Lukács fra arte e vita

di Lelio La Porta

La vita di György Lukács (1885-1971), turbolenta e tempestosa, è stata una di quelle vite che hanno costretto il pensiero a sottomettersi quasi totalmente alle stesse svolte imposte dall’esistenza storica.

Nato da una ricca famiglia ebrea, laureatosi a Budapest nel 1906, Lukács approfondisce gli studi filosofici a Berlino e Heidelberg dove subisce l’influenza del neocriticismo e dello storicismo tedesco e stringe amicizia con Ernst Bloch. La sua prima raccolta di saggi in tedesco (L’anima e le forme) apparve nel 1911 e, in seguito, un libro sull’estetica (non portato a termine) e uno su Dostoevskij (non pubblicato di cui rimangono gli appunti). Fra il 1914 e il 1915 scrive Teoria del romanzo. Lo scoppio della Prima Guerra Mondiale conduce Lukács a quella che sarà la scelta fondamentale della sua vita: l’adesione al marxismo e l’iscrizione al Partito Comunista Ungherese.

Nel 1919, nella breve esperienza della Repubblica ungherese dei Consigli, fu commissario del popolo all’istruzione e commissario politico della quinta divisione. Conclusasi l’esperienza consiliare, dovette fuggire a Vienna. Vive fra Vienna e Berlino e produce, fra gli altri, una serie di saggi che, rielaborata, comparirà in volume nel 1923 con il titolo Storia e coscienza di classe. Nel 1928 le tesi politiche note come Tesi di Blum gli costarono l’accusa di deviazionismo di destra e l’espulsione dal Comitato Centrale del Partito Comunista Ungherese. All’avvento del nazismo al potere in Germania, si trasferisce a Mosca dove rimarrà fino alla fine della Seconda guerra mondiale studiando e ricercando presso l’Istituto Marx-Engels-Lenin. Finita la guerra, Lukács tornò in Ungheria e fu membro del Parlamento, della direzione dell’Accademia delle Scienze, professore di estetica e di filosofia della cultura all’Università di Budapest. Nel 1956 ritorna alla politica e viene eletto di nuovo nel Comitato centrale del Partito comunista ungherese. Durante gli eventi rivoluzionari di quell’anno in Ungheria è nominato ministro della Pubblica Istruzione del governo Nagy; deportato in Romania a seguito dell’intervento sovietico, rientra in Ungheria nell’aprile del 1957 ritirandosi definitivamente a vita privata, nonostante la riammissione nel partito nel 1967. Muore il 4 giugno del 1971.

Il breve schizzo biografico giustifica, da un lato, l’incipit e, dall’altro lato, pone all’attenzione il problema centrale del pensiero lukácsiano, continuamente messo in evidenza dallo stesso filosofo: lo stretto rapporto fra vita e pensiero, fra storia e teoresi. Rileggendo ora alcuni testi di Lukács raccolti in una silloge di suoi scritti di estetica (Arte e società, con un saggio introduttivo di Emiliano Alessandroni, PGreco, Milano, 2020, volume I, pp. LXXI-395; volume II, pp. 319), si ha la conferma di questo nesso inscindibile fra le forme acute (e critiche proprio nel senso che determinarono le scelte compiute dal pensatore) del tempo storico vissuto e l’elaborazione, nel caso specifico, estetica.

Scorrendo le pagine dei due volumi, infatti, si incontrano due testi nei quali la questione appena messa in evidenza risulta essere il cuore dello sviluppo del pensiero, non soltanto estetico, di Lukács. La Prefazione del 1967 (contemporanea a quella a Storia e coscienza di classe al punto che alcuni temi si sovrappongono e sembrano integrarsi) con cui si apre la raccolta è, di fatto, il racconto di un pensiero, qui quasi esclusivamente estetico, in continua elaborazione, in continua lotta con la storia, con le sue svolte, con i suoi snodi problematici. Infatti si nota, come lo stesso Lukács sottolinea, come ci sia un vuoto di 15 anni fra Teoria del romanzo (1914-1915) e Letteratura di tendenza o letteratura di partito? (1932). Scrive il filosofo: “La guerra e poi la rivoluzione russa e quella ungherese determinarono una svolta profonda nella mia concezione della società e nella mia ideologia, facendo di me un marxista”. Questa “svolta”, caratterizzata da un evidente accantonamento delle questioni estetiche, ebbe motivazioni di carattere etico-politico e fu contraddistinta dalla stesura di almeno tre opere, due delle quali sono state già richiamate: Tattica e etica (1919), Storia e coscienza di classe (1923), Tesi di Blum (1928). Poi ebbe inizio il periodo staliniano, ossia l’esperienza vissuta nell’URSS di Stalin (molto ci sarebbe da scrivere sul presunto “stalinismo” di Lukács).

Gli scritti raccolti nel secondo volume risalgono tutti agli anni Cinquanta e culminano con alcuni capitoli dell’Estetica (La peculiarità dell’estetico) introdotti da una Prefazione che è il secondo testo a cui si faceva riferimento qualche riga sopra. Qui Lukács è di una chiarezza solare facendo presente che la realizzazione della sua estetica, da lui coltivata fin da giovane, avviene negli anni Cinquanta “con contenuti del tutto nuovi, con metodi radicalmente opposti” a quelli seguiti in gioventù. Proprio nella grande Estetica degli anni Sessanta si delinea il programma di una fondazione filosofica dell’estetica, l’individuazione delle sue categorie specifiche, la delimitazione del suo ambito rispetto ad altri ambiti. Dal comportamento quotidiano dell’uomo derivano sia la scienza sia l’arte. Entrambe sono forme di rispecchiamento della realtà ma l’arte, intesa come mimesi, cioè imitazione, ha una funzione specifica, particolare: la sua rappresentazione della vita è antropocentrica, antropomorfa. Eppure arte e scienza hanno qualcosa in comune: si contrappongono alla religione che, guardando verso l’alto dei cieli, vuole custodire l’unicità umana.

La raccolta è introdotta da un saggio di Emiliano Alessandroni intitolato L’immaginazione artistico-letteraria tra dialettica e ideologia, ricco di riferimenti e rimandi che consentono di cogliere nella sua specificità la riflessione estetica di Lukács. Interessanti, e da riprendere ed approfondire, le analogie che Alessandroni coglie fra Lukács e Gramsci senza dimenticare che, secondo me, il primo affronta le questioni artistiche nell’ottica dello studioso di estetica prima, e dello studioso di estetica marxista poi, mentre il secondo le affronta dal punto di vista dell’intellettuale e del dirigente politico attento a cogliere il nesso storico della subordinazione dei governati ai governanti anche attraverso l’analisi della letteratura e dell’arte.

Come a volte accade, in cauda venenum: non sarebbe stato il caso di riportare il sottotitolo dell’antologia pubblicata per la prima volta in italiano nel 1972, cioè Scritti scelti di estetica? E non sarebbe stato anche il caso di ricordare le traduttrici e i traduttori dei saggi lukácsiani? Cesare Cases, Fausto Codino, Anna Marietti Solmi, Mazzino Montinari, Emilio Picco, Renato Solmi, Alberto Scarponi, Eraldo Arnaud, Carlo Benedetti, Sergio Bologna, Giovanni Piana, Francesco Saba Sardi.

Quasi nel tentativo di dare maggiore organicità al discorso su Lukács, si ricorda che le opere che maggiormente caratterizzano la fase produttiva lukácsiana del secondo dopoguerra sono, oltre l’Estetica, La distruzione della ragione e l’Ontologia dell’essere sociale [ref] Gli anni indicati in seguito si riferiscono alle edizioni italiane delle opere di Lukács: La distruzione della ragione, Einaudi, Torino, 1974; Ontologia dell’essere sociale, Editori Riuniti, Roma, 1978-1981.[/ref]. Il filosofo stava lavorando, negli ultimi anni, anche ad un’etica della quale sono rimasti degli appunti raccolti nel volume Versuche zu einer Ethik [ref] G. Lukács, Versuche zu einer Ethik, Akadémiai Kiadó, Budapest, 1994.[/ref]. Proprio a partire da un appunto preparatorio per il libro sull’etica si vuole proporre Lukács sub specie philosophica e, di più, nel confronto con una protagonista della filosofia del Novecento, cioè Hannah Arendt. La filosofa non teneva in gran conto Lukács. Ne ebbe un’idea, peraltro molto approssimativa, da parte della sua intima amica Mary McCarthy che le scrisse, nel corso di un viaggio in Europa, una lettera da Parigi (24 ottobre 1963), dove aveva preso parte ad una conferenza di scrittori seguita in specie da comunisti e simpatizzanti comunisti:

Alcuni dei giovani erano molto simpatici – commoventi e provinciali. Per loro, la letteratura moderna si riduce semplicemente a una battaglia tra il realismo socialista e il nouveau roman. Lukács via Lucien Goldmann è il loro Aquinate e tutti i loro discorsi erano estremamente scolastici [ref] Tra amiche. La corrispondenza di Hannah Arendt e Mary McCarthy,1949-1975, Sellerio, Palermo, 1999, p. 289.[/ref].

Dopo questo sporadico, fin troppo sarcastico, riferimento a Lukács da parte, peraltro, dell’amica della Arendt, non sembra che la pensatrice abbia mai posto attenzione all’opera del filosofo ungherese. Lukács, invece, aveva letto Vita activa nell’edizione del 1958 e ad alcuni passi di quest’opera fa riferimento nel suo abbozzo di etica:

Ciò che abbiamo chiamato crescita innaturale del naturale è considerato di solito come l’aumento in costante accelerazione della produttività del lavoro. Il fattore singolarmente più importante in questa costante crescita è stato sin dall’inizio l’organizzazione del lavoro, già visibile nella cosiddetta divisione del lavoro che precedette la rivoluzione industriale; anche la meccanizzazione dei processi lavorativi, il secondo più grande fattore della produttività, si basa su quella. In quanto lo stesso principio di organizzazione proviene chiaramente dalla sfera pubblica piuttosto che da quella privata, la divisione del lavoro è precisamente ciò che avviene quando l’attività lavorativa sia sottoposta alle condizioni della sfera pubblica un processo che sarebbe impensabile nella intimità della sfera domestica […] Qui e in seguito adopero il termine «divisione del lavoro» solo in riferimento alle moderne condizioni lavorative in cui l’attività individuale è sezionata e atomizzata in una serie innumerevole di operazioni minime, e non invece alla “divisione del lavoro” intesa nel senso delle specializzazioni professionali. […] L’antichità classica sembra aver conosciuto soltanto specializzazioni professionali predeterminate dalle qualità e dal talento naturale [ref] Hannah Arendt, Vita activa. La condizione umana, Bompiani, Milano, 1994, pp. 35-36 e p. 249.[/ref].

Lukács appunta quanto segue a proposito dei passi della Arendt appena citati:

…Divisione del lavoro (falsa) H. Arendt […] in rapporto all’Utopia: interruzione dei conflitti (sociale, biologico): della propria vita (morte) – a) natura come oggetto (tecnica), uomo come soggetto (psicologia ecc.) [ref] György Lukács, Versuche zu einer Ethik, cit., p. 37.[/ref].

Nella sostanza il filosofo ungherese coglie un punto centrale di tutta la riflessione arendtiana che viene ricondotta, nel caso specifico, al suo antecedente heideggeriano, ossia la questione di un apriori che sussumerebbe la natura umana sottraendola a ciò che essa è, cioè umana, terrena, mondana, legata al mondo biologico e, in chiave marxiana e lukácsiana, ai rapporti di produzione; la posizione della Arendt su questo punto, che è la spina dorsale di tutto il suo ragionamento, riporta al suo maestro, cioè Heidegger, secondo il quale si affronta il problema della natura umana a partire da un «apriori che […] precede ogni psicologia, ogni antropologia, e soprattutto ogni biologia» [ref] Martin Heidegger, Essere e tempo, a cura di Pietro Chiodi, Longanesi, Milano, 1976, p. 110.[/ref]. Quindi, riprendendo la nota lukácsiana, la libertà originaria, personale, afferisce all’essere; ma questo essere è l’essere ontologico di cui parla Platone più che l’essere in senso aristotelico. Ciò vuol dire che la pluralità che costituisce l’ambito all’interno del quale l’essere libero si muove può venire raffigurata in due modi: a) l’ambito intelligibile delle pure idee che, in quanto forme, sono il prius, l’ειδος delle cose; b) un ambito irrappresentabile in quanto abitato da soggetti liberi ma non agenti nella realtà in quanto pure idee, volontà libere nell’astrazione. È certo che per soggetti del genere non esiste conflittualità sociale vista la loro assoluta estraneità a ciò che è reale, ossia impuro, ossia non politico, ossia tendenzialmente totalitario. In sostanza la Arendt, volendo creare uno spazio politico a dimensione umana, si ritrova nelle braccia dell’utopia all’interno della quale l’unico conflitto che abbia significato è quello per la vita contro la morte e l’uomo è un puro e semplice soggetto psicologico. L’oggetto, cioè la natura, a sua volta, si presenta sotto le forme della tecnica al punto che la Arendt scrive riferendosi ad una “crescita innaturale del naturale” intendendo con ciò quanto l’intervento della tecnica nell’organizzazione del lavoro modifichi l’essenza stessa del lavoro che, originariamente riconducibile alla sfera privata, viene ad essa sottratto dalla sfera pubblica che lo gestisce con strumenti e mezzi (la tecnica) che lo rendono altro da ciò che esso era: trasforma il naturale nell’innaturale. Ergo, l’essere, per rimanere naturale, deve rimanere essere; se diventa essere sociale, ossia innaturale secondo la pensatrice, ha perduto l’attributo che lo definisce dal punto di vista dell’umanità che è naturalità. L’essere sociale, che è il vero soggetto dell’etica, è contraddistinto da una categoria che per la Arendt sembra essere inesistente, cioè il lavoro. E che il concetto di lavoro sia il cardine intorno a cui ruota l’intera riflessione dell’ultimo Lukács non può essere messo in dubbio [ref] Si veda a tal proposito A. Infranca, Individuo, lavoro, storia. Il concetto di lavoro in Lukács, Mimesis, Milano-Udine, 2011.[/ref].

Lukács può essere ricondotto a quanto Gramsci scriveva del filosofo democratico, ossia un nuovo tipo di filosofo convinto che «la sua personalità non si limita al proprio individuo fisico, ma è un rapporto sociale attivo di modificazione dell’ambiente culturale»?[ref] A. Gramsci, Quaderni del carcere, a cura di V. Gerratana, Einaudi, Torino, 1975, Q10 II, 44, p. 1332.[/ref] Franco Fortini dedicò al filosofo una poesia:

Le scarpe pesanti il gomito sui libri / il sigaro spento non per il dubbio / ma per il dubbio e la certezza / nell’ultima foto / dall’altra parte del vero / occhi smarriti guardandoci. / Alle sue spalle guardiamo i libri deperiti / i tappeti il legno gotico / del San Martino a cavallo / che si taglia il mantello / per darne metà al mendicante. / Gli uomini sono esseri mirabili[ref] Franco Fortini, Paesaggio con serpente. Versi 1973-83, Einaudi, Torino, 1984.[/ref].

Al commento fortiniano dei suoi stessi versi lasciamo un’ulteriore risposta alla riflessione di Gramsci, presentata in forma di quesito:

…La mia breve poesia si conclude con una citazione greca, con una situazione di tipo umanistico: «L’uomo è l’essere più mirabile che vi sia, molte sono le cose mirabili in questo mondo e l’uomo è la cosa più mirabile», mi pare che dica il primo coro dell’Antigone. Forse in quel sigaro spento è contenuta una piccola allegoria: è la diversità del dubbio e dell’amarezza che ci ha impedito di mantenere acceso il nostro sigaro[ref] Aa. Vv., Filosofia e prassi. Attualità e rilettura critica di György Lukács e Ernst Bloch, Cooperativa Diffusioni ’84, Milano, 1989, p. 25.[/ref].

Forse, riaccendendo quel sigaro, potremmo avere qualche dubbio e qualche amarezza in meno guardando a questa nostra epoca.