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L’Illuminismo fuori dell’Europa. Una lettura a partire dalla Filosofia della liberazione latinoamericana

Non c’è dubbio che i filosofi illuministici ritenevano di elaborare concetti e principi universali, cioè diretti e validi per l’intera umanità, trasformandoli in ideali da realizzare, principi regolativi[1] di ogni futura azione pratica che ad essi si ispirasse. Il modello di questa nuova forma del pensiero filosofico è rappresentato dal motto kantiano: “Agisci soltanto secondo quella massima che, al tempo stesso, puoi volere che divenga una legge universale”[2]. Si tratta, come è noto, di un imperativo categorico formale, ma è, allo stesso tempo, regolativo di ogni futura legge universale. Enrique Dussel utilizza i principi regolativi universali in maniera non formale, ma materiale, cioè ponendo come contenuto del principio di comportamento morale «il principio di produzione, riproduzione e sviluppo della vita umana di ciascun soggetto etico in comunità». Questo principio potrebbe essere non realizzabile in toto, ma rimane come la stella polare per i naviganti il punto di riferimento, irraggiungibile praticamente, ma indispensabile per orientare la propria direzione, o meglio la propria azione pratica. Questo nuovo orientamento del comportamento pratico, che tiene insieme la formalità dell’imperativo categorico con la materialità della vita umana, viene dall’esperienza esistenziale, divenuta filosofica, di chi pensa e agisce moralmente nell’esteriorità dell’attuale sistema dominante, cioè fuori dal Centro del Mondo (Stati Uniti, Europa, Giappone). L’esperienza e il pensiero di Dussel, che userò come strumento per questo saggio, vengono dall’America latina, la prima vittima del sistema coloniale europeo, anzi la vittima che ha permesso con il suo sfruttamento la fondazione della Modernità[3], cioè con il saccheggio delle sue ricchezze naturali (metalli preziosi) l’accumulazione originaria del capitale, che è avvenuta soprattutto con l’uso del lavoro di schiavi strappati con la violenza dall’Africa.

Dussel indica chiaramente quali siano i principi normativi della politica: «I principi normativi della politica, gli essenziali, sono tre. Il principio materiale obbliga a curare la vita dei cittadini; il principio formale democratico determina il dovere di agire sempre rispettando le procedure proprie della legittimità democratica; il principio della fattibilità limita egualmente ad operare soltanto per il possibile (al di qua della possibilità anarchica, e al di là della possibilità conservatrice)»[4]. Secondo me, i principi normativi della politica devono essere ispirati ai principi regolativi universali di origine illuministica, più precisamente principi normativi sussumono in loro i principi regolativi universali, fino al punto che essi assumono una eticità in se stessi: divengono principi etici del comportamento comune, cioè collettivo e poi passano ad essere principi morali del comportamento del singolo individuo.

La patria dell’Illuminismo fu la Francia, che era contemporaneamente una potenza coloniale schiavista. I politici illuministi agirono per rendere questi principi regolativi principi normativi, in modo tale che qualsiasi azione pratica potesse trovare il consenso universale. Così la “Dichiarazione dei diritti dell’uomo e del cittadino” (1789), basato su un testo di La Fayette, con la collaborazione di Jefferson, e ispirata al pensiero di Montesquieu[5], Rousseau e Voltaire, venne intesa come una legge universale e come tale è riconosciuta. I principi a fondamento di quella dichiarazione, Libertà, Fraternità e Uguaglianza, sono stati negli ultimi due secoli a fondamento di qualsiasi civile dichiarazione o costituzione statale. Anche la “Dichiarazione Universali dei diritti umani” (1945) dell’Organizzazione delle Nazioni Unite si ispira a quei principi regolativi, quindi quei principi sono stati a fondamento di una legislazione universale e di ogni azione di liberazione da qualsiasi forma di oppressione. Sono stati e, sicuramente, saranno per qualsiasi altra azione di liberazione, sia individuale che collettiva che sarà messa in pratica in futuro.

Anche la “Dichiarazione d’Indipendenza degli Stati Uniti d’America” (1776) si ispira a principi regolativi, ritenuti universali, che derivano dal pensiero di John Locke, il quale, per altro, riteneva legittima la schiavitù, in quanto riteneva la proprietà privata superiore alla stessa libertà. Alcuni di questi principi sono gli stessi della futura “Dichiarazione dei diritti dell’uomo e del cittadino”, come l’eguaglianza e la libertà, ma vi si aggiunsero il riconoscimento che ciascun essere umano ha diritti inalienabili, quali la vita e la felicità. Ma nel momento della stesura della “Costituzione degli Stati Uniti d’America” (1787) un evidente oblio fece dimenticare quei principi universali regolativi e la schiavitù non fu abolita, ma semplicemente regolamentata (vedi Artt. I, II e V). A questo punto è opportuno porsi qualche domanda: Perché la schiavitù non fu abolita? Forse gli schiavi non erano ritenuti uguali ai loro padroni bianchi? La risposta più ovvia è si, tant’è che anche dopo l’abolizione della schiavitù, nel 1865, la segregazione razziale non terminò e ancora oggi a più 250 anni dalla “Dichiarazione d’Indipendenza degli Stati Uniti d’America” e da più di 150 anni dall’abolizione della schiavitù la segregazione non è stata completamente superata, come insegna il movimento attuale Black Lives Matter. Buck-Morss avanza una propria interpretazione riguardo alla scarsa conoscenza delle vicende legate al mondo degli esclusi o degli oppressi: «Più le conoscenze sono specialistiche, più avanzato il livello della ricerca, più lunga e venerabile la tradizione accademica, più è facile che i fatti discordanti vengano ignorati. Va rilevato che la specializzazione e l’isolamento costituiscono un pericolo anche per nuove discipline come gli studi afro-americani»[6].

Ma è opportuno porsi un’altra domanda più radicale delle precedenti: In cosa consisteva l’ineguaglianza degli schiavi rispetto ai loro padroni? La risposta è ovvia ed evidente: erano neri, cioè non erano bianchi, o meglio non erano europei, perché soltanto gli europei si considerano veri bianchi, negando l’evidenza che anche gli asiatici (cinesi, coreani e giapponesi) sono bianchi. Pare che i principi regolativi universali valessero soltanto per gli europei e non per tutti gli esseri umani, quindi non erano universali, o meglio erano universali in teoria e non lo erano nella pratica, cioè nella società, nella politica e nell’economia. La stessa riproduzione della vita non era eguale tra i bianchi e i neri. La “Dichiarazione d’Indipendenza degli Stati Uniti d’America” era smentita dagli stessi cittadini che si erano dichiarati indipendenti dalla madrepatria inglese.

Una prima conclusione teorica si può trarre: nel momento in cui i principi regolativi universali dell’Illuminismo stavano per diventare principi normativi della politica non furono riconosciuti i tre principi normativi, come li ha indicati Dussel: il principio materiale fu fortemente ristretto alla semplice riproduzione della forza lavoro schiava, mentre totalmente negati furono il principio formale, in quanto gli schiavi non avevano dignità giuridica, se non come merci, e il principio di fattibilità, perché si realizzò l’unica possibilità esistente che era quella di considerare esseri umani come cose. Un’altra considerazione la ricavo dal bel libretto di Buck-Morss: la libertà come valore universale, si affermò nel momento di massimo sviluppo dello schiavismo[7], quindi un tale fenomeno, in piena espansione, ne condizionò la realizzazione pratica. Infatti la Buck-Morsse riporta un dato interessante: il 20% della borghesia francese viveva di economia schiavistica[8], quindi era liberale in patria e schiavista nelle colonie.

Data l’egemonia culturale degli Stati Uniti sulla cultura mondiale, questi avvenimenti sono molto noti e conosciuti. Molto meno conosciuta è la vicenda di chi realizzò effettivamente i principi regolativi universali della “Dichiarazione dei diritti dell’Uomo e del Cittadino”: gli haitiani. Della piccola isola di Hispaniola si sa molto poco nella cultura europea. Si sa, senza dubbio, che esistono due piccole nazioni caraibiche: Haiti e la Repubblica Dominicana. Ma non è molto noto che queste due piccole nazioni si dividono l’isola di Hispaniola. Ho scritto “nazioni”, perché nelle due parti dell’isola si parlano lingue diverse: francese ad Haiti[9] e spagnolo a Santo Domingo. È ovvio pensare che si parli francese ad Haiti, perché fu una colonia francese, ma Haiti ha una particolarità che la differisce da altre colonie francesi, insieme a Martinica e Guadalupe, era l’unica colonia francese dove era ammessa la schiavitù. È vero che il 28 marzo 1792 e il 4 febbraio 1794 la schiavitù fu abolita anche nelle colonie, in conseguenza della “Dichiarazione dei Diritti dell’Uomo e del Cittadino”, sebbene Robespierre si rifiutò di firmare di firmare il decreto di abolizione della schiavitù. Come negli Stati Uniti i principi regolativi universali rimasero tali nella teoria, nella pratica la segregazione schiavistica rimase inalterata fino al 1 gennaio 1804, quando i francesi abbandonarono l’isola per le pessime condizioni naturali dell’isola di Hispaniola, alle quali, invece, si erano adattati più facilmente gli schiavi africani, piuttosto che gli europei. I padroni bianchi erano riusciti, in nome dell’autonomia legislativa, a non far rispettare le decisioni della madrepatria francese del 1792 e del 1794, quindi la libertà e l’eguaglianza erano principi regolativi non universali, anzi subordinati all’autonomia legislativa delle colonie, così come era accaduto negli Stati Uniti, dove alcuni Stati della Federazione non avevano rispettato i principi regolativi di Libertà, Felicità e Vita. Quindi i principi regolativi universali avevano un limite nelle autonome decisioni di ciascun realtà politica: in pratica il loro carattere universale era negato. Naturalmente erano negati i principi normativi della politica come li intende Dussel. I principi regolativi universali erano negati dalla classe dei proprietari francesi di schiavi africani.

Ad Haiti, però, gli schiavi neri non accettarono pacificamente di rimanere schiavi, sapevano che in Francia la loro condizione di schiavitù era stata abolita e così desideravano che quei principi regolativi universali fossero messi in pratica nella loro terra. In realtà, erano le vittime della schiavitù che desideravano trasformare in pratica politica, economica e sociale, la teoria universalistica dell’Illuminismo francese. Questo movimento di liberazione dalla schiavitù trovò un leader nella figura di Toussant Louverture, ex-schiavo, che lottò contro la Francia rivoluzionaria e contro Napoleone, cercando di ottenere l’indipendenza di Haiti dalla Francia, perché l’indipendenza era l’unica condizione politica che avrebbe permesso la liberazione degli schiavi africani. La Francia illuministica, rivoluzionaria, giacobina e napoleonica represse sanguinosamente questo movimento di liberazione, finché la natura stessa dell’isola, le malattie, come la febbre gialla, e il clima tropicale decimarono le truppe francesi e costrinsero la madre patria dell’Illuminismo universalistico a lasciare l’isola e a permettere a Jean-Jacques Dessalines, successore di Toussant, che era morto in carcere in Francia, di trasformare i principi regolativi universali in principi normativi universali pratici. Nasceva così il primo vero territorio libero d’America, tenendo conto che negli Stati Uniti la schiavitù era rimasta in vigore. La rivolta delle vittime della schiavitù fece diventare i principi regolativi universali strumenti della lotta di classe. Iniziava realmente l’età delle lotte di classe in nome dei principi illuministici.

In verità la lotta di classe si fonda sull’esclusione dai principi regolativi universali di libertà, eguaglianza e fratellanza, come alcuni rivoluzionari francesi più radicali intuirono. La legge economica del mercato, invece, si fonda dall’esclusione dalla retribuzione per l’intero valore prodotto dal lavoratore. Marx si rese conto che il lavoratore escluso dalla proprietà dei mezzi di produzione era esterno al mercato, anzi il suo corpo era esterno, mentre la sua forza lavoro era elemento fondamentale della produzione della ricchezza. Quindi l’esteriorità è la categoria fondante l’esclusione e chi è più esterno dello schiavo africano? Egli vive lontano, fuori, dal mondo euro-centralizzato.

La legalità che i proprietari francesi di schiavi africani volevano imporre non era ispirata ai principi regolativi universali dell’Illuminismo, ma quella del mercato, che tende ad occultare uomini, relazioni e cose. In pratica si voleva legittimare l’esclusione, lo sfruttamento e la negazione della dignità umana. La critica di questa logica giuridica è, quindi, anche critica dell’economia politica sulla quale quella logica si fonda. Franz Hinkelhammert è molto chiaro su questo punto: «La legalità assoluta è l’ingiustizia assoluta. Questo non implica nessuna abolizione della legalità, bensì la necessità di intervenire, quando distrugge la stessa convivenza umana. Questa legalità nella sua logica è incompatibile con la vigenza dei diritti umani»[10]. Quindi la rivolta degli schiavi africani partiva dalle condizioni di vita in cui erano costretti dai proprietari francesi, i quali con la loro pratica economico-politica anti-illuministica stavano trasformando la razionalità dei principi regolativi universali in forme irrazionali di condizioni di vita inumana per gli schiavi africani. La giustificazione di una legislazione autonoma locale è proprio una forma di razionalizzazione dell’irrazionale. La rivolta degli schiavi africani, quindi, aveva come fine l’abolizione, anche violenta, di queste loro condizioni di vita inumana, in pratica gli schiavi africani si ribellarono alla propria condizione di cose, di merce, di reificazione della loro vita.

I principi regolativi universali avevano offerto, dapprima, agli schiavi africani una prospettiva di liberazione, ma la reintroduzione della legalità della condizione di schiavitù aveva negato e represso quella aspirazione universalistica alla liberazione dalla schiavitù e soltanto il loro atto violento di ribellione li aveva liberati da questa ricostituita legalità giuridica oppressiva e restituito la condizione di vita degna di essere vissuta, tenendo sempre presente che la loro abitudine di vita si confaceva alla natura tropicale dell’isola di Hispaniola.

Con le parole del sociologo Anibál Quijano scopriamo un altro aspetto della rivoluzione haitiana: «L’esperienza più radicale accade e non per caso ad Haiti. Laggiù, è la popolazione schiava e “negra”, la base stessa della dominazione coloniale antillana, quella che distrugge insieme con il colonialismo, la propria colonialità del potere tra “bianchi” e “negri” e la società schiavistica in quanto tale. Tre fenomeni nello stesso movimento della storia. Benché distrutto, più tardi con l’intervento neocoloniale degli Stati Uniti, quello di Haiti rappresenta anche il primo momento mondiale nel quale si uniscono l’indipendenza nazionale, la decolonizzazione del potere sociale e la rivoluzione sociale»[11]. Quijano, nel giocare nel contrasto tra “bianchi” e “negri” intende sottolineare che la liberazione degli haitiani fu anche la liberazione dal razzismo europeo, cioè dalla convinzione, elevata ad ideologia, che i “negri” fossero talmente inferiori da essere incapaci di ricevere un salario. Gli Stati Uniti d’America, paese fondato sui principi dell’Illuminismo, è intervenuto a restaurare il colonialismo ad Haiti, ma rimane l’esperienza vissuta (Erlebnis) di avere negato il colonialismo con la propria lotta di liberazione e di indipendenza, a conferma che la vera decolonizzazione si ha nella separazione dall’Europa liberale e illuminata.

Ma, come detto, il paradosso più grande consiste nel fatto che questa lotta di liberazione si ispira ai principi regolativi universali illuministici, che in sé sono così poco eurocentrici, che gli stessi europei li negano. Ma questi principi regolativi universali fanno sorgere anche nelle vittime l’esigenza di una pretesa di giustizia, che è sostanzialmente una pretesa politica di giustizia. Enrique Dussel così definisce la pretesa politica di giustizia: «La “pretesa politica di giustizia” è la posizione che adotta il soggetto politico (…) esercitando un atto umano che normativamente ha rispettato i principi che la politica ha sussunto dall’etica. Il soggetto politico ha coscienza normativa di praticare, dentro le limitazioni della condizione umana, un atto di “pretesa” di giustizia, onestà, in coerenza con i principi normativi che dice di difendere e praticare»[12]. Quindi usando la definizione di Dussel, possiamo considerare l’atto di ribellione degli haitiani una interpellazione, una richiesta di “pretesa politica di giustizia” proprio a partire dai principi regolativi universali, rivolta non solo ai proprietari francesi, ma a tutta l’umanità, perché un singolo atto di liberazione, cioè di passaggio dalla possibilità alla realtà fattuale libera ed eguale è un atto di comune e universale liberazione.

L’azione di liberazione degli schiavi africani ad Haiti dimostra che i principi regolativi universali e la pretesa che essi diventino principi normativi della politica sono strumenti critici nei confronti del sistema dominante. Le vittime dello schiavismo hanno chiesto la realizzazione della Libertà, dell’Eguaglianza e della Fratellanza, quindi a partire da questi principi regolativi universali hanno potuto criticare il sistema della schiavitù allora esistente. Il sapere da parte degli schiavi africani di Haiti, che quei principi sono stati dichiarati, ha armato la loro pretesa di giustizia. La liberazione dalla schiavitù è stata storicamente il primo passo per una pretesa di giustizia per l’intera umanità. Mi riferisco al movimento della liberazione femminile, che è nato dopo la liberazione dalla schiavitù. L’esperienza di liberazione dalla schiavitù è diventata l’arma dei movimenti femminili per la critica del sistema maschilista di esclusione. Anche in questo caso si è chiesto che i principi regolativi universali divenissero principi normativi della politica.

 

[1] Mi riferisco a quanto sostiene Enrique Dussel a proposito dei principi regolativi di matrice kantiana (cfr. E. Dussel, Ética de la liberación, Madrid, Trotta, 1998, p. 565). Dussel parla di “idea regolativa”, io preferisco usare il termine “principi regolativi”, perché sono momenti iniziali e fondamentali, mentre l’idea, soltanto nel senso platonico, può essere usata come principio e non voglio affatto rischiare di essere scambiato per un idealista di tipo platonico, che è un modo per banalizzare un discorso che banale non è di certo. Enrique Dussel (1934) è un filosofo argentino che, a causa della persecuzione della dittatura militare argentina, si è trasferito a Città del Messico. È professore emerito della UNAM, i suoi libri sono apparsi in inglese, francese, tedesco e in tantissime altre lingue. Castelvecchi ha pubblicato vari suoi saggi.

[2] I. Kant, Fondazione della metafisica dei costumi, tr. it. P. Chiodi, Roma-Bari, Laterza, 1980, p. 49.

[3] Cfr. la mia opera Apocalisse. L’inizio e la fine della modernità, Trieste Asterios, 2020.

[4] E. Dussel, Venti tesi di politica, tr. it. A. Infranca, Asterios, Trieste, 2009, p. 95.

[5] Ricordo che Montesquieu era favorevole alla schiavitù.

[6] Susan Buck-Morss, Hegel e Haiti. Schiavi, filosofi e piantagioni, tr. it. F. Francis, Verona, Ombre corte, 2023, p. 11.

[7] Ivi, pp. 9-10.

[8] Ivi, p. 22.

[9] In realtà il francese è parlato da un’esigua minoranza della popolazione, perché la lingua più diffusa è il creolo haitiano, una lingua nata dal francese e dalle lingue degli schiavi africani. La lingua francese è stata sempre considerata dai governanti francesi come uno strumento per la formazione della nazionalità francese. Oggi è considerata la lingua ufficiale in 32 Stati e parlata da circa 270 milioni di esseri umani, ma in realtà i nativi parlanti francese sono 80 milioni. Così che dalla quinta lingua più diffusa al mondo, scende al 17° posto tra le madrelingue. Per capire bene questa situazione confrontiamo il francese con lo spagnolo. La lingua spagnola è parlata da 560 milioni di esseri umani e questa cifra la fa diventare la seconda madrelingua del mondo, dopo il cinese, ma più dell’inglese (430 milioni).

[10] F. Hinkelhammert, La maldición que pesa sobre la ley: Las raíces del pensamiento crítico en Pablo de Tarso, Arlekín, San Josè de Costarica, 2010, p. 298.

[11] A. Quijano, “Raza, etnia y nación en Mariátegui: cuestiones abiertas”, in José Carlos Mariátegui y Europa. La otra cara del descubrimiento, a cura di R. Forgues, Lima, Amauta, 1991, p. 179.

[12] E. Dussel, “Pretensión crítico-política de justicia”, in Política de la liberación, vol. III, a cura di E. Dussel, Madrid, Trotta, 2022, pp. 707-708.

Recensione a J. Sanchez Tortosa, La libertad desnuda (ed. Confluencias, Madrid 2022)

di Carmine Luigi Ferraro

Qual è il percorso dell’idea di libertà nella storia umana? Nel testo che presentiamo, J. Sánchez Tortosa ci mostra come tale idea si sia sviluppata nella letteratura, nella filosofia, nell’estetica, spesso attraverso percorsi antagonisti, se non incompatibili. E tuttavia se c’è un argomento di fondo, comune ai diversi percorsi, questa è la teologia. La libertà nasce infatti come nozione teologica, legata all’Assoluto ed il tentativo di liberarla da questo abbraccio, ha finito- in realtà- con il rafforzare tale legame. Tortosa inizia a considerare il paradosso della libertà che, nel percorso della civilizzazione, inizia laddove c’è la schiavitù. Nelle società schiaviste, la libertà è garantita solo a pochi e l’idea di libertà la troviamo coltivata nella produzione mitologica, letteraria, storica, giuridica, teologica…. Nell’antica Grecia, la libertà è concepita come potere, legata al culto di Hera e Zeus nei riti di liberazione degli schiavi. Lo schiavo può rifugiarsi nel tempio ed ottenere la propria libertà: un rito sacro dunque, vissuto come epitome della condizione stessa dell’essere umano. Al di là dei miti, sono gli ambiti giuridico-economici quelli in cui si inizia a definire l’idea filosofica della libertà. Infatti in Grecia ed a Roma, la condizione del cittadino è contraddistinta dalla possibilità di avere tempo libero nel quale negoziare, discutere, immaginare…; l’uomo libero è, insomma, colui che è libero dal lavoro servile o manuale, al quale è invece legato il servo. Il cittadino ha inoltre il diritto di proprietà e le garanzie giuridiche…, ci sono cioè delle strutture codificate, con una certa oggettività operativa ed indipendente; per cui la libertà non è individuale o personale, bensì giuridica, politica, istituzionale, comunitaria. Tenendo conto di tutto ciò, se ne deduce che la libertà non è data per se, ma la si costruisce, si forgia, è Paideia, è scuola: ossia il tempo liberato da lavoro manuale e dedicato alla formazione, alla conoscenza che libera la condizione umana dalla paura di re e tiranni, dagli dei, dalla propria mortalità, che sono i sintomi dell’ignoranza. Da questo punto di vista, la libertà diventa obbedienza alla ragione, come considerato da diversi autori, da Platone a Cicerone, da Virgilio fino a Dante, Spinoza, sia pure con sfumature diverse. San Agostino è invece colui che inaugura il senso ontologico della libertà quando afferma che la volontà ed il libero arbitrio possono essere complici delle passioni. Questo perché il libero arbitrio rappresenta la possibilità della scelta, un dono caritativo di Dio per poter fare realmente il bene morale. Libertà piena è allora l’esercizio sensato del libero arbitrio, la giusta scelta, il cui massimo grado si trova nella sottomissione dei desideri alla ragione. Le cose buone, come quanto di libero c’è nell’uomo procede da Dio. Tortosa però sottolinea come questo volontarismo teologico faccia venire alla luce una serie di paradossi, dilemmi, aporie per ciò che riguarda la quotidianità della scelta, come struttura materiale nella quale si esercita il libero arbitrio. Ciò viene illustrato dal dilemma dell’asino di Buridano del teologo J. Buridan (1300-1358), discepolo di Ockam (ma si possono trovare antecedenti anche in Aristotele, Dante e più tardi in Spinoza), nel quale l’asino posto davanti a due sacchi di fieno indiscernibili, finisce con il morire di fame, di inazione, per non essere stato capace di scegliere. E’ questo un caso di estrema incapacità, il grado zero della libertà. Durante la Riforma, la concezione teologica dell’idea di libertà viene contestata e culmina nella polemica sul libero arbitrio fra Erasmo e Lutero, che può essere riassunta in questi termini: il primo continua ad affermarlo in convivenza con la volontà di Dio; Lutero lo nega perché incompatibile con l’infinità volontà di Dio. A questo dibattito, l’autore inserisce anche la riflessione di Spinoza, particolarmente analizzata, il quale arriva alla conclusione che la libertà è solo obbedienza alla ragione. Kant per salvare la libera volontà, ritiene che non sia possibile risalire all’infinito nella serie delle cause, richiedendo in tal modo un principio primo. La sua esistenza è allora collegata ad un presupposto: al metafisico, al teologico, ancora una volta. Dalla ragion pura, quindi, discende la libertà come postulato della ragion pratica. Nell’idealismo tedesco, la volontà è chiave dello spirituale, ottenendo una riunione della scissione ontologica fra soggetto ed oggetto (essere e dover essere, sensibilità e Ragione…). Secondo questo dominio ontologico, non c’è sapere o essere che non sia incarnazione della libertà illimitata di una soggettività totale. Lo Spirito Assoluto è il superamento di ogni contraddizione che tormenta gli uomini; e tuttavia –sottolinea Tortosa- l’identificazione fra spirito e libertà finisce con l’inaugurare il cammino verso una totalizzazione dell’essere, che diventerà una caratteristica del XX secolo. Sarà Sartre a riprendere l’alternativa limite fra essere e nulla, utilizzata dall’idealismo contro Spinoza, che si esplicita in questi termini: «il non-io determina l’io, per cui nel materialismo assoluto di Spinoza, ogni scappatoia del libero arbitrio si dissolve, poiché una piena oggettività produce ogni singola soggettività; oppure l’io determina il non-io, ed allora si erige l’affermazione di una libertà sovrana, fondante, di un soggetto assoluto che invade l’individuo e lo divora spiritualmente» (p. 139). Nella sua opera L’essere e il nulla, come ne L’esistenzialismo è un umanesimo, Sartre sostiene una tesi fondamentale: l’uomo è condannato alla libertà, e perfino rinunciare alla libertà costituisce un esercizio di libertà; una sorta di fanatismo della libertà. Sartre sostiene quindi che l’uomo è caratterizzato dalla capacità di decidere, di autodeterminarsi, è destinato alla libertà, ma anche il peso della responsabilità. Ma Sartre, al pari della libertà, è anche vittima degli orrori che hanno contraddistinto la storia del secolo XX: il nazismo a livello personale, e lo stalinismo di cui è vittima intellettuale, finendo con il subordinare l’esistenzialismo all’ortodossia marxista-leninista, concludendo così il ricco percorso della storia contraddittoria, paradossale della liberà descritto da J. Sánchez Tortosa, anche attraverso un percorso iconografico che la stessa ha avuto nella storia dell’arte. «I suoi tragici paradossi – afferma concludendo l’autore- la lasciano nuda e avvolta sotto gli stracci, le maschere e gli abiti che le manifestazioni iconiche segregano, risplendendo ancora delle sonnolente e banali soggettività dei tempi digitali. Catene rinnovate in versione algoritmica sottopongono i servi soddisfatti a fantasticherie spettrali punteggiate da riflessi narcisistici. Battendo sotto l’immagine, la dea della libertà tace, incapace di farsi sentire in mezzo al chiassoso deserto degli uomini» (p. 148).

Non ultimo fra i paradossi della libertà – aggiungiamo noi- vi è sicuramente quello fra libertà e sicurezza, che in Italia abbiamo vissuto particolarmente negli ultimi due anni, ed introdotto già nel corso del Seicento da J. Barclay nel suo romanzo Argenis (1621): «O rendi agli uomini la loro libertà o dai ad essi la sicurezza per la quale abbandoneranno la libertà». Due paradigmi antitetici e che verranno sempre usati, specie durante le epidemie, le catastrofi, dai Governi europei per governare secondo i propri interessi, facendo credere ai cittadini che si opera in nome della loro tranquillità e per il loro futuro.

Il trionfo di Castillo in Perù mette in evidenza l’importanza sociale e politica delle zone rurali nei paesi andini

di Francisco Hidalgo Flor (traduzione di A. Infranca)

 

Con i risultati delle elezioni del ballottaggio in Perù, del 9 giugno, e il trionfo del professore rurale e rondero[1] Pedro Castillo, designato Presidente della Repubblica, raggiungendo il 50,2% dei voti, si chiude un ciclo di processi elettorali in vari paesi della regione andina: Perù, Ecuador e Bolivia, che mettono in rilievo l’importanza che mantiene il pronunciamento sociale e politico delle popolazioni rurale, buona parte di esse indigene e contadine, capaci di provocare mobilitazioni e volontà politiche che alterano e rompono uno status quo dell’establishment razzista e dipendente.

I processi elettorali sono scenari molto avversi e complessi per le organizzazioni sociali e politiche popolari, così come per le leadership che provengono dagli strati e dai movimenti rurali, contadini e indigeni, poiché devono affrontare macchine di campagna elettorale, di potere, di mezzi di propaganda molto oliate, care e alienanti.

È un remare controcorrente.

Per questo si soppesa ancora di più questo pronunciamento massiccio, a partire dalle basi sociali nelle zone rurali, dove colpiscono fortemente le condizioni di povertà e di esclusione, marcate dalla visione delle élite, come fossero spazi arretrati e pregiudizialmente meno trascendenti che le grandi città e le loro élite cosmopolite. Così è il Perù con un centralismo molto accentuato a Lima.

Affinché una proposta politica che emerga dalle zone rurali, con vincoli nei settori indigeni, nei e nelle contadini/e, artigiani/e e professori/esse di scuola, che nasca dalle organizzazioni radicate in queste basi, con leader che provengano da questi stessi strati sociali, che essi stessi siano parte di questo tessuto sociale e con un progetto di cambio sociale contro l’establishment, e che riesca ad ottenere una tale forza che si riproduca a livello nazionale e diventi una tendenza in tutto il paese, rompendo tendenze abituali, e sia un’opzione di trionfo, si richiedono enormi volontà sociali, molta coesione, un contundente coraggio contro il sistema imperante.

È un avvenimento trascendente.

Parlando dall’Ecuador, riconosciamo e diamo valore a questo trionfo del candidato Pedro Castillo del fronte Perù Libre e del complesso della sinistra. Rispettando le distanze e le proporzioni vale rilevare nel bilancio i risultati positivi nella regione che, in Ecuador, ha raggiunto la candidatura di Yaku Pérez con un 19,7% e il movimento Pachakutik, risultato la seconda forza politica dell’Ecuador e il secondo gruppo parlamentare.

Ci sono similitudini e differenze, ma è necessario riconoscere questa matrice comune dell’emergenza e della presenza politica energica, decisiva, degli e delle indios, runas, chagras e cholos; dei e delle contadini/e e lavoratori/trici della campagna; degli e delle artigiani/e e professori/resse rurali, dei e delle esclusi/e ed emarginati/e.

In entrambi i casi sono leadership affermate nelle lotte sociali, nel caso di Yaku Pérez è nell’organizzazione indigena, nella lotta per la difesa dell’acqua e delle risorse naturali contro la pratica estrattiva, nel caso di Pedro Castillo è nell’organizzazione dell’insegnamento, nella lotta dei e delle educatori/trici di scuola e di liceo contro le riforme neoliberali.

Le lotte sociali continuano a svolgere un ruolo importante nell’esperienza e nella pedagogia politica dei settori popolari, riescono ad affrontare e rompere le strategie neoliberali, aprire il cammino e attirare l’attenzione verso nuovi discorsi, che riescono ad ingrandirsi verso lo spazio nazionale.

È un passare da un livello “Siamo qui!”, a un livello qualitativo differente, “Siamo qui e osiamo disputare il potere politico del paese!”, “Ci uniamo per questo!”. È confrontarsi e, in questa occasione del Perù, vincere nel campo altrui, delle élite razziste e dei grandi proprietari che credevano di essere gli unici predestinati e capaci a governare.

Ma già non lo sono più.

Adesso dal profondo delle società, dalle zone marginali della campagna, c’è una volontà forte e un tessuto sociale e politico che si presenta con una voce forte e una volontà politica, tenacemente segnata dall’impronta etnica.

Una differenza sostanziale è che Yaku Pérez non è potuto passare al ballottaggio per una frode, invece Pedro Castillo è riuscito a passare al ballottaggio e, affrontando un feroce attacco della destra, ha saputo e ha potuto agglutinare un grande blocco sociale e politico che lo porta ad ottenere il 50,2% dei voti e vincere la Presidenza.

È il risultato dell’unità di forze politiche, ma più che questo è il risultato di attirare nuove adesioni nei quartieri popolari, degli emarginati ed esclusi nelle grandi città.

Senza dubbio le crisi economiche e sociali acutizzate nei contesti di pandemia, dove si è evidenziata l’impossibilità dell’apparato statale e dei governi di rispondere alla domanda fondamentale di proteggere la vita della popolazione, hanno giocato un ruolo importante.

Aggiungere gli scandali di una corruzione lacerante di quelle stesse élite governanti, invitano a guardare verso un altro lato, a leadership autentiche provenienti dagli stessi settori popolari, dalle loro organizzazioni e partiti.

E recuperare le culture, i linguaggi e i simboli dei popoli, come quello di convertire in bandiera di identità la vecchia matita di legno e carbone, o la chakana[2] dei popoli indigeni e l’antico ma vigente lemma: “Solo il popolo salva il popolo”.

A nessuno sfuggono le enormi sfide e le condizioni complesse, avverse, con le quali deve confrontarsi il governo di Pedro Castillo, ancor più se sostiene il programma politico che lo ha portato alla presidenza. Sarà molto difficile.

L’evoluzione che avrà il processo politico peruviano, senza dubbio, porterà importanti esperienze e lezioni, ma l’ottenuto è già di per sé un trionfo storico.

E uno degli insegnamenti forti è che nella regione andina le zone rurali, i e le marginali/e e gli esclusi, i popoli indigeni e i contadini hanno una voce e una volontà importante, decisiva.

È una lezione del presente, in pieno XXI secolo.

È grato anche constatare come le ricerche intellettuali per capire questi fenomeni politici aspri portano a recuperare pensieri chiavi nella storia delle nostre nazioni, come risaltare le opere di José María Arguedas[3] e i suoi testi fondamentali: Los ríos profundos e Todas las sangres, che ancora oggi ci indicano strade profonde per il futuro dei nostri popoli andini e amazzonici.

 

 

 

[1] Rondero è il membro delle rondas contadine che hanno come scopo il controllo delle zone rurali per combattere l’abigeato e i furti [NdT].

[2] Pedro Castillo ha usato come simbolo della sua campagna elettorale la matita che gli scolari usano nelle scuole elementari. Chakana è la croce andina, un simbolo che unisce con l’Hanan Pacha, il mondo superiore degli dei [NdT].

[3] José María Arguedas (1911-1969), scrittore e antropologo peruviano.

György Lukács, la categoria della particolarità e la formazione del capitalismo periferico in America Latina

di Ranieri Carli (Universidade Federal Fluminense)

 

Questo articolo tratta dell’uso che il filosofo ungherese György Lukács fa della categoria della particolarità, richiamando l’attenzione sul suo posto all’interno del metodo di Marx. Dopo lo studio della pertinenza della particolarità nel metodo, in questo articolo vengono studiate la formazione del capitalismo periferico in America Latina e la particolarità delle sue dinamiche.

L’idea è quella di utilizzare la categoria della particolarità per descrivere brevemente la peculiarità della costituzione di una società capitalista nei paesi dell’America Latina. All’inizio, useremo il metodo di Lukács per delimitare l’importanza della categoria di particolarità; e, dopo, studieremo le idee di Ernest Mandel su alcune delle particolarità più generali del capitalismo che si è sviluppato in America Latina, senza la minima intenzione di esaurire il tema.

Nella sua Estetica del 1963, Lukács afferma correttamente che le categorie di universalità, particolarità e singolarità non possono essere ridotte a semplici “punti di vista”; sono, infatti, aspetti essenziali della realtà oggettiva, la cui conoscenza è necessaria all’uomo che intende orientarsi in questa realtà, sorpassare e sottoporla ai suoi fini. In considerazione del loro carattere oggettivo, l’uomo è in “convivialità” con tali categorie ancor prima di usarle come elementi organizzativi delle riflessioni del movimento del reale[1].

Ecco un esempio del modo in cui il metodo dialettico è in grado di catturare le categorie, specialmente quando si verifica il lavoro: abbiamo, quindi, 1) il lavorare sotto forma di una categoria universale, mediatore indispensabile della società con la natura; 2) il lavorare come un particolare, del modo capitalista di produzione come mezzo per valutare il capitale; e 3) il lavoro concreto unico di metalmeccanici, agricoltori, ceramisti, ecc.

Certo, la categoria della totalità universale è quella che comprende gli altri e il punto di vista della teoria sociale deve sempre essere la prospettiva di questa totalità universale. Come ci ricorda bene Lukács in uno dei saggi di Storia e Coscienza di Classe, è la presenza della categoria della totalità universale che differenzia Marx dalle scienze borghesi[2]. Tuttavia, la categoria della particolarità promuove un vero arricchimento tanto della totalità universale quanto della singolarità unica.

Poi, secondo Lukács, le particolarità arricchiscono la relazione tra il singolare e l’universale. Non c’è individuo singolare che sia legato all’universalità del genere senza la mediazione di innumerevoli particolarità. Un individuo, che si sia Enrico o Cecilia, sono membri unici della razza umana. Tuttavia, l’appartenenza alla generalità è mediata da aspetti particolari, come la società in cui fanno parte (capitalista, feudale, ecc.), la classe sociale (borghesi, proletari, ecc.), la nazione (Brasile, Palestina, Italia, ecc.), la generazione (bambini, adulti, anziani, ecc.) e così via potremmo continuare ad aggiungere una vasta gamma di variabili che arricchiscono il rapporto tra singolare e universale.

Continuando a pensare come Lukács, la categoria del particolare è interessante per studiare le peculiarità dello sviluppo capitalista di ogni circostanza storicamente determinata, come il modo in cui è stata elaborata in America Latina. Sappiamo che, prima di tutto, nella sua universalità, le dinamiche capitaliste implicano lo sfruttamento della forza-lavoro da parte del capitale. Tuttavia, come si verifica questa situazione nelle terre dell’America Latina? In questo caso, è possibile comprendere lo sviluppo di una società borghese in America Latina tenendo conto della categoria di particolarità, come intendeva Lukács.

Per Mandel, la formazione dell’accumulazione primitiva di capitale nei paesi periferici avviene secondo tre elementi: in primo luogo, il processo ininterrotto di accumulazione di capitale nei paesi centrali (specialmente in Europa), già sotto forma di una riproduzione ampia; in secondo luogo, gli inizi dell’accumulazione primitiva di capitale in periferia; in terzo luogo, la conseguente limitazione del processo di accumulazione che inizia in periferia da parte del processo di accumulazione in grandi fasi dei paesi centrali[3].

Il principale dei tre elementi è proprio l’ultimo: le imposizioni che il capitale europeo ha posto allo sviluppo del capitale periferico. Lukács potrebbe dire che questa è una grande caratteristica particolare che differenzia il capitalismo periferico. Secondo Mandel, «in ogni paese o su scala internazionale, il capitale mette sotto pressione, dal centro – in altre parole, i suoi luoghi di origine storici – alla periferia. Cerca continuamente di estendersi a nuovi domini, convertire semplici settori riproduttivi di beni in nuove sfere di produzione capitalista di beni, soppiantare, con la produzione di beni, i settori che fino ad allora producevano solo valori di uso. Il grado in cui questo processo continua a verificarsi ancora oggi, sotto i nostri occhi, nei paesi altamente industrializzati, è esemplificato dall’espansione, negli ultimi due decenni, di industrie che producono pasti pronti al servizio, distributori di bevande e così via”[4].

In periferia, quindi, l’arrivo del capitale internazionale apre la strada alla produzione di plusvalore con la “normalità” delle ferree leggi dell’economia capitalista.

Mandel sostiene che, in generale, il ruolo di “pathfinder” spetta al “piccolo e medio capitale”[5]. Poiché le modalità tradizionali della produzione di sussistenza non rappresentano più ostacoli, la produzione capitalista viene gradualmente imposta, vivendo insieme con le relazioni sociali della produzione tradizionale. Lo sviluppo della produzione tipicamente capitalista di materie prime tende a sottomettere le altre forme rimanenti.

L’articolazione tra paesi centrali e periferici è duplice: da un lato, la periferia importa articoli a basso costo dall’elevato grado di produttività raggiunto grazie ai macchinari sviluppati nei paesi centrali, il che implica la rovina delle forme artigianali di produzione (incapaci di raggiungere tale produttività); dall’altro, c’è la specializzazione dei paesi di capitalismo incipiente in prodotti che servivano il mercato internazionale, in particolare nei prodotti agricoli[6].

Così, ovviamente, l’articolazione tra centro e periferia avviene con la subalternità di questo nei confronti a questo. È quello che Lukács chiamerebbe sottomissione delle particolarità all’universalità. Tuttavia, il punto è che il capitalismo iniziale della periferia deve competere con il capitale internazionale, che non solo si consolida sul mercato mondiale, ma già avanza nella costituzione dei monopoli. È importante dire con Lukács che questa è una delle particolarità che segnano fortemente la vita economica nei paesi del capitalismo periferico. Il compito ingrato della borghesia nazionale periferica è quello di aumentare un tale livello di estrazione di pluslavoro che gli dia condizioni sufficienti per affrontare il capitale monopolistico che proviene dall’esterno. In effetti, l’impulso allo sviluppo dell’industria capitalista in periferia avviene con l’esportazione di capitali da parte di paesi in cui la borghesia monopolistica è diventata dominante. L’accumulo primitivo delle nazioni subalterne ha dovuto fare i conti con questa circostanza, poiché, di conseguenza, il processo di esportazione di capitali imperialisti ha soffocato lo sviluppo economico del cosiddetto “Terzo Mondo”[7].

La distinzione tra la forma classica di accumulazione primitiva (che si è verificata in Inghilterra) e quella delle nazioni del Terzo Mondo è abbastanza evidente. Il carattere decisivo di questa distinzione è che lo sviluppo capitalista del Terzo Mondo incontra la metropoli, gli interessi della borghesia dei paesi metropolitani.

Inoltre, la classica accumulazione primitiva aveva come ostacolo le forze tradizionali che resistettero allo sviluppo interno di un mercato della forza lavoro e al consumo di beni. La madrepatria inglese o francese combatté contro le stabilizzazioni delle vecchie classi in modo che, ognuno a modo suo, diventasse preponderante.

Nel caso dell’accumulo primitivo nelle nazioni periferiche, questo fenomeno non si è verificato. Ancora una volta, la categoria di particolarità è presente qui, come si rende conto Lukács. Mentre lo sviluppo capitalista veniva guidato dall’esterno, «ci fu un’alleanza sociale e politica a lungo termine tra imperialismo e oligarchie locali, che congelò le relazioni precapitalistiche della produzione sul campo»[8]. A quel tempo, non era nell’interesse della borghesia imperialista rompere con le forze locali che persistevano dominanti nelle rispettive regioni. L’esperienza storica ci dimostra che il consolidamento delle alleanze tra la borghesia straniera e l’aristocrazia regionale predominava in periodi storici come quello che raccontiamo.

Il grande servizio che la periferia forniva alla capitale metropolitana era quello di fornire materie prime. Non è casuale. La ricerca del capitale circolante (come la materia prima) si spiega con l’imperativo che il capitale contenga la caduta tendenziale del saggio di profitto.

Il problema posto al capitale imperialista era l’organizzazione precapitalistica della produzione di materie prime. Il basso grado di produttività della forma di produzione ha reso costosa la merce finale; pertanto, non c’era altra via d’uscita che organizzare la produzione di tali beni secondo le leggi dell’industria capitalista. Solo in questo modo, la produzione di materie prime sarebbe stata adeguata ai livelli di produttività del lavoro richiesti all’epoca. Quindi, Mandel osserva che «l’intervento diretto del capitale occidentale nel processo di accumulazione primitiva di capitale nei paesi sottosviluppati è stato quindi determinato, in misura considerevole, dalla pressione compulsiva su questo capitale, al fine di organizzare la produzione capitalista di materie prime su larga scala»[9].

Se, in questo modo, la capitale imperialista costringesse l’organizzazione a produrre materie prime a sua immagine e somiglianza, ciò non causava lo sviluppo di forze produttive nelle terre periferiche. Non era necessario, dato che il basso valore della forza lavoro, con i suoi piccoli costi di sostituzione, il grande esercito industriale di riserva e la relativa debolezza dell’organizzazione politica del proletariato, hanno messo a disposizione del capitale le condizioni appropriate per l’estrazione del plusvalore assoluto senza utilizzare l’aumento dei macchinari. Tuttavia, in queste circostanze, l’estrazione del plusvalore assoluto è stata la costante.

La situazione cambia a metà del XIX secolo. XX. Con il ristagno della produttività della produzione di materie prime nei paesi dipendenti e, d’altro canto, con l’aumento della produttività nello stesso settore nei paesi centrali, si è registrato un graduale inserimento della tecnologia nella produzione di materie prime in periferia. Inoltre, «il capitale monopolistico internazionale si interessò non solo alla produzione di materie prime a basso costo attraverso metodi industriali avanzati […], ma anche alla produzione, nei paesi sottosviluppati, di prodotti finiti che potevano essere venduti lì a prezzi monopolistici, invece di materie prime che erano diventate eccessivamente economiche»[10].

Va detto che l’industrializzazione della periferia non significasse il livellamento armonico del mercato mondiale, in cui ciascuno avrebbe calcolato simmetricamente la propria quota. Lo sviluppo dell’industria capitalista nei paesi periferici non ha modificato il fatto che il suo capitalismo è dipendente e subordinato alla metropoli.

Pertanto, ciò che abbiamo visto sul capitalismo periferico può essere riassunto nelle seguenti parole: Lukács ci ha dato il metodo, mentre Mandel ha riempito questo metodo di contenuto storico.

Infine, cosa si può vedere nello schizzo sopra è che la categoria della particolarità è essenziale per creare un quadro del capitalismo nei paesi periferici come quelli dell’America latina. Lukács aveva ragione quando ha richiamato l’attenzione sull’importanza metodologica della categoria. Con esso, è possibile collocare storicamente le mediazioni che hanno portato il capitalismo latinoamericano alla realtà contemporanea del modo in cui lo viviamo attualmente. Se l’universalità dell’attuale modalità di produzione è il capitalismo, all’interno di questa universalità ci sono particolarità molto precise, come quelle che riguardano la storia dell’America Latina.

 

 

 

 

[1] Cfr. Lukács György, Estetica I: la peculiaridad de lo estético, Barcelona, México, 1982, v. 3, p. 200.

[2] Cfr. LUKÁCS, György. História e consciência de classe. São Paulo: Martins Fontes, 2003, p. 105.

[3] Cfr. MANDEL, Ernest. O capitalismo tardio. Rio de Janeiro: Nova Cultural, 1982, p. 31.

[4] Cfr. MANDEL, op. cit, p. 31.

[5] Cfr. MANDEL, op. cit, p. 32.

[6] Cfr. MANDEL, op. cit, p. 35.

[7] Cfr. MANDEL, op. cit, p. 36.

[8] Cfr. MANDEL, op. cit, p. 37.

[9] Cfr. MANDEL, op. cit, p. 39.

[10] Cfr. MANDEL, op. cit, p. 43.

L’aborto in Argentina è legale

di Mario Sebastiani

L’Argentina è il primo grande paese latinoamericano a legalizzare l’aborto, dopo anni di lotte da parte delle donne argentine, e il secondo in generale, dopo l’Uruguay. Pubblichiamo con piacere l’articolo di Mario Sebastiani che per anni ha seguito con interesse questa lotta di emancipazione. Il suo articolo fornisce spunti di riflessioni, oltre che alcune notizie del successo delle donne argentine.

Dal 24 gennaio, l’aborto in Argentina è legale fino alla quattordicesima gravidanza. In un paese con 37 anni di democrazia, dove l’aborto era un delitto, mi domando cosa sia cambiato.
Da una parte bisogna riconoscere il lavoro tenace del gruppo “Campaña por el derecho al aborto legal, seguro y gratuito”. Ci vuole una lobby sostenuta nel tempo per poter cambiare l’atteggiamento conservatore di deputati, senatori e di tutta una società. Dall’altra parte bisogna rendere omaggio alla “marea verde” di milioni di giovani che, come le Madri di Plaza de Mayo, hanno dipinto di verde con i loro panuelos ogni zaino, ogni borsetta, ogni bicicletta, ogni bus e così hanno occupato le strade, le fabbriche, le scuole, le università, manifestando ogni volta in maniera più numerosa.
La società era divisa, fino a gennaio, tra i sostenitori dell’aborto e un gruppo opposto che diceva decisamente di proteggere la vita dell’embrione o del feto e della donna gravida, ma le cifre degli aborti e nelle conseguenze di un aborto clandestino non gli davano sostegno. In Argentina ci sono da tre a cinque volte più aborti che in paesi simili al nostro. Con le gravidanze delle adolescenti triplichiamo le cifre. Ci sono circa 90 mila nascite da donne con meno di 19 anni e 4 mila da ragazze con meno di 15 anni (bisogna accettare il carattere di stupro della maggioranza di queste gravidanze, di solito compiute da qualche membro della famiglia). Questo stesso gruppo ha radici nella chiesa cattolica e porta avanti un discorso dogmatico-religioso e soprattutto contraddittorio, dichiarandosi contrari alla contraccezione ed all’educazione sessuale nelle scuole. Ancora si sentono voci legate alla Chiesa che affermano che le pillole anticoncezionali sono abortive o bombe di ormoni. È fondamentale accettare che queste sono le uniche strategie per poter diminuire la quantità di aborti. Questo gruppo si appoggia all’idea che 46 cromosomi di una nuova cellula siano un essere umano perfettamente formato e la stessa legge lo assimila giuridicamente ad una persona. La loro posizione è contraria a discorsi diversi, provenienti dalla scienza, dalla bioetica, dalla filosofia. Il danno fatto è irreparabile nel tempo. Ancora oggi si appellano alla magistratura, cercando di proibire la legge per motivi costituzionali. Infatti, la nostra costituzione protegge la vita dal momento del concepimento.
Un altro gruppo, invece, pur capendo la situazione socio-sanitaria delle donne, in quanto l’aborto già esiste, chiedeva venisse proibito con le conseguenze catastrofiche sulla salute delle donne e specialmente delle meno agiate socio-economicamente. Bisogna ricordare che in questi anni di democrazia più di tre mila donne hanno perso la vita e altre decine di migliaia sono state ricoverate negli ospedali per le complicazioni di infezioni o di emorragie. Ciò accade più spesso in ospedali soprattutto del nord dell’Argentina, dove si trovano le province più radicalizzate e più religiose riguardo alla protezione della vita. Questa posizione era rinforzata dal fatto che le donne, anche capendo la situazione, si lasciavano trascinare dalle argomentazioni emozionali di protezione dell’embrione e accettavano, a mezza voce, la concezione che la donna doveva accettare il suo ruolo riproduttivo. Abbiamo sentito, in altre occasioni, che l’uomo doveva partecipare nella decisione riguardo all’interruzione o alla continuità di una gravidanza.
Al terzo gruppo, invece, appartengono coloro che sono d’accordo con la legalizzazione dell’aborto per motivi di salute pubblica e, negli ultimi anni, è cresciuto il numero di persone, grazie alle nuove generazioni consapevoli, che credono che la situazione di rischio ed indegnità delle donne era impossibile da sostenere. Il ruolo del femminismo in questo campo è stato ed è ancora, fondamentale. Le differenze in questo gruppo possono essere limitate al periodo entro il quale è permesso l’aborto.
Torno a dare il mio omaggio alla “marea verde” ed al panuelo verde, simbolo di lotta collettiva, bandiera di lotta sociale, eguaglianza, empatia, riconoscimento e sovranità del proprio corpo. L’importanza di questa marea è ancora più evidente se paragonata alla anomia manifesta delle società scientifiche o dei sindacati, tutti in mano a uomini con simpatie manifeste verso la Chiesa ed il Papa. Ognuno è libero di pensare come vuole. Ma, probabilmente non è del tutto lecito che i rappresentanti del popolo o i governanti vadano nell’aula parlamentare con i loro pregiudizi, essendo poco elastici a capire anzitutto che il nostro paese è laico, secondo che la politica non può essere giudicata con valori, che non tutti condividono come appunto i valori religiosi.

Aborto sicuro

Oggi l’intervento abortivo grazie ai farmaci è diventata una procedura molto sicura. La stessa Organizzazione Mondiale della Salute fa appello a permettere l’utilizzazione di una prostaglandina e di un agente anti-progesterone per produrre l’aborto. Noi ancora non abbiamo il RU 487 (anti-progesterone) ma da anni usiamo il misoprostolo (prostaglandina), che le donne potevano comprare sul mercato nero, oppure negli ultimi anni lo si dava senza problemi negli ospedali pubblici della città di Buenos Aires ed in altre regioni. I medici avevano assunto lo stesso atteggiamento dei colleghi dell’Uruguay, che prima della depenalizzazione dell’aborto utilizzavano la strategia della riduzione del rischio con una rispettosa accoglienza delle donne negli ospedali, davano un’informazione precisa sull’assunzione a casa del misoprostolo e le ricevevano negli ospedali senza denunce e con un rapporto educato e diligente. Già a quel tempo si era ridotta la mortalità materna in maniera significativa. Lo stesso accade da noi. Oggi la mortalità in Uruguay è minore a quella del Canada. Il problema che ancora abbiamo è il grande numero di medici che ancora abusano dell’obiezione di coscienza. Però anche questo sta cambiando grazie alle nuove generazione. Inoltre è importante notare che la medicina si trova principalmente in mano alle donne, il che fa sì che la simpatia per la donna che abortisce sia completamente diversa a quella del medico uomo. Oggi l’aborto non è più visto come un delitto, bensì come una componente della medicina riproduttiva.

L’aborto come un bene sociale

La modifica sostanziale e filosofica realizzata, direi, in gran parte del mondo occidentale e non occidentale è stata la visione della gravidanza non più come un obbligo per le donne. Così l’aborto come la libertà di decidere, se si vuole avere figli, costituisce un bene sociale ed una chiave per la libertà, dando una piena ed assoluta autonomia di decisione su come vogliono vivere le donne. Nascere è sempre stato considerato un privilegio per le donne e non importava in quali condizioni. Secondo il pensiero arcaico, l’essenza della donna risiedeva nel generare nuova vita. Non generare figli, invece, era considerato un enigma filosofico. La filosofa americana Christine Overall , della Queen`s University osserva che le donne devono sempre dare spiegazioni nella scelta di non avere figli, mentre invece, non le si chiede alcuna risposta nella scelta di una gravidanza. A questo punto le Overall ci pone sei questioni etiche, da tenere in conto al momento di scegliere di avere o non avere figli
1. Quale è una buona ragione per avere un figlio?
2. In quali condizioni avere un figlio è moralmente giustificato?
3. Le donne hanno un obbligo morale di avere figli?
4. Quali sono le buone ragioni per non avere figli?
5. In quali condizioni avere un figlio può essere moralmente ingiustificato?
6. Le donne possono avere un obbligo morale a non avere figli?

Le risposte non sono semplici. Può accadere che una donna può trovarsi nelle migliori condizioni per avere un figlio e non lo ha, mentre invece molte donne al mondo si trovano in una situazione di disagio socio-economico ed anche affettivo, ed invece si trovano come in ostaggio di gravidanze. Inoltre è anche comune che pur avendo iniziato una gravidanza, nel caso si facesse una diagnosi di una alterazione fisica o mentale del feto, si interrompe la gravidanza. Oggi uno dei temi più dibattuti della bioetica è la modificazione genetica dell’embrione per evitare diverse malattie. Seguendo il discorso o le domande di Overall, oggi, non si accetta come un dogma il fatto che abbiamo figli per amore. Abbiamo figli sostanzialmente per il fatto che abbiamo rapporti sessuali esattamente come gli animali, il ché non vuole significare che siamo come gli animali, ma che il progetto riproduttivo è così forte che, ogni volta che vogliamo fermarlo (tecnologie anticoncettive), i risultati sono ben diversi da quelli attesi dall’accademia o dagli studi farmacologici. Abbiamo figli perché imitiamo gli amici, abbiamo figli perché abbiamo una vita vuota, abbiamo figli per errori anticoncezionali, abbiamo figli per uno stigma sociale o religioso. Il 50% delle nascite sono non pianificate il ché parla eloquentemente del nostro comportamento riproduttivo.
Ma è chiaro oggi, come ci mostrò la filosofa dell’Università di Columbia, Judith Jarvis Thomson , che un feto non ha diritto di appropriarsi del corpo di una donna. La vignetta da lei creata è un sindacato di musicisti che obbliga una donna a sostenere con le sue reni un famoso violinista. Nel caso lei decidesse di staccarsi dal musicista, lui sarebbe morto. La donna cerca di iniziare una protesta, ma loro le dicono che questo rapporto durerà soltanto nove mesi. Dopo averci lasciato a bocca aperta con questa definizione, la Jarvis, e chiunque di noi, afferma che avere un figlio non è solamente questione di nove mesi, bensì di molti anni della vita di una donna.
Perciò la società sembra aver capito che non era morale obbligare una donna ad avere un figlio non desiderato. Aggiungo io, come sia possibile che, sotto la tesi della difesa della vita, si obblighi a portare in grembo un figlio per nove mesi e dopo accudirlo negli anni seguenti, quando un uomo ed una donna non sono obbligati a cedere un organo del proprio corpo, che potrebbe salvare la vita di un figlio. La risposta a questo quesito è che la società non ci obbliga a fare degli atti eroici, né a genitori, né alle persone in generale.

L’aborto è un diritto. L’aborto è libertà

I miei 45 anni di professione, con oltre 13 mila parti assistiti come medico ostetrico, mi hanno fatto cambiare parere nel tempo. Anche io, in principio, mi sentivo consolato o in una zona di comfort, dicendo che l’aborto era necessario per motivi di salute pubblica. Tutto lì. L’aborto era un male necessario per permettere alle donne di avere un’interruzione sicura della gravidanza. Ma tornando alla vignetta della filosofa Thomson chi di noi si sentirebbe consolato o moralmente coinvolto nella difesa della vita del violinista. E che succederebbe se, invece, di nove mesi uno di noi dovesse essere attaccato ad un’altra persona per darle la vita, e se nel caso non accettassimo, andremmo in prigione? Questa è precisamente la filosofia del progetto antiabortista, per cui la vita è un bene così supremo che una donna, pur non volendo, deve abdicare al suo corpo ed al suo progetto personale per giustificare la vita sacrosanta di un embrione o un feto. Questa idea mi sembra assolutamente totalitaria e non democratica nel senso che un gruppo di persone vogliono obbligare altri a vivere con dei valori non condivisi. Avere o non avere figli devono essere dei concetti morali armonizzati e non valutati come uno più morale dell’altro. Soprattutto sapendo che un aborto è un evento meno rischioso di un parto.
L’aborto fa parte della vita riproduttiva di una donna, permettendole di scrivere la propria biografia nella difesa della sua salute, lo studio, il lavoro. Fa parte, come scrissi prima, della medicina riproduttiva e non della sua antitesi. Come tale deve essere un evento privato. I senatori ed i deputati hanno finalmente sentito la condanna morale delle donne argentine. Adesso la lotta del femminismo, o di un femminismo, continua nel evitare il sessismo, la violenza sessuale, o la violenza di genere. Per le donne la strada sarà sempre lunga.

Il “dio sporco”

Con questo epiteto, non ingiurioso bensì elogiativo, Eduardo Galeano chiamava Maradona, e potremmo pensare che si riferisse alla sua faccia da cabecita negra (piccola testa negra), come vengono chiamati coloro che vivono nelle villas miserias, le baraccopoli, attorno a Buenos Aires. Anche altri calciatori latinoamericani, anzi più precisamente argentini, venuti a giocare in Italia alla fine degli anni Cinquanta, erano stati chiamati in Italia “gli angeli dalla faccia sporca”. In realtà Galeano spiegava: «Maradona è diventato una specie di Dio sporco, il più umano degli dei. Questo forse spiega la venerazione universale che ha conquistato, più di ogni altro giocatore. Un Dio sporco che ci assomiglia: donnaiolo, chiacchierone, ubriacone, divoratore, irresponsabile, bugiardo, fanfarone». Come dare torto a Galeano, alla coscienza civile dell’America latina?
In effetti Maradona è stato l’espressione più giocosa dell’essere argentino. Per questa ragione Maradona è appartenuto al popolo. Se Fichte avesse conosciuto il calcio – come capiterà ad Heidegger – avrebbe detto che Maradona era l’esempio più tipico della sua Zusammengehörigkeit (co-appartenenza). Heidegger riutilizzerà quel termine a proposito di se stesso e della sua appartenenza alle montagne bavaresi, non avrebbe potuto utilizzarlo per il calciatore che amava, il Kaiser Franz Beckenbauer, perché Beckenbauer non apparteneva a nessuno, se non a se stesso. Nessun calciatore è appartenuto al popolo, eccetto Maradona e Garrincha, entrambi hanno finito la loro vita malamente. Garrincha, addirittura, è tornato da dove era partita la sua avventura nel mondo calcistico, in una favela, Maradona lo ha evitato.
Appartenere al popolo in Argentina e in America latina significa conoscere l’esclusione, la miseria, la fame. Maradona lo ha sempre riconosciuto: lui è nato povero, anzi era orgoglioso della sua nascita in povertà. Non è un caso che è stato tifoso del Boca Juniors, la squadra dei poveri, e amato da una città italiana destinata all’esclusione: Napoli. Non poteva esserci miscela più esplosiva di un argentino, nato povero, che si trasferisce al Napoli. Ci aveva provato Omar Sivori, ma il calcio italiano degli anni Sessanta non tollerava l’idea che lo scudetto non finisse tra Milano e Torino. Con Maradona fu impossibile negargli lo scudetto, anzi ne vinse due, come al solito esagerò! Proprio per l’esclusione dal calcio dalla quale Maradona la tirò fuori, Napoli l’ha amato come il migliore dei suoi figli. Addirittura qualcuno pensò che l’esclusione fosse finita definitivamente, ma il Milan di Berlusconi riportò le cose al loro luogo “naturale”.
Maradona ha incarnato il mito argentino e latinoamericano, è stato come un dio greco, ma un dio sporco, ma a differenza degli dei greci ha creato ossimori. Un ossimoro è la categoria tipica della letteratura latinoamericana, il “realismo magico”, un ossimoro è il calcio giocato da Maradona. Nel calcio sempre più geometrico e collettivo dei tempi moderni, lui ha imposto un gioco senza alcuna razionalità, fondato su un solo schema: «Datemi la palla e ci penso io». È un ossimoro calcistico una squadra che si affida a un solo uomo, ed è una verità incontrovertibile, eccetto in un solo caso, quando giocava Maradona, testimonianza sono i Mondiali del 1986, che vinse praticamente da solo. Anche ai Mondiali italiani del 1990, per giunta infortunato ad una gamba, portò l’Argentina in finale, ma il “cerchio magico” del calcio mondiale non poteva permettere all’Argentina e a Maradona di vincere due volte di seguito il Mondiale e poi bisognava dare alla Germania neo-riunificata qualcosa da festeggiare.
Maradona non ha giocato quasi mai con compagni del suo livello, cosa che invece hanno fatto Pelé o Cruyff, che al più è stato un primus inter pares, un dio solitario. Ma, come ho appena scritto, lui bastava, anzi era anche di troppo, visto come ha terminato la sua carriera: fuggendo. Anche questo è stato molto argentino, ha vissuto quasi sempre la condizione del destierro (dello sradicamento), è stato un vagabondo, anche nella vita post-calcistica. Gli argentini si sentono prestati alla loro terra, loro discendono de los barcos (dalle navi), si sentono sempre immigrati, hanno sempre la valigia in mano, è la loro Bestimmung (destinazione o determinazione), sono sempre pronti alla Schicksalswende (la svolta del destino). Adesso Maradona ha lasciato la valigia, il suo destino non ha più svolte.

Fin qui ho scritto le mie riflessioni alla notizia della sua morte. Una ventina di anni fa, mentre vivevo a Buenos Aires, scrissi una recensione alla sua autobiografia Yo soy el Diego (Io sono il Diego) che uscì su La Rinascita. L’ho riletta e l’ho trovata ancora attuale, forse anche troppo attuale. La ripropongo con qualche leggera variazione:
Maradona è condannato al successo e non solo da calciatore. Come scrittore può vantare un successo di vendite da fare morire di invidia autori come Eco, García Marquez, Coelho, King. Nella sola prima settimana di vendite la sua autobiografia è stata acquistata in 125.000 copie in un paese come l’Argentina (36 milioni di abitanti), che raramente concede successi editoriali di questo genere. Ma il villero, cioè il nato in una villa miseria, fin dalla nascita era destinato al successo in qualsiasi attività che avesse intrapreso, ad esclusione della vita quotidiana, dove conduce una solitaria lotta alla droga. È un paradosso, ma Maradona è un personaggio paradossale, così non si direbbe invece del calciatore, sempre capace di risolvere situazioni di gioco in modo fantasioso, estroso, in una sola parola bello.
La lettura dell’autobiografia di Maradona mette di fronte alla descrizione di un carattere piuttosto che di un calciatore. Chi la leggesse per trovarvi segreti del gioco del calcio, oppure la descrizione tecnica di qualcuna delle formidabili giocate del suo autore o la narrazione aneddotica di qualche episodio di gioco rimarrà deluso. L’autobiografia di Maradona è la esatta narrazione della sua vita, cioè una lunga serie di lotte personali, che somigliano più a liti che a battaglie. Non c’è dubbio che il carattere, privo di diplomazia, ha spinto Maradona in questa interminabile serie di scontri. Un esempio lo dà quando narra della sua sfrontatezza di fronte allo stesso Papa, Giovanni Paolo II. Prima di narrare l’episodio, cita la ricchezza della Chiesa, la vicenda del Banco Ambrosiano e le parole del papa rivolte ai bambini poveri e poi rimane incantato, perché il papa gli diede un rosario dicendogli che era un dono speciale per lui. Ma una volta controllato che il suo era identico a quello che era stato offerto alla madre, ritorna e chiede al papa: «”Scusi, Sua Santità, qual è la differenza tra il mio e quello di mia madre?». Non mi ha risposto … Mi ha soltanto guardato, mi ha battuto la mano sulla spalla, ha sorriso, nient’altro! Diego, non rompere le palle e prenditelo che ho gente che mi aspetta, questo mi ha detto con la battuta sulla spalla» (p. 140). Forse Maradona avrà imparato che in certi ambienti e con certi personaggi anche Maradona non è che uno come gli altri?
Gli aspetti del carattere di Maradona, che in campo erano positivi, quali l’irriverenza mai irrispettosa verso qualsiasi avversario, la voglia di giocare sempre al livello che egli solo sapeva raggiungere, l’impegno a vincere qualsiasi partita, in una sola parola l’essere picaro nei significati sia positivi che negativi, erano certamente insopportabili fuori del campo di gioco, dove a tutti gli sportivi si chiede di tornare ad essere persone normali. È comprensibile che chi viene da Villa Fiorito, la villa miseria dove nacque Maradona 40 anni fa, e conquista il mondo correndo dietro ad una palla, o meglio facendo correre la palla dove lui voleva, finisce, poi, per credere di avere una missione speciale nel mondo. Da qui il titolo gridato: «Io sono il Diego della gente!». Il calcio è per Maradona uno strumento per la rivelazione di questa missione. È così inevitabile che il Maradona calciatore compaia nell’autobiografia sempre unito all’uomo e la sintesi non si rivela felice.
In campo incantava la gente anche per la sua correttezza del gioco, perché di solito lo si vedeva a terra a prendere calci da chi non riusciva a contenere la sua bravura, ma era sempre pronto a risollevarsi senza polemiche e a riprendere a giocare come se niente fosse. In sole due occasioni si rese protagonista di gesti aggressivi verso gli avversari, entrambe per lo stesso motivo: mancanza di rispetto alla sua eccelsa bravura. Una nella partita dei Mondiale del 1982 tra Argentina e Brasile, quando scalciò l’incolpevole Batista, perché i brasiliani passandogli la palla lo ridussero al ruolo del “torello”, come si dice in termini calcistici; l’altra nel 1984 nella finale della Copa del Rey tra Barcellona e Atletico di Madrid, per lo stesso motivo. La seconda volta furono botte da orbi tra le due squadre sotto gli occhi sbalorditi del re di Spagna. Il suo commento è molto eloquente: «Dopo ho avuto molta vergogna a causa del re. Chiaro, il re Juan Carlos stava lì, nel palco d’onore, era la sua Coppa, e noi ci stavamo ammazzando di botte. Mi ha fatto pena per lui, perché lui mi piaceva molto, mi era simpatico» (p. 82). Prima di questo scandalo, lo stesso Maradona ricorda di essere stato ricevuto al palazzo reale e di essersi fermato a parlare con il re per un’ora e mezza, invece dei soliti venti minuti del cerimoniale. Il Barcellona, dopo quello sfogo, si liberò di lui, vendendolo al Napoli, probabilmente era già nota la sua dipendenza dalla cocaina. I catalani sono freddi, razionali, cortesi, non potevano sopportare uno spirito perennemente fuori dalle righe, come il suo. Così Maradona arrivo in Italia, anzi a Napoli.
Un altro episodio da ricordare riguarda noi italiani più direttamente. La sua famosa dichiarazione alla vigilia di Italia-Argentina nel mondiale del 1990, quando dichiarò: «”Mi disgusta che adesso tutti chiedano ai napoletani che siano italiani e che sostengano la Nazionale … Napoli è stata emarginata dal resto d’Italia. L’hanno condannato al razzismo più ingiusto”. Non volevo sollevare i napoletani contro l’Italia, affatto, ma stavo dicendo la verità» (p. 181). Classica giustificazione di un adolescente mal cresciuto, che non ha il minimo senso dell’opportunità e della situazione. Molto più maturi furono proprio i napoletani che gli risposero: «Tiferemo perché vinca l’Italia, ma rispettando e applaudendo gli argentini». Lo stesso Maradona riconosce che fu la prima volta che l’inno nazionale argentino fu applaudito in quel mondiale. Ma non si chiese cosa stavano pensando gli italiani d’Argentina, i milioni di tanos, come ci chiamano in Argentina, parola che viene da napolitanos? Si era dimenticato che l’Italia in Argentina è chiamata la “segunda madrepatria”. Purtroppo nella finale di Roma, i soliti cretini accolsero l’Argentina con i fischi e a Buenos Aires altrettanti cretini posero una bomba nel consolato italiano e ci furono manifestazioni aggressive nei confronti della numerosissima colonia italiana. Sono dovuti passare dieci anni per fare dimenticare quelle stupide parole e quelle ancor più stupide conseguenze.
Il suo carattere per molti aspetti è molto simile a quello dell’argentino medio, con una mescolanza di contrasti che può essere attrattiva, ma anche scostante. Generoso e arrogante, rispettoso e insopportabile, amichevole con chi gli è devoto e astioso con chi non lo ammira, altruista ed egocentrico, coraggioso e sfrontato, privo di senso delle cose e degli uomini, in una sola parola picador (il cavaliere che molesta il toro, prima che il torero entri nell’arena). Viene da chiedersi: sarà stato un buon esempio fuori del campo per gli argentini? Se lo si confronta con Pelé come esempio di correttezza sportiva e professionale dentro e fuori del campo, perde senza dubbio il confronto, ma non lo perde dentro il campo di gioco. A proposito di Pelé il giudizio di Maradona va riportato: «Come giocatore è stato il massimo, ma non ne ha saputo approfittare per esaltare il calcio. Ha pensato politicamente, ha pensato che poteva essere il presidente dei brasiliani. E non credo che un calciatore, o un ex calciatore, debba pensare ad essere presidente di un paese. Mi sarebbe piaciuto che si fosse proposto, come ho fatto io, a presiedere un’associazione che difendesse i diritti dei giocatori, che si fosse occupato di Garrincha e non lo lasciasse morire nella miseria, che lottasse contro tutte le azioni dei potenti che ci pregiudicano. Non mi confronto con lui, l’ho sempre detto e lo ripeto. E quando dico che non mi confronto, non parlo soltanto di questioni calcistiche. Ho avuto la possibilità di incontrarmi con lui diverse volte. […] Era una questione di pelle, cozzavamo troppo; ci vedevamo e saltavano le scintille» (p. 284). Non manca un fondo di verità nelle parole di Maradona, ma molte pagine prima nel libro lui stesso ricorda che Pelé, quando era coinvolto nello scandalo della droga a Napoli, gli aveva augurato di tornare a giocare.
Sulla droga, altro motivo per cui sarà sempre ricordato, si assume tutte le personali responsabilità, ma giustamente afferma che la lotta dei governi contro la droga è blanda, per interessi complessi che inducono i governi a tollerare l’esistenza dei drogati (p. 80). Sull’impegno a difendere i diritti dei calciatori, sostiene che in fondo lo spettacolo lo fanno i giocatori e che i dirigenti ne approfittano per i loro affari. Sono verità che è difficile porre in discussione, ma incomprensibile rimane quella lunga lista di nemici, come se tutto il mondo l’avesse con lui; anche se riconosce che il mondo lo ha beneficiato, dandogli la possibilità di vivere una vita fantastica. In fondo ha sempre dovuto giocare contro qualcuno, contro qualcosa. La più bella giocata della storia del calcio la fece, ovviamente, lui e la fece contro l’Inghilterra, ai Mondiali del 1986 in Messico, che aveva umiliato la sua Argentina nella guerra delle Falklands/Malvinas, soltanto quattro anni prima. E quella giocata fu preceduta da più famoso goal della storia del calcio; famoso perché un segnato da un Dio, un Dio sporco, si tratta del goal fatto con la mano de Dios.
La sua franchezza, anche sfrontata, è in contraddizione con l’amicizia di quei potenti che nulla fanno o hanno fatto per migliorare le condizioni della gente che non ha avuto la sua fortuna. Si dichiara così amico di Menem, a cui dedica il libro, mettendolo nella dedica insieme a Fidel Castro, che ammira e a cui deve la vita: «Per il fatto di essere vivo devo ringraziare il Barba (Dio) e … il Barba (Fidel)» (p. 298). Ammirazione incondizionata dichiara di avere per Ernesto Che Guevara, che ha scoperto proprio in Italia. Il suo orgoglio di argentino è stata la molla che lo ha spinto ad ammirare il Che. Un suo giudizio su Videla e il Che è del tutto condivisibile: «Gente come Videla, che ha fatto sparire 30.000 persone, non meritano nulla. Molto meno sporcare il ricordo del trionfo di una gran massa di ragazzi … [a proposito del Mondiale del 1978] … Per questo dico: si lamentano di me, dicono che sono contraddittorio, e il nostro paese? Nel nostro paese c’è ancora gente che difende Videla e sono molti meno coloro che difendono il Che. Molti di meno! Non lo conoscono affatto. Gente come Videla hanno agito in modo tale che il nome dell’Argentina all’estero rimanga sporco; invece, quello del Che ci dovrebbe far sentire orgogliosi» (p. 36).
Forse Maradona sarebbe dovuto rimanere ancora in campo e le sue contraddizioni le si sarebbero perdonate più facilmente. Nonostante dica: «La gente deve intendere che Maradona non è una macchina che dà felicità» (p. 66), non c’è dubbio che alcune sue giocate fanno parte dell’immaginario di tanta gente in tutto il mondo, che per questo lo ringrazia ancora.

Coronavirus, porci(,) capitalisti e l’inizio del XXI secolo. Si inaugura un’altra epoca?

La significativa politica sanitaria, di fronte a un evento che coinvolge il popolo nel suo insieme (Pandemia), deve tentare un esercizio integrale che assorba (nella contingenza) le altre dimensioni della politica pubblica, il resto dei programmi sociali, di ridistribuzione e di salario politico. Nell’immediato lo sguardo va alla questione di come preservare vite umane, di attenuare il numero delle vittime, diventa prioritario, da un lato, come dare assistenza ai membri della società che passano alla condizione di “malati gravi”, che lancia una sfida a una miserabile infrastruttura ospedaliera di terzo livello.

La Conquista de México

di Enrique Dussel

(traduzione di Antonino Infranca)

Mentre il sovranismo dilaga in tutto il mondo eurocentrico, la coscienza critica non eurocentrica si chiede se non sia il caso di ripensare i valori fondamentali del mondo occidentale. L’Occidente è nato con la Conquista dell’America e il saccheggio delle sue ricchezze ed è proprio dall’America latina, precisamente dal Messico, che è arrivata una richiesta impellente: il presidente del Messico, Andrés Manuel López Obrador, rappresentante vivente della storia e della tradizione messicana pre e post-conquista, interpella con una lettera il Re di Spagna, affinché chieda perdono e restituisca, per quanto possibile a cinquecento anni di distanza, dignità a chi è stato trattato brutalmente in nome del Dio dell’amore e della pace.

Di seguito, pubblichiamo l’articolo del filosofo argentino, Enrique Dussel, che raccoglie l’interpellazione delle vittime della Conquista

Nel 1992 si è dibattuto il problema dell’invasione dell’Amerindia (denominata eurocentricamente la Scoperta d’America) a cinquecento anni dal 1492. Sarebbe bene che in questi due anni (2019-2021) ricordassimo la problematica ancora attuale per gli effetti della sanguinosa conquista delle grandi culture della Mesoamerica (l’atzeca, la maya, la zapoteca, l’otomì, ecc.) che fu un genocidio di significato mondiale, perché qui si produsse lo scontro e la dominazione violenta dell’estremo occidente di Eurasia (Spagna) sulle culture dell’estremo oriente dell’Asia (poiché i nostri popoli originari arrivano probabilmente dall’Asia orientale attraverso lo stretto di Bering). Certamente la Spagna (per la sua occupazione militare) e Roma (per l’organizzazione della Cristianità delle Indie occidentali) sono autrici e complici di un genocidio. In effetti, il papa concede ai re di Spagna con la bolla Inter caetera del 3 maggio 1493, le terre appena scoperte con l’obbligo di evangelizzare i loro abitanti, cioè le non ben conosciute Isole del Mare Oceano ad occidente dell’allora scoperto Oceano Atlantico. Qui si trova già il primo motivo che giustifica il chiedere perdono ai popoli originari da parte del Papa. Lo stesso Bartolomé de las Casas si chiedeva con quale diritto il Papato concedeva o donava al re di Spagna terre e popoli dei quali non aveva alcuna conoscenza, possesso o dominio? Bartolomé negava al Papa questo diritto, che inoltre lo rendeva complice del crimine ingiusto e del genocidio della conquista, con i suoi massacri e con l’orribile servitù in cui aveva ridotto i popoli originari del continente. E, riguardo a Spagna e Portogallo, e specialmente ai loro re e al Consejo de Indias, furono responsabili della ferocia, della violenza, dei sanguinosi scontri con armi sconosciute agli indigeni (come cannoni, balestre, cavalli, ecc.) e di ogni tipo di vessazione che si compirono. Valgano alcune citazioni di lettere che ebbi tra le mie mani nell’Archivo de Indias di Siviglia, inviate al re, mostrando la situazione: «Molto argento che di qui si strappa e va a questi Regni, è ottenuto con il sangue degli indios e va avvolto nella loro pelle» (Lettera del vescovo di Mechoacan Don Juan de Medina y Rincon, del 13 ottobre 1583; AGI, Messico, 374). E ancora: «Saranno quattro anni che, per terminare di perdere questa terra, si scoprì una bocca dell’inferno, per la quale entra ciascun anno una gran quantità di gente, che la cupidigia degli spagnoli sacrifica al loro dio, ed è una miniera di argento che si chiama Potosì» (Lettera del vescovo Domingo di Santo Tomás, del 1 luglio 1550; AGI, Charcas 313).

Il minimo che si possa dire a chi ignori la violenza e l’ingiustizia della conquista dell’America latina, e molto specialmente del Messico, è che è ignorante e che, non avendo cattiva coscienza di un vero crimine, si rende oggi complice di quello stesso crimine, benché sia, e in maggior misura, il re di Spagna. Ho letto migliaia di Schede Reali nelle quali i re spagnoli stampavano una grande firma e che dicevano: IO IL RE, senza ulteriore indicazione (si dovrebbe verificare mediante la data del documento il nome del personaggio). I noti storici demografi, Cook-Boràh e Simpson attribuiscono al Messico una popolazione di 11 milioni di abitanti nel 1519, che decrebbe nel 1607 a 2 milioni di indigeni. È chiaro che ci furono malattie contro le quali la popolazione indigena non era protetta, ma i massacri nelle guerre narrate dal Chilan Balam[1], i maltrattamenti nelle miniere, l’assegnazione degli indios e le fattorie e la produzione di zucchero, e il lavoro domestico delle donne indigene nelle case dei bianchi (che diventavano concubine, obbligandole a lasciare i loro mariti, per essere vessate dagli spagnoli e dai creoli), la trasformazione del territorio agricolo dai più fecondi a deserto sterile (che produsse fame mortale tra tarahumaras)[2] causerà una crisi demografica gigantesca. Tutto questo ci suggerisce che è molto conveniente in Messico cominciare ad avere presente, giorno per giorno, il 500° anniversario dell’orrenda Conquista del Messico. Ci sono date emblematiche: il 18 febbraio di 500 anni fa Hernán Cortés partiva da L’Avana con 600 uomini, 16 cavalli, 10 cannoni, 32 balestre. Il prossimo 22 aprile di 500 anni fa sbarcò a Veracruz; avendo già occupato in Messico, Tenochtitlán il 30 giugno sconfigge Panfilo Narváez[3]. Il prossimo anno, il 30 giugno, si compiranno i 500 anni dell’inizio dell’assedio di Città del Messico con l’aiuto dei tlaxcaltecas e di altri popoli dominati dagli aztechi. 500 anni fa, il 13 agosto del 1521 prenderanno e distruggeranno Tenochtitlán. Devono essere date ricordate e studiate, giorno per giorno, per prendere coscienza che fummo colonia e, dopo, non abbiamo smesso di essere neocolonie, del che non si ha autocoscienza a causa dell’eurocentrismo culturale dei nostri creoli (i messicani bianchi e americani, figli di spagnoli, che dopo rimangono al potere fino ad oggi). Nel futuro, la piena decolonizzazione politica, economica e culturale è necessaria, dopo 500 anni dalla Conquista. Deve essere un proposito della Quarta Trasformazione. È tempo che il re di Spagna e il papa romano chiedano perdono, non solo per mezzo di parole bensì con atti oggettivi, ai popoli originari per il crimine della Conquista! Ma anche che chiedano perdono i creoli messicani, i bianchi e principalmente i razzisti, ai popoli originari realizzando gli Accordi di San Andrés[4] e dando piena autonomia ai nobili e colti eredi delle antiche culture millenarie centroamericane!


[1] Miscellanee maya dei XVII e XVIII secoli dove si narrano gli scontri tra i Maya e i primi spagnoli arrivati in Yucatan.

[2] Comunità indigena del nord del Messico.

[3] Conquistador spagnolo che entrò in conflitto con Cortez.

[4] Accordi tra il governo messicano e l’Esercito Zapatista di Liberazione Nazionale per concedere diritti alle popolazioni indigene (1996).