Della genealogia di Europa: de-costruzione dell’origine e radicamento soprannaturale nell’opera di Simone Weil

Giulia Ceci

Nel 1937, fra douleur et honte ‒ dolore e vergogna ‒, Simone Weil scrive una lettera che non verrà mai spedita. È una missiva ideale, concepita nella forma di un articolo giornalistico, nata di getto dopo la lettura di un’inchiesta pubblicata sulle pagine de Le Petit Parisien. Si tratta della «Lettre aux Indochinois»[1], destinata al non-europeo, a quei subalterni le cui terre sono state conquistate dall’uomo europeo: «Je ne peux pas rencontrer un Indochinois, un Africain, un Marocain sans avoir envie de lui demander pardon».

Alle sorti dell’Europa, nonché alla questione politica, una volta cessato il secondo conflitto mondiale, Simone Weil dedicherà pressoché interamente gli Écrits de Londres[2], come se preavvertendo l’ultimo giro della sua opera, sentisse l’urgenza di lasciare un memorandum per il mondo che doveva venire e a cui lei non avrebbe potuto assistere. Tuttavia, già solo questa lettera, così umana e personale, basta a prefigurare l’incredibile lavoro de-costruttivo che l’autrice francese intraprende per ripensare l’origine europea e cominciare a pensare da capo una civiltà europea. Nella Lettre aux Indochinois c’è infatti un richiamo fortemente simbolico: «pardon», perdono. La riflessione weiliana sull’Europa non può essere realmente compresa senza aver prima colto il suo intento determinante: sostituire il perdono alla potenza, dalla puissance au pardon. Simone Weil si sforza, cioè, di immaginare un’Europa senza potenza; tentativo nel quale ‒ è chiaro ‒ occorre fare i conti con una serrata serie di interrogativi. Un’Europa senza potenza si traduce, di fatto, in un’Europa impotente nella geopolitica? Una civiltà priva di forza è forse soltanto l’utopia cristiana di una mistica? Una risposta univoca e definitiva, probabilmente, non è possibile. Premesso ciò, non mancano comunque buone ragioni per ritenere la prospettiva weiliana decisa e adeguatamente fondata circa questo ordine di problemi.

Intanto, non si può giungere ad alcuna conclusione, senza aver prima afferrato che cosa vi sia dietro l’opposizione puissance/pardon, che cosa i due termini significhino rispettivamente. Partendo proprio dal richiamo fortemente simbolico della Lettre aux Indochinois, ossia il perdono, quest’ultimo non indica soltanto una cristiana ammissione di colpa, ma più profondamente e in modo assai più complesso, si riconnette alla struttura teologica che innerva ogni prospettiva dell’opera weiliana. Il perdono viene associato come gesto sottrattivo in opposizione al gesto espansivo della potenza. Evidentemente, siamo oltre una singolare professione di pacifismo cristiano da parte dell’autrice francese. La posta in gioco è immediatamente politica; nella rinuncia all’espansione del possepotere ‒ che la richiesta del perdono viene cifrando, si abbozza l’ipotesi di una politica strappata al potere politico, il cui unico scopo ‒ come insegna Machiavelli, che Simone Weil conosce bene ‒ è quello di durare, principe di questo mondo. Questa rinuncia, o gesto sottrattivo che dir si voglia, non è che una rifrazione del gesto sottrattivo ab origine mundi: la Creazione. Rifacendosi all’approccio qabbalistico della mistica ebraica, in particolare allo Tzimtzumritrazione ‒di Isaac Luria[3], il Dio weiliano crea astenendosi dall’esercitare il suo potere, lascia essere altro rinunciando ad essere tutto. L’auto-limitazione divina insita nella Creazione è il primo eterno atto impolitico.

A partire dalla Lettre aux Indochinois, pertanto, Simone Weil sembra suggerire l’immagine di una civiltà europea che si afferma, paradossalmente, ridimensionandosi. La richiesta di perdono all’indocinese, all’africano, al marocchino, è infatti apertura all’alterità del non-europeo, e totalmente al di fuori della categoria del subalterno, la quale definisce già un modo europeo di nominare l’inconnu. Per un certo verso, questi elementi ‒ specie la negazione della subalternità ‒ appaiono simili a quelli che muovono la confutazione dell’universalismo europeo nella critica postcoloniale, impegnata a ridiscutere l’Aufklärung e una visione cosmopolita meno eurocentrica. Tuttavia, a Simone Weil non interessa annichilire o eliminare l’idea-telos di Europa per disperdere il centro. Bisogna accantonare la polarizzazione centro/ periferia, peraltro del tutto insensata nella globalizzazione planetaria, nonché l’adagio dell’aut-aut fra europeismo ed euroscetticismo[4]. In altri termini, l’apertura weiliana all’alterità del non-europeo non mira a de-centralizzare l’Europa, ma a riportare l’idea-telos di Europa sulle tracce della sua vera origine, l’origine croisée. In una lettura inedita rispetto alla tradizione dominata dallo spirito europeo di Valery, Husserl, Heidegger, Simone Weil dà all’origine la conformazione di un croisement ‒ un crocevia, un incrocio ‒, inducendo a contemplarla senza più unilateralità, e forse nell’impossibilità di una vera e propria genealogia, nella misteriosa intersezione delle sue linee. È qui che assieme alla sapienza greca e alla rivelazione cristiana si incontrano l’Egitto, l’antica Mesopotamia, l’India della Bhagavadgītā, e non da ultimo il viaggio mitologico di Dioniso Zagreo sino all’estremo Oriente. Molteplici sono gli indizi che l’autrice francese raccoglie per dimostrare la necessità della contaminazione, senza la quale nessuna civiltà, tantomeno quella europea, può considerarsi tale. Non esiste civiltà in assenza di radicamento, ma ciò che può radicare davvero è soltanto la radice soprannaturale, quella trascendenza che assume diverse forme sensibili e la cui proprietà, proprio per questo, non può essere rivendicata da nessuno, neppure dall’homo europeus. In sostanza, il radicamento pare irriducibile alla chiusura identitaria dello Stato-Nazione, così come la radice soprannaturale ‒ origine croisée ‒ al canone dell’origine assoluta. Piantare radici non equivale a confinare, ma piuttosto a qualcosa che Simone Weil descrive come un’aerazione; se si consente, prendere aria oltre i confini, ispirare come ricorda l’ispirazione soprannaturale, perché «il radicamento e la moltiplicazione dei contatti sono complementari»[5]. Esso ha bisogno di paesi, popoli, tradizioni e culture, come quando un pittore visita un museo: «la sua originalità si sente rafforzata»[6]. Nel linguaggio metaforico che le è caro, l’autrice francese pare ritrarre il globo terrestre come un museo en plein air. Si rende disponibile, perciò, un accesso laico alla trascendenza della radice soprannaturale; anzi, ancora più esplicitamente, l’importanza di ribadire la non-esclusività dell’origine è funzionale all’opportunità di un nuovo umanesimo, depurato da ogni residuo idolatrico. Allora, proprio la radice soprannaturale, per sua stessa costituzione, difende la laicità. La civiltà europea proiettata negli scritti weiliani sollecita l’umanesimo, ma ne esige la reinvenzione, qualcosa di analogo ai Dieci principi per l’umanesimo del XXI secolo elencati da Julia Kristeva in occasione dell’incontro interreligioso di Assisi[7]. Nei Cahiers, Simone Weil suggerisce per l’appunto di «dissolvere la nozione stessa di umanesimo», eppure anche «ciò che si oppone all’umanesimo»[8].

Alla luce di questi sviluppi, l’attacco weiliano all’espansionismo europeo, nonché la ritrattazione e nello stesso tempo la riproposizione dell’umanesimo, acquistano un senso e un peso specifici. Distante, come si accennava, da Valery, Husserl, Heidegger, e più vicina, semmai, al Socrate di Praga, Jan Patočka[9], Simone Weil accusa l’Europa di aver usurpato la radice soprannaturale, distorcendo l’origine nel pretesto politico della conquista. Essa ha applicato la trascendenza come potenza, sicché ciò che ha trasmesso non è che un’eredità storpiata. Tolta la radice soprannaturale nella sua autentica essenza, l’Europa conquistatrice ha scaraventato i popoli conquistati nello sradicamento, negando loro la scoperta dell’origine secondo i propri metaxù, ossia quei beni relativi ‒ casa, lavoro, lingua, storia, cultura ‒ in cui la vita di ogni essere umano trova accoglienza.

Alla civiltà europea, nel solco di un nuovo umanesimo, spetta il compito ‒ in-finito perché mai del tutto risolto ‒  di rimediare allo sradicamento, valorizzando i metaxù di ogni dimensione storico-culturale e cultuale senza cedere né alle spinte nazionalistiche né alla frammentazione di un multiculturalismo inabile alla realizzazione di un dialogo fra pari nelle differenze.


[1] Siamo in piena fase coloniale. Nel caso specifico, il riferimento è alla cronaca del massacro di Yen-Bay (1930), dove una rivolta indigena viene repressa nel sangue.

[2] In qualità di redattrice per «France Libre», organizzazione per la Resistenza francese capeggiata dal futuro presidente de Gaulle.

[3] Mistico ebreo del XVI secolo.

[4] Oggi più che mai titolato come sovranismo.

[5] S. Weil, La prima radice, p.56, trad. it. di F. Fortini, SE Edizioni, Milano 1990.

[6] S. Weil, Ivi, p.49.

[7] Ottobre 2011. Si veda J. Kristeva, Il cortile dei Gentili. Credenti e non credenti di fronte al mondo d’oggi, trad. it. di L. Mazas, Donzelli Editore, Roma 2011.

[8] S. Weil, Quaderni, Vol. III, p. 157, trad. it. di G. Gaeta, Adelphi, Milano 1988.

[9] «Così l’eredità si trasmette attraverso le catastrofi e, malgrado le conseguenze disastrose di queste catastrofi, l’eredità si trasmette», J. Patočka, Platone e l’Europa, p. 118, trad. it. di M. Cajthaml e G. Girgenti, Vita e Pensiero, Milano 1998.