Il commento sulla notizia inesistente crea la norma presunta

Domenico Bilotti

Università Magna
Graecia di Catanzaro

1. La Costituzione non può fare a meno di costituzionalizzare forme eccezionali e transitorie di incostituzionalità. Vigono medio tempore disposizioni legislative incostituzionali, fino alla loro declaratoria di illegittimità; le libertà politiche consentono la manifestazione del pensiero anche a espressioni organizzate di un sentire contrario ai principi costituzionali, sino a che esse non tangono la soglia della illiceità giuridica.

Scopo sostanziale delle costituzioni, perciò, può essere ritenuto, tra gli altri, quello di accogliere la differenza (anche la radicale, simmetrica o asimmetrica, differenza), tradurla, rielaborarla, nettarla, riceverla. È questo il processo virtuoso che si apre all’interprete, è questa la necessità storica di fasi in cui il sentire comune si frantuma in più rivoli e magari uno d’essi pretende di travolgere tutti gli altri. Se questa intenzione supera la soglia del volere e diviene potere, è lì che il sistema democratico entra in sofferenza e cede a moduli normativi non democratici. È da tempo vasto il dibattito per comprendere se in Italia il sistema abbia imboccato questo abbrivio discensionale, o meno. Non v’è dubbio che settori non irrilevanti del diritto vivente abbiano creato enclave pratiche di tangibile incostituzionalità: l’esecuzione dei regimi penitenziari, la legislazione migratoria, la regolamentazione dei culti, la spoliazione materiale delle garanzie contrattuali del lavoro, la selva regolativa amministrativa e fiscale (non complessa: labirintica, tortuosa).

A maggior ragione, il fenomeno appare preoccupante nell’ambito delle comunicazioni. In esse, l’esigenza del pluralismo non è un metodo di produzione della notizia, ma una condizione di possibilità delle libertà costituzionali. Pluralismo, per altro verso, può occasionalmente significare il volere ridimensionarle o negarle, come detto; questa tentata rimozione però non può ergersi a sistema, altrimenti si realizza un mutamento di paradigma, uno strisciante inglobamento di valori anticostituzionali in una forma travestita e travisata di costituzione materiale. La comunicazione politica, nella situazione cui è giunta, è un eccezionale punto di osservazione per queste dinamiche. È la comunicazione in ambito politico, infatti, a esercitare una previa selezione degli argomenti oggetto della deliberazione futura, non meno che una preventiva predisposizione del contesto applicativo delle norme (intese, non casualmente, meramente come “comandi” dalle “sensibilità” autoritarie, pur quando non lo dichiarino).

2. All’inizio degli anni Novanta si celebrava la fine della storia, secondo un equivocato quanto in realtà pericoloso asserto di Francis Fukuyama: il governo liberale nell’economia di mercato concludeva il conflitto per la selezione dei regimi costituzionali, abbatteva la differenza di identità in un quadro universalistico di acquisizione e comunicazione, rendeva superfluo lo sforzo elaborativo di ogni visione altra. Molte illusioni hanno caratterizzato il boom delle nuove comunicazioni e delle nuove transazioni economiche, sempre più sorrette sul primato del titolo di credito, volatile, a danno della effettiva produzione di ricchezza. La “società dell’informazione”, la conoscenza esibita come opportunità funzionale di autoformazione permanente (ma all’interno di canali già dati!), trovava il proprio elogio indifferentemente nei memoriali del magnate Nicholas Negroponte, nelle lettere del politico sudafricano Nelson Mandela, negli scritti del filosofo tedesco Jürgen Habermas. Il fatto è che la notizia non è che il racconto del fatto, non il fatto in sé: notizie che si allontano dal fatto sono visioni, canalizzano lo sguardo; non diffondono informazioni, non sono etimologicamente e ontologicamente davvero più notizie.

3. Il vigente quadro politico ha introiettato una enorme volatilità del sapere collettivo e della determinazione popolare: i flussi elettorali si spostano molto più facilmente che in passato (partiti anche cospicui possono raddoppiare o dimezzare i propri consensi nello spazio di poche consultazioni). Più è dinamica la rappresentazione dell’interesse, però, più la sua formazione sembra statica e maggioranze politiche persino molto più variabili che in passato sempre più spesso operano in sfere d’azione sempre più simili. La grammatica delle fonti di produzione, mai così dissonante, si carica di significati omologhi e omologanti. Un autorevole ministro, tutt’ora in carica alla stesura di queste riflessioni, ha scritto attraverso i social (ormai parte integrante della politica del diritto, dal momento che è stata loro affidata l’espressione dell’intenzionalità immediata del politico di professione), a seguito di un grave atto di violenza, che avrebbe disposto la castrazione chimica dei pedofili. Un atto sanzionatorio di questo tipo è chiaramente al di fuori della legalità costituzionale e perciò la sua vigenza sarebbe pur sempre posta al sindacato di illegittimità. Eppure, quella erronea e sguaiata prospettazione crea consenso, poiché diffonde l’idea di un assertivo prendere parte, dove promettere la decisione sostituisce non solo la procedura di deliberazione, ma anche la decisione stessa.

Il medesimo esponente governativo ha vieppiù dichiarato, dopo un’altra grave tragedia in un locale notturno, che finalmente si sarebbe provveduto ad arrestare i responsabili. Una dichiarazione del genere è cartina di tornasole dell’immiserimento della vita collettiva per almeno tre ragioni. I responsabili dei reati devono essere perseguiti, non c’è bisogno di un’affermazione aggiuntiva che preceda l’accertamento delle colpe: è il fondamento della potestà punitiva statuale. Non solo: è la giustificazione della tautologia, sempre più fertile nel linguaggio politico (“dobbiamo poter governare”, “abbiamo vinto, dobbiamo governare”, “faremo quello che facciamo”). Infine, e non bastasse, è l’elevazione a sistema di una visione panpenalistica del diritto, per cui esso non esiste fuori dalla sanzione applicata e dalla promessa di allargamento dei presupposti della sanzione medesima. Il reddito, i diritti sociali, gli stili di vita, diventano così appendici non giuridiche, se non del tutto antigiuridiche: errore o falsa pretesa.

4. Il fatto produce la norma, perché ne precede e orienta la procedura di emanazione. La norma a sua volta orienta le condizioni di inveramento e di recepimento del fatto, perché ne canalizza gli effetti tipici, dando loro primato sugli effetti atipici. Questa elementare cautio della civiltà giuridica sta estinguendosi, con una duplice sostituzione semantica. Il fatto si risolve nella sua rappresentazione, creando una confusione strutturale tra la notizia e il commento. Il commento di una notizia distante dal fatto orienta il bisogno di diritto, di regolazione. Quest’ultimo, però, non produce norma giuridica, ma una seria torrenziale di imperativi tra loro non coordinati, pretesi anche quando non esigibili, invocati anche quando non vigenti, formanti dell’opinione pubblica anche e soprattutto quando esterni e contrari alle condizioni sostanziali del vissuto di quelle opinioni pubbliche e dei loro diritti fondamentali.