Popolo e nazione nel mondo romano e nel medioevo

Giovanni Magrì

“Popolo” e “nazione” sono entrambe parole provenienti dal latino. Per quanto riguarda Populus, anche se l’etimologia è tuttora incerta, le diverse strade portano più o meno tutte all’immagine di una popolazione in armi che si diffonde in un territorio, lo occupa e lo difende da altri invasori[1]. In ogni caso sembra si possa accettare un’identità, nella Roma arcaica, tra populus ed esercito, almeno nella misura in cui il popolo, organizzato peraltro come corpo elettorale nei comitia curiata (e più tardi nei comitia centuriata e tributa), era l’insieme dei cittadini astrattamente idonei all’uso delle armi, dal quale poteva essere tratto, al bisogno e sempre a partire dall’articolazione delle curiae, l’exercitus vero e proprio, cioè il contingente di coloro che avrebbero sopportato materialmente il carico di una specifica campagna: qui exercent rem militarem. Dicevo che le curiae erano la struttura di base sia del populus, sia dell’exercitus: e infatti la tradizione ci riferisce di 30 curiae, da ciascuna delle quali venivano levati 100 uomini, in modo da assicurare la formazione di una legione di 3000 fanti che è il nucleo originario dell’esercito romano. E perché le curiae sono 30? Perché Roma cresce su uno schema organizzativo a base ternaria, ricondotto più o meno miticamente al distinguersi e al concorrere di tre gruppi etnici (tribus) nella popolazione che ha costituito Roma all’origine: i Ramnes (latini, seguaci di Romolo), i Tities (sabini, seguaci di Tito Tazio) e i Luceres (etruschi). Le tribus rimanevano distinte al momento della “leva”, ma poi combattevano insieme nello stesso exercitus; e, col passare dei secoli, innumerevoli altri gruppi etnici si sarebbero aggregati alle legioni della res publica, immediatamente distinguibili per provenienza e, tuttavia, coordinati a tutti gli altri nella tattica della manovra militare al servizio di un’unica strategia politica.

Il che ci porta all’altra parola, natio: di etimologia assai più facile (da nasci, cioè “nascere”, “essere generato”: e infatti le nazioni si inventavano sempre un progenitore comune, il più vicino possibile agli dei), la natio ha sempre avuto un importante significato organizzativo, nell’exercitus romano come, molto più tardi, nelle università medievali (dove le nationes erano appunto gruppi organizzati di studenti, che, dopo aver preso tutti insieme lezione in latino, per il resto del giorno si dividevano e stavano tra di loro parlando le lingue volgari dei rispettivi luoghi di provenienza). Tuttavia, la natio non ha mai avuto alcun rilievo giuridicamente definito nell’organizzazione politico-istituzionale dell’Europa, fino a tutto il Medioevo. Quel che bisogna comunque sottolineare fin d’ora è che populus non equivale mai a natio o a tribus, né si identifica con una natio contrapponendosi alle altre: il populus romano nasce in linea di principio “multinazionale”. Neppure, d’altra parte, populus si identifica in senso giuridico con plebs, per contrapporsi eventualmente al “patriziato”, ai patres, indicati in ipotesi come senatus nell’endiadi di SPQR[2]. “Popolo” quindi non è una parte, che ne escluderebbe un’altra, ma designa “universi cives”, nessuno escluso.

Ecco, allora, un altro punto fermo: il popolo non è mai una parte dell’insieme, né in senso etnico (come la natio) né in senso socio-economico (come la plebs); il popolo è l’insieme stesso, o, meglio, lo è allorquando e nella misura in cui agisce “sulla scena pubblica”. Ci metterà dei secoli, infatti, la cultura giuridica romana ad elaborare quel livello di astrazione per cui il populus romanus potrà essere preso in considerazione stabilmente come persona ficta: intendo, come un ente ulteriore, “trascendente”, rispetto alla somma degli individui che ne fanno parte, o, meglio, rispetto alla somma delle familiae e delle gentes, concreti centri d’imputazione di interessi patrimoniali a partire dai quali si orientano le strategie politiche della res publica.

Nelle fonti medievali, è corrente l’uso di populus Dei o populus fidelium ad indicare l’insieme dei credenti in Cristo. Come oggi sulle pagine politiche dei giornali si parla di “popolo delle partite IVA” e di “popolo dei no-TAV”, a dimostrazione del fatto che ogni tradizione, ogni costume, ogni “moda”, ogni rivendicazione di interessi, per essere tali hanno bisogno di un “popolo”, così, anche il populus fidelium ha un fine comune indiscutibile (la salus animae, da conseguire anche attraverso atti pubblici di culto e un’organizzazione della carità) e ben presto si dota di regole determinate, precise e raffinate (lo ius canonicum). Poi, in senso più forte, per tutto il medioevo populus indica “l’appartenenza alla generale comunità che, pur articolata in tanti ordinamenti – etnici, territoriali, fondiari, personali – faceva capo a un re”[3]. E anche in questo caso, guardando all’intricatissima cartina dell’Europa feudale, si capirà che l’ascrizione a un populus non dipende pressoché mai dall’appartenenza ad una natio, e che populus nasce e cresce come un concetto essenzialmente giuridico, comunque artificiale. Forse, resta valido per tutto il corso del Medioevo solo quell’originario legame con l’exercitus: c’è un popolo solo là dove c’è qualcosa di comune che, al bisogno, di fronte a una minaccia, merita di essere difeso, al di là delle divisioni e dei conflitti di parte. È più facile avvertire la cura per la cosa comune, se, di fronte ad essa, ci si riconosce come tendenzialmente uguali, così da “sentire” di appartenere più al popolo che a una condizione particolare e al limite divisiva, come può essere una classe sociale, una corporazione professionale, un gruppo di interessi, un ceppo etnico e linguistico. Del resto, anche il populus Dei funzionava così nel medioevo: sull’esempio dell’antica Israele, era alla comunità dei credenti che Dio aveva affidato la sua legge, ed essa ne era custode anche di fronte ai “principi”.

Analisi del testo:

  1. Gli studenti elaborino una recensione del testo
  • Per ogni termine latino scritto in corsivo, gli studenti presentino in nota la traduzione, soffermandosi sugli aspetti più significativi per comprendere l’utilizzo che ne fa Magrì nel testo
  • Gli studenti spieghino il motivo per cui i concetti di “populus” e di “natio” nel mondo romano sono ben distinti tra loro
  • Gli studenti illustrino il significato di “populus” nella dicitura medievale “populus Dei”, così come spiegata da Magrì nel testo

[1] Secondo Mommsen, De Francisci e Momigliano, che sono stati tra i più grandi storici di Roma, sarebbe esistito un verbo “populare” o “populari” nel significato di “devastare”, “distruggere”; altri, come Gaudemet, rimandano a pubes, cioè all’adulto atto alle armi

[2] Ce lo dice il giurista classico Ateio Capitone, citato nelle Notti Attiche di Aulo Gellio, laddove distingue la lex (che è generale iussum populi, rogante magistratu: una definizione che occorrerà riprendere) dal plebiscitum (la legge che si dà la sola plebe, della quale non fanno parte i patrizi); e ancora più chiaramente Gaio, nel III secolo d. C.: “plebs autem a populo eo distat, quod populi appellatione universi cives significantur, connumeratis etiam patriciis; plebis autem appellatione sine patriciis ceteri cives significantur” (Institutiones, I 3).

[3] M. Caravale – C.Cesa, Popolo in Enciclopedia delle scienze sociali, Treccani, Roma, 1996