IL MALE NON È NUOVO. IL MALATO È DIVERSO

di Domenico Bilotti. Badiou – Considerazioni critiche #1

di Domenico Bilotti

I-La pubblicazione in lingua italiana del contributo di Alain Badiou alla lettura dell’attuale emergenza da Corona-virus, “Sulla situazione epidemica”, rappresenta un’occasione di confronto e di riflessione particolarmente importante, che consente di tenerci giunti a un dibattito di dimensione globale e, ancor più, con specifica prospettiva europea. 

Ed è emozionante entrare in risonanza col pensiero dell’A. per chi quotidianamente si occupa di diritto ecclesiastico e di diritto canonico. Il volume che Badiou ha dedicato a San Paolo (“San Paolo. La fondazione dell’universalismo”, Cronopio, Napoli, 2010) ha anticipato un’ampia discussione di natura politica e giuridica. Sul piano della scienza politica e della storia del pensiero, la lettura paolina di Badiou ha rappresentato un’eccezionale critica a quelle dimensioni universalistiche del discorso legale che sono rimaste sempre e comunque visioni di parte, contro ogni loro tentata fondazione sistematica (il parlamentarismo, il diritto finanziario e le sue spesso illusorie regole di sostenibilità, l’unilateralismo occidentale nei territori di guerra). 

In ottica esegetica e teologica, all’A. va riconosciuto il merito di avere illustrato la prospettiva di una parola costituente, che fonda la nomogenesi non già di un ordinamento confessionale, ma di una nuova mappatura delle relazioni umane, per cui non c’è Giudeo né Greco; non c’è schiavo né libero; non c’è maschio e femmina, perché tutti voi siete uno. Le ragioni di interesse, perciò, per il dibattito rilanciato dal filosofo francese, sono pregevoli e numerose, per la loro valenza complessiva e per lo specifico angolo visuale di chi scrive.   

II-Il fulcro dell’analisi di Badiou si concentra sulla dinamica non eccezionale e non prorompentemente innovativa della situazione sostanziale nella quale ci troviamo immersi. Con l’approccio rude al dato materiale che contraddistingue sempre la vis polemica dell’A., questi giustamente ricostruisce le condizioni di propagazione del virus. Riassumiamo il percorso di quest’ultimo: innegabilmente favorito dalla circolazione in standard igienici approssimativi, ulteriormente facilitato dalla scarsa guardia iniziale e dalla sottovalutazione di alcune condizioni ambientali, meteorologiche e relazionali che vi avrebbero spianato la strada, infine e in radice di una specie ex se virologicamente capace di riprodursi con una certa rapidità e con una carica offensiva robusta e a cicli crescenti. 

Nessuno ci ha riflettuto abbastanza, ma questa cartografia del contagio ha purtroppo una giustificabilità postuma, sul piano della diffusione e del contagio medesimo, di rara attendibilità. Ed è ancor più importante quanto Badiou indica in calce a questa osservazione: il mondo contemporaneo, anche il mondo della gloriosa fase espansiva dei redditi, dei commerci e dello stato sociale, aveva già conosciuto fenomeni pandemici. Ancora più luttuosi (ben prima dell’influenza cinese, perciò, l’HIV). In questa parte della sua analisi, Badiou omette di ricordare che essi stessi rimodularono la grammatica percepibile delle relazioni sociali prima che queste ultime riassorbissero la novità del morbo dentro le maglie di una nuova prammatica regolativa. In particolar, la diffusione dell’AIDS, per almeno un decennio di vita civile in Occidente, segnò un’inumana segregazione della prima generazione di contagiati: una malattia meno nota, priva di ritrovati terapeutici contenitivi efficaci, che segnava uno spartiacque nella socialità e nella psiche; una marchiatura spesso ulteriore a ogni responsabilità individuale. E per converso ciò ha portato e porta che periodicamente ci si ridistragga sulla profilassi sessuale, in un clima culturale che del resto ha ricominciato a rimettere l’educazione sessuale in parentesi: la sessualità oggi si scopre più coi giga che con la consapevolezza e anche il desiderio ossessivo diventa, perciò, desiderio espropriato dall’immaginario che supporta la riproduzione incessante di capitale materiale e immateriale. 

III-Il focus tematico di Badiou si concentra soprattutto sul caso francese e sulla non paradossale non eccezionalità del modo in cui Macron ha dichiarato l’ (il linguaggio retorico usato, i provvedimenti assunti, le strategie di giustificazione, le verosimili misure in corso di adozione). La Francia ha conosciuto negli ultimi ventiquattro mesi grandi momenti di conflitto e ci si aspettava che nel corso di quelle agitazioni il governo adottasse degli atti restrittivi di contenuto tanto repressivo quanto preventivo per soffocare quei sommovimenti. Il riferimento è alla protesta dei gilet gialli del maggio 2018, quando una realtà di composizione estremamente eterogenea ma partita dai ceti bassi e medio-bassi urbani e rurali aveva, su un paniere di rivendicazioni apparentemente marginale e poco profondo, tuttavia fermato il Paese. Non solo: nel mese di gennaio gli scioperi e le manifestazioni di piazza per il lavoro, i regimi pensionistici e il mantenimento dei diritti acquisiti erano stati tanto intensi da far retrocedere un esecutivo e una presidenza invero popolarmente legittimati da ben più draconiane e ambiziose misure di riforma. In tempi recenti, in effetti, la vera adozione di provvedimenti extra ordinem, in reazione a una situazione sostanziale e di polizia invero ancor più esacerbata, risale all’agitazione dei banlieuesards del 2005: altra Presidenza, altra fase storica e l’impattante, spontanea, irriducibile violenza delle periferie, “scomunicata” da parte dell’intellettualità di sinistra, dalla fatwa dell’Unione delle organizzazioni islamiche, dalle istituzioni municipali di periferia. Dalla fede e dalla cittadinanza. A richiedere provvedimenti di contenimento, limitativi di libertà fondamentali per contrarre il più possibile i contagi da contatto sociale, Macron ha forse compiuto una delle azioni meno avventate nella storia recente della politica legislativa francese. 

Ciò detto, ritenere il meno nefando non già e non più “nefando” ma coerente, possibile, ragionevole fa tuttavia venire in mente le parole di Agamben: “lo stato di eccezione tende sempre più a presentarsi come il paradigma di governo dominante”.  

IV-Altro aspetto assai significativo sul quale Badiou si concentra, offrendo una rilettura antiretorica sin qui dirompente proprio perché verace e minoritaria, riguarda le reazioni prontamente elogiate dai media mainstream nei confronti dei tanti opinionmakers e stakeholders che si sono lanciati in due direzioni perfettamente speculari. Da un lato c’è stata l’irenica voce di chi ha promosso subito le restrizioni e persino i lutti dell’epidemia come l’occasione antropologica di un ripensamento culturale basato sul benessere interiore e sulla riscoperta dell’intimità. D’altra parte non sono mancati gli sciacalli che hanno offerto il loro alito pestilenziale per rinfocolare odi a base inter-razziale, di provenienza geografica e spesso anche direttamente di classe. I primi sono diventati i cultori del buonsenso, dell’umanità, di una bontà ufficiale oltre la quale può esserci solo cattiveria: la cattiveria dei non allineati al loro metro. I secondi, tuttavia, non sono stati da meno nel fingersi latori di un senso comune elevato a verità: hanno opportunisticamente protestato contro le restrizioni quando il virus non montava; oggi fanno i capofila del mantenimento e delle barriere. L’uno e l’altro aspetto sono loro perfettamente naturali e complementari: le loro rivendicazioni micronazionalistiche si reggono sulla difesa della proprietà, della rendita, del consumo (spesso esattamente in quest’ordine di priorità); la loro vocazione identitaria si poggia a ogni elemento instilli l’idea di una scissione tra i “noi”, titolati legittimati e derubati, e i “loro”, invasori illegali e predatori. 

Per tale via anche l’opinione dei social e degli utenti apparentemente meno aderenti alle istituzioni formali, e perciò spesso totalmente intrisi dei costumi sostanziali del nostro tempo, è finita stritolata in questi assunti di disperante mancanza di senso: o coi fautori del bene venturo loro al tempo delle sventure altrui, o coi tutori violenti di un ordine e di un equilibrio esattamente fondati sul disordine e sugli squilibri.  

V-In conclusione, sembrerebbe che Badiou abbia ragione su tutta la linea; sembrerebbe, anzi, che il male che sta affliggendo la compatibilità governamentale e che sta spaventando i cittadini di tutto il mondo sia profondamente antico e radicato. Pare allora che i nostri peggiori nemici siano proprio quelli che inseguono, nel copione già scritto, antagonisti e temi nuovi. Il male non s’è cambiato d’abito; sono i presunti medici – quelli che “amministrano” la cura indifferenti alla reazione del malato, i medici peggiori – ad avere assunto travestimenti nuovi. 

Eppure, restando nella metafora medico-biologica alla quale, da Menenio Agrippa a Pietro Pomponazzi, dall’urbanista Le Corbusier al pensiero della post-modernità, è attribuita enorme efficacia simbolica, è a nostro avviso il malato ad avere avuto un netto peggioramento. Non è il virus ad avere subito una modificazione o una mutazione, come si dice in epidemiologia; la modificazione involutiva ha riguardato lo stato clinico del degente. Sono caduti gli anticorpi che consentono alla gestione politica dell’emergenza di ritradursi da spazi negati a diritti esercitabili alla fine dell’emergenza medesima.

Ci siamo spesso chiesti cosa abbia determinato questa caduta di pudore in capo al potere e ci siamo dati risposte diversissime, ma, come si proverà a dire, con un punto in comune. La politologia, che per un certo tratto osservò il fenomeno in modo acriticamente positivo, ha giustificato l’involuzione col ritorno nell’agone dei politici carismatici e della politica personalistica: slegata dalla costruzione semantico-politica e dogmatica del partito, desiderosa di ottenere il suo consenso da una pretesa di interlocuzione diretta col corpo elettorale. Studi più risalenti, di orientamento marxista o libertario, fotografando la crisi dei movimenti di contestazione sin dalla fine degli anni Settanta, hanno ricondotto il cambio di passo verso il baratro al paradigma di governo neoliberale e neoimperiale. La critica socialdemocratica (ben rappresentata da Crouch) ha espresso graficamente l’idea con l’accezione di post-democrazia: arretramento dallo Stato sociale di diritto che è sin qui a un punto di caduta più elevato dello Stato liberale ottocentesco, ma in assenza di un trend espansivo di partecipazione politica. Parte della dottrina di orientamento confessionale, certo con più genuinità dei corifei che si sono detti pronti a innalzare agli altari qualunque vertice ecclesiastico con giravolte dimentiche dell’analisi normativa dei provvedimenti, ha addebitato la disgregazione sociale all’eclissi dell’ortoprassi religiosa. Forse però il male, antico esattamente come l’epidemia secondo Badiou, è partito da ancora più lontano: da quando le costruzioni di alternativa sociale hanno smesso di occuparsi di un interesse collettivo e hanno rivendicato spazi mano a mano più piccoli di libertà di manovra. Non che sia stato sempre cristallino l’appellarsi a una classe, a una collettività o a un bene comune, ma non possono costituire battaglie civili di trasformazione reale dell’esistente i conflitti tra chi in quarantena vuole fare jogging e chi no, chi vuol fare la spesa e chi vuol chiudere, persino chi vuol lavorare con la mascherina o chi non vuol lavorare. Il potere ha perso pudore nell’attimo in cui si è smesso di criticare la sua fondazione e ci si è appuntati su inesistenti negoziati correttivi e minimali. Eppure, ammonisce qualcuno, non c’è Giudeo né Greco; non c’è schiavo né libero; non c’è maschio e femmina, perché tutti voi siete uno