Dopo il virus tutto sarà come prima? Falso, si può almeno sperare di no

Badiou – Considerazioni critiche #3 [di Mario Reale]

di Mario Reale

 

Da tempo sono convinto che la filosofia di Badiou, espressa in tanti libri, riposi alla fine, nonostante l’intenzione rivoluzionaria, sulla massima biblica del ‘niente di nuovo sotto il sole’ (intendo proprio la filosofia nei suoi aspetti platonici, ontologici e matematizzanti, non altre sue interessanti opere «eccentriche»); perciò trovo «coerente» con la sua complessiva ricerca – non potendone ora dir di più – questo suo scritto a proposito del virus che ci affligge, pubblicato su Filosofia in movimento perché tempestivamente presentato e (ben) tradotto da Paolo Quintili. Dividerò ora in due capi le mie osservazioni a questo intervento di Badiou (che – premetto – sono per chiarezza apertamente critiche); avvertendo tuttavia che in esso vi sono molte cose oltre a quelle che qui richiamo: lievi e fugaci osservazioni contrastanti con quelle che io critico, riflessioni condivisibili, come quella del restare in casa e del rispetto di chi è più esposto, riproposizione di tradizionali quanto importanti questioni poste sullo sfondo, come il tema, già weberiano e gramsciano, dell’asimmetria tra economia aperta al mondo e politica chiusa in casa. Ma il mio intento è ora di sgombrare il campo da ciò che m’impaccia, anche in vista di una futura e migliore discussione dei temi più strutturali suggeriti da Badiou. Raccolgo per comodità le mie osservazioni in due capi – La France e E dopo? – ognuno a sua volta articolato in una parte «espositiva» delle tesi che mi sembra di ritrovare in Badiou, e una parte contenente le mie riserve.

 

La France.  Sebbene Badiou ragioni della Cina «imperialistica», degli sporchi mercati cinesi, e quindi della diffusione mondiale del virus, si capisce, mi pare, che la mente e il cuore dell’autore siano volti tutti (e quasi esclusivamente) alla Francia. Anche il virus, insomma, come fenomeno innanzi tutto, e in maniera esemplare o idealtipica, francese. Difatti la risposta delle politiche «occidentali» al morbo è riassunta tutta nel solo comportamento di Macron. Francamente mi ha sorpreso vedere fino a che punto Badiou sia d’accordo con Macron, seppur nell’ambito della politica svolta con altri mezzi al tempo dell’epidemia. La cosa è tanto più chiara se si guarda a quelli che Badiou individua come gli oppositori di Macron: vocianti e strepitanti «gauchistes» (tra i quali sembrano inclusi anche famiglie di destra), rancorosi, apocalittici e «mistici», che scaricano tutte le responsabilità «sulle spalle del povero Macron». Il presidente francese ha fatto, e bene, tutto quello che andava fatto (in ogni caso s’è comportato «non peggio di un altro»), compresi i suoi felici slogan, come ‘siamo in guerra’ e ‘bisogna vincere la guerra’. Certo, si potrebbe obiettare, aggiunge Badiou, che Macron non ha previsto l’epidemia, considerandola fenomeno che mai avrebbe potuto colpire noi ‘occidentali’ (e noi francesi), donde il sistematico indebolimento, per salassi, della sanità pubblica e le conseguenti difficoltà ospedaliere di oggi. Ma la risposta del filosofo è pronta: nessuno, proprio nessuno, ha previsto l’«evento», non Macron, ma nemmeno i governanti francesi prima di lui, né, meno che mai, i «gauchistes», che perciò oggi non «hanno diritto» a protestare oziosamentene contro il (povero) Macron, da sempre il loro «bersaglio preferito». La verità è che nessuno in Francia ha preso misure e provvedimenti (contro il virus e in risposta al virus) «prima dello stato macroniano».

 

E dopo? dopo che il virus è passato? La risposta di Badiou è «tranquillizzante»: non succederà assolutamente nulla (sotto il sole). L’epidemia non comporta «pensieri nuovi», in essa non c’è nulla d’eccezionale; anzi la situazione è «a dire il vero semplice», sebbene proprio questa «temibile semplicità» susciti le più insensate e gridate attese, quasi che il virus fosse di per sé generatore di un’«inaudita rivoluzione». La questione «semplice» sta in ciò che lo «Stato borghese» dinanzi a guerre o a epidemie, deve allargarsi a nuovi strumenti di costrizione (anche sui «borghesi») e al tempo stesso di nuovi interventi, che toccano gli interessi di tutti, universali, non solo dei «borghesi», di più larga sensibilità sociale. Senonché, passato il pericolo è gabbato anche lo santo. Si torna esattamente a quel che era, al «primato degli interessi di classe», al dominio della «borghesia» e al bilancio tirchio, essendo già pronti i governanti omogenei alla restaurazione. Le guerre, per Badiou, cui l’epidemia è, senza remore, pienamente associata, si chiudono sempre, riguardo agli effetti sul piano sociale, con un’uscita a destra, tranne, nel nostro secolo, la Russia e la Cina: si veda quel che è successo alla «rivoluzione vittoriosa» in Germania dopo la prima guerra mondiale. E, insomma, l’epidemia non avrà alcuna «conseguenza politica rilevante», nemmeno a supporre che la «borghesia», stoltamente, dia ascolto ai «brontolii informi e inconsistenti» dei giovani sinistrorsi. Dopo di che, senza ansia di futuro, ce ne staremo più tranquilli a riflettere, sulla politica e sulla «terza tappa del comunismo», dopo la sua invenzione e il suo farsi stato. 

 

Cosa dire ora, in forma breve e frettolosa, di questi due punti, se ben li abbiamo individuati in Badiou?

Ad primum sic proceditur

 

1) è bene lasciare il nazionalismo, anche nella più benigna forma della «boria dei dotti», alle destre che ora si dicono «sovraniste» (ben consapevole dell’abissale distanza tra esse e Badiou).

2) non è per niente vero che Macron abbia fatto tutto quel che si poteva e si doveva fare. Basta riandare alla cronaca. Come altri governanti del glorioso «Occidente», dalla Gran Bretagna agli USA, Macron è giunto tardi, e male, alle giuste decisioni, mostrandosi, piaccia o no, inferiore all’Italia. Né la lentezza è principalmente dipesa dagli avventati assembramenti dei gauchistes.

3) Macron esprime, sia pur in forma più benigna, quel ceto politico «occidentale» che, alla luce del virus e delle sue conseguenze sociali, appare francamente impresentabile. L’epidemia, di per sé, non genera forse conseguenze direttamente politiche (come polemicamente Badiou insiste a dire), ma produce, se non altro, un tale effetto di straniamento, che costringe a vedere i governi dell’«occidente», in tempi di pace come in quelli di guerra, nella loro vera natura di difensori inefficaci e anche un po’ (tristemente) comici dell’ordine sociale dato: Trump o Johnson come avamposti del glorioso «Occidente». Quanto al ritorno dello Stato-provvidenza, dell’annuncio di enorme spesa pubblica e di nazionalizzazioni, dei governanti che all’improvviso si mostrano ferventi e impetuosi keynesiani, che Badiou sembra attribuire in Francia alla buona seppur necessitata politica di Macron, sono in realtà, frutto di un revirement, una giusta inversione, dettata però dalla paura; e la gente ha tutto il diritto di temere, come diceva Machiavelli, che,  «passata la necessità, tu ritolga loro quello che hai forzatamente loro dato».

 

Ad secundum.

 

1) Non è detto che l’epidemia e gli uomini che variamente la subiscono abbiano di necessità fretta di tornare sotto l’eterno vuoto di novità. Badiou sembra un po’ compiacersi della sua triste «scienza», dell’audacia di riuscire subito a dire, in base a vecchi schemi, cosa certamente succederà dopo il virus. Ma forse il male non è così banale da non suscitare, assolutamente, «pensieri nuovi»; più temibile, nella previsione, è l’invito, speriamo involontario, (ancora con Machiavelli) a non «insudare molto nelle cose» e a «lasciarsi governare» da una sorta di legge d’immobilità. Non mi sentirei mai di annunciare, ancora al buio, una simile catastrofe della speranza.

2) I giovani, che sembrano inclusi e dannati nei gauchistes e nei non meno vituperati, e con violenza, social network (a volte sembra di risentire Del Noce a proposito dei giovani che nel ’68 occupavano le università), non sono un pericolo, ma una grande risorsa, sebbene oggi ancora in gran parte potenziale. Ancor più precari nella precarietà (cosa faranno ora i pony express, i rider?) potrebbero trovare proprio nella magra e forzata reclusione a causa dell’epidemia la spinta a farsi consapevoli e forti protagonisti di una nuova stagione di lotte contro un potere capitalistico e a un tempo rentier,  familistico e ricco di tenaci incrostazioni di «autorità», socialmente e politicamente ammuffite, gerontocratiche. Nella clausura e nella fine di veri rapporti sociali s’intravede, come nel Neveu de Rameau di Diderot, passato per la Fenomenologia di Hegel, la straniante realtà dell’ecclesiastico «tempo ordinario», in quanto solitudine e bisogni inappagati. L’uscita «positiva» dal morbo è una possibilità, né si vede perché negarla d’avance. Anche le speranze sono dopotutto dati di realtà. Neanche Badiou esclude che, all’uscita dall’epidemia, si porranno nuove domande e attese circa la salute pubblica, la scuola e, in generale, si avanzeranno richieste ormai più mature di eguaglianza (la guerra non è anche generatrice di condizioni più paritarie?). Non è poco, né si può dire che la «rivoluzione» (a meno di non essere presentata come «nuova tappa del comunismo») sia così esigente da spregiare come piccola cosa questi obiettivi democratici. 

3) La stanca formula del «niente sarà come prima» è falsa. Al contrario, molte se non tutte le cose saranno dapprima più o meno eguali, ed egualmente difficili da cambiare (nella contingenza e in modo pragmatico si può essere in ciò d’accordo con Badiou). Quel che è più importante, è il tempo di attesa, di maturazione e di progettate decisioni che l’epidemia consente, quando forse, nell’incertezza di tutto, rinascono speranze e voglia di realizzarne almeno un po’. Badiou dice che tra le forme del vivere male questa nostra esperienza c’è sia il vano gridare alla rivoluzione (ma l’oggetto polemico è un po’ costruito ad hoc) che il più cupo pessimismo. Non vedo perché, per quale fatale legge della storia o rapinosa pretesa intellettuale di annettersi tutto il futuro, non ci sia posto, in uno spettro così grande di possibilità, anche per il mio fragile e persino ingenuo lume.

4) Ma la speranza com’è noto è fatua senza fondamenti di possibilità, anzitutto conoscitivi. Gli spazi vuoti, alla De Chirico, veramente metafisici, quando ci affacciamo alle finestre ci portano forse a dire: ma in che mondo siamo, dove abitiamo? E il punto è che non sappiamo più dare risposte a queste domande. Badiou, sulla scorta di un marxismo tradizionale, parla con tranquillità di borghesia e Stato borghese. Ma se proviamo a collocare queste categorie nel mondo che ci circonda, veramente stentiamo a dar loro corpo. Non per questo però le divisioni di classe si son fatte meno acute, molteplici e penetranti, tanto che viene voglia di consigliar di leggere, prima di Marx, Balzac. E come si uniscono queste varie e ricercate diversità, come si definisce l’insieme di quel che Freud chiamava Narcisismus der kleine Differenzen. E cosi è, si può dire, per tutti i concetti su cui nel passato si è lavorato, lottato e che pure hanno dato frutti. Ma questa sorta di esaurimento del significato di concetti e per certi versi dello stesso Marx (la cui complessiva lezione resta per altro incancellabile e sempre viva), non deve essere visto in una prospettiva catastrofica: costituisce il duro (e anche bello) lavoro umano, che deve sempre ricominciare. Tempo d’attesa perciò come occasione di buone letture e pensieri affilati e taglienti.