governo tipico delle democrazie rappresentative, delle quali il partito costituiva il principale luogo di formazione del progetto politico e la cinghia di trasmissione del consenso, strumento insostituibile – quest’ultimo – della legittimazione delle istituzioni di governo. Vi è da aggiungere un particolare, niente affatto trascurabile: la struttura piramidale, in virtù della sua forma chiusa allusiva dell’ordine giuridico – politico, consente di racchiudere al proprio interno la dialettica tra movimento e istituzione, propria dell’agire politico, ideale e progettuale.

L’immagine della rete rende visivamente palpabile un paradigma del tutto diverso, poiché il fattore caratterizzante non è più costituito da un elemento che per la sua forma fisica possa veicolare l’idea di una relazione tra vertice e base: la rete, infatti, non halati, ma la sua trama opera una divisione tra un dentro e un fuori. E’ una immagine che annulla ab origine l’idea di una relazione tra ambiti sociali: il potere, come luogo della “raccolta”, è dentro; l’ambiente sociale, genericamente inteso, è ciò che è fuori.

Di qui una serie di conseguenze sostanziali, che risultano del tutto estranee alla semantica formale del proceduralismo politico tradizionale.

Le più evidenti sono due: la prima consiste nell’evaporare dell’idea di partito politico in favore dell’affermarsi di comitati affaristico – elettorali, centrati sulla figura di unleader, che assicura la funzionalità dell’essere in rete; la seconda, nell’emergere di un alto astensionismo elettorale, che è la testimonianza più evidente della frattura che attraversa orizzontalmente l’ambiente sociale.

Oltre a queste due principali conseguenze, la novità del paradigma consente di coglierne altre, come corollari. In particolare, la disaffezione sociale per le istituzioni si converte in un diffuso individualismo di massa, che pervade coloro che non appartengono al tessuto reticolare, cui corrisponde, al di qua della rete, il formarsi di una struttura di potere di origine burocratica e tecnocratica, evocata, ma al tempo stesso nascosta, dal termine governance, che come è ormai noto, è di incerto significato e per questo assolutamente privo di traducibilità[ref]Per un’analisi delle ambiguità concettuali del termine governance e della sua “intraducibilità” semantica cfr. soprattutto S. Maffettone, La pensabilità del mondo. Filosofia e governanza globale, Milano 2006.[/ref].

In un paradigma così strutturato, privo cioè di strutture politicamente e sociologicamente relazionali, ciò che si delinea è una frattura tra la dimensione movimentista (di tipo populista) e quella istituzionale, che politica e diritto, nella connotazione che assumono nella nuova versione reticolare (che mostrerò di qui a poco), non sono in grado di comporre, metabolizzare, in una parola, “ordinare”.

Aggiungerei un ulteriore corollario, che mostra un inedito nella storia del potere: un potere reticolare impedisce la possibilità di una sua imputazione soggettivamente determinata. In altre parole, con una frase ad effetto, a chi si potrebbe tagliare la testa? Al più, si possono fare buchi nella rete, ma, come ogni esperto pescatore sa, la rete si può sempre riparare, aspettando il giorno che sia così logora che ripararla sarà impossibile.

Lo svolgersi attuale di questo paradigma ha il suo immediato antecedente nel modello socio-epistemologico allestito negli anni ’70 da Niklas Luhmann, che è conosciuto come “sistemico – funzionalistico”. Fin da ora voglio sottolineare, tuttavia, che tra quel modello e il suo attuale svolgimento reticolare vi è una specifica differenza: quella conseguente all’affermarsi di una linea di pensiero materialistico – pragmatica, centrata sulla diffusione applicativa della categoria, di origine economicistica, “costi – benefici”.

Il richiamo a Luhmann mi sembra tuttavia indispensabile per due ragioni: la prima, perché legittima lo spostamento del ragionamento attorno al potere su quel piano epistemologico che contrappone “ordine” a “complessità”; la seconda, perché la differenza tra la versione originaria luhmanniana, detta “sistemica”, e l’attuale conversione in una governance “reticolare”, mette in luce quale mutamento culturale l’avvento della globalizzazione economica abbia determinato rispetto al paradigma tradizionale che ha legittimato le democrazie parlamentari.

2. Le immagini con le quali ho descritto metaforicamente il potere, tra modernità e globalizzazione, rimandano a mondi culturali, nei quali si avvicendano figure concettuali, quali “ordine” e “complessità”, che corrispondono, come ho sottolineato, a percorsi epistemologici radicalmente diversi, sui quali incide, e in modo determinante, qualcosa che sulle prime non appare avere alcuna relazione con il potere: mi riferisco all’idea di “verità”. Ma una qualche relazione diviene intuibile se si coniuga quell’idea con un’ altra: quella di “realtà”.

Il nesso “verità” – “realtà” è ciò che salda l’ambito epistemologico ai modelli pratico – comportamentistici inscritti nell’alternativa “ordine – complessità”; a questo punto, il modo di determinare il potere, in quanto effettività, dipende dallo svolgimento di questo nesso.

Intendo dire che registrare l’effettività del potere a partire da un modello epistemologico fondato sul concetto di “ordine”, e sulla figura della piramide (vertice e base), è il contrario che assumere come chiave epistemologica il concetto di “complessità” e vederne la sua proiezione pratica nella “rete”. Ne derivano due rappresentazioni della “realtà” sociale così diverse da condizionare il connotarsi stesso dell’effettività. Nel primo caso, essa coincide con un sistema di comando, mentre, nel secondo, consiste in un meccanismo di raccolta.

Il passaggio dall’ “ordine” alla “complessità” è l’esito, come ho detto, dell’avvicendarsi di due modelli epistemologici, che si svolgono secondo quelle “sequenze” concettuali sopra indicate. Il primo modello consiste nella sequenza “ordine – sistema – ordinamento”, il secondo in quella: “complessità – equilibrio – governance”. Si notino i contrappunti: così come all’ordine corrisponde la complessità, all’idea di sistemacorrisponde quella di equilibrio e, infine, alla nozione giuridica di ordinamento quella di governance.

E’ proprio facendo centro su tali contrappunti, che rinviano a rappresentazioni concrete del mondo umano, che si mostra la relazione tutta epistemologica tra “verità” e “realtà”, che può riassumersi nella espressione comune, che funge spesso da premessa direttivo – comportamentistica: “poiché le cose stanno così, allora…”.

La profondità del passaggio è tale che non è configurabile come un mero aggiornamento nozionistico-semantico, determinato dalla contaminazione di un lessico sociologico con uno specificamente giuridico e politico, come il prevalere del termine governance su quello di ordinamento lascerebbe intendere (esemplare è la prevalenza della nozione di “portatori di interessi” al posto di “legittimazione soggettiva). Ben altrimenti, si tratta dell’emergere di una sottesa e diversa modalità di conoscenza della realtà, che trova poi specifico svolgimento nella forma “regolativa” detta appunto governance.

Stabilendo il contrappunto tra due sequenze concettuali, intendo sottolineare quanto sia indispensabile cogliere, proprio nelle epoche segnate da forti mutamenti, il nesso tra il piano epistemologico e quello della “realtà”, consegnata ad una rappresentazioneumano – sociale.

In tali epoche, infatti, la necessità di realizzare immediati adattamenti teorici e pratici, in particolare socio – politici e giuridici, può non lasciare il tempo di soffermarsi, con l’attenzione necessaria, sulla portata effettiva del cambiamento in atto, con il rischio di perderne il controllo e di ritrovarsi in un “nuovo mondo”, senza aver capito né il “come” né il “perché”.

La differenza tra le due sequenze prospettate ha, dunque, il suo centro contrappuntistico nei termini “ordine” e “complessità”.

Il termine “ordine” fa pensare a qualcosa che si offre come un dato oggettivo, che rinvia a qualcosa di posto e, in più, come ulteriore ed immediata conseguenza logica, “posto”da qualcuno. In altre parole, l’ordine implica il “porre in ordine” e quest’ultimo apre, nella logica umana, alla domanda circa il “chi pone…”.

È questo il modello proprio del pensiero antico, che ha il suo centro epistemico nella ricerca di un “Principio” ordinatore, come origine del mondo che si presenta all’uomo. È la tematica che ruota attorno a due termini filosoficamente complessi: Logos eDemiurgo, attraverso i quali l’uomo investiga il senso umano della “realtà” nella quale è immerso. Al tempo stesso, però, traccia una distanza incolmabile tra la sua umanità empirica e la dimensione di quel “Principio”, che è il Tutto comprendente: meraviglia ed enigma ad un tempo[ref]Cfr., su questa sconfinata tematica, il bel saggio di E. Berti, In principio era la meraviglia, Bari 2007; cfr., anche, il recentissimo F.Cavalla, All’origine del diritto – al tramonto della legge, Napoli 2011.[/ref].

Al pensiero “moderno” si attaglia propriamente il termine “sistema”, che connota quel meccanismo della ragione secondo il quale conoscere la realtà, significa scoprire laverità del mondo, che si traduce nel formalizzarne le “leggi” che consentono di stabilire in modo costante il succedersi degli eventi. Tale operazione cognitiva conduce alla determinazione della realtà come fenomeno, sintesi quest’ultimo di una relazione causale, razionalmente elaborata e stabilita, tra eventi empiricamente osservati.

In definitiva, il termine “sistema”, nel suo concetto, va posto in relazione al termine che lo precede: “ordine”. Entrambi i termini esprimono una idea di “verità”: conoscerla significa capire che le cose stanno proprio come devono stare o perché sono state disposte così a partire da un’idea di principio (“ordine”), o perché il pensiero umano ne coglie i nessi causali, sotto il profilo razionale e logico (“sistema”).

Tuttavia, nella continuità tra pensiero “antico” e “moderno” un differenza non va sottaciuta.

Se il pensiero antico manteneva la distanza, sopra accennata, tra la mente umana e la “Verità” del mondo, giocando sull’intersezione di “enigma” e “disvelamento” (aletheia); nella “modernità”, invece, la “Verità” diviene l’approdo di un percorso metodico della ragione sistematica. Essa è il prodotto di quell’operazione mentale che, a partire dalla esperienza empirica, elabora concetti, trasformando la mera successione di eventi in relazioni causali che la ragione si rappresenta come “necessarie”.

Si comprende, di conseguenza, come il concetto moderno di sistema svolga una funzione euristica ed epistemica: solo se si ricostruisce lo svolgersi degli eventi, o delle “cose umane” più in generale, secondo una forma sistematica, si può cogliere l’ “ordine” che al fondo regge il Tutto. La “Verità” dei moderni si realizza nel colmare, tramite la ragione, la distanza antica tra la mente umana e la “meraviglia” di fronte al “Principio”.

“Ordinamento” è il terzo termine, quello cui giunge, nell’ambito giuridico, la sequenza “moderna”.

Nella sua specificità concettuale, esso individua la compattezza e organicità razionali dell’attività normativa, posta in essere dallo Stato o da altri soggetti dotati legittimamente o legalmente di tale potere. Nella sua idea di fondo, esso si pone in continuità con due possibili direzioni speculative: da un lato, con una idea di diritto, secondo la quale il giuridico è la traduzione normativa dell’“ordine” che costituisce il mondo umano (la tradizione della scientia juris sia nella sua versione giusnaturalistica, sia in quella “storica”); dall’altro, con una definizione di ordine squisitamente “positiva”, che si realizza, tuttavia, secondo una sistematicità razionale della volontà normativa (la teoria del diritto nella sua versione principalmente novecentesca, nel suo insieme e nelle sue diverse e specifiche articolazioni).

Vi è un elemento, che contraddistingue la sequenza ordine – sistema – ordinamento, e che occorre mettere in luce al termine della sua spiegazione. Tale elemento è costituito dalla categoria “tempo”[ref]Su questa categoria, nella sua ampiezza ermeneutica, cfr. il bel testo di J. T. Fraser,Time. The Familiar Stranger, Amherst, 1987, tr. it. Milano 1992; per un assaggio assai gustoso cfr. anche il recentissimo M. Dorato, Che cos’è il tempo? Einstein, Gödel e l’esperienza comune, Roma 2013 .[/ref], poiché è proprio sul rilievo che assume tale categoria che può tracciarsi la differenza più evidente con la seconda sequenza: complessità – equilibrio – governance.

Anticipando qui, per mere ragioni di contrappunto espositivo, ciò su cui tornerò più avanti, dico subito che “complessità” è una nozione epistemologica di tipo meramente osservativo, per la quale il fattore temporale si fissa nella stabilità di una situazione di “equilibrio” attuale, la sola che può rendere osservabile una casuale disposizione di eventi. In altre parole, l’“equilibrio”, oltre ad essere un dato osservativi, funziona anche da categoria epistemologica che fa coincidere ciò che è “realtà” con uno stato denominato “complessità”. Se ne ricava un’idea di stabilità che, essendo fondata sulla contingenza dell’osservazione, rende insignificante l’immagine di una relazione causale tra eventi, che per definizione è meramente congetturale e non empirica.

E’ proprio la nozione di “stabilità” che mette in relazione temporalità e potere.

La stabilità infatti è il più evidente tra gli elementi costitutivi dell’effettività del potere; ciò che muta storicamente è la condizione alla quale si registra tale stabilità. In tutto l’arco della modernità essa consisteva nell’idea di “sistema”, come sintesi razionale di progetto politico e normatività legale: la figura della piramide, nella quale vertice e base si reggono reciprocamente, ne trasmette il senso.

Con il concetto di “complessità” la stabilità è, invece, l’esito dell’ “equilibrio”, che è una figura epistemologica strettamente dipendente dalla reiterazione di costanti osservative aventi ad oggetto un ambiente fisico. In altre parole, la stabilità, che individua l’esserci effettivo del potere, coincide con quell’espressione “tutto si tiene”, che indica la presenza materiale di un determinato stato di fatto, la cui permanenza si offre come tale alla possibilità di essere osservato. Lo stato di equilibrio, che fonda l’effettività del potere, tradotto nell’espressione pragmatica “tutto si tiene”, ha nella rete la sua immagine più incisiva, ma anche la sua differenza dal funzionalismo – sistemico luhmanniano.

3. Le anticipazioni svolte risulteranno maggiormente comprensibili attraverso la svolgimento della seconda sequenza: complessità – equilibrio – governance

Ciò da cui si deve prendere le mosse, per cogliere il passaggio dalla prospettiva dell’ “ordine” a quella dell’“equilibrio”, tipica delle società “complesse”, è costituito dalla svolta epistemologica novecentesca, per il fatto che essa mette gradualmente in discussione la onnicomprensività della valenza euristica del nesso di causalità e conseguentemente rende “impensabile” la categoria razionale di “sistema”.

In particolare, sul piano dell’accertamento empirico del fatto, le teorie della conoscenza contemporanee[ref]Cfr. alcuni testi da considerarsi “classici” per tale tema: H. Hahn-O. Neurath-R. Carnap, Wissenschaftliche Weltauffassung. Der Wiener Kreis, Wien 1929, tr. it. Bari 1979; M. Bunge, La causalità. Il posto del principio causale nella scienza moderna,Boringhieri, Torino 1970; P. K. Feyerabend, Against Method. Outline of an Anarchistic Theory of Knowledge, London 1975, tr.it., Milano 1981, in part. p. 30 e ss.; M. Baldini,Teoria e storia della scienza, Roma 1975, pp. 9-27; W. Heisenberg, Tradition in der Wissenschaft, München 1977, tr. it., Milano 1982; I. Prigogine-I. StengersLa Nouvelle Alliance. Métamorphose de la science, Paris 1979, tr.it., Torino 1981; Idd., La fin des certitudes. Temps, chaos et le lois de la nature, Paris 1996, trad. it. Torino 1997.[/ref] hanno variamente dimostrato come nell’indagine scientifica non sia possibile astrarre dalla interazione, che diviene cognitivamente “costitutiva”, tra “osservatore” e oggetto osservato. Ciò significa che l’osservatore fa parte del sistema osservato e il metodo non può essere pensato separatamente dall’oggetto indagato. Si passa, insomma, dalla costitutività della ragione alla costitutività della osservazione. Ed è su questo passaggio che entra in gioco la categoria “tempo”, alla quale ho già fatto cenno.

L’equilibrio, infatti, è una dimensione “contingente” che è rilevabile nel momento dell’ osservazione; esso contiene quell’eccesso di possibilità fattuali, che individua la struttura paradigmatica della “complessità”, in generale, e di quella sociale, in particolare. In altre parole, il fatto, così come viene determinato nell’istante dell’osservazione, non può essere come tale oggetto di una pre-visione, essendo una possibilità tra le tante; sarebbe un fatto diverso, se osservato in un istante diverso.

La categoria della “complessità” richiama proprio quel contesto epistemologico caratterizzato dalla mera possibilità di interazioni in sospensione bilanciata, che è tutto il contrario, dal punto di vista epistemologico, della categoria della relazionalità causalistica.

Sicché l’ “equilibrio” nella interazione, che costituisce la condizione per l’osservabilità della complessità, coincide con una situazione strutturalmente imprevedibile, che si può soltanto constatare nel suo darsi materiale nella contingenza.

Il fatto, strettamente legato al momento della osservazione, al tempo stesso soggettiva e “contestuale”, non può essere più isolato nella sua purezza. Di qui la perdita di significato del nesso di causalità, a tutto vantaggio di quelle categorie epistemologiche della imprevedibilità ed incertezza, che sono il tratto comune su cui si fondano le teorie della complessità sociale.

Per comprendere, allora, “il sociale”, in quanto ambiente stabile, occorre svolgere, teoricamente, un’opera di “riduzione” delle possibilità, al fine pratico di contenere e gestire la complessità stessa entro i limiti della “contingenza”, la quale rimane sempre aperta, tuttavia, all’interazione con l’ambiente. Di conseguenza, l’equilibrio che deriva dalle operazioni di riduzione della complessità, dà luogo a punti di stabilità possibile entro un apparato di interazioni dal profilo piatto e orizzontale, radicalmente diverso da quella gerarchia verticale, che caratterizza l’ordine istituzionale tipico della Stato “moderno”.

Ho già detto come si debba a Niklas Luhmann l’applicazione della epistemologia della “complessità” alla comprensione delle dinamiche sociali e alla definizione di “ambiente sociale”. Ho anche aggiunto come ritenga, io, di dover sottolineare una differenza tra l’epistemologia luhmanniana degli anni ’70 – 80 del secolo scorso e l’attuale pragmatismo della globalizzazione.

L’epistemologia luhmanniana, infatti, ha il suo punto di forza, ancora, nell’idea razionalistica e storicistica di “sistema”, con una declinazione, però, del tutto inedita, che si riflette nella variazione semantica dell’aggettivo: da “sistematico” a “sistemico”. Significativa è proprio questa relazione tra continuità concettuale e variazionesemantica.

Sul piano puramente formale, la presenza del “sistema” nell’orizzonte di pensiero di Luhmann sta a dimostrare l’eredità hegeliana propria della sua formazione francofortese; tale profilo biografico-formale conduce ad una questione epistemologicamente sostanziale.

Sta a mostrare, cioè, come rimanga ferma l’idea che la comprensione di ciò che può definirsi “realtà” resti legata alla possibilità di ricondurre il molteplice all’unità, come appunto il riferimento concettuale al “sistema” certifica.

Il nuovo significato che rende ragione della variazione semantica: “sistematico” – “sistemico” è conseguenza del radicale abbandono di un qualsiasi riferimento non empiristico. Il nuovo modello per una comprensione unitaria non si realizza in una forma di trascendimento del molteplice nell’unità del “Tutto”, ma, più empiricamente, in una “riduzione” di variabili; ciò a beneficio della possibilità di abbracciare con un unico atto osservativo, con un unico sguardo dunque, la molteplicità degli eventi-forze, còlti nel loro contingente equilibrio.

Se questa è la lettura luhmanniana, che viene normalmente classificata come “funzionalistico-sistemica”, essa allora ha un esito epistemologico che mostra la sua differenza con l’attuale pragmatismo.

Il “mondo” di Luhmann aveva come orizzonte i confini dello Stato, che contenevano la politica e l’ordinamento giuridico; quello attuale della governance si svolge nello spazio privo di confini, dominato dai potentati economici, più forti della progettualità “ideale” della politica.

La differenza tra i due “mondi” si coglie attraverso l’esempio offerto dal rapporto tra potere e ordinamento istituzionale.

In Luhmann la permanenza categoriale della “dogmatica giuridica”, sia pure riletta nella sua “funzione” di confine semantico del “sottosistema” giuridico, realizza una autosufficienza di questo rispetto a quello politico. Ciò consente di tener ferma la funzione di controllo critico propria del giuridico nei confronti di una normatività, che sia manifestazione immediata delle pretese del politico[ref]Cfr. N. Luhmann, Rechtssystem und Rechtsdogmatik, Stuttgart 1974, tr. it., Bologna 1978.[/ref].

Nell’empirismo pragmatico contemporaneo, al contrario, la complessità non dà luogo a modalità di comprensione unitaria, ma conduce lo sguardo verso una situazione composta da una molteplicità di intersezioni, che fanno somigliare l’ambiente sociale, più che ad un sistema unitariamente comprensibile, ad un tessuto reticolare[ref]Negli ultimi anni l’applicazione della metafora, o del paradigma, della rete allo studio delle relazioni sociali e in particolare giuridiche è divenuta corrente: tra i testi fondamentali anche per un approccio filosofico-giuridico v., a titolo esemplificativo, M. Castells, The Rise of the Network Society (The Information Age: Economy, Society and Culture, vol. I), Cambridge-Oxford 1996, trad. it. La nascita della società in rete, Milano, 2002; A-L.Barabási, Linked: How Everything is Connected to Everything Else and What it Means for Business, Science, and Everyday Life, New York 2002, trad. it. Link. La scienza delle reti, Torino 2004; F. Ost-M. van de Kerchove, De la pyramide au réseau? Pour une théorie dialectique du droit, Bruxelles 2002; P. Heritier,Urbe-Internet. La rete figurale del diritto. Materiali per un ipertesto didattico, vol. 1, Torino 2003; U. Pagallo, Teoria giuridica della complessità. Dalla ‘polis primitiva’ di Socrate ai ‘mondi piccoli’ dell’informatica: un approccio evolutivo, Torino 2006 (spec. pp. 135-171); A. Calbucci (a cura di), La complessità del diritto. Nuovi itinerari del pensiero giuridico contemporaneo, Napoli 2009. Molto in anticipo sull’emersione del fenomeno di Internet, Enrico di Robilant applicava al diritto il modello della rete già inIl diritto nella società industriale, “Rivista internazionale di Filosofia del diritto”, L, 1973, pp. 225-262.[/ref].

L’attuale, diversa comprensione della realtà conduce all’evaporazione della categoria della politica, storicamente e concettualmente legata alla forma della sovranità statuale, in favore della dominanza della categoria economica, che, in un’economia di mercato, è transnazionale e sovrastatuale.

E’ in quest’ultimo contesto che ritengo vada collocata la attuale nozione di governance, nella quale la visione di un ambiente sociale complesso in equilibrio deve essere rimodulata secondo una immagine di tipo puntistico-reticolare.

La governance implica, quindi, una considerazione, ancora diversa, sia del riferimento al funzionamento di fatto del complesso istituzionale, in generale, sia di quello, specifico, relativo ad un determinato ambito di regolazione normativa.

Il modello che si delinea, attraverso questa prospettiva “regolativa”, infatti, non solo non è verticale, ma neppure “sistemico” à la Luhmann; esso è orizzontale e aperto, come orizzontale e aperta è l’immagine di una rete composta da una molteplicità, a priori indeterminabile, di intersezioni tra eventi fattuali che realizzano un equilibrio compensativo.

La differenza tra i due modelli è tale da mettere in crisi la configurazione “classica” delle istituzioni rappresentative elaborate dalla modernità, che Luhmann (è bene sottolineare) non aveva messo in discussione, pur se rilette in chiave funzionalistico-sistemica[ref]V. Politische Planung, Opladen 1978; tr. it., Stato di diritto e sistema sociale, Napoli 1990. Peculiari sviluppi della teoria di Luhmann si trovano, come è noto, nel pensiero di Günther Teubner. A tal proposito cfr. il suo Recht als autopoietisches System, Frankfurt am Main 1989, tr. it., Milano 1996.[/ref].

4. Evaporato il nesso Stato – politica – diritto, ne segue, sul piano istituzionale, la problematica tenuta concettuale dell’idea di “Stato di diritto” e di democrazia rappresentativa e, su quello giuridico, della categoria di “ordinamento” e della gerarchia delle fonti.

In particolare, utilizzare, sul piano politico, i modelli di governance come equilibrio reticolare, dà luogo ad un esito paradossale, quale è quello costituito dalla contemporanea presenza di due fenomeni strutturalmente antitetici, che non riescono a disporsi in continuità tra loro e neppure a dialogare, sia pure secondo una modalità dialettica.

Da una parte, avanzano e chiedono spazio le prassi di democrazia immediatamente partecipativa, attraverso il diretto coinvolgimento, nei processi decisionali, di coloro che alle decisioni pubbliche dovranno attenersi. Dall’altra, emergono, con sempre maggiore capacità performativa, istanze “tecnocratiche”, espressione diretta degli “interessi” di soggetti che, per la loro struttura socio-economica, non hanno per proprio fine il perseguimento del “bene” pubblico[ref]Nel linguaggio comune si usa il termine “interesse” in modo promiscuo, in relazione, cioè, sia al “privato” che al “pubblico”. Nelle righe del testo, invece, ho volutamente utilizzato il termine “interesse” per la sfera dei soggetti “privati”, destinando il termine “bene” al fine “pubblico”. Questo perché l’ “interesse” è legato al concetto di “bisogno” e il criterio di valutazione è soggettivistico-utilitaristico, proprio della sfera “privata”; il “bene”, invece, evoca un ambito valutativo di tipo “oggettivistico” (per quanto ambigue ed epistemologicamente problematiche siano sia la categoria dell’ “oggettività” sia quella di “bene”), che mi appare più appropriato per soddisfare la sfera “pubblica”. Per questa ragione, la costituzione pubblica del soggetto-attore è una garanzia indispensabile, sia pure solamente “formale” (ma non potrebbe esserlo diversamente), rispetto alla plausibile finalità sociale degli atti performativi.[/ref].

Sul piano giuridico, la crisi della democrazia rappresentativa si traduce nella crisi della legge “democratica” come fonte privilegiata dell’ordinamento, e quindi nella crisi degli elementi strutturali della generalità, dell’astrattezza, della pubblicità. Ciò conduce all’esaltazione di modalità contrattuali e giudiziarie che, snaturate rispetto alla loro classica funzione ordinamentale, si presentano come le matrici del “nuovo” diritto. Con una formula sintetica, si può dire che al criterio giuridico-politico della soggettività legittima o, detta altrimenti, della legittimazione soggettiva, si sostituisce la presa d’atto della pressione fattuale di entità portatrici di interessi abbastanza forti da avere, nella competizione, una capacità di negoziazione.

Ciò trova riscontro, ad esempio, nel darsi di prassi di governance in cui soggetti, la cui originaria costituzione pubblica o privata diviene indifferente, entrano in una relazione contrattuale in quanto meri portatori di interessi, con il fine di produrre una “regolazione” idonea a comporre tali interessi, in una maniera che si ritiene più rapida e soddisfacente di quanto non possano fare gli strumenti ordinamentali.

La crisi della democrazia rappresentativa indotta dal modello di governance comporta la crisi della categoria del “politico”, poiché elimina la possibilità di ideare un progetto; e ciò non senza una ragione epistemologica, che riguarda quella categoria del “tempo” alla quale ho già accennato e che ora intendo approfondire.

La situazione di “equilibrio”, sulla quale si costruisce la governance, coincide, sotto il profilo temporale, con una osservazione puntuale, la cui stabilità si apprezza solo in quanto già così si offre all’osservatore. Proprio in quanto è solo osservabile, non è possibile progettarla. La temporalità è quella istantanea dell’ osservazione .

Qui risiede la differenza strutturale con la sequenza concettuale ordine-sistema, che si proietta nel concetto di ordinamento giuridico.

Tale sequenza, infatti, è attraversata razionalmente da una idea di tempo strutturata dalle categorie di “mutamento” e “durata”, da cogliersi epistemologicamente secondo la chiave della continuità. Come dire che la discontinuità dell’osservazione esperienziale viene trasformata in una continuità prodotta dalla elaborazione razionale[ref]Cfr., sul tema “continuità/discontinuità”, quale emerge in un contesto strettamente “scientifico-epistemologico”, E. Schrödinger, What is Life? The Physical Aspect of the Living Cell, Cambridge 1944, tr. it. Milano 1995, p. 86 e ss.[/ref]. Basti pensare alla nozione, già messa in luce, di “relazione causale”, che dispone secondo continuità, a fini cognitivi, i diversi eventi del reale, per cui la conoscenza è il prodotto mentale di un percorso tra un prima e un dopo. Un tale modello di ragionamento consente mentalmente di stabile una funzione causale tra un “evento” ed un altro “evento”, che diviene un esito conseguenziale del primo; il presente diviene così lo snodo di una continuità causale tra passato e futuro.

La chiave della temporalità risulta evidente negli elementi strutturali del diritto concepito secondo una prospettiva ordinamentale. Basti pensare al concetto di “norma” che sintetizza semanticamente un nesso razional-causale, e quindi temporalmente dislocato, tra prescrizione, dovere e responsabilità.

L’esempio più facile e scontato è proprio nella struttura di quell’atto normativo denominato “legge”. Essa è un atto il cui fine è durare nel tempo: il “durare nel tempo” è il fattore razionale, che consente di emancipare l’atto dai soggetti fisici che lo pongono in essere, di considerarlo, cioè, un in sé, indipendentemente da quelli. La legge non esprime un equilibrio nell’istante, ma il suo fine strutturale è un dover essere nel tempo.

Il senso della transizione mi sembra che possa essere raccolto nella seguente sottolineatura: come l’ordinare era stato il fine pratico del diritto fondato appunto sul concetto di “ordine” come principio teoretico, filosofico e culturale; così l’equilibriorappresenta l’obiettivo pratico di una attività regolativa – la governance – conseguente al modello epistemologico della “complessità” sociale.

La governance, praticata con una disinvoltura pericolosamente ignorante della costituzione epistemologica della sua nozione, è la causa non contingente della crisi della categoria del “politico” ed è il mezzo che consegna il potere alla tecnocrazia economico-finanziaria, che per sua costituzione, è a- democratica. E’ il potere acefalo della rete.

5. L’iconografia della piramide e quella, opposta, della rete mettono in luce grafica qualcosa di sconcertante, destinato a riflettersi sulla vicenda umana in modo incalcolabilmente rischioso.

Il potere, dall’avere una testa, è divenuto acefalo. Il vertice della piramide è inscindibile dai suoi assi portanti, in salita ed in discesa, che sia un trono o un’aula parlamentare: in ogni caso quel vertice indica una precisa individuazione soggettiva. Esiste un “responsabile” del potere. Può farsi lo stesso ragionamento per i nodi e i fili che tessono e armano una rete? Ciò che è rilevante non sono i soggetti, quanto il loro annodarsi eriannodarsi: l’effettività del potere risiede proprio in questo tenersi in modo indefinitamente plurimo e diffuso.

Se la piramide ha reso spesso crudele il potere, la rete lo rende privo della umanità soggettiva del corpo. Ciò si mostra in tutta la sua inquietante portata se solo si presta attenzione alla circostanza della saldatura tra le tecnologie cibernetico-informatiche e la rete: la decisione umana visibile è sostituita dalla anonima performatività dell’algoritmo, in virtù del quale l’umano certamente non scompare – chi costruisce infatti gli algoritmi e il loro modo di operare? – ma diviene invisibile. L’uomo non vede neppure i dati che scatenano la performatività dell’algoritmo, così come i piloti americani che sganciarono la “bomba” non videro i corpi ardenti delle vittime, migliaia di metri sotto di loro.

L’algoritmo fa sentire la sua fredda, oggettiva, non-umana performatività dalle operazioni finanziarie a quelle belliche: un incrocio virtuale di dati è sufficiente a scatenare una tempesta monetaria o a far giungere un “drone” tra le montagne dell’Afghanistan.

Ripensare la politica e i diritti sociali

di
Giacomo Pisani

Sul terreno del welfare si giocano le partite più importanti per la politica e il diritto, per questo si rende necessaria oggi una riflessione approfondita sull’attuale modello di produzione e sui diritti sociali, che costituiranno i temi privilegiati di questa pagina di “Filosofia in movimento”. Il capitale finanziario, negli ultimi vent’anni, ha subito un processo di vorticosa espansione, astraendosi dalla produzione materiale, sempre più localizzata al di fuori dell’occidente, e mettendo a valore le competenze cognitive e relazionali che si sviluppano all’interno della rete e delle possibilità di relazione costituitesi nella postmodernità.

Il capitale finanziario ha una natura essenzialmente cognitiva, eppure il mancato riconoscimento giuridico ed economico di tale produzione, connessa sempre più con l’intera dimensione sociale in cui si esplica l’esistenza, non viene assunto in maniera conflittuale dai soggetti che vivono in maniera eminente tale disagio. Le possibilità di relazione tipiche della postmodernità, infatti, si caratterizzano per una neutralità e una a-storicità che impediscono qualsiasi oggettivazione delle condizioni sociali dello sfruttamento. I soggetti sono implicati in una dimensione estetizzante, estraniata, in cui vengono impiegate le capacità di relazione più generaliste e meno ingombranti da un punto di vista identitario. L’irrequietezza e la dispersione che caratterizza i social network, la neutralità dei centri commerciali che ristrutturano le relazioni al di fuori del contesto comunitario, entro una nuova cornice priva di radicamento e di significati condivisi al di là del consumo, anestetizzano qualsiasi possibilità di soggettivazione.

Il mercato tende a consolidarsi come unico parametro del valore sociale, potendo estendersi a livello globale. L’impossibilità, da parte dei singoli stati, di porsi a regolazione dei processi economici, ha portato il mercato ad autoregolarsi anche attingendo al sistema giuridico, innescando un processo altamente contraddittorio, che  si rivolta in  maniera sempre più minacciosa contro la dignità e i diritti fondamentali della persona.

La dimensione sociale, resa immediatamente produttiva, ha una ricaduta anzitutto politica, in quanto investe direttamente il funzionamento del capitale finanziario. Sul terreno del welfare e dei diritti sociali, non intesi in senso assistenziale ma attivistico, funzionale alla partecipazione democratica, la politica si trova dinanzi ad una partita importante. Essa, oggi confinata in una gestione tecnica dell’esistente entro i parametri del mercato, deve avviare processi costituenti in grado di attraversare l’immanenza dei processi di soggettivazione che investono la società, per generare istituzioni e forme di riconoscimento giuridico all’altezza dei tempi. L’incedere del mercato esige la tutela della dignità e dei diritti fondamentali della persona, che non costituiscono delle categorie astratte o naturali, ma sono esposte ai mutamenti della produzione e della società e necessitano di uno spazio di riconoscimento e di tutela sostanziale. In questa chiave, la dialettica del reddito e dei beni comuni si rivela interessante, inserendosi in un processo costituente che sottrae beni e servizi al mercato e costruisce un diritto del “comune”, decostruendo le categorie proprietarie tipiche del diritto moderno. Il comune non è un insieme statico di beni, servizi e diritti, ma si costituisce all’interno dei processi di soggettivazione che innervano la società, ponendosi in maniera dialettica in rapporto alla storicità dei bisogni sociali, del diritto e delle istituzioni.

La filosofia, le scienze sociali, la politica e il diritto hanno su questo orizzonte un ruolo fondamentale: quello di ricomporre, a partire dalla mutata articolazione della produzione, del lavoro e dell’economia su scala globale, il rapporto fra soggettività e diritti, fra dignità e riconoscimento giuridico, fra cooperazione e sviluppo.  In questa direzione, è necessario ritrovare la funzione creatrice della politica e del diritto, come tensione fra resistenza e costruzione del comune. Per recuperare uno spazio di progettazione in cui la realtà è l’incrocio fra singolarità in movimento, aperte verso il futuro.

L’Introduzione alla Dottrina della scienza 1813: la formazione al senso per la filosofia

1. Nel suo concreto svolgimento la fichtiana Dottrina della scienza si presenta non solo come un sistema compiuto di filosofia trascendentale, ma anche, e insieme, come il risultato, mai definitivamente fissato, di una ininterrotta attività del pensare, che non si appaga mai dei risultati conseguiti, riflette su nuove questioni, dischiude punti di vista originali, apre nuovi campi di indagine. Le diverse esposizioni della Dottrina della scienza, i manoscritti di “meditazioni personali” (eigene Meditationen) su di essa, che Fichte compose durante il corso della sua vita e che sono stati resi accessibili dalla Edizione storico-critica (Gesamtausgabe [GA]) – come per esempio i Diari degli anni 1813 e 1814 – offrono una chiara testimonianza di questo tratto fondamentale della Dottrina della scienza, compresa e realizzata non solo come dottrina (teoria), ma come attività del pensare. In quanto compenetrazione autocritica del sapere, sapere del sapere, la Dottrina della scienza viene sviluppata attraverso una specifica “praxis” della riflessione (Besinnung) e dell’auto-riflessione (Selbstbesinnung), che devono venire consapevolmente esercitate dal filosofo nella sua ricerca e nel suo insegnamento onde pervenire al contenuto sistematico, all’esposizione stessa del sapere trascendentale. Pertanto la Dottrina della Scienza è insieme sistema e prassi del pensare  ovvero prasseologia (Praxeologik), in cui questa si evidenzia come la premessa dinamica e, allo stesso tempo, come il necessario presupposto del venire in essere del primo elemento, cioè del sistema.

Tale dimensione prasseologica della costruzione della Dottrina della scienza – che per Fichte significa: della filosofia stessa – deve essere esplicitamente presa in considerazione dal filosofo trascendentale, riflettuta criticamente e posta metodicamente in gioco. Che la Dottrina della scienza sia non soltanto teoria della ragione, ma insieme e allo stesso tempo anche prassi della ragione stessa, anzi prassi riflessiva della ragione, riguarda non soltanto la mediazione di un contenuto dottrinale già pronto e costituito, ma anche e soprattutto la costruzione, la costituzione stessa del sistema trascendentale. Quest’ultimo non è infatti una morta impalcatura di concetti fissi, ma un organismo vivente di pensieri creativi, che poggiano sull’intuizione intellettuale ovvero sull’auto-intuirsi (Sich-Anschauen) (o intra-intuirsi [Sich-Einschauen]) dell’intelligenza e che restituiscono la stessa immanente sistematicità dello spirito umano. Il “sistema del figurare” (Bilden) (per riprendere una definizione di Reinhard Lauth) deve essere configurato ed elaborato sempre di nuovo nella vivente attuazione del pensare, ovvero nel figurare (Bilden) stesso[ref] Cfr. Reinhard Lauth, Con Fichte, oltre Fichte, a cura di Marco Ivaldo, Trauben, Torino 2004.[/ref].

2. In diversi luoghi  Fichte porta ad espressione tale caratteristica della Dottrina della scienza usando un termine preciso: arte [Kunst]. Nella Esposizione della Dottrina della scienza 1801-2 ad esempio, egli fa notare che, per praticare la filosofia in quanto Dottrina della scienza, è necessaria “un’arte della riflessione (Besinnung) esercitata fino alla libertà assoluta” (GA II/6, 133). Anche all’inizio della Dottrina della scienza di Königsberg 1807 la Dottrina della Scienza viene caratterizzata come “arte del vedere” (GA II/10, 113). Arte della riflessione, arte del vedere: secondo Fichte la Dottrina della scienza è un esercizio (ovvero una pratica) della riflessione o del  vedere – questo termine (Sehen) esprime per Fichte l’essenza stessa del sapere -, che deve risultare sì dall’osservanza di determinate regole, ma sempre comunque in un libero atto del pensiero. Di qui la parola-guida: arte. Un mero seguire la regola senza la vivente attuazione della libertà non è in nessun modo sufficiente a realizzare la Dottrina della scienza come arte del vedere o del riflettere. Già nelle lezioni Sulla differenza tra la lettera e lo spirito in filosofia del 1794 Fichte aveva chiarito che il fatto di accontentarsi, nel filosofare, dell’applicazione di regole conosciute, non avrebbe prodotto altro che una “pura filosofia per formule (Formular Philosophie)” (GA II/3, 330), forse anche totalmente corretta dal profilo formale, ma mai in grado di corrispondere al vero compito della filosofia in quanto esposizione del vivente sistema dello spirito umano. Per un filosofare vivente e non semplicemente formale – si potrebbe dire – occorre una immaginazione ‘speculativa’, che Fichte in queste lezioni chiama “spirito” (Geist): non c’è Dottrina della scienza senza spirito!

3. Ora, era fondamentale convinzione di Fichte, della cui verità e validità egli è divenuto consapevole con crescente intensità, che la costruzione della Dottrina della scienza come arte del riflettere o del vedere presuppone e richiede la formazione (Bildung) di uno specifico “organo” del riflettere e del vedere stessi. Proprio all’inizio della Dottrina della scienza 1807 Fichte afferma che, grazie all’introduzione nella Dottrina della scienza i suoi uditori “sarebbero diventati partecipi di un senso nuovo, al quale si sarebbe aperto un nuovo mondo” (GA II/10, 111). Un nuovo senso, un nuovo mondo: per poter essere compiutamente compresa e realizzata, l’arte della riflessione – la Dottrina della scienza – necèssita di un particolare senso o organo di senso, da curare e coltivare in quanto tale, e che soltanto può renderci accessibili gli oggetti propri della filosofia (qui designati come “nuovo mondo”)[ref] Cfr. Michael Gerten, Geistige Blindheit und der Sinn für Philosophie. Das systematische Problem einer Einleitung in Fichtes Wissenschaftslehre, in „Fichte-Studien“, 31 (2007), pp. 135-158. [/ref]. Poco prima, nell’anno 1805, nelle lezioni introduttive di Erlangen Institutiones Omnis Philosophiae, appare una formulazione che è significativa per il mio tema: “senso per la filosofia”. Fichte chiarisce che ambito della filosofia non sono gli “oggetti del senso esterno”, ma piuttosto quelli del “senso interno” oppure di “un nuovo senso interno”. Senza di esso ciò di cui la filosofia discorre rimarrebbe una “parola vuota, come il parlare sui colori da parte di un cieco”. Incontreremo ancora questa metafora di cecità e visione. Ora, in queste Institutiones il senso interno di cui si tratta viene designato anche come senso per la filosofia. Leggiamo: “il primo esito assolutamente necessario dell’esposizione filosofica consiste […] in ciò, che grazie alla sua sollecitazione si apra, si sviluppi e venga formato un senso per la filosofia che è specificatamente e toto genere diverso da tutti gli altri sensi e facoltà” (GA II/9, 36). Nessuna arte del riflettere allora senza senso per la filosofia.

4. Il crescente significato che Fichte sembra assegnare al risveglio e alla formazione del senso per la filosofia ha tuttavia anche un altro motivo, che non aveva a che fare tanto con l’interna costruzione del sistema, quanto con le “sorti” della ricezione della Dottrina della scienza – ovvero con la comprensione o con la (frequente) incomprensione della stessa presso il pubblico colto. Ancora nel 1801 Fichte aveva intrapreso il “tentativo” di “costringere i lettori a capire” – come recita il sottotitolo del Rapporto chiaro come il sole – mediante nuove spiegazioni. Egli però si sarebbe reso conto via via che l’eliminazione del fraintendimento del suo assunto fondamentale, e la corretta comprensione dello stesso, non potevano venire “costrette” semplicemente mediante ripetute illustrazioni del contenuto dottrinale, ma che esse richiedevano l’assunzione di una determinata disposizione (o orientamento) spirituale da parte dei lettori o degli ascoltatori. Tale disposizione non può essere indotta per via logica; essa infatti appartiene alle premesse del riflettere logico-trascendentale, il quale a sua volta può diventare cosciente del suo valore intrinseco in via riflessiva. Orbene, l’orientamento richiesto ha come presupposto la formazione (Bildung) del senso per la filosofia, e può venire in essere solo  grazie a quest’ultimo.

Fichte ha trattato ed approfondito questo motivo-chiave della formazione del senso per la filosofia in opere o lezioni che per lo più recano come titolo “introduzione” (Einführung o Einleitung), oppure vengono  designate come “prolegomeni” (Prolegomena) [ref] Cfr. Federico Ferraguto, Filosofare prima della filosofia. Il problema dell’introduzione alla dottrina della scienza di J. G. Fichte, Olms, Hildesheim 2010; Id., Orientarsi nel pensiero e avviamento alla filosofia, in “Il cannocchiale. Rivista di studi filosofici, XXXVIII, 1 (2013), pp. 133-148. [/ref]. Tali elaborazioni tuttavia non devono in nessun modo esser considerate come semplici avviamenti esteriori alla filosofia: esse sono già filosofia, ovvero sono parti integranti del concreto compimento della Dottrina della scienza, se questa deve essere intesa – come ho già sottolineato – non solo come l’esposizione di un contenuto dottrinale determinato, ma come attività della ragione in actu, sì, come “esercizio” del pensare.

5. Un esito maturo di queste riflessioni sulla formazione del senso filosofico è rappresentato dalle lezioni che Fichte tenne dal 4 novembre al 23 dicembre 1813 presso l’Università di Berlino come Introduzione alla Dottrina della Scienza [ref] Della Einleitung in die Wissenschaftslehre 1813 possiamo disporre del manoscritto, edito in J. G. Fichte-Gesamtausgabe der Bayerischen Akademie der Wissenschaften, a cura di R. Lauth, H. Jacob, H. Gliwitzki, E. Fuchs, P. K. Schneider, Frommann-Holzboog, Stuttgart-Bad Cannstatt, II/16, pp. 225-314; e di una copia dalle lezioni (Nachschrift), custodita nella biblioteca di Halle, di estensore ignoto, ora pubblicata in GA, IV/6, pp. 351-472.  Esiste anche una Nachschrift dovuta a Jakob Ludwig Cauer, incompleta, passi della quale vengono addotti, dagli editori della GA, come varianti o integrazioni al testo della Nachschrift-Halle.  [/ref]. Nel seguito vorrei porre in risalto soltanto alcuni luoghi di queste lezioni che sono significativi per il mio tema. Esse iniziano con un giudizio molto critico e anzi distruttivo sulla ricezione di quella dottrina (trascendentale) che era stata avanzata prima dalle Critiche kantiane e poi dalla Dottrina della scienza. Tale dottrina (Lehre) “nei  tre decenni [trascorsi dalla prima edizione della Critica della ragione pura 1781] non sarebbe stata assolutamente compresa” (dal manoscritto di Fichte, GA II/17, 232). Fichte osserva che “comprensione, possesso, esercizio del principio fondamentale non hanno ancora avuto luogo” – laddove la non-comprensione del principio rappresenta per lui addirittura “un male minore” rispetto al fraintendimento dello stesso, perché la non-comprensione lascia ancora aperta, e possibile all’umanità, la “trasformazione” della maniera di pensare che è “da attendersi”, mentre il fraintendimento, soprattutto quando creda di aver capito (esattamente) e di aver superato la dottrina compresa, annienta la possibilità stessa di una (giusta) comprensione. Il fraintendimento ostinato, che si reputa superiore, è perciò quello che deve essere assolutamente evitato. Ora, per rettificare la non-comprensione ed eliminare il fraintendimento occorre per Fichte stabilire un punto, che non sembra essere stato del tutto chiaro nemmeno a Kant: “Questo insegnamento presuppone un organo sensoriale [Sinnenwerkzeug] del tutto nuovo, mediante il quale nascerà un mondo interamente nuovo, che per gli uomini ordinari non si dà affatto” (GA II 17, 234). Non si dà accesso alla filosofia trascendentale ed nessuna comprensione della stessa senza l’attività del relativo organo di senso, il quale soltanto è in grado di schiudere il “nuovo mondo” – cioè i veri oggetti della filosofia -, e che già nel 1805 Fichte aveva definito “senso per la filosofia”.

Ora, come risulta dai passi appena citati, il mondo spirituale dischiuso dal nuovo organo sensoriale è completamente sottratto alla percezione di coloro che Fichte definisce “uomini ordinari” (gewöhnliche Menschen): “Per gli uomini quali sono, a seguito della loro nascita, e quali divengono tramite l’educazione ordinaria, questa dottrina è del tutto incomprensibile” (ivi): Gli oggetti di cui parla la filosofia trascendentale non esistono per gli “uomini ordinari”, e ciò perché essi sono sprovvisti del necessario organo sensoriale. Qui riappare la metafora della cecità e della visione, che abbiamo già incontrato, una metafora che – come lo stesso Fichte osserva – risulta particolarmente idonea al tema in gioco, poiché il nuovo senso si rapporta al senso “ordinario” internamente allo stesso modo in cui il vedere e il toccare si rapportano esteriormente. L’“uomo ordinario” è simile al “cieco nato”. Chi volesse parlare con questo di fenomeni (come i colori) che non sono accessibili al toccare, non sarebbe in realtà in grado di parlargli affatto. Peggio ancora sarebbe se il cieco nato pretendesse di capire mediante il toccare quei fenomeni che sono inaccessibili al toccare e accessibili al solo vedere. Il risultato sarebbe o un non-capire, oppure un fraintendere o un equivocare. Proprio quest’ultimo è, secondo Fichte, il destino che è toccato alla Dottrina della scienza: d’esser fraintesa a causa della mancanza dell’organo sensoriale richiesto. Si capisce allora come Fichte sottolinei energicamente che la condizione primaria per rendere comprensibile la Dottrina della scienza è la formazione di un nuovo senso – dell’occhio spirituale – per il quale soltanto possono esistere gli oggetti propri della filosofia. Perciò la Dottrina della scienza – come del resto ogni teoria – è composizione e comprensione in unità di ciò che è dato e conosciuto mediante il senso (= la “percezione immediata”) – solo però non mediante il senso empirico (= ”ordinario”), bensì mediante il senso interno, e da sviluppare dal nuovo. Il nuovo senso è dunque presupposto, vivente premessa della realizzazione della Dottrina della scienza, ciò che per Fichte significa: dell’attuazione della riflessione e auto-riflessione filosofica condotta al suo compimento. Suona di notevole importanza per il mio assunto un’espressione di Fichte in questo contesto, ovvero che la Dottrina della scienza “non sarebbe soltanto dottrina, e nemmeno in primissimo luogo dottrina, ma una trasformazione (Umbildung) completa dell’uomo cui essa giunge. Una ri-creazione (Umschaffung) e rinnovazione (Erneuerung); un ampliamento (Erweiterung) di tutto il suo esserci, da una sfera limitata ad una più alta” (GA II/17, 235). La Dottrina della scienza è non solo dottrina, ma prassi del pensiero, e come tale, cioè in quanto esercizio del pensare, essa possiede una valenza esistenziale. Comporta una metamorfosi dell’uomo ordinario, sì, essa rappresenta per lui una specie di “rinascita” (GA II/17, 237). Ma la metamorfosi e la rinascita presuppongono per parte loro il risveglio e l’esercizio del nuovo senso.

6. Perché nuovo senso? A questa domanda Fichte conferisce, in queste lezioni, una doppia risposta. La prima prende in considerazione la costituzione stessa dello spirito umano; la seconda concerne lo sviluppo spirituale e culturale del genere umano. Riguardo al primo punto Fichte chiarisce che il senso nuovo non è “un senso particolare, partecipato solo a pochi eletti e particolarmente dotati spiritualmente” (GA II/17, 235). Non si danno individui che dispongono di questo senso e altri che ne sono sprovvisti. Una simile opinione sarebbe – come  Fichte si esprime –  “arrogante” e contraddirebbe la sua “intera visione”. Fichte non ha mai dismesso il suo originario umanismo fondato sulla dignità dell’uomo, cioè: fondato sulla dignità di ogni individuo. Ogni individuo ha in se stesso la facoltà di innalzarsi alla conoscenza razionale. Fichte parla in questo contesto di una “disposizione” (Anlage) al senso nuovo, o a un nuovo “percepire” (cfr. la Nachschrift-Halle, GA IV/6, 358 – “percepire” [Vernehmen] è parola apprezzata da Jacobi) – una disposizione che si dà senza eccezione in ogni individuo. Non è la disposizione per il senso spirituale ad essere nuova, perché essa è inseparabile dal nostro essere uomini. Il nuovo che deve venire a manifestazione è il suo “sviluppo” (Entwicklung) . La disposizione deve venire svolta, cioè posta in uso vivente per il percepire effettivo: “Soltanto l’uso reale del senso [interno] è nuovo” si afferma nella Nachschrift-Halle della Introduzione (GA IV/6, 359). Riprendendo la metafora della cecità e della visione: nessuno è, secondo Fichte, spiritualmente cieco per l’eternità. Il cosiddetto cieco spirituale non è privo dell’occhio spirituale e dell’interna forza visiva in quanto disposizione (Anlage); soltanto, quest’occhio è in lui sigillato da una “potenza estranea”, il cui influsso negativo può e deve venire rimosso. Anche se Fichte qui non chiarisce propriamente che cosa si debba intendere con “potenza estranea”, si può supporre che essa rappresenti la forza di ciò che in questo stesso contesto egli designa come “l’ordinaria percezione dell’uomo naturale ” (manoscritto di Fichte, GA II/17, 238). L’introduzione filosofica alla Dottrina della scienza ha infatti come compito di avanzare le premesse per la liberazione dell’occhio spirituale dalla potenza della percezione ordinaria – con il linguaggio della fenomenologia: della “disposizione naturale”. Ho parlato a ragion veduta di premesse, perché l’introduzione filosofica è in grado soltanto di preparare l’apertura dell’occhio spirituale. Che poi questa apertura abbia luogo davvero dipende dalla libera attuazione del pensare, che ognuno deve attivare in se stesso e da se stesso. Chi vuole praticare la filosofia deve – seguendo l’invito a filosofare da parte del “docente della Dottrina della scienza” – lavorare su se stesso e liberamente pensare, “affinché in questa nuova vita creativa possa afferrarlo l’EVIDENZA” (Sullo studio della filosofia, Berlino 1811-1812, GA IV/4, 46). La liberazione dell’occhio spirituale dalle catene e dalle ombre della caverna, per riprendere la celebre immagine platonica, non è dunque un accadimento passivo, ma un’auto-liberazione, che comunque deve avvenire nel nesso interpersonale tra docente e discente, in un dare e ricevere spirituale – ovvero nella comunicazione. L’arte della riflessione, la prassi della ragione potrebbe essere dunque considerata, secondo questa visione, come una risposta liberatrice, una ‘responsività’ (Verantwortung) nei confronti di un appello a pensare in proprio (Selbstdenken).

7. La novità del senso spirituale non riguarda soltanto lo sviluppo della sua disposizione nell’individuo e il suo manifestarsi nella temporalità della singola persona. Questo sviluppo è infatti un processo che avviene non solo in singoli individui, ma si estende, come Fichte sottolinea, all’intero genere umano. Ma come dobbiamo pensare questo sviluppo all’altezza del genere umano? L’Introduzione alla Dottrina della scienza 1813 distingue due momenti (o gradi) di sviluppo del senso spirituale. Essendo quest’ultimo strettamente intessuto con l’essere stesso dell’uomo, Fichte non può né vuole affatto disconoscere che nel passato e fra i contemporanei il senso spirituale sia già stato e sia tuttora, efficace, e attivo. Un passo significativo suona: “Con [questo] senso [e non con quello solo ordinario] si è visto (gesehen) da quando gli uomini esistono, e tutto ciò che di grande e di eccellente si trova nell’umanità, e solo fa sussistere l’umano, proviene dalle visioni di questo senso” (manoscritto GA II/17, 236). Senza l’azione di ciò che Fichte in questo stesso contesto chiama anche la percezione del mondo spirituale, sarebbe divenuto impossibile tutto quel buono e quell’eccellente per cui “il genere umano è conservato nell’esistere” (Nachschrift-Halle, GA IV/6, 359) – perfino la stessa filosofia trascendentale. Il primo momento di sviluppo del senso interiore è perciò caratterizzato dal suo esserci e il suo operare di fatto. Ciò che però assolutamente manca a questo momento, secondo Fichte, è che in esso il senso interiore non viene visto e osservato nella sua differenza ed opposizione rispetto al senso ordinario. Il risultato paradossale di questa assenza di auto-osservazione del senso spirituale, cioè dell’intelligenza (intelligere), è da un lato che le impressioni di ambedue i sensi, quello ordinario ed empirico e quello spirituale, rimangono in qualche modo confuse (= da cui: oscurità, confusione); dall’altro lato è che la vita, priva di un vero legame unificante, rimane divisa in due metà separate (il fattuale e lo spirituale). Confusione e separazione, invece che distinzione e relazione. La Nachschrift-Halle dell’Introduzione adduce su questo tema il seguente chiarimento: Se il senso interiore non viene osservato come tale nella sua differenza da quello ordinario, “gli uomini restano sospesi tra i due mondi, senza poter scoprire il legame tra essi; perciò senza nemmeno poter notare la loro differenza” (GA IV/6, 359).

Il secondo momento dello sviluppo della disposizione spirituale consiste dunque secondo Fichte in ciò: che il senso spirituale in quanto tale deve essere osservato e percepito nella sua fondamentale differenza rispetto a quello ordinario-naturale. Ciò che è effettivamente nuovo per l’umanità è, secondo l’Introduzione alla Dottrina della Scienza 1813, l’auto-vedersi del vedere spirituale, è che venga effettuato un auto-compenetrarsi del senso interiore in una libera attuazione. Fichte definisce questo gradino come “senso del senso”. Quest’ultimo non sarebbe semplicemente la percezione del mondo spirituale (primo gradino), ma la percezione di questa percezione. Solo grazie all’auto-compenetrarsi del senso interiore, o dell’occhio interiore, diviene possibile afferrare unitariamente la differenza e il legame del mondo dato fattualmente e del mondo spirituale, cosa che nel primo gradino di sviluppo, quello del mero esserci del senso interiore, non poteva ancora aver luogo. Il legame unificante entrambi i sensi, quello esteriore fattuale e quello interiore spirituale, è perciò il senso del senso, l’auto-vedersi dell’intelligenza, che secondo Fichte è un principio allo stesso tempo pratico e teoretico. In definitiva è il nuovo senso – proprio quel senso che deve entrare come nuovo nel mondo della manifestazione: il senso del senso -, che realizza la percezione degli oggetti spirituali colta nella sua struttura riflessiva. E senza l’auto-riferimento riflessivo, dice Fichte, la percezione del mondo spirituale non potrebbe neppure considerarsi completamente fondata e assicurata nella sua differenza dalla percezione fattuale.

8. La novità di cui l’Introduzione alla Dottrina della Scienza 1813 vuole essere l’annuncio è dunque l’idea del senso del senso, e insieme l’esortazione che la disposizione al senso spirituale (all’intelligenza, alla ragione) debba essere svolta fino al punto di afferrare se stessa: “Il senso di questo senso, non semplicemente la percezione del mondo spirituale, bensì la percezione di questa percezione in opposizione all’altra [fattuale] – ciò è davvero nuovo” (Nachschrift-Halle, GA IV/6, 359). Ora, questo auto-afferrarsi dell’intelligenza è precisamente ciò che la filosofia trascendentale ha avviato a partire dalla Critica della ragione di Kant e poi mediante la Dottrina della scienza. Ci troviamo allora nel circolo seguente: da un lato la filosofia trascendentale ha ‘scoperto’ il senso del senso e lo ha fatto valere, o quantomeno ha cercato di farlo valere; dall’altro lato la filosofia trascendentale ha questo stesso auto-afferrarsi del senso quale presupposto o premessa della sua stessa costruzione -, tanto che l’assunto trascendentale non viene compreso e deve restare frainteso se questo senso non viene esercitato e praticato. La via d’uscita per sfuggire questa situazione, a seguito della quale il nuovo senso appare contemporaneamente come risultato e come premessa dell’intrapresa trascendentale, è secondo Fichte quella per cui si divenga “convinti della mancanza del nuovo senso” e ci si “impegni a procurarselo” (Nachschrift-Halle, GA IV/6, 359-360). In tal modo mi sembra venga accennato il processo di una educazione (Bildung) riflessiva al senso del senso, cui deve venire riconosciuto un significato centrale nella elaborazione della stessa filosofia trascendentale.

Lo spirito umano deve essere educato allo sviluppo del nuovo senso, del senso del senso, ma una tale formazione, la formazione alla riflessività, è per parte sua una decisiva componente di quella riflessione della riflessione, o riflessione “alla seconda potenza” [ref] Cfr. Luigi Pareyson, Fichte. Il sistema della libertà, nuova ed. aumentata, Mursia Milano, 1976. [/ref], che la filosofia trascendentale è in se stessa – dato che senza esercitazione pensante del senso del senso resta del tutto impossibile non solo l’accesso alla filosofia trascendentale, ma il suo dispiegamento come sistema della conoscenza principiale. Focalizzando l’attenzione sul termine “senso” (Sinn) si potrebbe asserire che senza il senso del senso non sarebbe possibile alcuna radicale riflessione (Besinnung) e autoriflessione (Selbstbesinnung), quale la filosofia trascendentale pretende di essere. Proseguendo questi pensieri Fichte osserva nelle lezioni che il senso del senso rappresenta “un nuovo compito, proposto al genere umano soltanto nella nostra epoca” (manoscritto di Fichte, GA II/17, 236). Il senso del senso non è un mero possesso, che si possa semplicemente detenere e del quale si possa disporre a piacere; educarlo e farlo valere sulla scena filosofica è un compito assolutamente qualificante della nostra epoca. In ultima istanza: il ‘nuovo’ è per noi compito, alla cui libera assunzione e responsabile attuazione siamo appellati. In quanto compito il senso del senso deve venire effettuato sempre di nuovo in una libera attuazione. Non mi sembra sbagliato considerare il motivo del senso del senso e della sua educazione nelle lezioni introduttive alla Dottrina della scienza dell’inverno 1813 come un ultimo legato dell’autore della Dottrina della scienza. Con esso Fichte vuole dire alla sua epoca ma anche alla posterità che la filosofia trascendentale – per poter essere praticata in generale e addirittura compresa – richiede in definitiva una liberazione dell’occhio spirituale e l’apertura di una nuova percezione, che è l’auto-appercepirsi vivente del vedere spirituale. Secondo questo “ultimo” Fichte la filosofia trascendentale sta o cade con lo sviluppo di questa percezione della percezione spirituale, con il veder-si del vedere.