Luis Sepùlveda, “Il vecchio che leggeva romanzi d’amore” (Guanda, 2001)

“…dimenticare la barbarie umana”. Un omaggio a Luis Sepùlveda

di Francesco Sirleto

 

Il vecchio che leggeva romanzi d’amore, un omaggio di Luis Sepúlveda all’Amazzonia minacciata di estinzione da bande di assassini armati, «pagati da criminali ancora peggiori, che hanno abiti ben tagliati, unghie curate e dicono di agire in nome del progresso». Una grande epopea che vede come protagonisti un uomo che rispetta la natura e che ama i romanzi sentimentali, una belva sofferente e vendicativa, l’immensa verde e liquida foresta equatoriale.

“All’imbrunire, l’acqua trasparente offre un bellissimo spettacolo. Pesci di tutti i colori si avvicinavano alla zattera. Enormi pesci gialli e verdi, pesci a strisce azzurre e rosse, rotondi, piccolissimi, accompagnavano la zattera fino al calar della notte. A volte si vedeva un lampo metallico, un fiotto di acqua sanguinolenta cadeva dentro la zattera e i pezzi di un pesce squarciato dal pescecane galleggiavano per un secondo vicino alla zattera. Allora un’incalcolabile quantità di pesci minori si precipitavano sui resti” (G. Garcia Marquez, Racconto di un naufrago)”.

Le ultime parole del romanzo Il vecchio che leggeva romanzi d’amore, scritto da Luis Sepúlveda durante l’esilio seguito al colpo di stato in Cile del 1973, racchiudono, nella loro amara essenzialità, il senso dell’esistenza di Antonio José Bolìvar, e in particolare del suo rapporto con la natura e con gli uomini: «[…] senza smettere di maledire il gringo primo artefice della tragedia, il sindaco, i cercatori d’oro, tutti coloro che corrompevano la verginità della sua Amazzonia, tagliò con un colpo di machete un ramo robusto, e appoggiandovisi si avviò verso El Idilio, verso la sua capanna, e verso i suoi romanzi, che parlavano d’amore con parole così belle che a volte gli facevano dimenticare la barbarie umana».
L’anziano solitario abitatore dell’altrettanto solitaria capanna, situata nello sperduto avamposto (ironicamente denominato “L’Idillio”) nell’impenetrabile foresta equatoriale alimentata dal grande fiume, ha appena vissuto – ci sembra di capire – una dolorosa tragedia. Dopo un’epica caccia, nella quale è impossibile distinguere il cacciatore dalla preda, Antonio José Bolìvar ha ucciso il tigrillo, il felino che per giorni si è aggirato nei pressi dei pochi e isolati villaggi che sorgono sulle rive del fiume, seminando morte e incutendo il terrore. Tra le vittime delle sue incursioni vi erano i gringos, uomini venuti da lontano a sterminare gli animali della foresta per semplice divertimento, e i rapaci cercatori d’oro che, anno dopo anno, andavano distruggendo l’ultima area incontaminata rimasta sulla faccia della terra. Il vecchio ha imparato, durante l’inseguimento, a conoscere l’animale, a prevedere i suoi spostamenti e le sue mosse, sa che il tigrillo (una femmina) è accecato dal dolore per l’inutile sterminio dei suoi cuccioli, sa anche che il maschio giace ferito da qualche parte, nascosto nel fitto fogliame. Il vecchio ha vissuto sempre nella foresta, a contatto con gli animali e con gli ultimi indigeni dell’Amazzonia, sopravvissuti a secoli di massacri perpetrati dall’uomo bianco. Sa quindi come riconoscere e distinguere le innumerevoli voci e i suoni delle creature che popolano la sterminata, intricata e verde regione che dal grande fiume riceve il suo quotidiano nutrimento. Egli non odia la bestia, e questa non odia lui. Essa, dopo essersi vendicata dell’uccisore dei suoi cuccioli e dei suoi complici, vuole soltanto attirare il vecchio verso il luogo dove giace nascosto il suo compagno ferito e morente: la bestia esige che Antonio José ponga termine alle sofferenze del maschio e, poi, che le consenta di finire i suoi giorni. Tra i due, quasi antagonisti della stessa tragedia, si svolge un dialogo, privo di parole, sul tema universale e atemporale della vita e della morte, sulla malvagità degli uomini e sulla loro tracotanza nei confronti della natura e dei loro simili, sulla loro inestinguibile sete di dominio. Dopo che il vecchio, mosso da compassione, ha posto termine alle sofferenze del maschio ferito, deve a malincuore completare la sua involontaria missione. Sono inutili i suoi tentativi di ritrarsi: la femmina del tigrillo lo tallona assumendo le innumerevoli forme della foresta: «Davanti a lui qualcosa si muoveva nell’aria, tra il fogliame, sulla superficie tranquilla dell’acqua, sul fondo stesso del fiume. Qualcosa che sembrava avere tutte le forme, e allo stesso tempo nutrirsi di tutte. Cambiava incessantemente, senza lasciare che gli occhi allucinati vi si abituassero […]».
C’è qualcosa di epico in questa lotta, qualcosa che riproduce analoghi combattimenti di altri grandi romanzi della letteratura moderna, quali ad esempio Moby Dick di Hermann Melville e Il vecchio e il mare di Ernst Hemingway. C’è anche, tuttavia, un aspetto che nelle citate fonti non poteva ancora emergere: il senso dell’inesorabile e sciagurata distruzione della natura, operata con insensatezza e protervia, frutto di quella logica di dominio manifestatasi nell’incredibile progresso scientifico e tecnologico ma che, tuttavia, sta conducendo l’uomo contemporaneo a dilapidare tutte le risorse del pianeta. Ci sono soltanto due modi – e in ciò sembra consistere il messaggio contenuto nel titolo del libro di Sepúlveda – per uscirne o, per lo meno, per tentare di ridurre il ritmo di questa folle corsa verso l’autodistruzione: la cultura e l’amore o, se preferite, la cultura dell’amore o, ancora, l’amore per la cultura e per tutte quelle cose che, per la loro bellezza, a volte riescono a far «dimenticare la barbarie umana».

 

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