Severino: la metafisica, la civiltà della tecnica, il nichilismo e le radici della violenza.

Rileggere Téchne, a più di quarant’anni dalla sua pubblicazione

di Francesco Sirleto

“Il nichilismo, pensato nella sua essenza, è piuttosto il movimento fondamentale della storia dell’Occidente. Esso rivela un corso così profondamente sotterraneo, che il suo sviluppo non potrà determinare che catastrofi mondiali. Il nichilismo è il movimento storico universale dei popoli della terra, nella sfera di potenza del Mondo Moderno … Il dominio in cui sono possibili così l’essenza come l’esistenza del nichilismo è la metafisica stessa, purché noi vediamo in essa non una dottrina, o addirittura una particolare disciplina filosofica, ma quell’ordinamento dell’ente nel suo insieme in virtù del quale esso viene suddiviso in mondo sensibile e ultrasensibile, facendo dipendere quello da questo” (M. Heidegger, da La sentenza di Nietzsche: Dio è morto, in Sentieri interrotti).

La lunga citazione tratta da un’opera ben nota di M. Heidegger (Sentieri interrotti, pubblicata nel 1950, come raccolta di vari saggi e conferenze risalenti per lo più agli anni Trenta), assume un particolare significato se ci soffermiamo sull’oggetto di queste brevi considerazioni scaturite dalla “rilettura”, dopo moltissimi anni, di un’opera fondamentale (Téchne, le radici della violenza) di Emanuele Severino, scomparso il 17 gennaio scorso alla venerabile età di più di 90 anni. In questo libro, la cui prima edizione è del 1979, è contenuto l’essenziale di tutto il pensiero elaborato, nella sua lunghissima carriera di filosofo praticante, dall’illustre professore emerito dell’Università veneziana Ca’ Foscari, nella quale fu tra i fondatori della Facoltà di Lettere e di Filosofia. Nella citazione posta in epigrafe appaiono, infatti, alcuni dei concetti che hanno costituto il principale oggetto di riflessione da parte del pensatore bresciano: nichilismo, Occidente, metafisica, ordinamento dell’ente

E’ una semplice coincidenza che la pubblicazione di Sentieri interrotti coincida con l’anno (1950, sebbene la sua traduzione italiana, a cura di Pietro Chiodi, risalga al 1953, ma pubblicata da La Nuova Italia di Firenze nel 1968) in cui Severino si laurea in filosofia, all’Università di Pavia, discutendo una tesi dal titolo Heidegger e la metafisica, sotto la supervisione di Gustavo Bontadini. Non è affatto una coincidenza, invece, il fatto che, per le trecento pagine nelle quali si dispiega il pacato ma implacabile argomentare severiniano, rimane costante il richiamo al pensiero maturo di Heidegger (il cosiddetto secondo Heidegger, quello che, dopo aver sviluppato l’analitica esistenziale in Essere e Tempo, passò poi a mettere al centro della sua riflessione l’Essere, o per meglio dire l’oblio dell’Essere, quell’oblio che Heidegger identifica con la metafisica e con la sua storia, la quale, a sua volta, in quanto storia del nichilismo coincide con la storia della civiltà occidentale, vista anche come storia della Tecnica, essendo quest’ultima il prodotto peculiare e inevitabile della metafisica stessa) e, attraverso Heidegger, al Nietzsche teorico della “morte di Dio” e del nichilismo. 

Quest’ultimo, secondo il filosofo di Essere e Tempo e di Sentieri Interrotti, come sappiamo, trova le sue origini in Parmenide o, per meglio dire, nei tentativi di superare le aporie e i paradossi ai quali si andava incontro accogliendo la teoria dell’Essere parmenideo. Nel corso di questi tentativi, però, il pensiero greco ha confuso l’Essere con l’ente (o con gli enti), oggettivando l’ente stesso, rendendolo disponibile, tramite la dialettica platonica e le categorie aristoteliche, ad essere utilizzato, manipolato, in altri termini a diventare oggetto di dominio. La Tecnica (l’insieme degli strumenti che rendono agevole ed pervicace il dominio sugli enti) è quindi, secondo Heidegger, figlia legittima della metafisica, vale a dire di questa confusione tra Essere e ente, di questo oblio progressivo dell’Essere e della conseguente riduzione dell’ente ad oggettività misurabile e pianificabile, aperta all’immediata impiegabilità e utilizzabilità (l’ordinamento dell’ente).

Ed è proprio in questa riduzione dell’ente ad oggetto misurabile e mero utensile – in funzione della quale la mentalità metafisica si concretizza con l’invenzione di strumenti tecnici sempre più sofisticati e dotati di una potenza produttiva e, nello stesso tempo, distruttiva – che Severino “scorge il legame essenziale che unisce la tecnica alle radici della violenza, e si comprende che questo legame non ha nulla a che vedere con le diverse forme di opposizione alla tecnica, di cui è ricca la cultura contemporanea” (Téchne, pp. 7-8). Ma perché, ci chiediamo, la riduzione dell’ente a oggetto, o cosa, è un’operazione nichilistica? In quale senso il considerare, il concepire l’ente (cioè tutto ciò che è esistente, che possiede l’essere) quale “cosa”, ha a che fare con il nulla? Ma, innanzitutto, qual è il significato più profondo di “cosa”? A quest’ultima domanda il nostro pensatore risponde che tutti gli enti sono “cose”: l’albero, il tavolo, un uccello, una pietra, un fiume, un uomo, un cane, un martello, un chiodo, ecc. e, inoltre, che il senso più profondo della cosa risiede nella sua assoluta e incondizionata disponibilità ad essere prodotta, manipolata, trasformata, distrutta. 

Questo significato della cosa, impostosi ormai universalmente nell’epoca della Modernità, risale, secondo Severino, ai Greci, quei Greci fondatori, nel V secolo a. C., della filosofia e, perciò, della metafisica, di conseguenza di quel progetto tecnologico di produzione/distruzione illimitata delle cose che caratterizza tutta la storia dell’Occidente: “In questo progetto la cosa non si presenta disponibile fino ad un certo punto, oltre il quale essa si rifiuti di lasciarsi maneggiare, ma come interamente disponibile. Ebbene, per la prima volta nella storia dell’uomo, è stata la metafisica greca a portare alla luce il senso di questa assoluta disponibilità della cosa, nel momento stesso in cui ha legato il senso della cosa all’essere e al niente” (Téchne, p. 222). Qual è il significato di quest’ultima proposizione, in quale modo il senso della cosa risulta legato all’essere e al nulla? La risposta di Severino, a questa domanda, è paradossale e rappresenta, al tempo stesso, la propedeutica alla “strana teoria” di ciò che il filosofo di Brescia chiama la “follia estrema che ormai domina sulla terra e che ha ridotto ad un niente tutte le cose”:

Le cose sono. Ossia una cosa è ciò di cui si può dire: “è”. Un abete è; un artigiano è; un tavolo è; la guerra è; la gioia è. Ognuno di essi è una cosa, appunto perché è. Ma non basta. Ognuno di essi, anche, non è. Prima di spuntare, l’abete non era, e, quando il taglialegna lo abbatte e lo fa a pezzi, non è più. E così l’artigiano, il tavolo, la città, la gioia: prima di nascere, o di essere prodotti, costruiti, o prima di accadere non erano; e non sono più quando muoiono, vanno distrutti, cessano. Una cosa è ciò che è (quando è) e che insieme non è (quando non è ancora e quando non è più). Appunto per questo – già si è visto – una cosa è un essere disponibile all’essere e al non essere. Ed è appunto per questa disponibilità che le cose nascono e muoiono. Anzi, questa disponibilità esprime il senso stesso del loro nascere e morire. I Greci hanno chiamato òn (ens, ente) la “cosa”, così pensata” (Téchne, p. 232).

Dunque, l’estrema follia, secondo Severino, consisterebbe in questo: nel ritenere, anzi nell’essere convinti, che, più che dall’essere, le cose, cioè gli enti, sono caratterizzati e pesantemente condizionati dal nulla, cioè dal loro uscire dal nulla (prima di essere prodotte o prima di nascere, infatti, non erano), dal loro breve indugiare nell’essere (la durata temporale del loro esistere), e dal loro ritornare nel nulla. Ebbene, se questa convinzione rappresenta il senso comune, la comune mentalità degli esseri umani “normali” prodotti dalla civiltà occidentale, come stupirsi del diffondersi, anzi del dilagare delle patologie psichiche, caratterizzate, appunto, come insegna la psicanalisi, dalla “rimozione”, vale a dire dalla negazione dell’esistere di tutto ciò che produce dolore, sofferenza, nevrosi, alienazione, ecc.? 

Ora, se l’origine di questo atteggiamento va ricercato nella Grecia del V secolo a. C., e se, come è universalmente noto, è la Grecia ad aver generato la civiltà occidentale, la quale, negli ultimi due secoli, si è imposta all’intero pianeta, perché si fa ancora tanta fatica ad accettare che la storia dell’Occidente (e del pianeta Terra) coincida con la storia del nichilismo? Forse perché condividere questa conclusione rappresenterebbe l’eliminazione delle differenze, addirittura della “reductio ad unum”, cioè al nichilismo, individuato come sorgente e fondamento di tutte le varie fedi religiose, delle correnti filosofiche, delle teorie economiche e politiche, dei movimenti storici e sociali che si sono contrapposti e continuano a combattersi sulla grande scena del mondo? 

Proprio questo sostiene Severino, e per meglio rafforzare e supportare la sua tesi dedica molte pagine del saggio più importante di Téchne (dal titolo Il senso della civiltà della tecnica) ad un’acuta e, aggiungiamo noi, tendenziosa analisi della teoria di Karl Marx sul lavoro umano. Nel primo volume de Il Capitale, Marx si sofferma sulla “condizione naturale eterna della vita umana”: il lavoro umano come lavoro utile, che produce le cose indispensabili al soddisfacimento dei bisogni primari: il cibo, l’abitazione, gli abiti, gli strumenti di lavoro. Quindi il lavoro, inteso come attività produttiva, è ciò che conferisce esistenza alle cose che servono all’uomo. Nello stesso tempo esso è condizione d’esistenza dell’uomo stesso. Tuttavia l’attività lavorativa non può definirsi “creativa” (in quanto non pone in essere, ex nihilo, le cose che produce), bensì “trasformativa”, poiché dà forma o cambia le forme a quel substrato materiale offerto dalla natura e senza il quale non esisterebbe alcuna attività lavorativa. E tuttavia queste nuove forme generate dall’attività lavorativa, secondo Severino (non secondo Marx), prima di essere poste in essere dal lavoro umano, sono un nulla: ciò significa che il lavoro opera un passaggio dal nulla all’essere e che le cose prodotte si dimostrano, in ogni momento, disponibili “all’essere e al non essere” (una bella forzatura, non c’è che dire, quella di rendere funzionale il lavoro umano alla metafisica dell’essere e del nulla). 

Ciò che Severino vuole comunicarci è questo: anche il marxismo, così come il cristianesimo, così come tutte le dottrine che si presentano come antitesi o come proposte di superamento del nichilismo, in realtà non sono altro che diverse manifestazioni di quella estrema follia che ha ridotto gli enti a nulla, consegnandoli così all’illimitata e incontrollabile dominazione e manipolazione, per l’esercizio della quale la Tecnica mette a disposizioni strumenti sempre più efficaci. “Ancora nel libro primo del Capitale – prosegue Severino – Marx scrive che il lavoro evoca le cose dal regno dei morti, cioè dal regno del niente”, esprimendo con parole leggermente diverse ciò che già Platone affermava nel Simposio: “Ogni causa che faccia passare una qualsiasi cosa dal niente all’essere è produzione (poiesis), cosicché  sono produzioni anche i lavori che vengono compiuti nell’ambito di ogni tecnica, e quindi anche tutti i lavoratori (demiourgoi) sono produttori” (Téchne, p. 236). Ma c’è di più, nelle pagine che seguono, che interviene a dar maggior vigore a questo forzato reclutamento di Marx nelle file dei nichilisti inconsapevoli, o malgré lui: l’alienazione, concetto marxiano par excéllence, impiegato come sinonimo o surrogato dell’estrema follia di Severino. Infatti “… la storia della nostra civiltà è la storia della follia estrema. Si badi: non di “una”, ma “della” follia estrema. Si può usare anche la parola “alienazione” e dire che la storia della nostra civiltà è la storia dell’alienazione essenziale” (Téchne, p. 237). Ma, immediatamente dopo, accorgendosi che l’operazione effettuata (quella cioè di aver identificato alienazione e follia estrema), potrebbe sembrare leggermente arrischiata e ingiustificata, Severino mette le mani avanti, precisando che “ … quell’identificazione tra storia della nostra civiltà e storia dell’alienazione essenziale non ha nulla a che vedere con espressioni simili, presenti nella nostra cultura e persino divenute di moda. Nulla a che vedere. Appunto perché il fondamento di tutta la cultura contemporanea, il luogo dove essa abita (e in cui è cresciuta l’intera civiltà occidentale) è il modo in cui i Greci hanno pensato e vissuto l’ “esser cosa” delle cose, ossia il senso da essi assegnato alla “cosa”; mentre è proprio questo senso che nelle pagine di questo libro vien posto come la follia estrema e l’alienazione essenziale della nostra storia” (Téchne, p. 238). 

La riduzione delle cose a nulla, altrimenti detta estrema follia e/o alienazione essenziale, non riguarda, si badi bene, soltanto i filosofi (quegli strani soggetti che passano il tempo a cercare di sciogliere i nodi gordiani e i grovigli della metafisica), ma investe tutta la cultura, contemporanea e non. Anche gli artisti, quindi, e in particolare i poeti. Si prenda come esempio un grande poeta come Leopardi e la sua poesia A Silvia: “ … Silvia è passata: “Ahi, come,/ Come passata sei …!”. Che cosa non è rimasto di Silvia? Non è rimasto “Quel tempo della tua vita mortale,/ quando beltà splendea/ Negli occhi tuoi ridenti e fuggitivi”. Questo “tempo”, tuttavia, è ben lontano dall’essere un niente; è riempito dallo splendore di una giovane vita e ne trabocca. Il tempo di Silvia ha un significato che a nessuno viene in mente di identificare al significato espresso dalla parola “niente”. Ma questo non-niente traboccante di vita non è rimasto: Silvia è passata. Questa è la convinzione del poeta. Ed è anche la convinzione, che ci lasciamo indietro il nostro passato. Ed è convinzione nostra e del poeta (e di ogni poeta dell’Occidente), perché è la convinzione fondamentale in cui cresce la storia della nostra civiltà” (Téchne, p. 239).

Riassumendo (repetita iuvant), con le parole di Severino, quanto fin qui siamo venuti ad apprendere (o a rammemorare) attraverso la lettura dell’opera del pensatore bresciano:

“L’Occidente è la persuasione che qualcosa, passando, diventa un niente. Diventare un niente significa che, ad un certo punto, si è niente. La persuasione che qualcosa diventa un niente è la persuasione che il non-niente è niente, ossia è la persuasione che l’ente è niente. E “ente” non è un termine astratto, ma nomina appunto quei sentimenti, visioni, sensazioni, pensieri, corpi, figure, colori, suoni, eventi, situazioni, di cui gli abitatori dell’Occidente dicono “sono passati; non sono rimasti”. E, dicendo questo, dicono “sono – essi che non sono un niente – un niente”. La persuasione che l’ente sia niente è il nichilismo. Il nichilismo è la follia estrema, l’alienazione essenziale in cui cresce la storia dell’Occidente. L’estrema follia è la persuasione che le cose (ossia i non-niente) nascono e muoiono, sono prodotte e distrutte, fabbricate e consumate, create e annientate. “Dio”, la “natura”, la “prassi umana”, la “tecnica” sono l’espressione di questa follia estrema: essi infatti sono pensati come le forze che conducono le cose al di fuori del niente e le riconducono nel niente. Esse sono le forme della poìesis. E’ all’interno di questa follia che anche il cristianesimo e, poi, il marxismo hanno preso significato”. (Téchne, p. 240).

Se, dunque, come afferma Severino, tutti gli abitatori dell’Occidente sono persuasi che le cose, i non-niente, sono niente, come meravigliarsi del fatto che la storia dell’Occidente non è altro che il dispiegamento di un dominazione-manipolazione-ordinamento dell’ente/niente (o, per meglio dire, sull’ente/niente), attuato attraverso gli strumenti messi a disposizione dalla Tecnica e alla cui base vi è quella smisurata “Volontà di potenza” che, di volta in volta, assume le forme e le varianti di differenti e multiformi fedi religiose, concezioni etiche, filosofiche, giuridiche, economiche, politiche, le quali, pur combattendosi, non possono fare a meno di servirsi del medesimo apparato tecnico-scientifico caratterizzato da una illimitata crescita e pervasità?

E come meravigliarsi, gridando allo scandalo e denunciandone l’esito paradossale, quando Severino, sulla base della persuasione sopra enunciata (che, cioè, gli enti/cose sono niente), e nella sottostante Volontà di dominio e di manipolazione degli enti/niente, individua proprio in ciò le radici della violenza che caratterizza l’intera storia dell’Occidente e tutte le società che, nel corso del tempo, vi si sono affermate? Perfino a fondamento dei principi e dei precetti (norme e comandamenti) che proibiscono la violenza, Severino vi scorge un atto di violenza. “Il comandamento di “non uccidere” non è divenuto la legge suprema della civiltà per l’evidenza del suo contenuto, ma perché un poco alla volta coloro che l’hanno accettato sono divenuti più forti di quelli che lo rifiutavano. L’omicidio è divenuto un male da quando l’omicida è diventato più debole dei suoi persecutori. Dove  questo non avviene, l’omicidio non è un male” (Téchne, pp. 77-78). 

In questo passaggio che, sicuramente e per conseguenza logica, è legato alla teoria della nientificazione degli enti/cose, molte cose non convincono, anzi risultano del tutto inaccettabili, non soltanto per una qualsiasi coscienza morale (la quale, evidentemente, non si preoccupa molto del principio di non-contraddizione sul cui fondamento si sviluppa l’argomentare severiniano), ma anche dal punto di vista della storia delle società finora esistite: 1) in quale modo e con quali mezzi coloro che accettavano il comandamento “non uccidere” sono divenuti più forti di coloro che lo rifiutavano?, 2) perché e in quale modo e dove l’omicida è divenuto più debole dei suoi persecutori?, 3) ma perché coloro che rifiutano l’omicidio dovrebbero esser considerati persecutori dell’omicida?, 4) dove, in quale paese o contrada o villaggio, avviene, o è avvenuto, che l’omicidio fosse considerato un non-male, forse anche un bene?, 5) non è forse vero, al contrario di quanto afferma Severino, che ogni società, nel momento in cui diventa società (cioè nel momento in cui si dà un ordinamento, anche il più semplice possibile), pone come primo comandamento proprio quello di “non uccidere” o, per essere più precisi, pone il divieto assoluto (tabù) del parricidio (seguito dal tabù dell’incesto), al quale seguono tutti gli altri divieti, in nome della sacralità della vita umana? A tutte queste ragionevoli domande, nelle pagine severiniane non troviamo purtroppo alcuna risposta. 

Al contrario: troviamo altre affermazioni che ci riempiono di sgomento. Come la seguente:

“ … la cultura oggi dominante  (che pure, contrariamente ad ogni apparenza, è il risultato inevitabile della cultura tradizionale) non è in grado di assicurare in modo definitivo che le forme “aberranti” di organizzazione dell’esistenza, come ad esempio il nazismo, siano “male”. Ancora oggi non sappiamo che cosa significhi “bene” e “male”. Giacché non basta stabilire il significato di questi due termini all’interno di concezioni del mondo che ormai riconoscono il proprio carattere ipotetico. In questa situazione, il “valore” supremo e decisivo della condanna del nazismo non può essere dato da un giudizio morale separato dall’efficacia dell’azione che ha condotto alla vittoria militare sul nazismo: il valore della condanna consiste in questa distruzione pratica, effettiva, del nazismo – anche se una componente non certo secondaria di questo processo distruttivo è stata indubbiamente la fede morale che ha visto nel nazismo un mostro da distruggere. Un mostro, dunque, che non sarebbe stato tale se non fosse stato distrutto” (Téchne, p. 81).

Di fronte ad affermazioni così sconcertanti non possiamo non chiederci: 1) qual è quella cultura dominante che deve essere portata sul banco degli accusati perché non in grado di assicurare (ma che significa: assicurare?) in modo definitivo che il nazismo sia un male? Non è sufficiente tutto il male effettivamente fatto (a partire dalla Shoah) per “assicurarci”, in modo definitivo, che il nazismo è statu un male?, 3) non è sufficiente che i nazisti stessi volessero mantenere il segreto su tutte le procedure e le azioni attinenti alla Endloesung (soluzione finale) a partire dai protocolli della Conferenza di Wannsee, che programmavano fin nei minimi particolari la distruzione di milioni di ebrei? Se per i nazisti la distruzione degli ebrei non era un male, perché imporre il più assoluto segreto su tutto ciò che era ad essa legato (campi di sterminio, deportazioni, esperimenti di Mengele sui bambini ebrei, ecc.)?, 4) se, dunque, non ci fosse stata la vittoria militare sul nazismo, quest’ultimo sarebbe stato ritenuto, da qualcuno o da molti, un “bene”?, 5) siamo grati, comunque, a Severino, per aver concesso che una componente non secondaria del “processo distruttivo” (perché, poi, chiamare, la Resistenza al nazismo “processo distruttivo” e non, invece, “processo ricostruttivo” dei valori che il nazismo stava distruggendo?) sia rappresentata dalla fede morale (fede morale? Perché non coscienza morale o ragione?). Siamo del tutto persuasi che, della cosiddetta “cultura dominante” di cui parla Severino faccia parte integrante quel principio (enunciato da un certo Immanuel Kant nella Critica della ragion pratica), la cui universalità sfido chiunque a mettere in discussione, che afferma: “Considera sempre il tuo prossimo come fine, e mai come mezzo”, che è il naturale corollario, o la naturale conseguenza di quell’altro, sempre kantiano, che sostiene e comanda: “Agisci sempre in modo tale che la massima che sta alla base della tua azione, possa da tutti essere ritenuta una legge universale, cioè valida per tutti”.

Siamo convinti (forse non del tutto, comunque è un’ipotesi dotata di un qualche fondamento), di fronte a certe affermazioni e argomentazioni del filosofo bresciano, che la causa di esse sia da ricercare, giustappunto, nella teoria della nientificazione degli enti/cose, una teoria niente affatto incontrovertibile, e perciò tutta da dimostrare, non solo sul piano logico (basterebbe a tal fine il principio di non-contraddizione) ma, soprattutto, sul piano storico-empirico. 

La storia dell’Occidente, ad avviso di chi scrive, lungi dall’essere la storia del nichilismo, cioè della riduzione delle cose a niente, è stata, ed è, e sarà, al contrario, un tormentato, controverso, difficoltoso (grondante sangue,  fatica e lacrime) tentativo di affermare il valore supremo della vita umana, della dignità, della libertà, del valore creativo e della bellezza del lavoro, inteso come essenza (wesen) stessa dell’uomo. In altri termini (questa volta termini metafisici), noi pensiamo che la storia del pensiero occidentale, ma anche della scienza e della tecnica, non è riducibile all’equazione ente = nulla, ovvero essere = non essere, ma sia al contrario da considerarsi quale sforzo per salvaguardare, nei limiti del possibile (ed estendendo sempre di più questi limiti), e potenziare l’ente in quanto  ente, e ciò senza affatto rimuovere il dato, questo sì incontrovertibile, che l’ente è radicato nella dimensione della temporalità (sub specie temporis) ma, tuttavia, proteso, attraverso le sue opere, prodotti del lavoro, dell’arte, della scienza, verso la dimensione dell’eternità (sub specie aeternitatis). Non è vero, quindi, che tutti i prodotti del lavoro umano sono destinati, inevitabilmente, a tramutarsi in niente, ad essere distrutti: la conoscenza, la scienza, le arti, e i prodotti di queste, sono gli strumenti a disposizione dell’uomo (e da lui stesso generati), attraverso i quali l’ente umano cerca, con tenacia e con il continuo esercizio della ragione, di affermare la sua insopprimibile e del tutto ragionevole esigenza d’immortalità.

Bibliografia essenziale

  1. E. SEVERINO, Téchne, le radici della violenza, Milano 1979;
  2. M. HEIDEGGER, Sentieri interrotti, Firenze 1968;
  3. M. HEIDEGGER, Che cosa significa  pensare?, Milano 1979;
  4. I. KANT, Critica della ragion pratica, Bari 1997;
  5. K. MARX, Manoscritti economico-filosofici del 1844, Milano 2018.