Valeria Turra, “Dio è una foglia marcita, in autunno” (Mimesis, 2018); “Ermeneutica del riconoscimento. Fondazione filologica di un concetto” (Mimesis, 2018)

di Antonio Martone

Il breve ma densissimo testo Dio è una foglia marcita, in autunno è fondamentalmente dedicato alla questione dell’ateismo. Più precisamente, esso raccoglie una sfida titanica, ossia quella di render conto della questione del “fondamento” al tempo della nicciana morte di Dio, riflettendo sulle sue conseguenze immediatamente filosofiche e mediatamente politiche. L’A. afferma che la questione del
fondamento (già problematica in quanto definizione), vista la sua intrinseca complessità, o viene elusa con un “facile” ateismo, oppure appare sottoposta ad uno spostamento/dislocazione su ritualità svuotate di senso o, addirittura, viene proiettata su distruttivi fondamentalismi. L’A. colloca su un piano che definirei “topologico” l’oggetto dei propri interessi facendo interagire, con grande competenza e rigore filologico, le riflessioni (letterarie e filosofiche insieme) dei classici e dei moderni. Sofocle ed Euripide da una parte vengono convocati, con rara sapienza comparativa, insieme a Dostoevskij, Tolstoj, Nietzsche ed Hegel, intorno al rapporto istituito nella tradizione occidente fra rito e mito, fra l’agente del mito e quello del rito, al fine di far emergere l’estrema complessità della questione del fondamento e l’impossibilità di potersene facilmente sbarazzare come di un dato ormai non più storicamente influente. In questo orizzonte, si vede bene la volontà da parte dell’A. di valorizzare e far intervenire nella propria analisi, oltre alla speculazione filosofica, anche la narrazione letteraria. Soltanto la letteratura può infatti rappresentare nel “calore di una vita”, e nella cogenza delle
scelte immediate, personaggi capaci di far emergere ermeneuticamente la forza e la preesistenza di un fondamento altrimenti rigettato come un elemento appannaggio di tempi ormai consumati dalla storia. Fra i grandi autori presi in considerazione critica nel testo un posto di rilievo spetta senz’altro a Camus. È proprio all’autore franco-algerino, infatti, che l’A. dedica una ricostruzione a tutto campo, avvalendosi altresì degli apporti provenienti da direzioni le più diverse, al fine di farne vedere la valenza, fortissima, sebbene assai problematica, di grande autore del “fondamento”. Valeria Turra in-siste su tale enquête, peraltro, non lesinando a Camus stesso il rilievo di non essere giunto ad una definizione univoca del tema e di aver sottoposto i suoi oggetti di ricerca, di volta in volta narrati, ad una lunga sequela di slittamenti e di scossoni “semantici”. Ella aggiunge, tuttavia, che tale frammentaria strutturazione, oltre che inevitabile nell’andamento di un opera letteraria, è esattamente ciò che ha reso possibile l’elaborazione di una fitta coltre di metafore con le quali l’autore de Lo straniero cerca di render conto delle domande poste a se stesso, esistenziali e filosofiche nel contempo. È in particolare a questo livello dell’analisi che emerge anche l’assoluta differenza di ispirazione teorica (e di tenuta speculativa, aggiungo io) fra l’autore de La peste e il gruppo degli esistenzialisti della cosiddetta “scuola di Parigi” i quali, a giudizio dell’A. (ma anche nella valutazione dello stesso Camus), avevano troppo frettolosamente accantonato la questione di Dio, della natura e del “fondamento”. Del resto, Sartre e De Beauvoir (in particolare), soprattutto ai tempi de L’homme révolté, non gli avevano risparmiato strali e critiche – non soltanto scientifiche ma talvolta perfino personali. Non poteva essere altrimenti, e questo non soltanto perché, a mio parere, l’uno (Sartre) era uno scrittore brillante e l’altro (Camus) era invece un poeta visionario, ma anche, e soprattutto, poiché la questione della libertà sartriana appare decisamente estrinseca dall’orizzonte camusiano delineante la condizione “absurde” dell’uomo nella storia e nel mondo. Viene fuori, fra l’altro, che la questione del fondamento per Camus, ossia il suo voler tener vivo il discorso circa l’”origine”, è proprio ciò che ha permesso al grande autore franco-algerino, al contrario dei suoi detrattori “athées de bistrots”, di non cadere vittima dell’idolatria della storia. Per Camus, infatti, essendo quest’ultima una dimensione mondana, non potrà che compartecipare del male e dell’assurdo al quale l’uomo non può che contrapporre la morale della misura e del limite.

Il tema del fondamento è ripreso e ampiamente sviluppato nell’altro testo (monumentale) che qui si presenta, ossia Ermeneutica del riconoscimento. Fondazione filologica di un concetto. In esso, l’A. convoca entrambe le grandi linee teoriche della tradizione occidentale, ossia quella platonica e quella aristotelica, analizzate ambedue tenendo conto di una messe amplissima di testi e di autori – che vanno dalla filosofia, alla storia dell’arte, alla letteratura – che a quelle tradizioni si sono in vario modo riallacciate, facendo in  definitiva convergere ambedue, speculativamente e comparativamente, in un confronto serrato con l’opera di Kant. Più in particolare, L’A. si sofferma su una rigorosa analisi critica del rapporto fra noumeno e fenomeno, tesa a mostrare l’irriducibilità del primo al secondo. A giudizio di Valeria Turra, valutazione che lo scrivente condivide integralmente, le dinamiche del riconoscimento e dell’identità – oggetto centrale di ricerca del testo – non possono essere comprese a pieno se non all’interno di un rapporto, sofferto quanto inevitabile, fra fenomeno e noumeno o, come piace dire a me, fra trascendenza e immanenza. È inevitabile, altresì, che senza uno sforzo simile, il tentativo stesso di una morale “intersoggettiva” sarebbe inesorabilmente tagliato alla radice. A questo proposito, l’A. scrive parole vibranti e dense nello stesso tempo: “Poiché siamo a noi stessi noumeno in ciò che più vorremmo sapere di noi, talvolta con gioia, talaltra con commozione, persino con paura e smarrimento ci abbandoniamo alla possibilità del riconoscimento dell’altro. Il suo essere per noi essenzialmente fenomeno non ci ferma: la consapevolezza della sua natura noumenica pone un limite al condizionamento dell’intuizione sensibile, che potrebbe ingannarci, e ci permette la comprensione – eccolo, è lui. Eccola, è lei. Da lì comincia il nostro percorso in un’interiorità che non smetteremo mai di voler cogliere. È in questo percorso – sempre frustrato, mai colmato – che il riconoscimento ha il suo vero significato e può diventare fondativo anche per la riflessione morale. Non perché vogliamo necessariamente, come credono alcuni, vedere al di là (il volto di un Dio), ma perché questo percorso ci occupa interamente: esaurisce in sé la ricerca del Senso” (p. 457). La modernità è fondata su un’idea di omologazione razionalistica, perfino opposta a quella del riconoscimento individuale. A partire almeno da Hobbes, l’Evo moderno si fonda sulla generalità identitaria a partire dal comune asservimento al sovrano. Tale sovranità non prevede che a far parte del corpo dei sudditi (poi cittadini) entrino individui riconoscibili; al contrario, nello spirito della modernità, alla soggettività è richiesto semplicemente di far parte di una serie. Tutto ciò significa (e comporta) che alla soggettività si imponga di cancellare se stessa. Più in particolare, nello stesso Hobbes il soggetto è
preso in considerazione soltanto nella sua capacità oggettiva di dare la morte e di mettere in questione, in tal modo, l’ordine politico, e non certo per i tratti che lo caratterizzino in maniera univoca o per le sue radici etiche e comunitarie. Se questa è la realtà moderna, e se la globalizzazione sradicante e spersonalizzante (ciò che nel mio linguaggio è la ecity contemporanea), della modernità costituisce, nello stesso tempo, l’esito e lo sviluppo, si comprenderà facilmente quanto sia necessario ritornare a parlare dell’uomo – come si fa in questi volumi di Valeria Turra – in quanto identità riconoscibile e unicità in atto.

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