In mezzo al guado: socialismo o barbarie

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di Vittorio Giacopini

1)  In filosofia, e in politica, c’è questo vecchio problema –  il “cominciamento” – ma, a volte, conviene andare per le spicce e farla corta. Come avrebbe detto il Coniglio bianco ad Alice, “se non sai dove cominciare, inizia dal principio, che non sbagli”. Nancy Fraser parte da un haiku di sfida – “socialism is back” – e qui, e da subito, mi sembra che abbia ragione e torto: mixed feelings (l’aggiunta: ma il nodo vero è capire cosa intendiamo o cosa dovrebbe significare oggi socialismo è naturalmente il problema cruciale del saggio, e del presente).  In via preliminare, partirei dal rovescio, storicamente. La ritornata dicibilità della parola socialismo nell’ordine del discorso politico attuale è il sottoprodotto di uno shock culturale che forse abbiamo sottostimato. Da una ventina d’anni a questa parte, più o meno (dai tempi di Seattle o di Genova, per capirci) è caduto un interdetto mentale decisivo. Dopo la stagione di Reagan e Thatcher e Bush siamo tornati a parlare, più che di socialismo, di capitalismo e quello che sembrava l’unico orizzonte possibile è letteralmente saltato, imploso, esploso (intendo come grande quadro o ricatto mentale, ipnosi mistica: nei fatti i padroni sono ancora e sempre loro, l’1%). La Grande Crisi Economica Mondiale del 2008 ha aperto gli occhi persino ai gattini ciechi della globalizzazione trionfante postmoderna: il capitalismo – adesso lo vediamo – non è l’unico scenario possibile, né auspicabile per la vita dell’uomo sul pianeta terra (e pure per il pianeta terra stesso, ca va sans dire) e conviene (non è solo bello e idealistico e poetico, ma… conviene) trovargli un’alternativa, e rapidamente. All’orizzonte altrimenti ci saranno soltanto crisi e ancora crisi e disastri, devastazioni, irrazionalità dilagante, catastrofi di ogni tipo, pandemie (nei corpi e nelle menti), e morte e lutti. Con tutto il rispetto per Bernie Sanders o Alexandra Ocasio-Cortez “socialism is back” nel senso che un’alternativa al capitalismo tocca trovarla, e se vogliamo chiamarla ‘socialismo’ (o comunismo) va bene, però – adesso che siamo al guado – bisogna agire e pensare velocemente; adesso, subito.

2) Un “nuovo” (?) socialismo per il ventunesimo secolo dovrebbe “superare l’economicismo ristretto” della concezione attuale, argomenta Fraser, e il nodo teorico del saggio è tutto qui: le visioni attuali, i “received understandigs” di capitalismo e socialismo non sono abbastanza comprensivi, e portano fuori strada, anzi…. ci bloccano. Fraser è troppo intelligente per perdersi in futili discussioni ‘nominalistiche’. Il problema è che se lotti contro il nemico sbagliato…. non stai lottando. Potremmo riformulare la questione e metterla così, molto alla buona: ripensare socialismo e capitalismo ha senso per ridefinire l’autentico terreno di tensione, la costellazione del conflitto, l’orizzonte, lo scenario più ampio dello scontro. Per citare Houellebecq, il nodo è “l’estensione del dominio della lotta”.

Ovviamente è il caso di capire a chi si rivolga questo appello a ripensare socialismo e capitalismo, per riprendere a lottare, e cambiare il mondo. Per quanto possa non essere evidentissimo, Fraser non ce l’ha con immaginari marxisti o socialisti d’antan ancora legati a un passato esaurito, roso dal tempo. Ammesso che un marxista, o un socialista ‘puro’ (non certo Marx) abbia mai pensato che il socialismo avesse come obbiettivo soltanto “trasformare il regno della produzione”, la disperata questione ‘politico-culturale’ che assilla Nancy Fraser (e tutti noi) è proprio opposta e diversa, e costernante. Le vecchie querelles interne all’infinita galassia della sinistra hanno fatto il loro tempo, lo sa bene. Finito il secolo breve, crollato il muro, dato per morto e sepolto il ‘comunismo’ (e il marxismo duro puro, per così dire) non è che abbia trionfato la socialdemocrazia, anzi il contrario. L’avversario dialettico di Nancy Fraser (questo rende il suo scritto interessante) non sono antichi spettri ma la sinistra così come è diventata: per dirla semplicemente: una non-sinistra. Il nodo – lo dice in un altro saggio uscito tre anni fa su “Dissent” [ref] https://www.dissentmagazine.org/online_articles/progressive-neoliberalism-reactionary-populism-nancy-fraser [/ref] – è il “neoliberismo progressista”, un sottoprodotto appunto del ‘crollo del muro’. Il male di oggi, anzi la paralisi di oggi, in sintesi, è frutto dei roaring anni novanta, e della… terza via di Clinton, Blair & co. “Nella sua forma statunitense il neoliberalismo progressista è un’alleanza tra le correnti dominanti dei nuovi movimenti sociali (femminismo, antirazzismo, multiculturalismo, diritti lgbt) da un  lato, e l’alto livello simbolico (Hollywood) unito ai servizi basati sul settore aziendale (Wall Street, Silicon Valley) del capitalismo cognitivo”.

L’accenno alle “forze progressiste” è decisivo proprio nel senso che se lotti contro il nemico sbagliato… non stai lottando. Vista dal lato del ‘negativo’ è semplicissimo: la sinistra riconciliata col capitalismo non è più sinistra perché – e di qui scaturisce il suo saggio, ho l’impressione – il capitalismo non è soltanto una struttura economica ma una forma di vita (angusta) e un orizzonte sociale (stretto e ingiusto).  Intanto, dice la Fraser, sgombriamo il campo dai receveid understandigs e guardiamo le cose in faccia come sono. Se  “capitalism is something more than an economy and socialism something more than and an alternative system” bisogna sconfessare la “nuova alleanza” dell’altro ieri e stringerne un’altra tutta diversa più irriverente e ambiziosa, radicale. Per dirla col gergo (ancora affasciante) della “nuova sinistra” degli anni Sessanta dovremmo muovere da qui: il capitalismo è una forma di Dominio e oppressione inaccettabile e un Sistema soffocante che ci lascia crescere, invecchiare e morire nell’assurdo (Growing up in Absurd era il titolo originale de La gioventù assurda di Paul Goodman). Per fortuna (o disgrazia) non è una predica per anime belle: quel sistema – tra Grande Crisi Economica Mondiale e Pandemia – si sta rivelando anche…. un fallimento da cui conviene prendere le distanze tutti, per vivere o sopravvivere (staremo a vedere).

3) – Ognuno ha le ferite e i fantasmi che si merita e questa impasse in cui siamo intrappolati è storia nostra. Bisognerebbe sempre chiedersi che cosa è andato storto, come diamine siamo riusciti a costruirci la trappola in cui (ci) siamo ingabbiati. L’ambigua alleanza tra la sinistra neoliberista progressista e il moloch del capitalismo cognitivo è nata, immagino, da una resa mentale abbastanza sconcertante, e da una pigrizia. Caduto il muro, tacitamente si è dato per scontato che non ci fosse avvenire o alternativa al Capitale e al mercato [ref] Certo molto ha potuto anche il senso di colpa per l’esperienza storica del ‘comunismo’. Su questo la leggerezza con cui Fraser evoca e subito liquida il problema è sconcertante. Lo osserva Reale nel suo intervento: “consegnare l’evento del comunismo sovietico alla categoria del puro errore, fino a gioire del suo annunciato e manifesto fallimento… ha costituito un trauma da cui il socialismo occidentale deve ancora riprendersi”. [/ref]. Osare pensare a un altro mondo possibile, ancora sino al 2001, era ciarla, follia, castello in aria. In buona fede, il neo-liberista progressista ha dato quest’orizzonte per scontato, inevitabile, obbligato, insomma per reale-razionale (il lupo cambia il pelo, mica la pelle: è il vecchio storicismo che l’ha fregato). Poi a modo suo, si è messo in cerca del Sacro Graal: la “terza via”. La storia gli ha dato torto, non certo la morale o l’utopia. Vent’anni dopo, la Grande Crisi Economica Mondiale ha cambiato di botto le carte in tavola, (e quanto alla politica, è iniziata la stagione di Trump, dei populismi, come dire: benvenuti nel regno del tremendo, potentissimo, terribile – e risibile – Mago di Oz!).

Ferite e fantasmi, dunque, e atti mancati. Nel suo saggio su “Dissent”, Fraser enuclea l’origine del problema lucidamente: all’origine del pasticcio c’è davvero la fine della… “nuova sinistra”. La mutazione della sinistra in neoliberismo progressista è iniziata negli anni Settanta (sono gli anni in cui Cristopher Lasch scrive La cultura del narcisismo e individua una svolta radicale, un punto a capo). Conviene citarla per esteso, è un passaggio chiave. Fraser parla naturalmente degli Usa ma vale per tutti:

“Mentre la manifattura e la tutela sociale venivano erose, il paese ronzava di parole come diversità emancipazione e inclusione. Identificando il progresso con la meritocrazia invece che con l’uguaglianza, questi termini hanno equiparato l’emancipazione con il carrierismo di una piccola avanguardia di donne talentuose, di minoranze, di omosessuali, favorendo invece di abolirla una gerarchizzazione aziendale dove chi vince domina. Queste concezioni liberali e individualistiche del progresso hanno sostituito gradualmente quelle più profonde, anti-gerarchiche, egualitarie, classiste e anticapitaliste fiorite negli anni Sessanta e Settanta. Con il tramonto della Nuova Sinistra si è spenta la sua fondamentale critica della società capitalistica e si è riaffermata la tipica mentalità americana liberale e individualista… quel che ha sigillato l’affare, però, è stata la coincidenza di questo processo con l’ascesa del neoliberismo”.

Da figlio (anche) della Nuova Sinistra, mi ci ritrovo. Non è questione di nostalgia ma di critica della politica, e della cultura. Con quel “tramonto in buona sostanza è come se si sia interrotto il delicatissimo work in progress di riconciliazione (e rimescolamento) tra le varie ‘voci’ e forze e sensibilità e accenti della Sinistra (marxista, socialista, anarchico-libertaria, cristiano-cattolica) che solo avrebbe potuto portare alla costruzione di quello che Marshall Berman definiva un “vocabolario modernista d’opposizione”. Perché, in fondo, cosa aveva di buono la Nuova Sinistra? Esattamente un’intuizione che oggi sta al cuore del saggio di Nancy Fraser sul socialismo: l’idea che il capitalismo non è soltanto “un’economia” ma una forma di società, e una forma di vita [ref] E una società, e una forma di vita che hanno un problema irrisolto col ‘moderno: se il cuore di tenebra del capitalismo-società è il dominio, il suo arcano inconfessabile è un’idea di Potere antica e spenta. La dialettica Servo-Signore resta inflessibile. [/ref]. Tocca tornare alla critica del presente, e del capitale (sapendo, diceva Marx, che la critica “non è una passione del cervello ma il cervello della passione, non è un coltello anatomico ma un’arma”). Fuori dai “receveid understandigs” è più che lampante: il nodo è quello del Dominio che si fa Sistema, o in altri termini (quelli di Fraser) il problema è il capitalismo come “institutionalizated social order”.

Che al centro di questo ordine ci siano il denaro, il feticcio della Merce, la produzione (di merci peraltro sempre più immateriali) è innegabile, ma attorno, e sotto, e sopra e ovunque, la presa proteiforme del capitale è pervasiva. È un problema di Potere (e di influenza indebita su altre sfere della vita umana e non umana su questa terra). Sfruttamento e alienazione si sovrappongono: l’uomo – ironizzava il Marx del Manoscritti – “torna ad abitare caverne, ma lo fa in una forma estraniata e ostile”. Eccoci, allora: bentornati nelle caverne! Oltre il regno della produzione c’è l’intero orizzonte della riproduzione sociale, in pratica…. Tutto: stili di vita e consumo, beni comuni, meccanismi di oppressione razziale, sessuale, postcoloniale, trappole dell’immaginario, sfruttamento della natura. E il guaio, è che il capitalismo è Proteo e Medusa insieme, un mostro strano: muta, cambia volti e aspetti, si rinnova (lo shakesperiano “tutto ciò che è solido si rinnova nell’aria sottile” evocato da Marx è l’elemento ipermodernista e magnifico del capitale) e insieme fissa, raggela, blocca.. e si assesta in dominio, ‘forma di vita’.

Non so se quando accusa il “traditional marxism” di non cogliere questo ampio scenario Fraser se la prenda con un avversario reale ma tutto sommato non conta, è trascurabile. Davanti allo Spettacolo (nei termini di Debord) del capitalismo-società è ovvio che un “new socialism” per il XXI Secolo debba necessariamente osare l’impossibile e ambire, non può fare altrimenti, a.. cambiare tutto:

socialism must do more than transform the realm of production, it must also trasnform production’s relation to its background of possibility-namely, social reproduction, state power, non-human nature, and forms of wealth that lie outside capital’s official circuits, but whitin is reach….

Più facile a dirsi che a farsi ma: ineccepibile. È il vecchio “sogno di una cosa” che continuiamo a sognare e – maledizione, va detto – resta un sogno: “al posto della vecchia società borghese con le sue classi e i suoi antagonismi di classe, compare un’associazione in cui il libero sviluppo di ciascuno è la condizione del libero sviluppo di tutti”.

4) – Socialism is back, dunque? Se ne può discutere. Senz’altro ‘dovrebbe’ tornare, sarebbe il caso. Concretamente: è un’esigenza, certo, e – allo stato degli atti – una mancanza. Dato che vivere è sempre dimenarsi in un gioco di specchi bisognerebbe ammettere che per adesso quell’ “is back” è prematuro. Che, tra Grande Crisi Economica Mondiale e Pandemia, il capitale-società abbia mostrato la corda è abbastanza ovvio; che tutto ciò porti automaticamente al socialismo o, come ha sentenziato Zizeck, a un “nuovo comunismo”, bè, è un’altra storia.  Negli ultimi dieci, quindici anni abbiamo attraversato due crisi di enorme portata ma il “crollo” del Sistema resta un pio desiderio, e una chimera. Quel che manca alla sinistra (oltre al fatto che manca una sinistra, tragicamente) è una capacità di “immaginazione sociologica” capace di cogliere le sfide ambigue e abissali del presente. Nei “Passages” Benjamin presenta le sue argomentazioni come “esperimenti di tecnica del risveglio” e probabilmente, dovremmo tentare qualcosa di simile, per cominciare.  Il “capitalismo cognitivo” basato sulll’informatica e l’high tech sta ancora una volta provando a incantarci, e a addormentarci [ref] A essere onesti sino in fondo andrebbe detto che proprio il ‘capitalismo cognitivo’ è anche figlio a suo modo della nuova sinistra, e del suo “tramonto”. Basti pensare alla parabola camaleontica e ambigua di Steve Jobs. L’incantesimo di Jobs (l’incantesimo che Jobs ha incarnato) sta nella miracolosa scomparsa del carattere di merce dei gadget informatici che vengono percepiti e vissuti come protesi (persino intelligenti) di una soggettività mutante o già mutata. La mistica della rete ci ha fatto dimenticare la fantasmagoria del ‘feticismo delle merci’ e la retorica dell’immateriale è riuscita di fatto a ipnotizzarci. [/ref].

Prendiamo il caso della pandemia. In modo anche desolante, la risposta reattiva è stata quella del capitale, che cambia anche questa volta forme e volto e resta sé stesso. La scena di questi mesi è raggelante: incredibilmente, per quanto un po’ tutti si siano trincerati dietro lo slogan esorcismo “il virus ci ha volti impreparati”, la realtà è che ancora una volta per il capitale questa è stata un’occasione preziosa, e un grande pretesto (mentre di socialista …. non s’è visto granché, tutto sommato, ma l’eccezione portoghese dovrebbe farci riflettere parecchio).

Mettiamo da parte il cielo delle idee, guardiamo il mondo. La lezione di questi ultimi mesi dice molto sulle capacità del capitalismo-società di reinventarsi. Lo choc pandemia è diventato l’occasione imperdibile di un esperimento politico e sociale su vasta scala che ha messo alla prova l’enorme dispositivo del tecno-capitalismo digitale. Non è questione di cospirazione o complotto ma semplicemente di “logica”, e di mercato. Dopo un primo istante di futili esorcismi vecchia maniera (fermare i voli, blindare o chiudere porti e frontiere) persino i nostri non brillantissimi politici si sono sintonizzati su altre frequenze. La merce-magia, l’intero apparato del capitalismo digitale inteso come modo di produzione, assetti di proprietà, big data, “sciame” virtuale, piattaforme digitali, social network, riti e forme di consumo, ha preso il posto della vita sospesa. Improvvisamente, la fantasmagoria tech-futurista si è fatta presente: il lavoro trasformato in smart-working, blindati a casa [ref] L’ineguaglianza feroce con cui si sono mandati allo sbaraglio infermieri, rider, operai, fattorini è stata data per scontata: già ‘democratizzare’ il lavoro sarebbe una bella impresa….socialista. su questo si veda l’appello democratizing work (https://ilmanifesto.it/democratizing-work-tre-proposte-per-il-lavoro/ ) e l’intervista sul tema di Giorgio Fazio e Rahel Jaeggy sul manifesto del 23 aprile. [/ref], l’intero comparto formativo traslocato con maggior o minor fortuna online, e a tempo indefinito; gli stessi trasporti pubblici svuotati; le città metafisicizzate, rese spettrali: e tutto funziona lo stesso, più o meno, tutto va avanti (mega-recessione a parte, ma questa mega-recessione era nell’aria: la guerra dei dazi cinese-americana si stava spostando da noi, con evidenza).

Chi ha colto nelle resistenze del governo al ‘riapriamo tutto subito’ della Confindustria una risposta d’orgoglio della Politica all’economia [ref] Qui si aprirebbe il tema della politica, della democrazia e… dell’egemonia. Ma su questo rinvio agli spunti proposti da Reale nel suo intervento. [/ref], ha guardato con ottimismo un po’ ottuso al dito, e ha perso la luna: da troppo tempo il Capitale vero ha lasciato le fabbriche (e persino la finanza se vogliamo) per trasferirsi nel regno delle big Company dell’Intelligenza Artificiale e delle telecomunicazioni, nascosto e ben protetto nelle profondità della giungla di silicio dei big-data. Prima ancora di chiederci quanto questa emergenza possa contribuire a rafforzare gli assetti di controllo e sorveglianza sulle nostre vite, dovremmo capire che la crisi pandemica ha rappresentato per il (tardo? Neo?) capitalismo cognitivo-digitale l’occasione di un Grande Collaudo di assetti, risorse, possibilità, strumenti, dispositivi che erano lì già predisposti, su mille piani, e andavano appunto soltanto messi alla prova, tarati meglio. L’anello di saldatura tra l’emergenza Lockdown e l’imperscrutabile ‘fase due’ sta precisamente in questa logica di soluzionismo (il termine è di Morozov) hig-tech all’emergenza (che in Italia si sia scelto l’ex manager della Vodafone per gestire il passaggio è sintomatico): bisogna immaginare un futuro rarefatto, basato sul distanziamento sociale, e sul digitale. Se sino all’altro ieri il discorso para-utopico era come democraticizzare le piattaforme digitali e come difendere la privacy dai big-data evitando orwelliane sorveglianze fuori misura, oggi la linea del fronte sembra mutata. La minaccia di ieri – lo stato di sorveglianza – diventa la rassicurante promessa di un futuro al sicuro, senza contagio. E’ come se si fosse tornati all’attimo fondativo di costruzione del contratto sociale originario: l’ordine del discorso dominante spaccia la pandemia per lo ‘state of nature’ hobbesiano e allora il grande Leviatano 2.0 nasce ancora una volta da uno scambio assoluto di libertà per sicurezza (gli stessi big data e le app che solo ieri erano un’avvisaglia paurosa di controllo diventano i nostri scudi di Thor, un manto accudente). In vista della fase tre, in vista di quella che tutti i politici chiamano adesso con un tremendo eufemismo la nostra “nuova normalità”, la logica di questo momento interlocutorio di Grande Collaudo sembra chiarissima: le tecnologie digitali sono la sola e unica risposta-soluzione alla crisi e in nome di sicurezza e sanità a loro è data la possibilità di sconvolgere, distruggere, rifare e rivoluzionare ogni cosa e ogni aspetto della nostra vita, eccetto…una: il Mercato, naturalmente.

La pandemia poteva essere l’occasione per una “crisi di sistema” e si è risolta in una reinvenzione (provvisoria) del capitalismo-società. Mario Reale cita giustamente la vecchia alternativa “Socialisme ou Barbarie” e il nodo è questo. Però siamo in mezzo al guado, e tutto è incerto. La storia “non ha libretto”, diceva Herzen. A conti fatti, per quanto resti un’esigenza (e un dovere), socialism… non è ancora back.