Ivan Illich, “Descolarizzare la società”

 di Denisa Cojocariu

Il concetto di “descolarizzazione” è stato introdotto nella letteratura socio-pedagogica da Everett Reimer, teorico dell’educazione e autore di testi fondamentali quale School is dead: Alternatives in education. Esso raggiunge un’ampia notorietà grazie al saggio Descolarizzare la società del filosofo e pedagogista austriaco Ivan Illich, che propone una soluzione educativa alternativa alla scuola pubblica obbligatoria, avendo constatato che, per la maggior parte delle persone, l’obbligo di frequenza scolastica si configurasse come un effettivo impedimento al diritto di apprendere. Nel saggio, l’autore critica aspramente la scolarizzazione tradizionale, ritenendo necessaria una revisione del sistema d’istruzione statale e l’abolizione dalla società di quella che definisce “educazione formale”.

Nel contesto italiano, si suole associare la teoria della descolarizzazione ai movimenti anarchici e,

in generale, non ha trovato riscontro positivo all’interno dell’ambito accademico (a partire dagli

anni ottanta non è riportata nei testi universitari) e diffusione nella pedagogia “ufficiale”, in quanto

il concetto di obbligo dell’educazione ha perso la valenza del passato e all’esercizio del potere

delle autorità statali nei confronti dei cittadini.

Punto degno di attenzione degli studiosi di tale fenomeno, è la necessità di un’azione politica volta a liberare la cultura dal controllo di persone qualificate.

Le premesse per una reale alternativa ad una società organizzata attraverso la scuola sono, la mancanza di certificazione e di riconoscimento di ruoli fissi, né, tantomeno, corsie preferenziali per l’assunzione di un determinato ruolo lavorativo in base al titolo di studio. E’ necessario promuovere interventi, che mirino a rimuovere gli ostacoli strutturali presenti all’interno del sistema scolastico fortemente rigido e obsoleto, caratterizzato da modelli e metodi di insegnamento trasmissivi, analitici per attuare una rivoluzione non solo dei metodi, ma degli elementi temporali e spaziali in cui essa avviene.

 “Nessuno educa nessuno, e neppure sé stesso. Gli uomini si educano tra loro”.

Naturalmente non si tratta di fare a meno dell’educazione tout court, avendo ogni individuo il bisogno di circondarsi di figure di riferimento idonee a fornirgli gli strumenti utili per rispondere con determinati comportamenti – fisici, affettivi o psicologici – a contesti e stimoli precisi.

E non si tratta nemmeno di svalutare il ruolo fondamentale che la scuola pubblica, aperta e accessibile a tutti i giovani cittadini, svolge da decenni nelle moderne società – sicuramente in quelle “occidentali” – garantendo un’istruzione e una mobilità sociale impensabili in altre epoche e soprattutto quello che potremmo definire un vero e proprio “diritto alla fanciullezza” di cui sono ancora privati miliardi di bambini, costretti a duri lavori, se  non condannati a prendere in mano armi  mettendo a  rischio la propria vita quotidianamente.

Illich identifica la fanciullezza come un momento che si differenzia dall’infanzia, dall’adolescenza e dalla gioventù, sconosciuta fino all’avvento del ceto borghese. Se tale concetto ancora oggi sopravvive è grazie alle istituzioni didattiche che operano distinzioni e appartenenze legate alla variabile dell’età.

Superare la visione della scuola come istituzione potrebbe rappresentare un valido tentativo per porre fine alle discriminazioni attuali tra categorie differenti ad esempio, i bambini sui giovani, e i giovani sugli anziani, (fenomeno dell’ageismo).

Fino al secolo scorso, era ben noto, che i bambini appartenenti al ceto della borghesia e alle famiglie benestanti si formavano in casa con precettori o in scuole private mentre il resto dei giovanissimi più disagiati erano destinati, per lo più, a svolgere lo stesso lavoro e le stesse mansioni dei genitori, acquisendone spesso gli stessi atteggiamenti, sia a livello verbale che fisico.

Sono queste le motivazioni che devono indurci a definire e a contestualizzare in maniera più esaustiva il concetto della “descolarizzazione”.

La descolarizzazione è insita in quello che Illich definisce il programma occulto della scuola, che assurge a vero e proprio rituale e al cui destino gli insegnanti non sono in grado di proteggere tutti i bambini, che consiste nel rifiutare qualunque tipo di sapere alternativo.

La maggior parte della popolazione mondiale, non vuole o non è in grado di assicurare ai propri figli il moderno diritto alla fanciullezza, ma al tempo stesso per quei bambini che godono di tale privilegio sembra essere un peso.

‹‹Crescere nella condizione di bambino significa essere condannati a un conflitto disumano tra la propria coscienza di sé e il ruolo imposto da una società che sta attraversando la propria età scolare››.

La tesi sostenuta da Illich è che la scuola, in modo preminente quella professionale, si configura come strumento a servizio del mercato, che miri a formare individui che siano idonei alla produzione industriale.

In quanto istituzione che ha particolarmente compiti di selezione sociale e di custodia, finisce con l’essere essenzialmente antieducativa e produce una serie di mali quali la competizione, l’indottrinamento, il rispetto delle appartenenze e dei rituali.

La concezione che Illich ha della scuola è di tipo capitalista.

La scuola in quanto istituzione totalizzante e autoritaria è figlia del capitalismo.

Il modello a cui Illich fa chiaro riferimento è quello monopolistico.

I titoli di studio, divengono panieri di beni, merci, destinati non a tutti ma solo a quelli che hanno risorse economiche sufficienti per poter accedere al mercato.

‹‹La scuola s’appropria del denaro, degli uomini e delle energie disponibili per l’istruzione e cerca nello stesso tempo di impedire che altre istituzioni si assumano compiti didattici. Il lavoro, il tempo libero, la politica, la vita cittadina e persino la vita familiare dipendono dalla scuola per le abitudini e le conoscenze che presuppongono, anziché diventare essi stessi veicoli d’insegnamento.››

Questo è quanto sostiene Illich ovvero si assiste ad una domanda sempre più crescente, che l’offerta non riesce però a soddisfare.

Il diritto all’istruzione inteso come assicurazione a tutti del massimo livello possibile e non come raggiungimento di livelli minimi, non è economicamente attuabile.

Illich non condivide l’assunto che l’unico sapere possibile e riconosciuto sia quello scolastico. Numerose sono le conoscenze che si acquisiscono fuori dalla scuola ed esercitando direttamente sul campo.

Il solo sapere scolastico per Illich equivale ad un credo religioso ed universale a cui ricorrono e implorano i figli dell’era digitale.

La visione di Illich è più che attuale.

Ad essere scolarizzata, oggi non è soltanto l’istruzione, ma l’intera realtà sociale.

Questa è la causa che induce Illich a pensare ad una sostituzione del sistema scolastico con una rete di risorse e di personale educativo, all’interno della quale gli individui possano rivolgersi liberamente in virtù dei propri bisogni e interessi.

L’utopia di Illich è la costruzione di una scuola conviviale.

Illich non attribuisce alla scuola la funzione primaria di agenzia educativa, ma le riconosce la sua funzione pubblicitaria, attuata con un vero e proprio spot, dalle stesse caratteristiche di quelli che subiamo e che trasmettono alla velocità della luce sui più moderni schermi tv.

Si crea così una etnofinzione, tipica dei romanzi, in cui si verifica un livellamento di persone e personaggi, e i confini tra il reale e il surreale si sbiadiscono sempre di più.

In questo saggio, l’autore non fa intendere chiaramente quale sia la società destinataria di questo messaggio, probabilmente consapevole che non esista un tipo di società che possa definirsi ideale, piuttosto riprende il pensiero weberiano, si potrebbe parlare di un ideal tipo.

Illich non vuol essere il padre fondatore di una teoria, bensì aspira al risveglio delle coscienze per trasformare un’utopia in una possibile probabilità.

La notorietà di Ivan Illich giunge piuttosto tardi, in quanto l’importanza e l’attualità dei temi trattati non hanno trovato nell’immediato un favorevole e positivo riscontro.

2 commenti
  1. Giovanni Porzio
    Giovanni Porzio dice:

    A giudicare da questo articolo, Illich sembra partire da un’ utopia (nel senso proprio di ‘non luogo’) e approdare a un’altra: dove sarebbe, nella nostra società, il ‘monopolio educativo della scuola’? E se questo non c’è più da tempo (ammesso poi che sia mai esistito) dovremmo sostituire o, addirittura, superare la frammentazione dell’educazione … frammentandola ancora di più? Perché non parlare, piuttosto, di una scuola forte, con ampi e sistematici investimenti da parte dello Stato, un’offerta ampia di indirizzi, che non potrà correre dietro alle oscillazioni del mercato, ma offrire sempre, il più possibile, quantomeno una solida ‘preparazione di base’; con una selezione degli insegnanti che non debba servire da ‘ammortizzatore sociale’ (oggi nella scuola italiana entra ed esce chiunque, spesso senza alcun titolo per ciò che è chiamato ad insegnare e solo per coprire buchi)? E cosa dovremmo inventarci come ‘solida base’ se non prima di tutto competenze grammaticali e sintattiche, a cominciare dalla propria lingua madre, e matematico – scientifiche? E chi dovrebbe insegnarle queste cose, se non personale qualificato, a scuola o altrove?

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