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Il Caso Assange: dieci anni di guerra al diritto all’informazione.

Se una decisione governativa non può essere professata pubblicamente prima di essere messa in atto è ingiusta a priori e dimostra che l’operato dei rappresentanti politici è contrario ai principi che sorreggono il diritto del Patto civile.
Il fatto che Assange, nella sua qualità di giornalista, abbia pubblicato documenti che provino l’infedeltà di alcuni politici ai principi che essi stessi dovrebbero propugnare, non può in alcun modo essere visto come un atto criminale contro la sicurezza di uno stato. Al contrario è sempre necessario che la verità sia resa pubblica al fine di rendere il dibattito politico il più possibile autentico e che non vi sia scollamento tra i fatti e le opinioni dei cittadini.
ne hanno parlato Sara Chessa, Antonio Cecere e Antonio Coratti

Contingenza e liquidità: il pensiero corto e gli interrogativi della pandemia

Il pensiero è divenuto illustrazione di ciò che è già, di un esistente che non ha ieri e neanche domani, l’immutabile continuità di innovazione senza novum. Perché questo è ormai il suo statuto epistemologico, lo statuto appunto degli specialismi, del pensiero corto. E perché la politica rimane così orfana di ogni intelligenza sociale e si riduce anch’essa ad amministrazione dell’esistente, – nella migliore delle ipotesi – ad abilità immunitaria, che appresta un tappo per ogni buco che si apre.
Eppure non è detto che tutto vada necessariamente così. E per tre ragioni.

Il futuro della Chiesa nelle relazioni internazionali e il ruolo delle religioni nella società in tempi di grandi cambiamenti

Gianfranco Macrì

1. Le note di commento che seguono riguardano quello che, in prima battuta, potremmo definire un piccolo trattato sui principi che hanno regolato l’ordine internazionale nel corso del ‘900 e sul modo come questi dovranno essere rielaborati di fronte alle sfide del nuovo secolo. Sullo sfondo permangono antiche e nuove piaghe: la guerra, la diffusione di pestilenze, la povertà, le disuguaglianze; tutto questo mette in allarme l’umanità, sollecita soluzioni all’altezza della complessità globale, invoca l’azione di nuovi attori in grado di comprendere lo scenario e di proporre alternative di governance efficaci e risolutive.

C’è ancora bisogno del ruolo delle organizzazioni internazionali? Come, questi apparati costruiti dopo la II guerra mondiale – e finalizzati a garantire la pace e la cooperazione in campo politico, sociale ed economico – riescono a garantire gli equilibri geopolitici di fronte all’avanzare di nuove emergenze (specie migratorie e sanitarie)? Gli attori in scena cambiano volto, e nuove soggettività, dai tratti non più soltanto statualistici, si impongono in modo marcato, rivendicando visibilità e potere. Che fare?  

Il quesito investe certamente la politica e la storia (e poi l’economia, l’antropologia, etc.) ma anche il diritto e la sua funzione di “scienza pratica”, perché le istituzioni politiche in diverse parti del mondo sono sotto pressione, subiscono l’aggressione di fattori “concorrenziali” (fondamentalismi religiosi, gruppi di interesse, ideologie nazionaliste, etc.) che hanno ricadute sulla tenuta del principio democratico (come principio equilibratore).  L’esempio più calzante, perché storicamente più noto, riguarda proprio l’incapacità da parte degli organismi internazionali di governare lo strumento della guerra, praticando, in diverse circostanze, la politica dell’affidamento alla “super potenza” di turno[1].

Qualcuno, a ragione, osserva che la trama dei diritti umani non ha saputo innervare allo stesso modo i diversi poli del pianeta; le crisi umanitarie sarebbero, perciò, crisi determinate anche dal cattivo funzionamento del circuito della legalità internazionale. Certamente sono mutati i criteri e i metodi di rappresentazione degli scenari – perché sono cambiati gli assetti di governance di un tempo. Il Novecento (qualcuno dirà) è finalmente alle nostre spalle, ma il suo fascino persiste, anche nelle declinazioni più nocive. Si tratta, allora, di verificare quali saranno gli effetti di una crisi mai così lunga e penetrante (adesso accresciuta sul fronte sanitario) che dal 2008 si dispiega a livello mondiale seguendo tracciati diversi, continuando a “mordere” in modo trasversale anche quegli spazi ritenuti meglio attrezzati in termini di diritti e di garanzie (l’Unione europa, giusto per fare un esempio di “prodotto” meglio riuscito del Novecento post-seconda guerra mondiale).

Quello, dunque, del “veccho modello” di gestione delle emergenze (concepito secondo una logica piramidale, con in cima pochi attori “padroni del sistema”) rappresenta un “capitale” concettuale e operativo praticamente mai dismesso – sebbene declinato in modo diverso a seconda del momento e dei protagonisti coinvolti – dunque affidabile (intendo dal punto di vista della “tenuta” e del controllo della società). Gli strumenti operativi possono ovviamente essere diversi, finanche l’uso “retorico” e demagogico dei diritti e delle libertà si presta al gioco: l’importante è che il sistema regga; a qualunque costo. Un esempio? “Esportare la democrazia[2] dove le tradizioni culturali sono “altre” (con tutto quello che ne è scaturito in termini di “messa in sicurezza” dei sistemi politico-istituzionali e socio-economici). Sullo sfondo è sempre necessario che si consolidi la tesi che c’è sempre qualcuno capace di affascinare, di “unire il popolo” proteggendolo dal nemico esterno, di rievocare i fasti del passato e di indicare la strada, soprattutto in tempi di “decadenza morale”, di crisi economica, di pericolo grave per la salute pubblica, di “invasioni” pericolose anche connotate in senso religioso (fondamentalismo, terrorismo, integralismo, etc.)[3]. Mai come in questo frangente della storia, la democrazia (quella di derivazione liberale, rappresentativa e costituzionale, per intenderci) è tornata ad essere al centro del dibattito politico e scientifico, a dimostrazione che non di una conquista definitiva si tratta, bensì di un processo autoriflessivo all’interno del quale vanno considerate variabili diverse e anche distanti tra loro, tutte però accomunate dalla volontà di allargare i canali della partecipazione[4].

Questo scenario, così frastagliato, che vede prevalere, a diverse latitudini (come il Mediterraneo) narrazioni politiche “egemoniche”, che affascinano sempre più leader di nazioni “minori” smaniosi di instaurare regimi politici neo-sovranisti aventi come obiettivo la critica, anche radicale, dei sistemi (e delle regole) sovrastatuali di organizzazione degli interessi, dei diritti e delle libertà (es. Unione europea in primis), riflette – come un prisma – la progressiva sofferenza in cui è precipitato quel grande principio consacrato nelle carte internazionali – fonte di pacificazione e di legalità condivisa – che è la cooperazione. Si fatica, cioè, a valorizzarne il primato, collocandolo al centro dell’agire civile dei popoli democratici.

I motivi di preoccupazione, allora, non mancano. Ben vengano, quindi, quei contributi che possono aiutarci a verificare l’eventuale presenza di fattori in grado, se non proprio di invertire la rotta, quanto meno di indicare percorsi alternativi, lungo i quali imbattersi in figure, oppure esperienze, all’altezza delle sfide in atto.

Tra i segnali di maggiore interesse che possono aiutarci a comprendere il quadro generale delle problematiche adombrate, la dimensione religiosa occupa un posto di prima grandezza. Si è parlato, non a caso, di ritorno della religione nello spazio pubblico, ma non sempre si riesce a spiegare a cosa questa espressione concretamente rinvia.

Da qui l’utilità del libro di Luigi Rossi, la cui lettura si offre quale utile strumento per capire come il fenomeno religioso (e non solo questo) ritrovi centralità nelle pieghe della geopolitica contemporanea e come alcuni protagonisti – in questo caso Papa Francesco (il protagonista dell’opera) – agiscano alla luce dei repentini cambiamenti in corso. Una cosa è certa: siamo tutti consapevoli di trovarci di fronte ad un “giro di boa” della storia mondiale, e che tutto quanto accade in qualsiasi posto del pianeta, mai come adesso, riverbera ovunque, producendo conseguenze anche dirompenti (il rimando al coronavirus- Covid-19 è ahimè automatico).

Luigi Rossi parla di «riflessione sulla spiritualità»[5]. Forse perché è finito (oppure attraversa un momento di crisi-ripensamento) il tempo del discorso centrato in massima parte sul peso politico delle organizzazioni religiose (a dispetto del sentimento religioso della persona e delle comunità) ed è iniziato quello calibrato sulla ricerca di senso di un nuovo homo viator. Certamente il discorso è più ampio. Qui, infatti, si propone – in filigrana – un nuovo modo di “convertire” l’umanità al senso di responsabilità, solidarietà, partecipazione, senza per forza passare “attraverso” le chiese (lato sensu), oppure senza che il loro imprimatur continui ad essere ritenuto decisivo per mettere in sicurezza le sorti del mondo. Quest’ultimo si governa anche con l’ausilio delle organizzazioni religiose, ma sono le persone (credenti, non credenti, diversamente credenti) che stanno a cuore a Papa Francesco. Naturalmente gli apparati più conservatori presenti sia nella Chiesa cattolica che in altre comunità religiose guardano con sospetto e apprensione a questo capovolgimento di prospettiva, perché è chiaro che la tensione temporale del potere religioso rischia di affievolirsi se sbilanciata a favore di quella “interiore” che purifica e modella il cittadino-fedele. Ma Bergoglio si muove su un sentiero diverso, quello diretto a recuperare lo “spirito delle origini” (un cristianesimo dal volto umano) e da questo far nuovamente germogliare una novella centralità ecclesiale.

2. Un argomento di grande dibattito è quello del rapporto tra Islam e democrazia (occidentale). I grandi rivolgimenti avvenuti dopo l’11 settembre[6] – fino alle “Primavere arabe” e oltre – hanno consigliato qualcuno a continuare a battere il tasto della irriducibilità tra i due fattori in campo (Islam vs. democrazia). A consolidare questo refrain si sono poi aggiunti una serie di attentati terroristici in alcuni paesi europei, dai quali in molti – specie leader di movimenti politici di estrema destra, o comunque populisti e neo-sovranisti – hanno tratto l’assunto schematico Islam = terrorismo. Quella che va sotto il nome di islamofobia non è altro che la materializzazione del teorema appena enunciato, che ostacola, attraverso vari strumenti (politici, sociali, giuridici, etc.) la costruzione di uno spazio pubblico aperto anche ai musulmani (il progetto di un Islam europeo), il cui contributo in termini culturali ed economici può anche non essere strumentalmente colto nella sua valenza positiva, ma resta invece chiaro a quanti, animati da buone intenzioni, lavorano fianco a fianco con le organizzazioni islamiche per la costruzione di una società tollerante e inclusiva.

La cosa sorprendente è che questo “grande ossimoro” (Islam vs. democrazia) continui a raccogliere ampio sostegno anche all’interno dei circuiti culturali liberal-progressisti[7]. Riecheggia, dagli Stati Uniti fino all’Europa, l’esperienza del teorema neo-conservatore americano, quel serbatoio di pensiero, imbastito da ex intellettuali di sinistra, che ha legittimato, con argomentazioni anche argute e una buona attività di lobbying posta in essere fino ai vertici della casa Bianca, la necessità di implementare (sia in ambito domestico che internazionale) scelte politiche focalizzate sul primato americano nella scena politica internazionale e, dunque, chiaramente anti-islamiche[8].

Ecco, dunque, il dilemma: come si fa a costruire un’arena internazionale aperta al contributo di tutti senza “appropriarsi” di Dio? Senza cioè declinare la religione in chiave nazionalistica (modello “religione civile” stile USA post-11 settembre) oppure come risorsa di senso avente lo scopo di onorare la memoria del passato (imbalsamandola) e orientare (ideologicamente) la storia?[9]

Una inversione di rotta così radicale (che significa capovolgere il seguente paradigma: dalla religione immersa nel linguaggio politico – che si fa istituzione e potere – alla religione come fatto sociale che si offre al mondo) può condurre a due opposti approdi.  

Per alcuni, potrebbe significare dover disperdere la religione in qualcosa di riflessivo, in qualcosa cioè che “accompagna” il discernimento ma che non si impone in modo “verticale” sull’esistenza umana (modello religioso-confessionale). Questa modalità esplicativa permetterebbe di evitare gli errori del passato, quando la religione “sorpassava” la dimensione del politico imponendo il suo dogma, erga omnes. Per altri, invece, la religione andrebbe “recuperata” innanzitutto come componente costitutiva della socialità, cioè in quanto fattore inevitabilmente “reale” (dunque anche sotto il profilo organizzativo, ma non nella versione confessionale), tenuto conto del fatto che mai come in questa fase storica il fattore religioso sembra trovare sempre più spazio «[nei] corpi, [nel]le pratiche (…) [e in] precisi luoghi sulla terra»[10]. La religione, quindi, intesa come fattore integrativo dell’esperienza umana che “accompagna” l’esistenza del soggetto-persona e lo conforta nei momenti più difficili della sua esistenza[11].

Di fronte a questo “conflitto” politico-religioso – che spazia dalla dimensione nazionale a quella internazionale e che chiama in causa soggetti diversi, afferenti non solo alla dimensione organizzata dei culti ma pure alla società nella sua declinazione orizzontale – è legittimo indagare quali sono le trasformazioni in corso sia all’interno del discorso politico che di quello religioso. Su questo secondo fronte, indubbiamente l’avvento di Papa Francesco rappresenta una delle novità più importanti. Partendo dal modo come egli si approccia alla diversità (culturale e religiosa), specie quella più esposta al rischio dell’intolleranza, è possibile raccogliere alcuni punti fermi, che lasciano intravedere la costruzione di un modello di confronto con l’alterità destinato ad integrare, più in generale, la costruenda nuova governance della cittadinanza interculturale[12]. Quella di Bergoglio, allora, sembra essere una mano tesa verso chi lavora alla costruzione di ponti e non all’innalzamento di muri. E questo non può non essere motivo di contrasto prima di tutto con il Presidente degli Stati Uniti Trump. Bergoglio [infatti] si colloca agli antipodi, innanzitutto «psicologicamente [,] rispetto all’attuale inquilino della Casa Bianca»[13] il cui «muscoloso unilateralismo»[14] non trova accoglienza all’interno del palazzo di vetro delle Nazioni Unite, né a Santa Marta.

A costruire la giusta trama discorsiva attorno alla “politica” religiosa di Bergoglio provvede l’Autore del libro, abile a muoversi tra le pieghe del mito, specie quando rinvia ai «significati concreti e simbolici»[15], contenuti in un’opere come l’Odissea, che ci aiuta a comprendere la forza devastante – in un clima sociale frammentato – che può scaturire da una distorta percezione della diversità culturale[16]. Secondo Rossi, un sentiero praticabile per costruire una “coscienza globale” potrebbe consistere nel sostenere lo stile diplomatico «di Francesco, che utilizza un nuovo linguaggio, che risponde all’indole francescana e gesuitica fatta di comunicazione diretta»[17]. A questo modus operandi del Papa, Rossi dedica una parte importante del libro (la prima). Un passaggio, tra i tanti, colpisce il lettore:

«L’unica alternativa per realizzare un equilibrio condiviso e armonioso, presuppone la pratica di una politica improntata alla strategica fiducia, in alternativa a sterili e distruttive minacce, cioè il soft power secondo la logica della diplomazia multilaterale»[18].

Quando Bergoglio usa l’espressione “Terza Guerra Mondiale a pezzi”, ha chiaro il contributo che le religioni possono offrire «nell’attuale contesto internazionale»[19]. Il fattore “R” (come lo chiama Rossi), allora, non solo non può essere escluso dal circuito delle relazioni internazionali (perché si tratta di un attore di prima grandezza, in primis sotto il profilo storico e sociale, e perché grazie al contributo delle chiese e delle loro organizzazioni periferiche in diverse parti del mondo la fiammella della speranza resta ancora accesa), ma deve essere «trasformato in vincente strumento di soft power»[20]. Ovviamente, questo “ri-adattamento” al nuovo ordine delle cose, ha bisogno di trovare il consenso e il sostegno di tutta la struttura ecclesiastica. Si tratta, nelle intenzioni del Papa, di abbandonare il modello novecentesco delle relazioni di vertice[21] e di passare ad un sistema di presenza diffusa nelle pieghe della sofferenza, testimoniando la fede e agendo fianco a fianco alle istituzioni civili. La dimensione confessionale non può continuare ad essere ritenuta come prevalente fino a schiacciare (e anche mortificare) le tante esperienze di solidarietà orizzontale praticate su scala planetaria. Non cogliere le potenzialità di una “nuova Chiesa” significa – sulla scia di Bergoglio – tradire il patto col Vangelo, far percepire ai fedeli che la distanza con le gerarchie può rappresentare un problema nel percorso di testimonianza e marginalizzare l’opera di tutte quelle realtà attive nello spazio pubblico (le periferie del mondo) costituzionalmente riconosciute (art. 118, ult. co.).

La trama della solidarietà è l’opera più importante a cui il Papa ha deciso di dedicare la sua missione pontificale. È una sfida di grado molto elevato, che soltanto adesso inizia a raccogliere l’attenzione che merita e a trovare condivisione all’interno della Chiesa. Scoraggiare (rectius: umiliare), perciò, tutte queste energie ancora in ordine sparso che attendono di essere ricondotte ad unità, vorrebbe dire assestare un duro colpo alla Chiesa-comunità e arrecare un danno enorme alla società, non ultimo, in termini economici. Perché laddove lo Stato non riesce più ad arrivare[22] – per carenze strutturali (detto in modo sintetico) – può farcela la società civile organizzata (all’interno della quale sono comprese anche le diverse espressioni del solidarismo cattolico e delle altre organizzazioni religiose) [23].   

La trasversalità a cui ho fatto riferimento (sia orizzontale che verticale) è allora uno dei cambiamenti più significativi di fronte ai quali ci troviamo. Ma non pensiamo che sia “senza radici”, che non abbia collegamenti con nessuna esperienza del passato, che sia frutto di un “esperimento in vitro” in corso di approntamento e che richieda ancora del tempo per essere testato. Intendo dire che, se Papa Francesco ha saputo catalizzare l’attenzione su di sé, azionando una comunicazione degna di un qualsiasi grande protagonista della storia, questo non toglie che, sfogliando le pagine del passato non sia possibile trovare alcun riferimento circa il modo come le religioni sono state capaci di contribuire alla costruzione di nuovi paradigmi di governo della società (specie in posti di frontiera). Papa Francesco e la sua Chiesa sono solo gli ultimi esempi di partecipazione alla costruzione di un nuovo sistema di relazioni umane e politiche della contemporaneità. E insieme a loro, anche altri attori afferenti alla galassia religiosa[24].

Rossi, da storico, non si lascia sfuggire l’occasione per puntualizzare alcuni aspetti che possono aiutare la comprensione del fenomeno in oggetto. Chiama perciò in causa addirittura i Padri fondatori della democrazia americana[25], che sebbene in larga misura deisti o scettici:

«non hanno mai dubitato del fatto che la religione fosse una componente significativa dell’ordine sociale perché parte essenziale dell’ordine morale»[26].

L’argomento trova ampia trattazione nel secondo capitolo, dove si approfondisce il modo come le religioni, nelle diverse parti del mondo, hanno influito sulle scelte di natura politica, e il modo come il potere politico ha stabilito “rapporti” con questi importanti attori sociali. Si tratta di una parte dell’opera dove l’Autore spiega, innanzitutto, come la Chiesa ha impostato storicamente il suo ruolo nell’arena dei soggetti politici internazionali. Da qui, una meticolosa ricognizione sul metodo adottato dalla Chiesa cattolica (rectius: la diplomazia vaticana) durante il “lungo Novecento” a difesa della cristianità e della pace. Una ricognizione che prende in considerazione, tra i diversi strumenti a disposizione, alcune importanti encicliche papali inquadrate come strumenti di diffusione di pratiche di smart power[27]. E così scopriamo la Mater et Magistra di Giovanni XXIII (1961), sulla “visione planetaria della questione sociale”, la Populorum Progressio di Paolo VI (1967), sullo “sviluppo umano di tutti i popoli”, la Sollecitudo rei socialis di Giovanni Paolo II (1987) sulla solidarietà come strumento di umanità universale, fino alla Caritas in Veritate di Benedetto XVI (2009) sulle nuove prospettive dell’umanità tra mercato, verità e solidarietà. Quest’ultima enciclica, in particolare, si presta – anche per ragioni temporali – a meglio aiutarci a comprendere quanto e come, quello strumento “raffinato” rappresentato dalla fede riesca a misurarsi rispetto alle problematiche del tempo attuale. Problematiche che richiedono un approccio pragmatico, e dunque una fede sorretta da ferma ragione, per non smarrirsi nel vortice del “rapimento” fine a sé stesso. È chiaro che un criterio del genere, non solo si presta a stabilire migliori canali di interazione tra mondi diversi (scienza e fede, per esempio), ma anche ad allargare la platea dei soggetti a base religiosa desiderosi di contribuire col proprio apparato di credenze agli svolgimenti dei fatti sociali[28].

3. Non sappiamo se Papa Francesco riuscirà a condurre la Chiesa verso una «nuova Primavera»[29]; di certo, una serie di condizioni materiali sembrando indicare che questo processo è in atto, ma la Chiesa è una società complessa, e con questa “complessità” il pontefice si sta confrontando (non senza problemi), sapendo bene di godere del sostegno di buona parte del “popolo di Dio” (e dell’episcopato), ma pure di avere diversi nemici interni (ed esterni). Avendo “cura” di queste difficoltà – e dunque guidando con benevolenza e decisione il suo gregge lungo il sentiero della normalizzazione – Bergoglio prova a legare in sequenza nuove determinazioni teologico-dottrinarie (sfida complessa) e nuove interpretazioni giuridiche e liturgico-pastorali. Da quanto abbiamo appreso in questi anni di pontificato, Bergoglio vuole una Chiesa adesiva ai valori del Concilio Vaticano II. In lui è forte l’elemento della “relazione” tra la dimensione istituzionale della Chiesa e la base dei fedeli: questo significa riconoscere a tutti i credenti la possibilità di partecipare alla vita della Chiesa. Contemporaneamente immagina di riconsiderare il momento dell’autorità “al servizio” della Comunità, riconoscendo certamente la sua funzione essenziale ma all’interno di un perimetro strutturato in forma più orizzontale.

Si tratta di una prospettiva indubbiamente fascinosa, specie per chi guarda all’azione di Papa Francesco con occhio cooperativo e non si lascia impressionare dalla supremazia dell’apparato di potere della Chiesa (elemento ancora forte, specie in certi ambienti filo-curiali). Da punto di vista, poi, di chi studia le relazioni internazionali, questa evidenza si concretizza nei termini di in piano a cerchi concentrici che vedono, appunto, il Pontefice provare a mettere in sintonia quanto accade in Europa rispetto a quanto accade oltre oltreoceano (USA), in Ameria Latina, e nel Sud-est asiatico. Bergoglio teme il ritorno del dei nazionalismi al pari dell’avanzare della povertà e della concentrazione delle ricchezze nelle mani di poche persone. Si batte per la difesa delle radici cristiane in Europa, ma ritiene altrettanto importante implementare lo sforzo anche nella difesa dei diritti e delle libertà ovunque calpestati. La sua è una metodologia ad ampio raggio, che non ammette gerarchie né corsie preferenziali (intra ed extra Ecclesiam). Il primato del Vangelo è ciò che gli interessa interamente; il resto (relazioni, regole, prassi, etc.) serve solo a integrare questa premessa necessaria, che affascina anche persone e organizzazioni non religiose, perché declinata sul primato della persona e sulla funzione servente degli apparati di potere. È, il suo – in buona sintesi – un progetto di convergenza della Chiesa sulla società contemporanea, che pero richiede gesuitico discernimento. Ovviamente, la convergenza su cui Bergoglio sta lavorando rappresenta per molti cattolici non-tradizionalisti una speranza, perché significa che la Chiesa – pur attraversata da tanti problemi (alcuni dei quali anche gravi) – prova a cambiare la società, cambiando essa stessa. Da qui la sottolineatura di Luigi Rossi quando scrive che Francesco non pone “condizioni” nel suo modo di comunicare, e che «solo chi è in malafede può proporre una lettura eretica dei suoi messaggi»[30] .

3.1. Bergoglio ha deciso di immergersi nel corpo vivo di una «umanità in disfacimento»[31] che però prende per mano proponendo una “lettura” della fede per nulla “credulona” – una fede che mortifica il Tommaso contemporaneo[32] –, bensì “fiduciosa”, capace di orientare senza togliere la libertà (che è libertà di cercare la verità)[33]. Al Papa gesuita non importa (o non sembra importare) tanto il modo come la Chiesa appare dal punto di vista istituzionale (questo non è indubbiamente un profilo secondario, ma nella narrazione di Bergoglio resta più sullo sfondo), quanto piuttosto il coraggio che dimostra nel saper tenere «la porta sempre spalancata»[34], nel provare a riconciliare l’umanità nella sua diversità (l’archetipo della trinità come amore plurale che abbraccia la vita in tutte le sue forme)[35].

Si tratta di un messaggio dirompente perché alla base c’è un grande anelito verso l’unità che si contrappone alle divisioni (le verità, potremmo dire con linguaggio laico – che convergono verso un unico percorso di salvezza, per tutti).

Scrive L. Rossi, parafrasando un passo del vangelo di Luca:

«Dio non guarda al peccato, ma valuta sofferenze e bisogni (…). La storia della salvezza [realizzata da Gesù col suo sommo sacrificio] non prevede esclusioni, separazioni, respingimenti” (187). Il “Regni di Dio procede sempre per inclusioni»[36].

De resto, se il primo ad entrare nel Regno di Dio è «un uomo dalla vita sbagliata»[37] – il malfattore che sulla croce cerca lo sguardo di Gesù e lo implora dicendogli “ricordati di me” – allora capiamo quanto il messaggio di Bergoglio sia tutto concentrato sulla prospettiva di Dio, sulla «solidarietà tra Dio e l’uomo»[38], sulla fiducia, sul senso di responsabilità, sulla generosa costruzione di una quotidianità che non distoglie lo sguardo dall’umanità (dal contesto dove ciascuno di noi opera), che chiama all’impegno; dunque alla misericordia; quel sentimento di intima commozione, scrive l’Autore, che genera compassione, pietas e nello stesso tempo azione, impegno civile, studio, doveri.

La cosa sorprendente, ascoltando Papa Francesco, è vedere con quale pacatezza egli inviti tutti i credenti ad intraprendere una sorta di pellegrinaggio interiore, a meditare sul significato dell’umano in relazione con la società; una società dove sembra mancare la direzione, ma pure il progetto comune. Ed ecco allora la preoccupazione per una Chiesa che Bergoglio vuole impegnata a ritrovare la sua collocazione nel mondo (partendo dall’angolo dietro casa), a farsi povera per entrare nuovamente in sintonia con la sofferenza del genere umano, senza però smarrire il suo ruolo di “orientamento” nello spazio pubblico e nelle dinamiche internazionali; a fungere da faro, da punto di riferimento per quanti (cittadini e istituzioni) sono impegnati nella costruzione di un nuovo ordine politico democratico.

Ma l’esempio di Papa Francesco ha bisogno di testimoni coraggiosi. Perché questo è un papa difficilmente “catturabile”. Lo sanno bene i cattolici conservatori (la lobby tradizionalista, direbbe qualcuno). E il libro di Luigi Rossi non tradisce le aspettative. Rossi è concreto come Bergoglio. È consapevole sia della cultura politica latinoamericana (del suo peso nell’ecumene delle relazioni internazionali) sia del progetto politico-ecclesiastico del Papa gesuita, della sua “radicalità”. Bergoglio, scrive Rossi, vuole «ritornare alla sorgente della fede (…), liberandosi della formalità (…) che certi moralisti tartufi pretendono d’imporre»[39] e lavorare alla ricomposizione di una «Chiesa policentrica»[40], una Chiesa aperta al dialogo, che rompe gli steccati e rinnova il proprio linguaggio, che invita i battezzati a sentirsi protagonisti di questa impresa, una Chiesa che «deve riscoprire le potenzialità della propria creatività missionaria mettendo da parte il lamento sterile, generato da tentativi di autodifesa»[41].

Questa chiamata in sussidiarietà del popolo di Dio – e di tutte le soggettività operanti nello spazio pubblico – presuppone che la Chiesa-organizzazione si dichiari più vicina alle problematiche morali e sociali; e dunque: «decentramento di alcune competenze alle chiese nazionali»[42] e nuovo modo di intendere il primato petrino, declinato in senso “collegiale”, capace, cioè, «come un cantiere sempre aperto»[43], di valorizzare «gli episcopati nel discernimento di tutte le problematiche dei loro territori»[44]. Insomma, una buona “cura dimagrante” per le strutture burocratiche romane «appesantite

[scrive l’Autore]

da una prassi che determina disfunzioni e allontana i vertici della Chiesa dalla pratica di una visibile e credibile povertà, in grado di favorire la definitiva opzione per i poveri»[45]. Da qui anche l’accento che il Papa pone ad “una riforma finanziaria che non ignori l’etica”.

3.2. C’è un aspetto, poi, nel libro di Rossi – che potremmo definire di diritto pubblico-ecclesiastico – che secondo me merita di esser adeguatamente sottolineato. Mi riferisco al tema della sana cooperatio come strumento di raccordo virtuoso tra dimensioni parallele: da un lato, la società civile e le sue istituzioni pubbliche (dunque lo stato, nelle sue diverse declinazioni anche ordinamentali e dunque multilevel), dall’altro la Chiesa (anch’è essa vista come soggetto multiforme). Ebbene, l’art. 1 dell’Accordo di modificazione del Concordato lateranense (legge n. 121/1985) parla esplicitamente di «reciproca collaborazione [tra Italia e Santa Sede] per la promozione dell’uomo e il bene del paese», e Rossi sottolinea il grande auspicio di Papa Francesco affinché si venga a determinare una “convergenza” (tra sfera pubblica e sfera religiosa, apparati politici e apparati ecclesiastici) su “azioni” comuni aventi lo scopo di “trasformare la mentalità”, a partire da chi gestisce il potere (quello economico in primis). A differenza del passato, quando i due “ordini” (art. 7, comma 1 Cost.) si confrontavano (e si scontravano) quasi sempre per logiche di potere (il timore era quello di perdere consenso e “presa” sulla società), oggi, con l’avvento di Francesco, sembra possa finalmente maturare una volontà generale diretta a farsi carico delle sorti dell’umanità – e dei problemi pratici che la affliggono – cedendo, entrambi i fronti (quello civile e quello religioso) quote della propria sovranità per il bene comune[46].

Un esempio calzante ce lo offre la questione ecologica, sulla quale Papa Francesco incalza gli stati e raccoglie consensi ampi, capace com’è di proporre una rinnovata narrazione antropologica in direzione contraria rispetto alle «forme di potere condizionate dalla tecnologia»[47]. Su questo aspetto aggiungo solo che, rispetto al tempo in cui anche l’ecologia era stata sfigurata dal vortice delle ideologie, oggi, con la presa in carico del tema da parte di Papa Francesco (ma anche grazie al protagonismo di altri soggetti capaci di imporsi all’attenzione dei media e dei poteri sovrastatali) il problema del modo come «avere cura della casa comune, la Terra, nostra sorella e madre»[48] acquista una centralità politica che va al di là di ogni previsione. Anche in questo caso, Rossi ricorre allo strumento dell’enciclica sfogliando Laudato sì (2015), dove il Papa «invita a riflettere, senza innalzare steccati ideologici»[49]. Questa premessa è la forza del pensiero del Papa perché egli riesce dove altri hanno fallito: rivolgersi a tutti (credenti e non) per valorizzare la responsabilità di ciascuno. In continuità con i suoi predecessori, il pontefice utilizza questo tema sia per valorizzare la dimensione collegiale intra Ecclesiam, sia per allargare il raggio d’azione del suo pensiero costruendo una narrazione politica: la costruzione di un idem sentire aperto alla meraviglia del creato. Laudato sì è, perciò, una Enciclica assolutamente “sociale”, perché la crisi che ci investe è socio-ambientale e richiede un approccio “integrale”[50].

4. Papa Bergoglio è un autentico figlio dell’altro Occidente perché incarna al meglio la radicalità carismatica verso «le creature e le cose»[51], che è un tratto tipico della cultura latino-americana. Questo lo spinge a non trascurare un fattore determinante di quella tradizione: l’amore per la natura che si sposa con la società e le sue complesse articolazioni. Questa sensibilità antropologica verso il creato, lo mette automaticamente più in sintonia con quei sistemi politico-istituzionali che hanno “costituzionalizzato” la dimensione del buen vivir – l’idea di una forma di vita in armonia con la natura –(es. Ecuador e Bolivia) che, collegata al principio di relazionalità «portano inevitabilmente all’affermazione di nuove forme di partecipazione popolare e[a] nuove forme di governo e così [ad un] nuevo constitucionalismo»[52]. Correttamente Rossi parla di «intima relazione fra i poveri e la fragilità del pianeta»[53]. Una relazione ontologica incentrata sulla “ricerca del senso”, dunque, intrinsecamente solidaristica[54].

Questa ampiezza di visione, il Pontefice la radica nella «sacralità della natura»[55] per poi indirizzarla verso la condanna esplicita di qualsiasi logica di sfruttamento dell’uomo sull’uomo, e del capitalismo finanziario che non garantisce uguali opportunità perché provoca disuguaglianze e ingiustizie[56]. Siamo al cospetto di una trama che si dispiega lentamente ma inesorabilmente, perché ha chiaro l’obiettivo e gli strumenti d’azione. Una trama all’interno della quale uno dei nodi principali è il destino della Chiesa che il Papa vuole, per un verso, de-clericarizzata – meno attenta a soddisfare l’ego dei singoli chierici – e nello stesso tempo fortemente impegnata a dismettere l’antica pratica di “scambiarsi la veste” col potere politico per finalità esclusivamente egemoniche. A seguire vengono i giovani: la categoria sociale più a rischio perchè più facilmente condizionabile dal fascino del denaro. Per Bergoglio, scrive Rossi, ai giovani bisogna insegnare

«a pensare criticamente, superando i localismi e affrontando i problemi mondiali con la consapevolezza di essere cittadini del mondo, in grado quindi di specchiarsi negli altri con simpatetica predisposizione»[57].

E infine, il ruolo dei laici nella chiesa del nuovo secolo. Bergoglio vorrebbe una società all’interno della quale il laicato diventi protagonista attento e attivo (fare politica è importante), anche a costo di mettersi contro una certa «egemonia clericale»[58]; una “Chiesa in uscita”, capace cioè di rompere con le vecchie logiche centralistiche e aperta al mondo, con le sue contraddizioni e le sue speranze. Rossi scrive che «non bisogna aver paura della propensione a una radicale revisione teologico-canonica»[59] e aggiunge che questa profonda rigenerazione si inquadra nell’originale approccio di Francesco alla geopolitica, riassumibile nella trama relazionale del messaggio evangelico, irriducibile alle posizioni apicali e convergente sul bene dell’umanità.

Nessuno, allora, dovrà sentirsi “lo scarto del mondo” perché tutti sono necessari per costruire quel progetto “armonico” che già Paolo VI riteneva essenziale. Il carisma di Bergoglio non sfugge certamente a Rossi, che parla del Papa come del «primo nunzio della Santa Sede»[60], enumerando alcune tra le più delicate vertenze internazionali verso le quali il Papa ha già indirizzato l’attenzione; questo «anche a costo d’incomprensioni da parte di chiese locali gelose della vita interna e attente a privilegiare lo spazio clericale o specifiche concezioni etnico-politiche»[61].

A tutto questo, l’Autore aggiunge l’attenzione del Pontefice verso le problematiche del sud del mondo, verso le tensioni che attraversano la non ancora completa unità politica dell’Europa, verso il metodo del dialogo interreligioso (unico antidoto al radicalismo falsamente ammantato dalla fede) e in direzione dei rapporti con la Cina, gli Stati Uniti, la Turchia, l’Egitto e la Russia (per citare gli attori più rilevanti). Tutti fronti complessi, in buona parte in via di svolgimento.

Siamo nel pieno di una navigazione che non riesce ancora a scrutare l’approdo finale. Ma forse Francesco ha ben in mente dove e come arrivare. Di certo la sua missione terrena continuerà a offrirci occasioni preziose da cogliere se vogliamo provare a cambiare le sorti dell’umanità e con esse quelle delle comunità. Se c’è una cosa che il Papa argentino non è disposto a lasciare in secondo piano questa è rinvigorire «la fecondità della cattolicità romana»[62] nello spazio scalpitante (e sofferente) della globalizzazione. E gli stati farebbero bene a condividere alcune delle sue politiche, tenuto conto del fallimento definitivo di vecchi modelli di governance delle relazioni internazionali.


[1] Sullo sfondo si posiziona la posizione di alcuni critici del sistema-ONU. Ricordo in particolare la tesi di C. Rocca (oggi direttore de Il Foglio), Contro l’ONU. Il fallimento delle Nazioni Unite e la formidabile idea di un’alleanza tra le democrazie, Torino, 2005, secondo cui l’alternativa a questo “fallimento” consisterebbe nel progettare un’alleanza tra le democrazie avente il «compito di rimuovere gli ostacoli che i regimi dittatoriali frappongono alla democrazia e al rispetto dei diritti umani».

[2] Tra i primi a sostenere la tesi, certamente F. Fukuyama, Esportare la democrazia. State-building e ordine mondiale nel XXI secolo, Torino, 2005.

[3] La politica c.d. dei respingimenti (v. il caso italiano), i provvedimenti di natura giuridica aventi ad oggetto la messa in sicurezza dei confini nazionali messi in pericolo dalle “invasioni” di immigrati clandestini (in violazione della normativa internazionale, come specificato da recente giurisprudenza), la comunicazione politica costruita ad arte “a ridosso” di questa tipologia particolare di messaggio (c.d. sovran-populista), etc. rappresentano il tentativo di replicare, su scala nazionale, la logica egemonica diffusa ad ampio raggio da vecchi e nuovi protagonisti della scena planetaria (es.: il sogno di un nuovo “califfato”, la grande madre Russia, il motto “America first”, etc.).

[4] D. della Porta, Democrazie, Bologna, 2011.

[5] L. Rossi, La geopolitica di Francesco. Missione per l’ecumene cristiano, Francesco D’Amato editore, 2019, p. 65.

[6] A. Benazzo, Il dibattito su terrorismo, democrazia ed emergenza dopo l’11 settembre, in Percorsi Costituzionali, 1/2008, pp. 127-136. Alla luce dei recenti fatti legati alla diffusione del virus Covid-19 si impone una riflessione più ampia attorno alla categoria della sicurezza che includa anche le tematiche ambientali, di salute pubblica e del “nuovo” ordine pubblico ad esse conseguenziali.

[7] Molte realtà del nord-Europa, certamente non di destra, si sono lasciate infatuare dal ragionamento sovranista, della necessità cioè di non poter più essere (ridotto all’osso!) “tolleranti con gli intolleranti”. Mai come nel caso dei musulmani gli schematismi funzionano bene, purtroppo … e producono disastri! Da qui, l’affermazione, anche importante, di molte opere letterarie, aventi come nucleo centrale del ragionamento la “presa del potere” da parte di partiti politici di ispirazione islamica con i quali dover scendere a patti per non mettere a rischio la civiltà europea. Ha fatto scalpore il romando di M. Houellebecq, Sottomissione, Milano, 2015. Sul modo invece come la sinistra europea guarda verso la tematica islamica, si rinvia, tra i tanti, a O. Roy, L’Europa è ancora cristiana? Cosa resta delle nostre radici religiose, Milano, 2019.

[8] Fra i tanti, F. Felice, Prospettiva “neocon”. Capitalismo, democrazia, valori nel mondo unipolare, Soveria Mannelli, 2005.

[9] Prendo in prestito la frase dal libro di E. Gentile, La democrazia di Dio. La religione americana nell’era dell’impero e del terrore, Roma-Bari, 2006, p. 185, tra i migliori a saper descrivere il ruolo della religione negli Stati Uniti dopo l’11 settembre.

[10] J.S. Jensen, Che cosa è la religione?, Roma, 2018, p. 236 (il corsivo è dell’Autore).

[11] In questa ipotesi, religione e spiritualità è come se viaggiassero sullo stesso treno; pur avendo parti costitutive diverse, entrambe agiscono “a supporto” della ricerca di senso da parte dell’uomo. Una società, in grado di procedere per assemblaggi virtuosi tra le diverse realtà che la compongono, ne guadagnerebbe in termini di tenuta generale. Ovviamente, all’interno dei diversi contesti geografici e politico-sociali, il modello può facilmente trovare resistenze da parte delle organizzazioni religiose (o delle tradizioni spirituali) di più antico radicamento, che si vedono accomunate ad altre esperienze (non autoctone) a dispetto di una “memoria” che per loro “deve” conservare la stessa matrice.  Sul modo come le religioni storiche reagiscono di fronte al tentativo da parte dell’Unione europea di considerare tutti i sistemi di credenza equiparati dal punto di visto giuridico, mi permetto di rinviare a G. Macrì, M. Parisi, V. Tozzi, Diritto civile e religioni, Roma-Bari, 2013, p. 87.

[12] Icasticamente, L. Rossi, op. cit., p. 28, scrive: «Che fare dello straniero?» (mio il corsivo).

[13] L. Rossi, op. cit., pp. 239-240.

[14] L. Rossi, op. cit., p. 271.

[15] L. Rossi, op. cit., p. 8.

[16] Rinvio a M. Ricca, Polifemo. La cecità dello straniero, Palermo, 2011, p. 18, che ci guida a “scoprire” l’alterità e le modalità attraverso le quali si è chiamati a organizzare l’incontro con l’altro. «L’Odissea [scrive l’Autore] è una gigantesca grammatica dell’incontro con l’estraneo (…). Come una profezia, la parabola delle avventure di Ulisse potrebbe mostrarci l’esito di un relazionarsi con l’Alterità che ci fa divenire estranei a noi stessi (…). Nell’episodio di Polifemo [in particolare], narrato nel IX libro del poema, è racchiusa però la chiave narrativa di tutta l’epopea. È quello, l’antro del Ciclope, il luogo immaginario dove Omero orchestra il lato oscuro dell’essere ospite, la tragedia e il terrore dell’inaccoglienza, del trovarsi indifesi e vulnerabili in terra straniera».

[17] L. Rossi, op. cit., p. 286.

[18] L. Rossi, op. cit., pp. 58-59.

[19] L. Rossi, op. cit., p. 69.

[20] L. Rossi, op. cit., p. 71. Si rinvia, per alcuni aspetti più recenti legati al modo come Papa Francesco lavora per costruire una nuova diplomazia della pace e del dialogo a M. Ventura, Il destino della libertà religiosa, in La Lettura – “Corriere della Sera”, 1° marzo 2020, pp. 8-9.

[21] G. Zagrebelsky, Scambiarsi la veste. Stato e Chiesa al governo dell’uomo, Roma-Bari, 2010.

[22] Pensiamo ai costi dei diritti sociali, elevatissimi (e agli scarsi investimenti). La parabola della crisi economica (2008 in poi) ha assestato un duro colpo a questa peculiare categoria di diritti. Oggi, mentre scriviamo questo testo, si aggiunge l’emergenza “Coronavirus”, destinata a far ripiombare il mondo nella paura e nell’incertezza. Servirà un grande sforzo collettivo, passata l’emergenza, per riannodare i fili della solidarietà e questo momento chiamerà in gioco sicuramente le organizzazioni internazionali e gli Stati, ma pure le tante comunità religiose (a-religiose), spirituali e filosofiche ovunque sparse. Il papa, ha già puntato l’obiettivo sul futuro e non sembra affatto intenzionato ad abbandonare la presa. Con questa “caparbietà bergogliana” dovranno confrontarsi (e scendere a patti) sia gli stati, sia le strutture del potere ecclesiastico.

[23] È importante sottolineare il contributo di tante chiese e comunità religiose, cristiane e non, nel complesso spazio della società globale e multiculturale. Il fronte della solidarietà non è più “sotto il controllo” esclusivo delle organizzazioni cattoliche, ma spazia all’interno di una variegata offerta che si caratterizza per essere altamente affidabile e meritevole di gratitudine. Un contributo a questo grande afflato caritatevole è stato indubbiamente offerto dallo strumento del dialogo interreligioso. Smussando antichi pregiudizi, l’incontro, nel rispetto delle diversità, fra religioni diverse, diventa fonte di conoscenza e arricchimento reciproci, ma pure esercizio di libertà e condivisione di progetti. Mai come adesso si sente forte la spinta a cooperare tra esperienze religiose diverse.

[24] Se consideriamo il lavoro sui temi della pace, del dialogo interreligioso (citato), della solidarietà, etc., i numeri sono tali da poter dire con assoluta certezza che la partecipazione è massiccia e in molti casi decisiva. Le organizzazioni che esprimo “sul campo” l’azione politica delle istituzioni religiose si rivela fondamentale e in alcuni casi risolutiva per il ripristino della normalità oppure per la messa in cantiere di percorsi di appeasement all’interno di zone ad alto grado di conflittualità.

[25] La citazione a Tocqueville è praticamente scontata. G. Buttà, The First Liberty. Politica e religione nell’età della formazione degli Stati Uniti d’America, in M. Tedeschi (a cura di), La libertà religiosa, Tomo II, Soveria Mannelli, 2002, pp. 467-468, prendendo in prestito le parole del pensatore francese, ben rimarca che: «Fin da principio, in America, la politica e la religione si trovarono d’accordo e, in seguito, non hanno mai cessato di esserlo. [Per poi aggiungere che] i Padri Pellegrini avevano stabilito nel Nuovo Mondo un Cristianesimo (…) democratico e repubblicano che coglieva la coessenzialità, quasi la complicità, della religione con la democrazia, e l’assenza in America della resistenza delle Chiese, in particolare di quella cattolica, a quel passo grande e necessario della società umana verso la democrazia, passo preparato dai disegni stessi di Dio».

[26] L. Rossi, op. cit., p. 81, nota 124.

[27] L. Rossi, op. cit., p. 132 ss. Si tratta di un materiale – quello delle encicliche – di grande valore socio-politico perché aiuta a comprendere come, in un determinato momento storico e in particolari condizioni sociali e politiche, un pontefice decide, di concerto con la sua Curia, di affrontare un tema specifico e di “offrirlo” ai credenti e non solo. Ecco perché, proprio in ragione di questo approccio ampio e trasversale, le encicliche vanno studiate per quello che riescono a dire innanzitutto al cuore delle persone, prima ancora che ai diretti interessati. Il loro afflato “politico” è dunque inestimabile. Mi permetto di rinviare a G. Macrì, I rapporti Stato-Chiesa nell’evoluzione della forma di Stato (1848-1871), Lancusi (SA), 2000, pp. 26 ss., dove ho affrontato l’uso da parte della Chiesa delle encicliche quale arma ideologica per orientare le masse contro quelle che, nei primi anni dell’800, venivano senza mezzi termini definite “nuove eresie” (democratismo, liberalismo, comunismo, etc.). Ma parliamo, appunto, di un’altra epoca.

[28] Un metodo del genere, per funzionare, a mio parere, deve partire dal presupposto che nessuna fede (o sistema di credenze) può vantare posizioni di supremazia rispetto agli altri. E dunque, per funzionare concretamente, per essere cioè “utile” alla società e contribuire al miglioramento delle relazioni pubbliche, avrà bisogno di un perimetro civile ampio e flessibile connotato in senso laico. La laicità, allora, ritorna ad essere il fulcro dello spazio politico democratico e pluralista. Una condizione necessaria, che non richiede alcun imprimatur “esterno”, solo quello della certificazione del primato della politica.  

[29] L. Rossi, op. cit., p. 151.

[30] L. Rossi, op. cit., p. 167.

[31] L. Rossi, op. cit., p. 171.

[32] Scrive L. Rossi, op. cit., p. 173: «Come discepolo Tommaso rimane vicino nonostante la distanza delle idee, ma la crocifissione e la morte costituiscono una delusione per le sue speranze, reagisce in nome della ragione contro le pretese di una fede evidentemente credulona, che ritiene reale un fatto così distante da ogni prospettiva di umana razionalità».

[33] Mi trovo in perfetta sintonia con quanto scrive M. Ventura, Creduli e credenti. Il declino di Stato e Chiesa come questione di fede, Torino, 2014, p. 21: «La vera differenza è […] un’altra. Il credente si mette al servizio della storia, ci entra dentro per misurare i propri limiti. La storia del credente è incessante superamento di sé. Inseguimento tra il soggetto e l’oggetto, che si scoprono a vicenda. Il credulo, invece, sfrutta la storia: sta fuori di essa e ne mette in tasca i pezzi di cui ha bisogno. La storia del credulo è affermazione di sé. Ansiosa ricomposizione di un racconto che gli serve per controllare il presente. E per ergersi a protagonista del futuro».

[34] L. Rossi, op. cit., p. 176.

[35] L. Rossi, op. cit., pp. 181-182.

[36] L. Rossi, op. cit., p. 187.

[37] L. Rossi, op. cit., p. 188.

[38] L. Rossi, op. cit., p. 189.

[39] L. Rossi, op. cit., p. 198.

[40] L. Rossi, op. cit., p. 202.

[41] L. Rossi, op. cit., p. 212.

[42] L. Rossi, op. cit., p. 203.

[43] L. Rossi, op. cit., p. 224.

[44] L. Rossi, op. cit., p. 203.

[45] L. Rossi, op. cit., p. 203.

[46] Sulla scia dell’art. 11 della Cost. che prevede una sovranità cooperativa, non divisiva, al fine di favorire la costituzione di organizzazioni internazionali rivolte al perseguimento della pace.

[47] L. Rossi, op. cit., p. 225.

[48] L. Rossi, op. cit., p. 225.

[49] L. Rossi, op. cit., p. 225.

[50] Card. M. Czerny S.I. – R. Czerny, COP25: preoccupate lezioni sulla crisi del clima, in La Civiltà Cattolica, 7/21 marzo 2020, p. 460.

[51] L. Rossi, op. cit., p. 227.

[52] Così E.A. Imparato, I diritti della Natura e la visione biocentrica tra l’Ecuador e la Bolivia, in DPCE on line, 2019/4, p. 2466. Si tratta di un filone del costituzionalismo (c.d. “nuevo constitucionalismo”) sconosciuto alla scienza costituzionalistica classica (Stati Uniti ed Europa) che però inizia a trovare addentellati anche all’interno delle nuove proposte politiche ambientalistiche presenti nello scenario occidentale. Da qui la collocazione della “politica” bergogliana “a cavallo” tra Europa (Occidente) e America Latina, con importanti elementi di contaminazioni destinati a dare frutti nel prossimo futuro.

[53] L. Rossi, op. cit., p. 227.

[54] Qui è chiaro il legame con le costituzioni democratiche del mondo, all’interno delle quali, il legane funzionale tra persona umana e fratellanza, trova ampio riconoscimento. D. Fares S.I., La fratellanza nell’itinerario di Papa Francesco, in La Civiltà Cattolica, 20 luglio/3 agosto 2019, p. 129, rimarca come: «La fratellanza è il primo tema al quale ha fatto riferimento papa Francesco nel giorno della sua elezione, quando ha chinato la testa davanti alla gente e, definendo la relazione vescovo-popolo come “cammino di fratellanza”, ha espresso questo desiderio: “Preghiamo sempre per noi; l’uno per l’altro. Preghiamo per tutto il mondo, perché ci sia una grande fratellanza».

[55] L. Rossi, op. cit., p. 231.

[56] Qui il rinvio corre, tra i tanti, a J. Hickel, The divide. Guida per risolvere la disuguaglianza globale, Milano, 2018, secondo cui, per risollevare le sorti delle popolazioni povere del pianeta, bisogna agire non sulla “condizione di natura” bensì sulle dinamiche all’interno del sistema di sfruttamento economico mondiale.

[57] L. Rossi, op. cit., p. 233.

[58] L. Rossi, op. cit., p. 235.

[59] L. Rossi, op. cit., p. 237.

[60] L. Rossi, op. cit., p. 239.

[61] L. Rossi, op. cit., p. 239.

[62] L. Rossi, op. cit., p. 296.

Progetto di “CITTADINANZA E COSTITUZIONE” nelle scuole superiori

Filosofia in movimento, insieme a Edizioni Kappabit, è lieta di presentare a tutti i docenti e gli studenti delle scuole superiori italiane il progetto “Cittadinanza e Costituzione”, che prevede ore di studio sull’omonimo manuale – a cura di Antonio Coratti e realizzato dal gruppo di ricerca interuniversitario di Fim -, ore di incontri e conferenze con i nostri autori e ore di lavoro nella produzione di contenuti video.

Progetto PCTO Cittadinanza e Costituzione

a cura della KAPPABIT S.r.l.
in collaborazione con Filosofia in movimento

Soggetto proponente:

KAPPABIT S.R.L. 
Fondata nel 2010 per offrire consulenza strategica e percorsi dinamici innovativi ad aziende e istituzioni pubbliche e private, la Kappabit S.r.l. (www.kappabit.com) si propone come interlocutore unico nell’offerta di servizi, assistenza e progettazione nei seguenti settori:

  • tecnologia dell’informazione e della comunicazione (ICT)
  • editoria testuale, audiovisiva, musicale e multimediale
  • comunicazione aziendale, politica e istituzionale
  • ricerca, monitoraggio e analisi di mercato
  • organizzazione di mostre, convegni, seminari, festival, fiere, meeting ed eventi
  • realizzazione, installazione e commercializzazione di oggetti artistici, opere d’arte, design e grafica
  • formazione e qualificazione professionale e culturale

Dal 2014 opera come Casa editrice, attraverso le Edizioni Kappabit (www.edizionikappabit.com), realizzando numerose pubblicazioni – principalmente nell’ambito dell’arte contemporanea, della Media Art, dell’intermedialità, della Realtà Virtuale, del cinema, della musica, della didattica e della saggistica in genere – e dotandole di particolari dispositivi atti a implementare un’esperienza di lettura “aumentata”, grazie all’interazione combinata e integrata di contenuti multimediali, audiovisivi e musicali.

In collaborazione con:

FILOSOFIA IN MOVIMENTO   
Filosofia in movimento (www.filosofiainmovimento.it) è un gruppo di ricerca, attivo da più di cinque anni, che si occupa di promuovere, sviluppare e diffondere la cultura filosofica nella società civile, con particolare attenzione alla formazione dei giovani. Tre anni fa l’associazione ha dato impulso al progetto Esercitare il pensiero, con l’obiettivo di entrare nei licei e coinvolgere gli studenti nei discorsi filosofici, interloquendo con università italiane ed estere, riviste culturali, istituti e fondazioni private.

Tra la Kappabit e Filosofia in movimento (FiM) esiste un rapporto di partenariato, sancito da un protocollo d’intesa ratificato sin dall’avvio dell’attività dell’Associazione e operativo ormai da anni in vari ambiti di attività.

Contenuti e obiettivi generali del progetto PCTO

Al fine di sensibilizzare gli studenti al valore dei principi fondamentali della Costituzione italiana, Kappabit ha recentemente pubblicato il volume “Cittadinanza e Costituzione. Ripensare la comunità” (ISBN 9788894361834). Il libro, a cura di Antonio Coratti e con contributi di autorevoli filosofi e giuristi, si presenta come un manuale multimediale che ai contenuti testuali affianca video di approfondimento e si divide in due parti: la prima illustra la storia del concetto di cittadino dall’antica Roma all’Unione Europea, la seconda raccoglie i commenti di Gianfranco Macrì ai primi dodici articoli della Costituzione.

Il progetto mira a sollecitare lo spirito critico degli studenti, in particolare attraverso l’elaborazione di percorsi e la realizzazione di lavori che evidenzino il legame tra l’evoluzione storica del concetto di cittadinanza e il l’attualità che la definizione di tale concetto trova nella nostra Carta costituzionale. 

Quadro normativo

A partire dalla Legge del 30 ottobre 2008, n. 169, il Miur ha disposto percorsi di «sperimentazione nazionale» e «attività di formazione e sensibilizzazione del personale» finalizzati a sviluppare e a rafforzare i processi educativi nel campo delle competenze di «cittadinanza attiva». Come specificato anche dalla Raccomandazione del Parlamento Europeo e del Consiglio dell’Unione Europea del 18 dicembre del 2006, le «competenze civiche» – che rientrano a pieno titolo nelle «competenze chiave per l’apprendimento permanente» – si fondano «sulla conoscenza dei concetti di democrazia, giustizia, uguaglianza, cittadinanza e diritti civili» e sono finalizzate a valorizzare i principi di responsabilità, legalità, partecipazione e solidarietà.

Fasi del progetto

Il progetto si articola in tre momenti fondamentali che prevedono l’attivazione di differenti modalità di partecipazione e d’interazione per studenti e docenti:

  1.  Studio dei percorsi sulla storia della cittadinanza in Europa e sui principi fondamentali della Costituzione italiana pubblicati in Cittadinanza e Costituzione. Ripensare la comunità (Edizioni Kappabit, 2019), manuale in cui i saggi prodotti dagli autori del gruppo di ricerca di Filosofia in movimento sono stati rielaborati espressamente per un proficuo uso didattico. I contenuti multimediali, che costituiscono parte integrante del testo, possono essere fruiti attraverso l’utilizzo della tecnologia QR-code, consentendo agli studenti di accedere direttamente dal proprio smartphone ai saggi integrali da cui sono stati tratti i percorsi di lettura e alle video-lezioni di approfondimento.
  2. Produzione di elaborati (relazioni, recensioni, presentazioni) che mettano in evidenza il l’evoluzione del concetto di cittadinanza fino a giungere all’attuale formulazione degli articoli fondamentali della nostra Costituzione. A tal fine, i docenti potranno essere supportati dalla redazione di Filosofia in movimento per quanto attiene a idee e suggerimenti, nonché per organizzare degli incontri di approfondimento con gli autori del libro presso l’istituto scolastico.
  3. Produzione di brevi documenti audiovisivi nei quali gli studenti intervisteranno i docenti della propria scuola sui dodici articoli fondamentali della Costituzione italiana. Kappabit supporterà gli studenti nella realizzazione di tali contenuti. I migliori video saranno pubblicati sul sito dell’associazione Filosofia in movimento (www.filosofiainmovimento.it).

Riflessioni sul concetto di “cittadinanza” a partire dal progetto – licei di Fim

di Caterina Capomaccio, studentessa del liceo L. da Vinci di Terracina

Il termine cittadinanza indica il rapporto tra un individuo (detto cittadino) e lo Stato, al quale l’ordinamento giuridico ricollega la pienezza dei diritti civili e politici. La cittadinanza, quindi, può essere vista come uno status del cittadino, ma anche come un rapporto giuridico tra cittadino e Stato. Già nell’antica Grecia, venivano riconosciuti ai cittadini un insieme articolato di diritti, tra cui il diritto di proprietà. Anche nel diritto romano lo “status civitatis” distingueva il cittadino romano (civis romanus) dal non cittadino ed era una delle condizioni necessarie per disporre della capacità giuridica. Nel corso della storia il termine cittadinanza ha assunto diversi significati: può essere indicatore del modo in cui sono ripartiti i poteri e le risorse nell’ambito di un ordinamento politico-sociale; può esprimere il rapporto tra individuo e ordine politico, inteso come partecipazione attiva del soggetto alla sfera pubblica oppure intersezione tra individuo e collettività. Nel suo significato giuridico attuale, la parola cittadinanza esprime la molteplicità di diritti e doveri riferibili a un individuo in quanto parte di un determinato sistema politico. In sociologia il concetto assume una valenza più ampia e si riferisce all’appartenenza, alla capacità d’azione e alla realizzazione dell’individuo all’interno di una determinata comunità politica a partire dai propri capitali personali e dai diritti e servizi che gli sono garantiti.

Il concetto di cittadino differisce da quello di suddito che si riferisce a colui che è soggetto alla sovranità di uno Stato. La condizione del suddito implica situazioni giuridiche puramente passive mentre quella del cittadino implica la titolarità di diritti e altre situazioni giuridiche attive. Nel momento in cui lo Stato riconosce al suddito diritti civili e politici, questo diventa un cittadino. Anche in uno Stato che riconosce tali diritti possono tuttavia esserci semplici sudditi, soggetti alla sovranità dello Stato ma privi dei diritti di cittadinanza: questo avveniva, ad esempio, per le popolazioni indigene dei possedimenti di tipo coloniale, anche se, in qualche caso, venivano loro attribuiti alcuni diritti seppur limitati rispetto a quelli riconosciuti ai cittadini veri e propri (la cosiddetta piccola cittadinanza). Anche nei paesi occidentali talvolta, prima di ottenere la cittadinanza vera e propria si transita attraverso situazioni intermedie, come il permesso di soggiorno di breve o lungo periodo, la carta di soggiorno che è una sorta di permesso di soggiorno permanente, talvolta chiamato appunto permesso di soggiorno permanente.

Un rapporto analogo a quello tra persona giuridica e Stato può sussistere anche tra persona fisica e Stato; in tal caso, però, non si parla di cittadinanza ma di nazionalità. Riferito alle persone fisiche, questo stesso termine, anche se talvolta è usato impropriamente come sinonimo di cittadinanza, indica l’appartenenza a una nazione, condizione questa che in alcuni ordinamenti può avere rilevanza giuridica a prescindere dalla cittadinanza.

Come si è detto, il concetto di cittadinanza si ricollega alla titolarità di determinati diritti, detti appunto diritti di cittadinanza, enunciati nelle costituzioni e nelle dichiarazioni dei diritti. Tra questi troviamo: i diritti civili, i diritti politici ed i diritti sociali. Accanto ai diritti, la cittadinanza può comportare doveri come la difesa dello stato, il voto e lo  svolgimento delle funzioni di giudice laico.

Ogni ordinamento stabilisce le regole per l’acquisizione e la perdita della cittadinanza. In molti stati i princìpi al riguardo sono stabiliti a livello costituzionale, in altri invece, tra i quali l’Italia, la disciplina è interamente demandata alla legge ordinaria. La cittadinanza si può acquisire:

  • in virtù dello ius sanguinis (diritto di sangue), per essere nati da un genitore in possesso della cittadinanza.
  • in virtù dello ius soli (diritto del suolo), per essere nati sul territorio dello Stato
  • per aver stipulato un contratto matrimoniale con un cittadino
  • per naturalizzazione, a seguito di un provvedimento della pubblica autorità, subordinatamente alla sussistenza di determinate condizioni o per meriti particolari. In molti ordinamenti, come in Italia, a sottolinearne la solennità, il provvedimento di concessione della cittadinanza è adottato, almeno formalmente, dal capo dello Stato.

La scelta fondamentale che si trovano a fare gli ordinamenti è quella tra ius sanguinis e ius soli, avendo gli altri due istituti una funzione puramente integrativa. Attualmente la maggior parte degli Stati europei adotta lo ius sanguinis, con la rilevante eccezione della Francia, dove vige lo ius soli fin dal 1515.L’adozione dell’una piuttosto che dell’altra opzione ha rilevanti conseguenze negli Stati interessati da forti movimenti migratori. Infatti, lo ius soli determina l’allargamento della cittadinanza ai figli degli immigrati nati sul territorio dello Stato: ciò spiega perché sia stato adottato da paesi (Stati Uniti, Argentina, Brasile, Canada, ecc.) con una forte immigrazione e, al contempo,dotati di un territorio in grado di ospitare una popolazione maggiore di quella residente. Al contrario, lo ius sanguinis tutela i diritti dei discendenti degli emigrati, ed è dunque spesso adottato dai paesi interessati da una forte emigrazione, anche storica (diaspora: Armenia, Irlanda, Italia, Israele), o da ridelimitazioni dei confini (Bulgaria, Croazia, Finlandia, Germania, Grecia, Italia, Polonia, Serbia, Turchia, Ucraina, Ungheria).

Può accadere che una persona acquisisca la cittadinanza dello Stato di origine dei genitori, dove vige lo ius sanguinis, e nel contempo quello dello Stato sul cui territorio è nata, dove invece vige lo ius soli. Queste situazioni di doppia cittadinanza possono causare inconvenienti sicché gli Stati tendono ad adottare norme per prevenirla, anche sulla base di trattati internazionali. Alcuni Stati, peraltro, non ammettono la doppia cittadinanza e stabiliscono che l’acquisizione della cittadinanza presso uno Stato estero faccia automaticamente perdere quella originaria. In Italia invece, con la legge n.91/1992,”Il cittadino italiano che possiede, acquista o riacquista una cittadinanza straniera conserva quella italiana”. La perdita della cittadinanza può essere prevista quindi a seguito di rinuncia, di acquisizione della cittadinanza di altro Stato o di privazione per atto della pubblica autorità in conseguenza di gravissime violazioni. La cittadinanza si può acquisire o perdere anche a seguito di trattati internazionali che trasferiscono una parte del territorio e la popolazione ivi residente da uno Stato all’altro. Inoltre coloro che non possiedono alcuna cittadinanza sono detti apolidi.

In Italia la cittadinanza si acquisisce per nascita solo se almeno uno dei genitori è cittadino italiano (ius sanguinis), senza il divieto di acquisire una doppia cittadinanza. Si acquisisce anche con decreto del Presidente della Repubblica, presentando richiesta a una prefettura. La concessione non è automatica, trattandosi di un provvedimento discrezionale. Ai fini della concessione, vengono favorevolmente valutate una lunga residenza stabile in Italia (almeno 10 anni), la dimostrazione di un reddito superiore al minimo di sussistenza, l’assenza di condanne penali, particolari circostanze di benemerenza (ad esempio il sostegno di associazioni benefiche o di volontariato), la stretta parentela con cittadini italiani. In passato, la cittadinanza italiana si poteva acquisire anche prestando onorevole servizio volontario nelle Forze Armate italiane, circostanza venuta meno con l’abolizione del servizio militare obbligatorio.

Negli ultimi anni, il concetto di cittadinanza si è modificato a causa dei numerosi cambiamenti che coinvolgono la società moderna,in particolare il processo di globalizzazione. Questo sta infatti modificando la realtà dei singoli individui, soprattutto per quanto riguarda i cosiddetti cittadini o migranti transnazionali, che pur risiedendo in un paese diverso intrattengono rapporti molto stretti con il proprio Stato di origine, sia dal punto di vista sociale sia economico, in molti casi anche riuscendo a influenzarne le politiche. Ovviamente il peso di questa influenza dipende dal numero di membri, dalla ricchezza e dalla forza dei rapporti che la comunità riesce a stringere con il proprio paese di origine.

Nell’articolo”jus soli, bene comune”, il prof. Bruno Montanari, accoglie positivamente l’idea di acquisizione di cittadinanza attraverso lo jus soli, ritenendolo un passaggio necessario della società contemporanea. Egli evidenzia anche come questo tema “spaventi” la classe politica che ha preferito metterlo da parte. In un epoca segnata da crisi economiche e flussi migratori, continua Montanari, dove la diversità viene vista come un pericolo si comprende come il concetto di uguaglianza non sia universalizzabile ma è, e deve essere universale, il concetto di esistenza umana. Poiché questa si ha solo attraverso la cittadinanza, lo ius soli diviene necessario (come l’acqua) e nessun essere umano deve esserne privato.

Lavoro come mezzo di sviluppo dell’identità

di Andrea Marin, Gabriele Costantini, Filippo Castania, Davide Toledo

studenti iscritti al quarto anno del Liceo G. Bruno di Roma

Il lavoro è alla base della nostra vita e della nostra società; esso non riguarda solo l’aspetto personale, come l’espressione di se stessi e della propria creatività ma anche l’aspetto economico. Possiamo capire l’importanza del lavoro anche solo guardando la nostra costituzione che lo disciplina nel primo articolo:

“L’Italia è una Repubblica democratica, fondata sul lavoro.”

Quello del lavoro è uno dei diritti fondamentali e quindi inviolabile. Ogni cittadino, ha il diritto e il dovere di svolgere secondo le proprie possibilità e volontà, un’attività lavorativa. La perdita di questo diritto porta l’individuo a non possedere un’identità e un ruolo sociale. Immaginiamo un qualsiasi cittadino che, non essendo retribuito, non può soddisfare i suoi bisogni primari (mangiare, bere, dormire ecc.). Venendo a mancare la possibilità di soddisfare i propri bisogni, ci si ritrova in assenza anche dei propri diritti tra cui quelli fondamentali: come ad esempio la proprietà privata. A testimoniare ancora una volta l’importanza del lavoro a livello personale c’è l’identificazione con esso. Portiamo l’esempio di un professore: egli incontrando una persona si porrà in un determinato modo nei confronti di quest’ultima proprio a causa del suo lavoro. Prendiamo ora sotto esame l’immagine di un senzatetto inoccupato: egli avrà sicuramente più difficoltà ad inserirsi in una società in cui è invisibile. Grazie alla breve analisi nell’esempio si riesce a dedurre che il lavoro è importante per il benessere psicologico dell’individuo e per la conservazione della stima di sé. Nelle varie inchieste sorge infatti la preoccupazione per la quantità di denaro bensì per la riuscita di un determinato lavoro.

Riassumendo si può affermare che il lavoro non è solo un mezzo di guadagno, esso non implica unicamente il coinvolgimento con l’azienda e il lavoro stesso (situazione di commitment), ma il lavoratore trova nell’impiego la possibilità di dimostrare le proprie capacità e di affermare sé stesso.

Nonostante i vari aspetti positivi del lavoro non possiamo non valutare i problemi che possono sorgere sul posto di lavoro:

“IL MOBBING” = Con il termine mobbing si fa riferimento all’insieme di comportamenti persecutori che tendono ad emarginare un soggetto dal gruppo sociale di appartenenza. Il mobbing può essere orizzontale (tra pari), dall’alto verso il basso (da un superiore a un dipendente) e dal basso verso l’alto (da un gruppo di dipendenti verso un superiore).

“IL BORNOUT” = Insieme delle risposte psicofisiche riscontrate in chi esercita una professione di aiuto. Il bornout può essere definito come una perdita di interesse da parte di chi esercita professioni di aiuto. Esso può essere combattuto con il COPING focalizzato o sulle emozioni o sul problema.

Un altro problema che riguarda il lavoro è il “PROBLEMA DEL SOMMERSO”. Quando si parla del problema del sommerso si fa riferimento a chi lavora senza contratto non pagando le tasse recando dei problemi oltre che all’economia statale anche a se stesso non versando i contributi per il suo futuro e lavorando senza essere assicurati.

In conclusione si può dire che nonostante i vari problemi che possono sorgere sul luogo di lavoro, esso è fondamentale per se stessi e per la società.

Non per governare, ma per andare al governo. A proposito di democrazia rappresentativa

Globalizzazione economico-finanziaria e neo-liberismo hanno determinato nelle economie avanzate l’affermazione di potentati di puro fatto, che ha messo nel nulla il nesso politica – diritto, sia a livello planetario, sia a livello interno ai singoli Stati nazionali, orientando anche la gestione delle entità sovranazionali.

di Bruno Montanari

articolo già pubblicato sulla rivista on line www.giustiziainsieme.it

La crisi delle democrazie rappresentative è, ormai, un fatto accertato. La tendenza in atto è verso una polarizzazione delle forze politiche, con vantaggio di quei movimenti che istituiscono un rapporto diretto e immediato tra base popolare, la più ampia possibile, e una forma di leadership fortemente personalizzata. Una tale tendenza sta modificando la struttura stessa dello Stato di diritto. Sta divenendo, infatti, evanescente l’idea di un ordinamento giuridico capace di controllare la legittimità dell’azione politica, secondo regole di competenza destinate a fondare un potere “funzionale”; a tale idea va sostituendosi un pragmatismo fondato sulla negoziazione tra poteri di fatto, anche quando questi poteri coincidono con organi o con figure istituzionali; nel senso, cioè, che anche organi o figure istituzionali, dotati quindi un potere funzionale, operano, in realtà, come se incarnassero un potere di puro fatto (tornerò su questo profilo alla fine). Ciò determina una dissoluzione dell’intero sistema e il venir meno nell’ambiente sociale, sia nei cittadini sia anche nel personale politico, di quello che era, secondo Max Weber, il presupposto materiale per la legittimazione del potere di governo: la “credenza nell’ordinamento”. “Credenza”, appunto; una situazione ideale o, se si vuole, di tipo genericamente mentale, in ogni caso sociologica e pre-giuridica, consistente in uno stato d’animo diffusamente radicato in una collettività, idonea a mettere in forma una società capace di esprimere, attraverso il voto, la propria visione del governo. Globalizzazione economico-finanziaria e neo-liberismo hanno determinato nelle economie avanzate l’affermazione di potentati di puro fatto, che ha messo nel nulla il nesso politica – diritto, sia a livello planetario, sia a livello interno ai singoli Stati nazionali, orientando anche la gestione delle entità sovranazionali. Vengo ora alla questione più specifica della crisi della rappresentanza politica. Si ritiene che sia una questione di modelli elettorali, più o meno efficaci nell’individuare la funzione governante. Questa opinione è certamente corretta, a una condizione però: che esista nella mentalità comunemente diffusa quella che ho definito “credenza nell’ordinamento”. Ancora, questa opinione è assolutamente valida a partire dalla condizione che esistano “partiti” capaci di costituire una mediazione tra le esigenze della base e una visione di governo. Il nesso tra questi due profili implica l’esistenza di un tessuto sociale sufficientemente omogeneo, nella sua parte maggiore (lo zoccolo duro), che si forma attraverso la redistribuzione del reddito ed una sufficiente mediazione tra le diversità culturali. Se vengono meno questi profili, la questione della rappresentanza cambia completamente i suoi “connotati”. Vediamo. Il votare consiste in una decisione umana; quindi, prima di ogni modellistica, occorre vedere come si forma una qualsiasi decisione nella “testa” di chi va a votare (o, anche, di chi decide di non andare). La decisione si forma in base ad alcuni fattori, mescolati tra loro. Li distinguo. Il primo è il contenuto del messaggio elettorale inviato dagli attori politici; il secondo è rappresentato dagli strumenti comunicativi utilizzati; il terzo dalla capacità di ascolto, comprensione ed elaborazione del messaggio, consistente, quest’ultimo, in una osmosi tra contenuto e mezzo comunicativo. L’esempio italiano è particolarmente significativo. Consideriamo l’espressione: “sono cose – le “promesse” – che si dicono, perché siamo in campagna elettorale”. Espressione che viene ripetuta, come se fosse ovvia, da qualsiasi giornalista o commentatore politico, senza però valutarne la gravità, sul piano della funzione elettorale.  E ciò è grave per due ragioni. La prima: perché si ritiene che il processo elettorale non serva “per governare”, ma solo “per andare al governo”. La seconda: perché si ritiene che la gente comune sia facilmente suggestionabile. Sotto entrambi gli aspetti è una mancanza di rispetto per quell’elettore al quale si chiede il consenso. Lo si tratta come un “utile idiota”. Ho detto della mancanza di una effettiva mediazione partitica, capace di elaborare, secondo le esigenze del governare, le istanze della base, della gente comune. Mi spiego. E’ del tutto fisiologico che l’uomo comune guardi il mondo secondo i propri bisogni e necessità quotidiane e su tale attitudine incide la diversa visione spaziale e temporale del proprio ambito vitale. Incide, cioè, quella maggiore o minore ampiezza del c.d. “orto di casa”, che esiste tra ambienti sociali di diversa consistenza economica, di diversa educazione personale e sociale, di istruzione e cultura. E’ una pluralità di condizioni di vita che determina una differente propensione a trascendere le impellenze della quotidianità. Per molti, e in certi momenti per i più, la pressione del vivere quotidiano è tale da non consentire quella presa di distanza dalla suggestione dell’immediatezza, che invece consente a chi, per consistenza economica e istruzione e cultura, può avere un’attitudine al ragionamento ed alla riflessione, sì che la sua risposta sia meno dettata dalla reattività immediata.  E’ ovvio che chi abita in una periferia disagiata non abbia la “testa”, la voglia e neppure il tempo per riflettere su questioni che sono del tutto altre e lontane dal suo spazio vitale; è assai diverso, invece, per colui che abita nel centro di una città o comunque in un quartiere non periferico. Tale fenomeno trova la sua manifestazione in nuove ed inedite, fino a poco tempo fa, divisioni sociali, che non appaiono come dialettica tra idee o ideologie politiche, ma assumono le sembianze di vere e proprie contrapposizioni di ambienti umani; ad esempio, tra periferia e centro città, tra città e campagna, tra popolo ed élite, e, ancora, tra base e establishment. I referendum e i flussi elettorali ne costituiscono, talora, una esaltazione. E’ qui che la fine della “mediazione progettuale” operata dai partiti del ‘900 fa sentire tutto il suo peso. Il quadro che ho descritto mette in luce un degrado umano-culturale dell’ambiente sociale che l’attuale modo di “fare politica” insegue ed esalta, anziché cercare di fronteggiarlo. Questo fenomeno è prodotto dall’uso abituale di una tecnologia comunicativa (i cosiddetti “social”), la quale è caratterizzata da due aspetti, entrambi dagli effetti socialmente e politicamente perversi sul piano della capacità di ascolto e comprensione dei destinatari del messaggio. Il primo: il social è attraversato da affermazioni apodittiche, icastiche, dunque suggestive, impressionanti; la sua efficacia è maggiore, quanto più è capace di avere impatto sul destinatario. L’ “impatto”. Esso è ciò che destruttura la temporalità, poiché il “tempo” dell’ascolto-comprensione-riflessione è sostituito, e dunque, annullato dalla immediatezza a-temporale della reattività (su questa tematica vi sono ormai ampli studi). Il secondo aspetto consiste nel dirigersi direttamente a ciascun destinatario, nella sua assoluta ed isolata individualità, determinando quindi una frantumazione dell’ambiente umano, poiché ognuno agisce pensando esclusivamente alla propria condizione. Questa operazione disabitua le persone al confronto ed al dialogo, e le attuali formazioni partitiche fanno, come ho detto, della esaltazione delle istanze individualistiche la propria fortuna elettorale e quindi la propria affermazione sulla scena politica. Si potrebbe osservare che il puntare sulla reattività umana generata dalla immediatezza emotiva dell’ ”impatto” non sia una modalità nuova del fare politica; nella storia politica del ‘900, balconi e piazze, con le relative adunate, perseguivano il medesimo effetto. Con qualche differenza non trascurabile. I destinatari del messaggio propagandistico erano “adunati”, vale a dire stavano insieme, l’uno accanto all’altro proprio al fine di dare una risposta immediata, sì, ma unitaria. Tale condizione era possibile poiché vi era di mezzo un balcone, una piazza, un pulpito; tutti mezzi che creavano, da un lato, una distanza materiale tra il protagonista e gli spettatori e consentivano, dall’altro, di far sentire ai convenuti di essere un “insieme” socialmente unitario: un “corpo” politico. L’attuale propaganda, attuata attraverso i social, ha quell’effetto del tutto opposto che ho accennato: quello, cioè, di esaltare l’individualismo reattivo e con esso la frantumazione dell’idea stessa dello stare insieme. Il fenomeno diviene ancor più grave, quando la desuetudine alla riflessione opera nel settore del diritto che deve reggere e controllare la funzione governante genericamente intesa. Un esempio. La formula attualmente usata, “contratto di governo”, per giustificare la coalizione “giallo-verde”, rappresenta una vera e propria rottura costituzionale. Mi spiego. Il “contratto”, come è noto anche alla gente comune, è un atto diritto privato, confezionato per soddisfare interessi privati e i cui effetti valgono esclusivamente per i sottoscrittori. La sua efficacia “erga omnes“, come è per un “contratto di governo”, avrebbe avuto bisogno di una elaborazione giuridica, quale fu quella con la quale si giustificò, con il nascere del diritto del lavoro del dopoguerra, l’efficacia “erga omnes” della contrattazione collettiva sindacale (ricordo 3 giuristi con altrettante “teorie”: Francesco Santoro Passarelli, Costantino Mortati, Federico Mancini). Che le forze di governo non si siano poste il problema di una “giustificazione” giuridica (che andasse oltre la mera recezione legislativa degli accordi contrattuali di governo, così come fu, invece, per l’efficacia erga omnes giuslavoristica) non mi stupisce, ma che non se lo siano posto il Presidente del Consiglio (che è un professore ordinario di diritto privato) e neppure le cariche istituzionali di garanzia, e tanto meno la stampa, è il segno di questo tempo. Di un tempo, cioè, nel quale si assiste alla evaporazione di quella che ho definito, ricordando Weber, “credenza dell’ordinamento”. Vi è da ricordare un altro precedente in proposito, al fine di segnare la differenza con l’attualità della situazione. Oltre a quello gius-lavoristico, negli anni ’70 prese corpo in Italia il fenomeno denominato “uso alternativo del diritto”, con finalità prevalentemente di giustizia sociale ideologicamente fondata. Ricordare quel fenomeno è importante per la ragione specifica che esso mise in evidenza la sensibilità giuridica di quella generazione di giuristi, che, nelle varie vesti, vi prese parte. La denominazione è la chiave. Quei giuristi pensavano ad un uso alternativo del diritto inteso come sistema giuridico vigente, con le sue “categorie” riguardanti sia le fonti sia gli istituti. E proprio per questa dimensione “culturale”, il dibattito, ed anche lo scontro, all’interno del mondo politico, sociale e giuridico, fu assai significativo. Qui è la distanza con il tempo che viviamo. Oggi non si fa più un “uso alternativo” del diritto, ma si confeziona un diritto alternativo; un diritto, che può denominarsi tale solo perché nell’uso comune si fa coincidere la forma normativa con il termine “diritto”. Ma il diritto, anche su di un piano meramente formale, non si riduce ad una formulazione linguistica prescrittiva (talora neppure esatta, proprio perché chi la confeziona ignora il diritto); esso è razionalmente strutturato, e dunque connotato, invece, da un nesso tra procedure – finalità – ambiti di rilevanza (pubblico-privato) per quanto attiene agli effetti, che conduce all’altro nesso, superiore, competenza – responsabilità – legittimazione per quanto attiene ai soggetti. Alla origine della deriva pragmatico-negoziale sta quella linea culturale, di ben altro spessore epistemologico, denominata “funzionalistica” (à la Luhmann), che si è sviluppata nella seconda metà del ‘900, alla quale, ma in altra sede, occorrerebbe prestare attenzione proprio in relazione alla trasformazione del pensiero giuridico. Le tecnologie comunicative attuali “concretizzano” quella che nel ‘900 era solamente una linea di pensiero. Occorre aggiungere che i politici di oggi non ne sanno, certamente, nulla! Operano mossi istintivamente da una forma mentis, della quale non conoscono la provenienza. Con il riferimento alla “epistemologia funzionalistica” torno alla affermazione contenuta all’inizio di questo intervento e che, in quella sede, poteva apparire apodittica: che lo stato di diritto si sia trasformato in una negoziazione pragmatica tra poteri di puro fatto, anche quando questi coincidono con organi costituzionali. Ora credo possa avere una sua propria giustificazione. Concludo con la seguente osservazione. Poiché la realtà quotidiana è fatta dagli uomini, qualsiasi luogo sociale occupino, occorre guardare alla formazione delle generazioni. In altre parole, gli eventi, così come gli atteggiamenti mentali e materiali che li producono, in una parola la “storia” di un’epoca (di qualsiasi epoca), sono una “conseguenza anagrafica”. 

Relazione attività asl “Cittadinanza e Costituzione”

Pubblichiamo le considerazioni della studentessa Aurora Giusti sull’esperienza maturata all’interno del progetto di Alternanza scuola-lavoro di FIM, “Cittadinanza e Costituzione”

di Aurora Giusti – studentessa del Liceo L. Da Vinci (Terracina)

Quest’anno ho partecipato a tre delle quattro conferenze del progetto “Filosofia in movimento” organizzate dalla prof.ssa Marzelli presso il mio istituto. Il primo incontro si è tenuto il 7 Marzo con la giornalista Cinzia Sciuto sul tema “Stato e religione”. La dott.ssa Sciuto ha scritto un libro dal titolo “Non c’è fede che tenga. Manifesto laico contro il multiculturalismo”, nel quale sostiene che oggi in Europa viviamo in società disomogenee e per rispondere a questi cambiamenti della società bisogna adottare una politica prettamente laica, in cui non solo c’è una separazione tra Stato e Chiesa, ma bisogna compiere un passo in più: lo Stato laico deve garantire che nessuna comunità vìoli i principi fondamentali dei propri membri e che ciascun cittadino sia messo nella condizione di emanciparsi dalla sua stessa comunità. Nel reclamare riconoscimento e rispetto delle identità delle diverse componenti etniche, religiose e culturali di una società, il rischio è perdere di vista che il soggetto titolare di diritti è solo ed esclusivamente il singolo individuo e non i gruppi. Secondo la dott.ssa Sciuto è l’individuo a essere portatore di identità e appartenenze, non è l’appartenenza a definire l’individuo. Infatti, durante l’incontro ha affermato: “Ogni individuo è portatore di una storia, di determinate esperienze e non può essere considerato un esponente monolitico di una cultura”. Per me sono state particolarmente interessanti le storie riportate di Rita Atria, Hina Saleem e Franca Viola, attraverso cui possiamo riflettere sul concetto di “onore e rispetto”. Nel caso di Rita Atria riscontriamo una forte fiducia nelle istituzioni, tanto da “tradire” la propria famiglia mafiosa e arrivare a suicidarsi dopo la morte del magistrato Borsellino; Hina Saleem, invece, fu uccisa dai propri familiari in quanto non voleva adeguarsi ai costumi della propria cultura d’origine; Franca Viola fu la prima donna a rifiutare il matrimonio riparatore in Italia. Questo incontro mi ha fatto riflettere sulla società attuale e mi ha mostrato un aspetto dello Stato a cui non avevo mai pensato. Dobbiamo difendere i nostri diritti ed essere consapevoli di poter affermare le nostre idee indipendentemente dalla comunità di appartenenza, senza ovviamente ledere i diritti degli altri. In particolar modo, ognuno può essere libero di professare la propria fede religiosa, ma tutti dobbiamo rispettare le leggi dello Stato di appartenenza, perché la religione non può essere motivo di esonero. Come la giornalista ha affermato:” Proveniamo da una determinata cultura, da una determinata società, non apparteniamo a nessuno se non a noi stessi”.
Il secondo incontro si è tenuto l’8 Aprile con il prof. Paolo Quintili e il dott. Antonio Cecere sul tema “Illuminismo islamico”. La conferenza ha messo in luce l’importanza di conoscere una cultura per poter dar origine ad un dialogo produttivo con essa, infatti, i termini “Illuminismo” e “laicità” nella cultura araba, a differenza di quella europea, assumono una connotazione spregiativa, che tende verso l’ateismo e l’immoralità. Per il prof. Quintili l’integrazione è possibile grazie ad un’educazione e ad una formazione culturali speciali all’interno di uno Stato laico e attraverso “l’operazione culturale dell’Illuminismo trans-storico”, che ha per oggetto le religioni storiche rivelate. Per me la conferenza si è rivelata particolarmente interessante e coinvolgente perché il prof. Quintili ha fatto spesso riferimento a periodi storici e a intellettuali già studiati, di cui ha sottolineato o approfondito determinati aspetti: partendo dal concetto di cittadinanza ha fatto riferimento a Hobbes, Spinoza, Diderot, Rousseau e ha contestualizzato le idee nel periodo della Rivoluzione Francese. Interessante il collegamento che possiamo individuare con Marx, che nell’opera “La Questione Ebraica” (1843-44) riflette sul fatto che <noi distinguiamo i diritti dell’uomo dai diritti del cittadino >. Non avevo mai ragionato davvero, studiando storia, su questa differenza tra uomo e cittadino, che viene messa in luce dai diversi diritti che a loro si attribuiscono. Il terzo incontro si è tenuto il 17 Maggio con il prof. Bruno Montanari sul tema “Il concetto di sovranità dalla pace di Westfalia ai nostri giorni”. La conferenza ha messo in luce la nostra disinformazione riguardo la politica attuale, ma, come aveva detto nel precedente incontro il prof. Quintili parlando dell’Illuminismo, il lume può nascere solo dalle tenebre e così la nostra conoscenza dall’ignoranza. Non mi sono mai appassionata di politica, perché l’ho sempre percepita come qualcosa lontana da me, ma, avendo compiuto la maggiore età, quest’anno avrei dovuto votare e questa conferenza ha suscitato in me curiosità, desiderio di capire meglio il programma dei vari partiti italiani e, più in generale, la situazione europea.
Il prof. Montanari, per poter spiegare cos’è la sovranità, si è soffermato sul significato di spread, sull’influenza che possono avere gli slogan dei partiti: in modo chiaro e diretto ha chiarito dei concetti fondamentali. L’enciclopedia francese Laurousse definisce il termine sovranismo come “una dottrina politica che sostiene la preservazione o la riacquisizione della sovranità nazionale da parte di un popolo o di uno stato, in contrapposizione alle istanze e alle politiche delle organizzazioni internazionali e sovranazionali”. Il problema, legato al sovranismo, su cui si è concentrato il prof. Montanari durante l’incontro, è il futuro delle banche italiane, in quanto se lo spread sale, aumentano gli interessi di debito pubblico: quindi lo Stato risulta essere dipendente da istituzioni private come le agenzie di rating che, sempre più, influenzano la vita economica e politica degli Stati.
In conclusione, ho davvero apprezzato questo progetto perché mi ha permesso di riflettere e di pensare a temi attuali, che di solito non sono affrontati in ambito scolastico; inoltre, per me è stato un piacere incontrare e poter ascoltare le opinioni di persone affermate e riconosciute nel proprio ambito lavorativo.

Cittadinanza nel mondo antico e romano

a cura di Battista Angelica, De Simone Chiara, Marini Giulia, Traini Alice del liceo G. Bruno (Roma)

Ad oggi la cittadinanza è la condizione del cittadino al quale lo Stato riconosce la pienezza dei diritti civili e politici. Può essere vista, quindi, come uno “status” dei cittadini che ottengono così un rapporto giuridico con lo Stato. Il concetto di cittadinanza che ormai ci sembra così scontato ha subito numerose evoluzioni nel corso della storia. Non si può parlare di cittadinanza nel mondo antico (dove la distinzione tra sovrano e suddito era ancora netta e ben definita), se non nelle comunità statuali chiamate polis. In queste ultime valevano i principi della civitas secondo i quali il cittadino, detto “civis”, aveva la facoltà di incidere sul governo. Tra i componenti della civitas si creava un legame basato sull’appartenenza ad uno Stato con un governo in parte scelto da loro. I cives inoltre rispetto agli schiavi e ai residenti privi di cittadinanza godevano di alcune prerogative esclusive riguardanti i diritti pubblici e privati, come la possibilità di votare i magistrati, di approvare le proposte legislative ed esprimere decisioni giudiziarie. Si poteva essere civis solo con la nascita da una madre in “iustae nuptiae”, ovvero il “giusto” matrimonio romano. Per questo motivo quando nacquero le prime città, soprattutto Roma, vi si poteva distinguere nell’ambiente chi aveva la cittadinanza da chi non la possedeva.

Nel diritto romano la cittadinanza era considerata come forma di tutela giuridica che assicurava davanti a magistrati e funzionari il riconoscimento di una serie di diritti e garanzie di cui gli stranieri erano appunto del tutto privi. Era considerato cittadino a pieno titolo l’individuo maschio adulto e libero.

Cicerone occupò per molti anni anche un ruolo di primaria importanza nel mondo della politica romana: dopo aver salvato la repubblica dal tentativo di Casilina ed aver così ottenuto l’appellativo di pater patriae, ricoprì un ruolo di primissima importanza all’interno della fazione degli optimates. Fu infatti Cicerone, che negli ultimi anni delle guerre civili difese strenuamente fino alla morte la res pubblica giunta ormai alla fine, destinata a diventare principatus augusteo.

Cicerone avrebbe parlato di sé come di chi aveva duae patriae. L’impero fu mandato avanti con la “cittadinanza romana” e con il diritto. In tal modo le popolazioni sentirono il peso della loro perdita di indipendenza nazionale, infatti ogni conflitto doveva essere gestito dalla città di Roma. Le popolazioni conquistate non potevano far guerra tra loro ed agire come alleate di Roma, così si ridussero i conflitti. Ora, nel territorio dell’impero, valevano per tutti le regole di Roma amministrate dal tribunale romano: venivano esposte le liti di cui facevano parte anche gli stranieri e venivano giudicati dai prefetti iure dicundo e dal pretore romano, il quale si occupava di amministrare la giustizia a Roma. Nel secondo secolo ancora a prendere le decisioni di governo erano i magistrati, il senato e la comitia. In origine la “cittadinanza” fungeva da rafforzamento delle compagnie sociali di quel tempo, con il successo militare divenne uno strumento per difendere “l’identità “ culturale della città. Per l’autogoverno non erano necessarie solo convinzioni ma anche presupposti per la convivenza. Il più importante  era la limitata “dimensione” del corpo sociale. Essa era diventata nota nelle piccole comunità che facevano della politica l’azione di governo che esse sviluppavano. Era molto importante che i cittadini aderissero all’esercito: esso era ricompensato con dei privilegi. Ma le cose cambiarono ed i successi non erano più dati dall’impegno dei cittadini. Tra il secondo ed il primo secolo cessò l’antico regime del reclutamento militare e furono introdotte le leggi Iulia e Plautia Papiria con le quali gli alleati italici ottennero la cittadinanza romana.  Alla fine del primo secolo Roma si ritrovò governata da un princeps che concentra in sé poteri sempre più eminenti e pervasivi. Prima di lui nessuno era riuscito a governare senza alcun tipo di contrasto.

Differenza tra modello della “basileia” ed il modello della “città-stato”

Nel modello della “basileia” il sovrano era considerato incarnazione della divinità ed esercitava il suo potere sui sudditi (divisi in liberi e servi). Ai sudditi era preclusa la “proprietà” della terra che poteva essere perciò occupata o coltivata in regime di concessione e non era attribuita alcuna facoltà di influenzare la legislazione. Essi erano però tenuti a rispettare oneri militari e civili disposti dal sovrano. Nelle “città-stato” invece vi era un’intensa omogeneità culturale; per lingua, religione e costumi. Ai membri veniva riconosciuto uno statuto speculare a quello dei membri della “basileia” in quanto anch’essi erano a servizio dell’esercito. Solo ad essi però veniva riconosciuta la possibilità di essere “proprietari” di terreni, sia di partecipare al governo della collettività, influendo sugli aspetti fondamentali. In questi due modelli il ruolo dei singoli è concepito in maniera molto differente. Vi è un differente modo di concepire il governo delle collettività. Nel governo della civitas, a differenza della basileia, la sovranità era diretta attribuzione della collettività, non era perciò appannaggio di un singolo ma dei suoi cives. Si aveva perciò un’azione collettiva coordinata.

E’ da osservare come da sempre l’uomo ha cercato un senso di appartenenza verso un territorio e verso i suoi simili. Man mano con il tempo ha sviluppato dei ruoli sempre più definiti per far funzionare la collettività anche attraverso interessi comuni. La Repubblica Italiana attuale si basa sui diritti e i doveri dei cittadini e sulla loro libertà di voto mentre nel mondo romano il fine primo era quello di esaltare il senato e la città di Roma. E’ vero che il cittadino romano all’epoca era orgoglioso di essere civis romanus, ma la repubblica del tempo non era perfetta e ideale. Come si tende a pensare; molti schiavi e uomini sono morti per riuscire ad innalzare al massimo Roma per la comodità ed il gusto della plebe. Tuttavia anche oggi si hanno notevoli differenze all’interno della società ma in maniera più moderata rispetto all’antica Roma, poiché dopotutto la repubblica democratica ideale non esiste in nessun tempo e luogo.

  • Polis: tipo di città-stato indipendente e autonoma nella Grecia classica.
  • Civitas: l’assieme dei cittadini di una località e nel contempo lo “status” giuridico , il quale fa di tutti i cittadini dei soggetti con diritti e doveri.
  • Res Publica: letteralmente significa “cosa del popolo” e indica l’insieme dei possedimenti, dei diritti e degli interessi del popolo e dello Stato romano.
  • Clistene: fu un politico ateniese e uno dei padri della democrazia di Atene.
  • Cicerone: fu un avvocato, politico, scrittore e oratore romano negli anni della repubblica.
  • Suffragium: manifestazione della propria volontà in un’assemblea, in consultazioni elettorali,ecc., mediante un voto nato dalla partecipazione diretta dei cittadini alla vita pubblica.

Popolo e nazione nell’epoca moderna: dalla Pace di Westfalia a Napoleone

Carl Schmitt dirà che “Stato è un determinato status di un popolo, e precisamente lo status dell’unità politica” (Dottrina della costituzione, tr. it. cit., p. 271). Ma, se vale quel che ci ha insegnato Hobbes, non esiste un popolo come dato pre-politico, “naturale”, che da un certo momento in poi consegue lo status dell’unità e cioè diventa il popolo “di” uno Stato.