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Le religioni alla prova del dialogo. Note a Le religioni e le sfide del futuro. Per un’etica condivisa fondata sul dialogo

Per quanti operano, con ruoli diversi, all’interno della società e delle istituzioni, dunque anche all’interno dell’Università, il libro di Chiti rappresenta uno strumento di grande utilità per migliorare la comprensione di ciò che l’Autore chiama “il contributo che le religioni possono dare a un avanzamento della civiltà”. Può sembrare una frase retorica, che dice tutto e niente, ma non è così. A mio avviso, può invece diventare un monito dirompente se le religioni, a partire dai loro leader, decidono di lavorare per mettere in relazione il bene degli esseri umani con il bene del Creato.
Concordo, dunque, con Chiti sul ruolo “orientativo” delle religioni nella società globale e condivido la sua preoccupazione che la “logica della contrapposizione amico-nemico” possa prendere il sopravvento all’interno delle due sfere per antonomasia, quella della politica e quella del sacro, ma pure tra le “due sfere”, o tra i due “ordini” – per essere più affini al dettato costituzionale (art. 7, co. 1 Cost.) – quello dello Stato e delle confessioni religiose, ostacolando o finanche sbarrando la strada al dialogo, inteso (filosoficamente) come “crocevia che lascia scorrere le differenze, le fusioni di orizzonti” .
È chiaro che, per operare in un’ottica di solidarietà cooperativa verso il mondo c’è bisogno anche di “rafforzare i legami interreligiosi”, riconoscendo – come hanno scritto Papa Francesco e il Grande Imam di Al-Azhar nel Documento sulla Fratellanza umana del febbraio 2019 – che “il pluralismo è voluto da Dio”. Bene ha fatto, perciò, qualcuno a chiosare questa posizione bipartisan come “condanna alla radice di ogni visione fondamentalista” .
Chiti scrive che c’è bisogno di un “nuovo umanesimo” e individua, per esempio, nel fattore “ecologico” uno dei punti di svolta più importanti per risolvere i “problemi dell’Antropocene”, cioè “dell’epoca geologica attuale nella quale l’uomo è in grado di indirizzare e modificare tutti gli equilibri del pianeta terra” . Il Papa, dal canto suo, nella Laudato sì ha parlato chiaramente di “eccesso antropologico”, per cui l’uomo si costituisce come “dominatore assoluto”.
Un esempio di questo “antropocentrismo deviato” (Papa Francesco) è l’affermazione del presidente del Brasile Bolsonaro quando rivendica il diritto del governo brasiliano di distruggere la sua porzione di foresta amazzonica. A questa dichiarazione possiamo rispondere prendendo in prestito le parole del pontefice contenute nell’Esortazione Querida Amazonia del 12 febbraio 2020: “Alle operazioni economiche, nazionali e internazionali, che danneggiano l’Amazzonia e non rispettano il diritto dei popoli originari al territorio e alla sua demarcazione, all’autodeterminazione e al previo consenso, occorre dare il nome che a loro spetta: ingiustizia e crimine”.
Qui è come se Papa Francesco facesse propria la “prospettiva di un garantismo costituzionale” di portata sovrastatale (planetaria) , il cui nucleo risiede nella necessità/urgenza di rifondare una legalità (Papa Francesco direbbe una “relazione”) all’altezza delle emergenze globali.

Di fronte a questa sfida – parafrasando il Francesco della Laudato sì – “il divino e l’umano” non possono restare indifferenti e sono chiamati a riconnettersi in un universale non-omologante. La fraternità di Papa Francesco è l’opposto della globalizzazione vuota, è “costruzione” all’interno della quale la tensione non è dogmatica (“tecnocratica”) bensì “relazionale”, cioè “permeabile alla comunicazione” . “Non rinunciamo [dunque] a farci domande sui fini e sul senso di ogni cosa” (Laudato sì, n. 113). E poi: “Non c’è ecologia senza un’adeguata antropologia”. (Laudato sì, n. 113).
Si tratta perciò di un “movimento” – di una prospettiva di rifondazione della legalità globale – per nulla scontato (il sovranismo politico e quello mercatistico mal digeriscono i limiti e i vincoli costituzionali), che si nutre di scelte responsabili. il Documento di Abu Dhabi del 2019 (cit.) – che Chiti definisce di “portata storica” – si apre proprio con un chiaro impegno alla “responsabilità religiosa e morale”, senza la quale non sarà possibile “diffondere la cultura della tolleranza, della convivenza e della pace”, né “intervenire (…) per fermare lo spargimento di sangue innocente”, la “fine” delle “guerre” (…), “il degrado ambientale e [il] declino culturale e morale che il mondo attualmente vive”. E si tratta di un “movimento” che incontra fattori di resistenza ampi e diversificati sia all’interno del “giardino di Cesare” (citavo prima il sovranismo politico e quello mercatistico) che all’interno del “giardino di Dio” .
Su questo dilemma Chiti imbastisce la trama del suo libro analizzando con dovizia tutta una serie di questioni ad alto tasso di complessità e di interazione tra loro: il valore della laicità, il rapporto tra scienza e fede, il ruolo delle religioni come “istituzioni” e la loro azione all’interno dello spazio pubblico, il “peso” della religione e delle religioni nelle scelte individuali, le sfide della globalizzazione, l’azione missionaria delle chiese, i processi di rinnovamento all’interno delle comunità di fede (dall’interpretazione dei testi sacri alle ortoprassi nei contesti di immigrazione), il ruolo dei giovani e delle donne, la governance dei rapporti tra istituzioni pubbliche e organizzazioni religiose, la geopolitica del fattore religioso e il protagonismo dei leader, il dialogo interreligioso.
Quest’ultimo aspetto, in particolare, richiede un grande sforzo di servizio “in comune” tra soggetti religiosi (persone, leader e organizzazioni) e attori politico-istituzionali, lato sensu. Se, dal punto di vista delle religioni, “il dialogo interreligioso richiede di mettersi al servizio del dialogo di Dio con l’umanità” , dal punto di vista della politica (e del diritto) “la democrazia non può mai farsi i fatti suoi, perché i fatti sono suoi, se li consideriamo come elementi di crescita della coscienza e della consapevolezza del cittadino” . Per cui, parlare oggi di laicità, come “prefisso della libertà” , non significa limitarsi a ribadire astrattamente la “distinzione tra ordini distinti” (Corte cost. n. 334/1996) ma qualcosa di più, specie oggi che il panorama culturale e religioso si presenta molto più frastagliato e discontinuo rispetto al passato .

Si tratta, concretamente, di concepire una koinè democratica , le cui categorie di fondo (eguaglianza, libertà, pluralismo, solidarietà, laicità, etc.) devono essere sottoposte ad un lavoro di aggiornamento per essere più rispondenti alle nuove domande di cittadinanza interculturale . E questo lavoro di aggiornamento, inevitabilmente interdisciplinare, passa attraverso la conoscenza, il dialogo, l’inclusione, l’interazione, unica via (a mio avviso) per “garantire i diritti e i doveri di tutti verso tutti” . Dal modo come verrà concepito e organizzato questo sforzo capiremo quanta volontà c’è di “tenere insieme” l’umanità, come direbbe Papa Francesco .
È perciò fuori discussione che, all’interno del paradigma costituzionale – nel quale colloco la riflessione di Chiti – si imponga la necessità (se non addirittura l’urgenza) di conferire massima effettività ad una teoria integrata dei valori (perciò “interculturale”), dove tutto quanto risulta funzionale alla costruzione di una “proposta comune sui diritti” trovi massimo sostegno e diffusione, sia da parte degli apparati politici (in senso multilivello), chiamati a lavorare per accrescere il valore della cooperazione (art. 11 Cost.), sia da parte delle religioni, inquadrate innanzitutto come formazioni sociali, per essere meglio vincolate al “patto repubblicano” e, dunque, impegnate anch’esse a rimuovere gli ostacoli (nella società e nelle comunità spirituali) che impediscono il “pieno sviluppo della persona umana” (art. 3, co. 2 Cost. e l’art. 4, co. 2 Cost. dove si parla, non a caso di “progresso spirituale della società”).
Una teoria integrata (“interculturale”) dei valori costituzionali ha buone ragioni per costituire lo sfondo anche per una teoria del dialogo interreligioso, perché ciò che caratterizza la prima è la “ricerca delle comunanze, di ciò che ci rende umani”, [che] tradotto in linguaggio costituzionale [significa] l’idea[valore] del principio personalista” , declinato anche in ragione di ciò che “un individuo avvert[e] verso una realtà più grande di lui, nella quale (…) si identifica” .
Per non essere, dunque, di sola facciata, il dialogo interreligioso (come prodotto raffinato del dialogo interculturale) richiede la disponibilità (non scontata) a compiere un lavoro di ripulitura incrementale dei linguaggi specialistici (politico, giuridico, teologico, etc.). Significa avere “fiducia nella portata veritativa delle diverse tradizioni spirituali, contro il fanatismo integralista di chi ritiene che la verità sia tutta e solo la propria dottrina” e che “rischia [sottolinea Chiti] di confinare le religioni in rappresentazioni mitologiche”.
Mi pare, allora, che la versione di Chiti sul significato del dialogo interreligioso (e non solo) sia abbastanza adesiva a quanto da me appena detto, specie quando scrive che: “la collaborazione tra le religioni deve andare oltre il reciproco rispetto e mettere al bando forme di coercizione, di arroganza, la pretesa di imporre (…) un esclusivo punto di vista”. E che per dare concreta attuazione a questo intento occorre “integrare tutti in una nuova cittadinanza, che faccia delle differenze di fede e cultura una ragione di sviluppo e progresso, non di divisione”, erigendo la laicità a “valore cardine della democrazia”.

Serge Latouche, “I nostri figli ci accuseranno?” (Castelvecchi, 2019)

di Diego Infante

 

«Uscire dall’economia». Questo il mantra che scandisce l’ultimo lavoro tradotto in italiano dell’economista e filosofo francese Serge Latouche, interamente dedicato al «pregiudizio di generazione» (Neri D. 2013: 102-104) che grava sul pensiero d’Occidente. Massima chiarezza fin dal titolo, per un agile diario di viaggio in quello che è l’«Antropocene», epoca in cui, come sottolinea l’autore, «L’uomo è diventato una forza tellurica in grado di interferire con i grandi cicli del pianeta».

A una iniziale pars destruens dedicata alla storia economica, ovvero alle cause più o meno remote della negazione del concetto di limite, il solo argine in grado di assicurare un credito verso le generazioni future, segue una pars construens, che individua nella decrescita la «fonte di un futuro sostenibile».

L’organigramma è il seguente: dall’originaria condizione di debito nei confronti delle forze cosmiche e del sacro immanente, si è infine giunti a un’accezione di “debito” di tutt’altro genere: come afferma Alexander Langer (citato significativamente in apertura e in chiusura), «Mai una generazione prima della presente ha avuto nelle sue mani la stessa decisione se lasciar continuare la successione di generazioni o se interromperla o metterla comunque assai pericolosamente a repentaglio».

Ecco perché, alla base dei cascami generazionali dell’economia moderna, Latouche individua giustappunto la «separazione radicale tra gli uomini e il loro fondamento naturale».

Da questo punto di vista, Francis Bacon raggiunge inusitati vertici di chiarezza, in buona continuità, del resto, con il celebre passo della Genesi (1, 26-28): «La natura è una prostituta; noi dobbiamo soggiogarla, penetrare i suoi segreti e incatenarla secondo i nostri desideri».

I presupposti teorici dell’Antropocene trovano poi in Cartesio un’ulteriore conferma. La separazione res cogitans-res extensa, ovvero mente-corpo, di fatto «assegna all’uomo moderno la missione di diventare signore e padrone della natura». Da qui alla riduzione del mondo a criteri puramente utilitaristici il passo è decisamente breve.

E infatti, sul banco degli imputati a noi più prossimi, l’economista Latouche pone proprio gli economisti: essi, come egli afferma, «Hanno giustificato, favorito e accompagnato il sistema produttivista e continuano in gran parte a farlo, dando prova di una straordinaria cecità che confina a volte con una cattiva fede criminale».

Già perché se da principio persino i vincitori del Nobel si premuravano di assecondare il più bieco negazionismo – nonostante gli allarmi lanciati dal Club di Roma –, le cose non sono poi così cambiate, visto che molti economisti, pur non negando un problema che ormai è sotto gli occhi di tutti, continuano a propugnare le solite ricette, arrivando a sostenere che solo la crescita può contribuire alla risoluzione del problema ambientale. Secondo costoro, infatti, l’aumento del PIL «consentirà di pagare il conto senza grandi difficoltà». In breve, una spudorata celebrazione delle «magnifiche sorti e progressive», già messe all’indice da Leopardi.

A questo punto il lettore si chiederà come sia possibile uscire da questa prigione, che non è solo teorica, ma soprattutto pratica. La proposta di Latouche, cui egli dà spazio nella seconda parte del testo, è una sola: la decrescita. Per contrastare quella che Günther Anders definisce l’«obsolescenza dell’uomo», occorre costruire una società dell’«abbondanza frugale», secondo la formula coniata dall’antropologo Marshall Sahlins, perché un pianeta finito non può ospitare una crescita che si suppone infinita. In breve, nulla a che spartire con le varie teorie dello sviluppo sostenibile, che hanno soltanto lo scopo di inoculare la malattia in forma più gradevole (degradabili a mero “greenwashing”), sebbene lo stesso Latouche ammetta la necessità di procedere per gradi.

Quanto alle proposte concrete, l’autore individua nell’economia circolare il ribaltamento del paradigma vigente improntato alla cultura dell’“usa e getta”, la cui rappresentazione più icastica risiede nella commercializzazione di prodotti destinati a un ciclo di vita abbreviato “ad arte” (cosiddetta «obsolescenza programmata»). Da precisare che non si tratta di inventare nulla di nuovo: come egli afferma, «La natura, in effetti, non produce rifiuti […] In essa tutto è riciclato».

Orbene, nonostante i vari esempi addotti (uno su tutti: le bioplastiche), Latouche sa perfettamente che il capitalismo, pur di sopravvivere, è pronto ad adottare ogni strategia possibile, fosse pure raschiare il fondo del barile. Ed è per questo che egli si fa portavoce di un’idea molto forte, probabilmente l’unica possibile: delegare il raggiungimento di questi obiettivi alla coercizione statuale.

Al contrario, ribaltare il paradigma “dal basso”, prosegue l’autore, può avvenire solo attraverso la (ri)scoperta del «dono» (evidente il riferimento a Marcel Mauss e alla sua scuola), della «lentezza» e della «vita contemplativa».

Nondimeno, ciò non significa abbandonarsi a velleità quali l’abolizione del denaro, che «deve servire e non asservire». Di più: è proprio grazie all’uso consapevole della moneta che è possibile ristabilire l’aspetto fiduciario e la reciprocità tra le persone. In breve, non un fine, ma un mezzo.

Per tirare le somme, con questo scritto Serge Latouche si conferma uno dei più acuti e dissacranti osservatori del nostro tempo, il cui ulteriore pregio risiede in un’ottima capacità narrativa, che consente anche al lettore meno avvertito di comprendere i meccanismi, più o meno occulti, che reggono il paradigma vigente. Del resto, espressioni quali «decrescita», «obsolescenza programmata», ma anche «decolonizzazione dell’immaginario» e «pedagogia delle catastrofi», sono ormai patrimonio consolidato di un lessico ambientalista degno di questo nome.

La conferma, se ce ne fosse bisogno, che parlare di economia a un pubblico vasto non solo è possibile, ma oltremodo necessario. A patto, ovviamente, di «uscire dall’economia».