Chi conta i numeri che contano?

Non è che io creda in un futuro migliore, lungi da me i versi di Majakóvskij in cui il poeta russo affermava: “Innamorato / rientrerò nel giuoco / rischiarando col fuoco la curva delle ciglia”. Non credo nell’amore e le mie ciglia si stanno spopolando, tuttavia sono arrivata alla maturità senza essermi suicidata.

Francesca Gargallo Celentani

A più di due mesi dall’inizio della “domiciliazione cautelativa” – ovvero dopo aver già provato timore per le persone più vulnerabili al virus, rabbia nell’osservare gli effetti tangibili della scissione politica fra pubblico e privato, eccitazione all’idea che tutto questo possa fornire un banco di prova per una società più democratica, panico all’idea di fallire e che lo stato di sorveglianza possa prendere il sopravvento –, eccola qua: una riflessione che rimette i binari di queste umorali montagne russe in pari con la potenza liberatrice della ragione scettica. Si tratta di un articolo di Francesca Gargallo, Agire dalla perplessità: tra pratiche di sopravvivenza, impotenza ideologica e dialoghi dalle autonomie, in cui la filosofa e attivista (attraverso le sue conoscenze accademiche e i dati delle sue esperienze nei collettivi femministi di donne indigene e popolari) prova a rispondere alla domanda: «Cosa intendono quando ci dicono che dopo questa crisi nulla sarà più come prima?». Come sempre Gargallo non indica delle soluzioni, ma i luoghi in cui dirigere lo sguardo quando ci sembra di poter interrogare nient’altro che le nostre mura domestiche.

Sdegnata dalla morbosità con cui i media guardano alla pandemia, con «stilo di bronzo e mano ferma» (citando, non senza ironia, Sulla volontà nella natura di Schopenhauer), Gargallo interrompe il discorso pubblico che come un giradischi si è incantato su due note: la semplicistica descrizione della totale distruzione ambientale e la completa fiducia nella soluzione tecnologica. Così scrive:

la convergenza [ref] Corsivo mio. Quando Gargallo parla di “convergenza” fa riferimento ai nuovi studi di informatica e di comunicazione, in particolare a quelli sulla multimedialità che rilevano come l’uso di una sola interfaccia per tutti i servizi di informazione (educazione, sorveglianza, commercio, servizi bancari, intrattenimento, ricerche, medicina, ecc.) porti alla capacità di discriminare in modo automatico le informazioni che ci interessano spostando i confini geopolitici delle zone abitate [/ref] dell’automazione robotica, delle tecnologie molecolari metaboliche e della geoingegneria climatica spinge i capitalisti mega-tecnologici come Bill Gates a immaginare interventi in interi ecosistemi. [ref] Nota Gargallo: «La Solar Radiation Management Governance Initiative (SRMGI) è una società di geoingegneria solare che Bill Gates finanzia dal 2012. La geoingegneria solare mira essenzialmente a simulare gli effetti di un’eruzione vulcanica massiccia per raffreddare il pianeta, senza misurare gli impatti atmosferici o la caduta a terra dalle particelle chimiche di colore scuro che un esercito di aerei (di chi?) farebbe cadere dall’alta quota per creare uno strato denso contro i raggi del sole». [/ref]. Attraverso le Nazioni Unite e la Banca mondiale, insistono che gli Stati obbediscano al loro elaborato progetto economico di investimento in tecnologie, eticamente dubbie, per evitare il calo delle prestazioni agricole [ref] Nota Gargallo. A tal proposito vedi: S. Ribeiro, J. Thomas, «Frente al tsunami tecnológico», in Tecnologías: manipulando la vida, el clima, el planeta, n. 543 della rivista América Latina en movimiento, 43, II, pp. 1-4. Scaricabile gratuitamente da: <https://www.etcgroup.org/es/content/tecnologias-manipulando-la-vida-el-clima-y-el-planeta>. L’ecologista Silvia Ribeiro fa parte del gruppo ETC che monitora l’impatto delle tecnologie emergenti e delle strategie corporative su biodiversità, agricoltura e diritti umani. [/ref] […]. [Al contempo,] si dice poco sugli studi che, senza scopo di lucro, si realizzano in periodi di tempo più lunghi, connettendo la conoscenza storica con quella biologica, gli studi femministi con le Scienze Ambientali e la Chimica con l’Antropologia.

Secondo la filosofa, il problema è sistematico e deriva – per proseguire con la metafora – dal fatto che “il braccio di lettura” di questo giradischi sia difettoso e vada dal centro alle periferie della società, escludendo la logica del movimento opposto. In ottica illuministica Gargallo si interroga sull’utilità della conoscenza, sull’equazione fra Sapere e Potere: se dal sapere non consegue direttamente (meccanicisticamente) una soluzione unica ai problemi più complessi del nostro rapporto col mondo, chi è in grado di dirsi narratore legittimo e privilegiato dei fatti del mondo? «Chi si appella al diritto di fare previsioni quando sappiamo che ogni forma di meccanicismo […] è anche una forma di riduzionismo?». Scegliendo di interrogare gli studiosi (“chi”) e non le discipline (“cosa”), più che un Tribunale della Ragione, l’autrice mette in piedi un Tribunale del(la?) Ragionante: riapre il dibattito sulla rilevanza scientifica di chi ricerca, osserva, valuta, quantifica e firma; di chi “contando” si fa titolare della razionalità dei numeri.

In prima battuta, nella misura in cui la logica mainstream coincide con quella del sistema capitalistico dominante, è facile intuire cosa – o chi! – conti.

Secondo il rapporto presentato il 20 Gennaio 2020 al World Economic Forum (a Davos) dall’organizzazione no profit Oxford Committee for Famine Relief, OXFAM, la disuguaglianza economica è fuori controllo ed è classista, razzista e sessista. 2.153 miliardari nel 2019 possedevano più ricchezza di 4.600 milioni di persone, rivelando che il sistema economico valorizza l’élite privilegiata più del lavoro di assistenza essenziale, che viene calcolato in milioni di ore non retribuite e che viene principalmente svolto da donne e ragazze. La crescente disparità tra la popolazione miliardaria, che continua a mantenersi all’1% della popolazione mondiale [nonostante questa continui ad aumentare], che possiede la stessa quantità di denaro liquido o investito del restante 99%, è diventata più ricca a causa della crisi del 2008.

Ma cosa dicono questi numeri, queste percentuali? Si dice spesso che “sono i fatti a parlare”, “i numeri parlano da sé”, per affermare infine – senza soffermarci troppo ad analizzare la coerenza logica – che “i numeri contano”. Tuttavia, a voler dare per buona la metafora che antropomorfizza i numeri (parlanti), non ci si dimentica forse di chiedersi quale lingua parlino, che sistema di valori abbiano? In italiano “contare” è sinonimo tanto di “enumerare” (quantificare) quanto di “avere valore” (qualitativo) e nella frase “i numeri contano” noi vogliamo affermarli entrambi, contemporaneamente. Ma mentre è facile immaginare cosa (e persino chi) contino i numeri, quale sia il loro valore (qualitativo) è una questione tutt’altro che determinabile oggettivamente. A voler proseguire in questa logica, si giunge quindi al nonsense: chi, infatti, potrebbe prendere seriamente in considerazione che i numeri abbiano un loro linguaggio, un loro “sistema di valori” intrinseco? Se non viene da sé bisognerà dunque ammettere che ci sia un “di cosa” – o “di chi!” – i numeri hanno il valore e questa, sì, mi sembra una questione da dover determinare oggettivamente.

Chi conta

In questo momento più che mai si comprende perché Gargallo esiga di conoscere l’identikit di chi conta: nell’era del “Capitalismo della Sorveglianza” [ref] S. Zuboff, Il capitalismo della sorveglianza. Il futuro dell’umanità nell’era dei nuovi poteri, Luiss University Press, Roma, 2019. [/ref] conoscere il valore attribuito di volta in volta alle informazioni (formalizzate, codificate, enumerate) di cui disponiamo riconduce inevitabilmente a chi li dispone, a chi ha possibilità di posizionarsi sul punto privilegiato di osservazione. In una domanda: chi ha il “visto” per accedere ai nostri osservatori scientifici?

Non è un segreto ormai che «la più ampia élite delle culture dominanti euroasiatiche, e poi di quelle americane, africane e australiane, sia costituita da uomini di identità maschile [ref] Nel testo si fa spesso riferimento alla distinzione, ormai divenuta classica, fra sesso e genere. Nonostante non ci sia ancora una definizione netta e chiara per tutte le teorie dei Gender and Women’s Studies, si accetta ovunque ormai – per comodità e nella misura in cui è necessaria all’analisi – la distinzione di base fra il corredo biologico sessuale e l’insieme delle caratteristiche sociali (che segnano la discriminazione).[/ref]».

Ma a mezzo secolo dagli studi comparati e interdisciplinari di genere, oggi sappiamo di più. Sappiamo anzitutto che il dato del dominio della rappresentanza maschile e bianca in tutti gli ambiti del sapere, non solo non ha affatto a che fare con la tanto declamata “meritocrazia”, ma che esso è strettamente connesso alla “sottorappresentanza” femminile [ref] C. Criado Perez, Invisible Women: Exposing Data Bias in a World Designed for Men, 2019; prossima pubblicazione in Italia, trad. C. Palmieri, Invisibili, Giulio Einaudi, 2020. [/ref], di modo che «la sussistenza della rappresentanza maschile dipenda dalla subordinazione femminile». Ovunque si tratti di informazione e comunicazione – e considerato che “non si può non comunicare” (primo assioma di Watzlawick) stiamo parlando di tutta la realtà significativa – si nota la tendenza a negare l’uguaglianza delle donne mentre si conferisce autorità morale alla rappresentanza maschile [ref] Nota Gargallo. Sulla dipendenza della rappresentanza maschile dalla subordinazione femminile e sullo status che questa conferisce agli uomini maschi [con tutta probabilità, si tratta ancora della distinzione fra sesso e genere]: Rita Laura Segato, Las estructuras elementales de la violencia: contrato y estatus en la etiología de la violencia, Serie Antropología, 334, Brasilia, 2003; http://www.escuelamagistratura.gov.ar/images/uploads/estructura_vg-rita_segato.pdf (consultado el 14 de enero de 2020). [/ref].

Nel caso delle donne, forse il più noto, le faccende domestiche, dette anche attività femminili, che comprendono cure fisiche e supporti emotivi, alimentazione, abbellimento, pulizia e manutenzione della casa, lavoro volontario e creazione di reti affettive, amministrazione dell’economia del nucleo di coesistenza, shopping, preparazione e cura dell’abbigliamento e delle calzature, sono considerate irrilevanti, di routine, naturali. Le poche donne che i gruppi reazionari considerano meritevoli di accettazione sono o schiave domestiche o donne mascolinizzate per un lavoro produttivo ad alto rendimento monetario. A queste ultime viene dato il diritto di sfruttare altre donne, quelle subordinate per motivi di classe, status di migrante o gerarchia scolastica. Ancora una volta, la condizione storica delle persone considerate “femminili” implica sottomissione.

Non è dunque il solo fatto di avere determinate caratteristiche fisiche e, tuttavia, non è vero neppure l’esatto contrario, che queste caratteristiche non abbiano alcuna rilevanza. Nella prospettiva che si sta qui seguendo, è un’identità che nasce “in negativo”, dal fatto di non prendere (pubblicamente) le distanze dallo spazio «misogino, xenofobo, omofobico e contrario ai dati che rivelano il grado di deterioramento ambientale», che infine è prerogativa di chi detiene il potere nella storia e nelle società attuali. Di più, la sua capacità rappresentativa è determinata dall’inerzia o dalla discriminazione attiva: mentre «normalizza la violenza e stigmatizza le donne che difendono i diritti umani» [ref] Delle donne, ad esempio, si «attacca la reputazione, l’onore e si definiscono madri che trascurano la loro progenie, cattive figlie, agitatrici, mogli che non si prendono cura del benessere esclusivo del marito, terroriste, per screditarle. Le si espone così a un’ostilità che i media e le chiese conservatrici aumentano squalificando pubblicamente il loro lavoro, fornendo dettagli sulla loro vita, minacciandole di portare via i loro figli e di fatto facilitando il loro attacco sessuale e la loro esposizione al pericolo». A tal proposito Gargallo indica l’Informativa di Michel Forst, Relatore Speciale dell’ONU, sulla situazione delle difensore dei diritti umani: https://www.hchr.org.mx/images/Comunicados/2019/20190228_ComPrensa_InformeForst.pdf [/ref], egli estende la sua identità e riconferma la legittimità della sua autorità. È in questione lo squilibrio fra forze di rappresentazione quando esse vengono fornite da una sola identità sociale, la quale inevitabilmente replica un’unica realtà. Parafrasando Bernard Shaw: l’uomo bianco, in sostanza, relega le altre identità a sottocategorie: e ne conclude che i loro saperi sono specifici. Gargallo indica quattro gruppi di persone che «aiutano a non cadere nella disillusione»: femministe, migranti, popoli originari ed ecologisti/e:

si tratta di diversi collettivi che si organizzano attorno alla vita quotidiana, personale e comunitaria, piuttosto che […] a quell’ideologia che, dalla Rivoluzione Francese alla crisi del neoliberalismo, ha provato a rappresentarci il sistema e a imporci un solo modo di azione. Popoli originari, ecologisti ed ecologiste si occupano di difendere l’acqua, i boschi, il diritto ad essere governati dalle culture che non fanno necessariamente parte del sistema capitalista dominante; i migranti e le migranti esigono la libertà di spostarsi sulla terra e le femministe aspirano a relazioni umane senza discriminazioni di genere e razza. I loro collettivi esistono in tutto il mondo e fanno parte di diverse culture; condividono il fatto di essere perseguiti, assassinati e umiliati dagli agenti d’impresa, dalle chiese e dai governi che puntano esclusivamente all’ordine del beneficio monetario.

Lasciateci contare

Ciò che rimprovera Gargallo alla narrazione “from nowhere” (che si pretende imparziale) non è solo che essa ci fornisce dati incompleti, ma che essendo identica a sé stessa quei dati siano, nella migliore delle ipotesi, inutili e, nella maggioranza dei casi, persino dannosi.

La stampa non presta attenzione alla responsabilità dei venditori di armi e prodotti agrochimici, né alle insidiose pubblicità del capitalismo sulle condizioni di benessere che fornisce, quando si tratta di riferire sulle disumane condizioni di migrazione o sulle quantità di rimesse che i migranti inviano alle loro comunità di origine per migliorare le condizioni di vita e di salute. Il razzismo diffuso si trova nella definizione di “problema di sicurezza regionale” per i rifugiati in fuga da guerre come quello in Siria. Mentre i conflitti armati continuano, il flusso di persone in cerca di sicurezza e detenuti ai confini produce enormi campi di concentramento, dove si riproducono le condizioni di disastro ecologico e aumenta la violenza contro le donne.

Cosa cambia quando sono questi gruppi a parlare? Quando, anziché essere oggetti della narrazione, quei gruppi emarginati dalla logica capitalistica si fanno collettivi e soggetti narratori, l’informazione ci guadagna in completezza ed efficacia politica. Così, ad esempio,

laddove i capi accusano [le donne] di essere divisive, queste contribuiscono a riflessioni fondamentali sulla relazione coloniale tra sessualità, aggressività e potere. La recente conversione della ribellione popolare contro il quarto mandato presidenziale di Evo Morales in un colpo di stato razzista e anti-popolare, da parte di gruppi neo-evangelici alleati ai bianchi ricchi del bestiame e della vasta regione agricola di Santa Cruz, ha evidenziato una relazione che le donne di Aymara e Quechua nelle Ande e Tacana dell’Amazzonia avevano già dichiarato: il rapporto tra umiliazioni, minacce e molestie, come forme di stupro allegorico, e stupro fisico come imposizione delle prerogative del gruppo maschile dominante.

In particolare, dall’Ottobre del 2018 Gargallo riferisce le testimonianze delle donne che transitano in Messico per attraversare il confine con gli Stati Uniti: le violenze subite da queste dai compagni di rotta, dalle autorità di immigrazione e dalla polizia sono solo alcune delle atrocità che connotano il fenomeno dell’immigrazione clandestina.

Alcune mi hanno detto che da quando hanno deciso di attraversare il confine sapevano che ciò poteva accadere, quindi considerano le aggressioni sessuali come parte del processo. Tuttavia, una giovane donna honduregna che aveva lasciato San Pedro Sula per proteggere la figlia di 9 anni dalle bande criminali, mi ha spiegato perché crede che lo stupro sia una rapina e un crimine che molti uomini considerano normale. Era emigrata come gruppo quando una notte è stata violentata da sei migranti che “volevano divertirsi”. “Ecco come sono fatti gli uomini”, disse con grande rabbia. Si sentì tradita dallo stupro; credeva di essere emigrata con persone che, come lei, sono fuggite dalla violenza, che si sarebbero protette in gruppo, ma hanno scoperto che gli uomini “sfruttano” le donne che vanno da sole, che rispettano le donne degli altri uomini solo quando sono presenti e difendono la loro famiglia.

È un’altra normalità, un’altra narrazione quella che viene direttamente da coloro che stanno fuori dalla narrazione mainstream. Non è il semplice fatto che «i leader della comunità maschile non comprendono le strutture del desiderio delle donne», ma che ignorando queste contro-narrazioni, la narrazione unica incide gravemente sul diritto delle donne al loro rapporto col mondo, il quale – come sappiamo – oltre ad essere un diritto è una necessità iscritta nella costituzione stessa di ogni essere umano. Si fa quindi più chiara la relazione fra punto di osservazione e realtà; come, spostando la prospettiva legata all’identità di chi narra, cambino anche i numeri che vengono raccontati e le possibilità, le scelte che formano il discorso politico. Gli Studi di Genere assumono tutt’altra estensione epistemologica e rilevanza pratica, quando, ad esempio, sentiamo che «oggi circa 140 donne al giorno in tutto il mondo vengono uccise da uomini che presumibilmente le amavano […] e che il 42% degli omicidi di donne è legato a sottoculture che riconvalidano continuamente la differenza di genere in modo che gli uomini possano mostrare la loro mascolinità, associando [di fatto] il loro potere sessuale e sociale al potere di uccidere». Infine, diventa un dato pericolosamente credibile che

la crescita dell’estrema violenza contro le donne e le donne femministe che difendono i diritti umani può essere associata alla volontà di subordinare ed è facile accomunare alle pratiche di guerra: la violenza contro le donne che non si sottomettono al dominio della cultura maschile sarebbe, da questa prospettiva, una strategia difensiva.

L’analisi sulla discriminazione sessuale e sul genere smette di essere una questione di specializzazioni accademiche fini a sé stesse e diventa dirimente rispetto alle ulteriori analisi possibili.

Secondo i dati delle Nazioni Unite, nel 2019, 272 milioni di persone si sono trasferite fuori dal loro luogo di residenza oltre i confini internazionali, 51 milioni in più di migranti rispetto al 2010. In totale, donne, uomini, transessuali e neonati che sono emigrati indipendentemente dal loro status legale, a causa di sfollamenti forzati o volontariamente (sebbene sia sempre molto difficile determinare il grado di volontà), sono il 3,5% della popolazione mondiale, una cifra che continua ad aumentare rispetto al 2,8% nel 2000 e il 2,3% nel 1980. La devastazione ecologica si unisce ai conflitti armati per creare condizioni di povertà e insicurezza che spingono le persone a cercare rifugio o migrare.

Un’altra prova della rigidità con cui un sistema di pensiero impedisce il “libero movimento delle narrazioni”, nascondendo l’identità del narratore unico nell’universalità della conoscenza, si desume dalla difficoltà oggettiva che hanno alcuni (chi?) ad ottenere un visto (cioè il documento identificativo che consente di accedere ad alcuni territori; quali?). Se ancora non tutti sanno – e la stampa non parla affatto della paura diffusa di “restare a casa”, delle ragioni che hanno le donne per migrare e che raccontano a Gargallo «di essere fuggite dalle loro madri, le quali per proteggerle […], le tenevano chiuse in casa» – non è certo perché siano casi rari di comunità lontane nel tempo, a ben pensarci neppure in Italia. Eppure, chi tenta da un punto di vista privilegiato di raccontare l’immigrazione, persino chi – della stampa – prova a ricordarne il valore umanitario, ne parla spesso in toni paternalisti; come se il fenomeno riguardasse persone ontologicamente (e originariamente!) diverse da noi, perché connotate da bisogni e desideri che non “ci” riguardano. È qui in gioco la costitutiva opera di persuasione del sistema capitalistico che vuole convincerci che stiamo bene (tralasciando oltretutto che quella distribuzione di briciole di benessere di cui si vanta si regge sistematicamente sullo sfruttamento della nostra stessa Terra). Sicché “noi” del “primo mondo” – in attesa di ricevere la ricompensa (economica, morale, sociale) che formalmente quella narrazione ci promette – in barba alle nostre reali e materiali possibilità di mobilità (economica, morale, sociale e persino fisica) ci poniamo da questa parte della narrazione, osservatori muti e casse di risonanza di una narrazione che ci attraversa. D’altra parte, pagando con la loro stessa vita, oggi «i migranti e le migranti sono diventati agenti di una vivace riflessione, su che cosa sia la terra, cosa la ricchezza e quali i diritti delle persone che non godono della protezione dello stato. Naturalmente, la riscoperta delle culture di provenienza e il tentativo di una comunicazione autentica su un’umanità che si riunisce in una nuova storia collettiva, non è senza dolore, morte, resistenza a un ordine di esclusione e di rifiuto internazionale».

Gli stili di vita tradizionali sono profondamente colpiti, ma sono proprio gli sforzi congiunti di ecologi e comunità indigene e contadine che sono riusciti a frenare localmente la degenerazione della natura, difendendo i fiumi, arrestando le attività estrattive ed elaborando contro-discorsi che rivelano i pericoli di massimizzare i benefici monetari ai margini della buona vita delle persone.

Per concludere, di fronte alla crisi delle scienze della vita, secondo Gargallo, non c’è affatto un problema costitutivo universale, ma la rigidità e la conformazione delle narrazioni ad un narratore unico su tutti i campi. Se l’ascesa delle “scienze della complessità” degli anni ’70 e le narrazioni contemporanee di donne, migranti, popolazioni originarie ed ecologiste/i «non godono di copertura mediatica [è] perché, se riportano situazioni preoccupanti, non sono allarmisti»; banalmente non hanno bisogno di “comprare” niente, «diffondono informazioni comprovate e si basano su un’etica ecologica di base, quella di non correre rischi nella vita sulla Terra». È la narrazione dell’1% che non ammette la reversibilità dell’attuale modello sociale produttivo in un modello sociale per il 99% [ref] A tal proposito, suggerisco la lettura di un recente libro sulle politiche femministe materialiste: C. Arruzza, T. Bhattacharya, N. Fraser, Femminismo per il 99%. Un manifesto, Laterza, 2019. [/ref].

In questo preciso momento, milioni e milioni di molecole si muovono coerentemente in ciò che chiamiamo materia. È improbabile, ma alla fine possibile, che il loro comportamento sia reversibile, proprio perché possono muoversi. Considerare questa qualità mobile della materia ci consente di pensare ad altri sistemi, forse enormi cambiamenti collettivi e, perché no, orizzonti tanto nuovi quanto imprevedibili.

Ci raccontano che il moto di accelerazione è costante per tutti e che necessariamente dobbiamo essere «in costante connessione con dispositivi che emettono suoni, messaggi e immagini che influenzano le nostre decisioni in termini economici e politici», ma in questo modo il 99% della popolazione non riesce «a trovare il tempo per analizzare informazioni diverse e originali». In tal senso, il diritto alla possibilità di cui parla Deleuze [ref] «Un po’ di possibile, sennò soffoco» scriveva Deleuze nel suo L’immagine-tempo del 1989. [/ref] come diritto a “non soffocare”, non è tanto e solo il recupero del valore epistemologico delle rêverie, come risposta alla crisi novecentesca della sovranità del Soggetto. Si tratta del diritto alla “situazionalità” della conoscenza come possibilità di accedere ad una molteplicità di vie d’uscita, di recuperare ogni ragione non prevista dalla razionalità dell’1% della popolazione che ha sempre scritto la storia (“che giudica e che assolve”), che conta i numeri che contano. La riflessione “perplessa” di Gargallo ricorda i moventi della più nota “Guida dei perplessi” di Mosè Maimonide nella misura in cui si interroga sul “conflitto di autorità”. Tuttavia, mentre per quest’ultimo si trattava del conflitto fra filosofia e religione, per Gargallo si tratta oggi di un conflitto più simile a quello che il filosofo Odo Marquard chiama la “Guerra Civile Ermeneutica”: una guerra “del senso” che non è affatto priva di spessore pratico ed estetico, affettivo e politico.

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