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Nasce LIME- Laboratorio interculturale Mediterraneo EST

L’Europa come spazio politico è sconvolta da nuovi venti di guerra. I fatti recenti, legati all’invasione dell’Ucraina da parte della Russia, riaprono ferite che pensavamo sepolte sotto il mantello della storia, severa nel suo giudizio sui responsabili della Seconda Guerra Mondiale e artefice della rinascita della democrazia, grazie alla volontà di persone e gruppi disposti a rischiare tutto pur di affermare il valore della pace come cemento della solidarietà tra persone e popoli. Ma le democrazie tornano ad essere messe nuovamente in pericolo e questo dilemma ripropone la necessità di ricondurre gli sforzi ad unità per assicurare alle nuove generazioni rinnovate prospettive di unione e fratellanza. Del resto, l’Unione europea è nata con questo obiettivo fondamentale, grazie al contributo che un gruppo di paesi ha dato partendo dai valori consacrati nelle rispettive costituzioni. “L’Italia ripudia la guerra come strumento di offesa alla libertà degli altri popoli”: così recita l’art. 11 della nostra Carta costituzionale; questo significa che la Repubblica (i cittadini e le istituzioni, insieme) dovrà compiere ogni sforzo, sia all’interno del perimetro nazionale, sia a livello esterno – dunque in cooperazione con gli altri – per far si che la pace resti il punto di riferimento ultimo, costi quel che costi; dunque anche immaginando di aiutare e sostenere chiunque si trovi nella condizione di vedere la propria esistenza messa in pericolo. Le organizzazioni internazionali, come l’ONU e l’Unione europea in testa, sono nate innanzitutto con questo scopo, affinchè il male non prenda il sopravvento. L’Italia, è chiamata a svolgere, pertanto, un ruolo fondamentale in questa prospettiva pacificatrice. Ed è chiamata a farlo non solo come paese fondatore dell’Unione europea ma anche come attore politico centrale all’interno del Mediterraneo. In questo grande spazio geopolitico, storicamente luogo di confronto, ma pure di scontri, tra culture diverse, c’è bisogno di affermare il valore del rispetto e della fratellanza. Papa Francesco e altri leader religiosi sono impegnati in questa impresa. Dall’alto del suo magistero, Bergoglio non si stanca di ripetere quanto conoscersi e rispettarsi tra “diversi” (per cultura, tradizioni, religioni, etc.) sia la premessa necessaria per non naufragare nel vortice dell’intolleranza e del conflitto perenne. Ecco allora, dunque, che anche il Mediterraneo diventa la palestra di una nuova narrazione civile, occasione continua per ridefinire i confini del dialogo in una prospettiva “sconfinata”, che abbatte barriere frutto di ignoranza e pretesa di dominio, specie verso i popoli più in difficoltà. Aprirsi alla diversità, accoglierla senza timori, costruire una cittadinanza mediterranea, dunque cosmopolita, sarà il compito che cittadini e organizzazioni dovranno mettere in campo, a qualsiasi latitudine. Come calabresi, in particolare, che abbiamo conosciuto il valore dell’ospitalità – mentre altrove si consumava il martirio della guerra – questa impresa assume un significato ancora più forte.

Gianfranco Macrì

Indagine sul mondo arabo-musulmano

Nell’attuale contesto politico-sociale in cui troppo spesso si inneggia a presunte guerre di religione o a scontri di civiltà, in cui islam radicale sembra minacciare il secolarismo occidentale e in cui si rafforzano pericolosi meccanismi di difesa delle singole identità culturali, appare doveroso soffermarsi a riflettere su quello che è il significato di parole entrate ormai nel linguaggio quotidiano il cui senso troppo spesso è dato più da un “comune sentire” che da una corretta valutazione. Evidentemente occorre mettere da parte l’impulso, l’emozione e il sentimento e riscoprire quell’atteggiamento razionale tipico dell’umanesimo occidentale. Il “sentimento”, declinandosi spesso in paura, inquietudine e angoscia, non favorisce la lucidità del pensiero non consentendo in definitiva di delineare soluzioni ragionevoli. L’intento è, come sostiene il filosofo francese Michel Onfray, quello di recuperare lo spirito di Spinoza e del suo illuminismo, tornando a guardare ai fainòmenon al di fuori di ogni passione “sans haine et sans vénération, sans mépris et sans aveuglement, sans condamnation préalable et sans amour a priori”, con il solo intento di “comprendere”2. Bisogna, dunque, spogliarsi dei facili pregiudizi e delle interpretazioni confezionate del mondo per sperare di (ri)trovare un dialogo con quel mondo musulmano che abita in parte quello stesso bacino mediterraneo dove l’Italia si affaccia per la sua quasi interezza.

 

Fonte: https://ilpost.it/2014/05/14/europa-minoranze -rom-ebrei-musulmani/

Fonte: https://en.wikipedia.org/wiki/Islam_by_country 1

Questa piccola guida per principianti non ha certamente la pretesa di essere un lavoro esaustivo o enciclopedico: lo scopo perseguito è semplicemente quello di fornire al lettore una sorta di bussola per orientarsi, quantomeno nei primi passi, nel complesso mondo arabo-musulmano. Il tema sarà affrontato in maniera perlopiù schematica tramite una divisione dell’indagine in tre macro-aree concettuali: il primo spazio che andremo ad esplorare sarà quello geografico, passeremo poi a quello religioso e infine ci concentreremo su quello spazio che potremmo definire “politico-sociale”.

  1. Spazio geografico: il mondo arabo e altri mondi

Fonte: https://fr.wikipedia.org/wiki/Monde_arabe#/media/File:Arabic_speaking_world.svg

Sull’etimologia del termine arabo si continua ancora oggi a discutere; tradizionalmente i lessicografi arabi hanno sempre dato alla radice ‘rb il senso  di  «nomade», «beduino»,  «pastore» «abitante delle tende». Soltanto a partire dalla fine del III secolo a.C. il termine ha cominciato ad identificare una lingua; ed è proprio questo il senso del termine oggi: è arabo colui che parla la lingua araba. Per paesi arabi (o mondo arabo) si intendono dunque quei paesi la cui lingua ufficiale maggioritaria è l’arabo e che sono abitati in maggioranza da arabi, intendendo questo dato      in        chiave            “etnica”. Questi paesi sono localizzati nel Medio Oriente, nel Nord Africa, in parte nel deserto del Sahara e nel Corno d’Africa. Il mondo arabo non va assolutamente confuso con “il mondo musulmano”, cioè con quei paesi a maggioranza musulmana.

 

Fonte: http://www.languagesoftheworld.info/uncategorized/christians-middle-east-problems- prospects.html

La distinzione, molto spesso fonte di errore, è fondamentale sia perché alcuni paesi e territori arabi comprendono significative minoranze cristiane o di altre religioni, sia perché solo il 25% circa dei musulmani è costituito da arabi, dato che ci sono numerosi paesi a netta maggioranza musulmana (solo per citarne alcuni, Turchia, Iran, Afghanistan, Pakistan, Bangladesh, Malesia, Indonesia o Kirghizistan) che non sono certamente arabi.

Fonte: https://it.wikipedia.org/wiki/Maghreb

All’interno di questo spazio geografico che abbiamo definito mondo arabo possiamo identificare altri diversi spazi geografici e soprattutto geopolitici. Facendo riferimento alla distinzione presente lessicalmente nella lingua araba, l’espressione Maghreb, dall’arabo   al-Maghrib. «Terra d’Occidente», «luogo del tramonto», viene usata per identificare i paesi arabi nordafricani a ovest dell’Egitto, con esclusione di quest’ultimo. Nella regione del Maghreb la religione prevalente è quella islamica e la popolazione è formata principalmente da arabi e berberi. Al Maghreb si contrappone il Mashreq o Mashriq, dall’arabo al-Mashriq «Terra d’Oriente», «est» o anche «luogo dell’alba»; l’espressione viene utilizzata per fare riferimento ai paesi arabi che si trovano ad est dell’Egitto e a nord rispetto alla penisola arabica.    Nella tradizione geopolitica occidentale si utilizzano, invece, soprattutto le espressioni Medio, Vicino ed Estremo Oriente. Si tratta chiaramente di definizioni nate nell’ambito del pensiero eurocentrico del XIX secolo. Si trattava di creare una suddivisione “linguistica” che corrispondesse ad una ripartizione geopolitica di quell’immenso territorio che dalle coste del Marocco portava fino ai territori a est dell’India, partendo dalla centralità geografica e geopolitica del continente europeo. Le tre espressioni fanno riferimento soprattutto alla tradizione anglofona: nel periodo coloniale il Foreign Office e il Ministero delle Colonie britannici indicavano con l’espressione Near East quella parte del mondo, dal Marocco alla Turchia salendo fino ai Balcani, sottoposta al dominio imperiale ottomano. Con l’espressione Middle East, invece, si indicavo tutti quei territori che si estendevano tra il Golfo Persico e il Sud-est asiatico; infine il Far East arrivava a comprendere i paesi asiatici che si affacciano sull’Oceano Pacifico. Nella seconda metà del XX secolo l’espressione anglofona Middle East ha cominciato, soprattutto negli ambienti militari britannici, ad essere utilizzata ricomprendendo idealmente anche ciò che fino a quel momento era considerato appartenente al Near East. Ancora oggi l’espressione maggiormente utilizzata è Middle East (nelle sue varianti linguistiche: Medio Oriente, Moyen-Orient, ecc.) creando una sempre maggiore confusione dovuta anche al fatto che non si tratta di spazi geografici perfettamente distinti e precisi, delineati da confini umani o fisici, quanto piuttosto di una “visione particolaristica” dello spazio geografico. Privi di frontiere naturali, di unità fisica o umana, gli spazi geografici del Vicino e del Medio Oriente hanno sostanzialmente finito per essere identificati a partire da e per il tramite degli interessi strategici della Potenze europee. Non è, infatti, casuale il fatto che, a partire dal secondo dopoguerra, si sia preferito il termine Medio Oriente rispetto a Vicino Oriente: la preferenza linguistica sottolineava proprio l’evoluzione degli interessi europei, il loro spostamento e il loro allargamento fino all’area del Golfo.   Generalmente possiamo dire che con il termine Medio Oriente si fa oggi riferimento a quella regione geografica comprendente i territori che vanno dall’Asia occidentale, Iran e Afghanistan (per taluni anche Pakistan), fino al nord Africa comprendendo quantomeno l’Egitto (per la tradizione anglosassone, invece, si arriva ancora oggi fino al Marocco), passando per l’Asia europea, cioè la porzione di Turchia a ovest dello stretto del Bosforo, la Mezzaluna fertile, la Penisola arabica e il Golfo. Con l’espressione Vicino Oriente si intende, invece, l’Oriente più vicino, cioè l’Egitto, i paesi della Mezzaluna Fertile (Siria, Libano, Iraq, Giordania e Israele) e la Turchia (paese sempre di difficile categorizzazione per le diverse anime geografiche, storiche, politiche e culturali che lo caratterizzano).

Fonte: http://www.maxicours.com/se/fiche/7/2/411772.html

La generale confusione che regna sull’uso e sul significato delle parole è emersa chiaramente in seguito a quelle che sono state definite dalla stampa Primavere arabe: le definizioni mondo arabo, mondo islamico/musulmano, Medio Oriente hanno cominciato a sovrapporsi così da diventare ciascuno sinonimo dell’altro. Ogni definizione però lavorando su piani diversi, porta con sé un bagaglio concettuale differente rispetto agli altri termini; sovrapporre fattispecie differenti ci costringe ad una semplificazione concettuale tale da non rappresentare più la complessità del reale. Il Medio Oriente comprende infatti stati come Israele, la Turchia o l’Iran che non sono certamente stati arabi; del resto, Medio Oriente non è neanche sinonimo di mondo musulmano dato che comprende paesi come Israele o il Libano, paese multiconfessionale per eccellenza, così come altri stati con importanti minoranze non musulmane e non comprende invece paesi a maggioranza musulmana più popolosi, come l’Indonesia e il Pakistan. In questo senso il fatto che l’Indonesia sia il paese con la maggiore popolazione musulmana dovrebbe portarci alla conclusione che il centro di gravità della religione islamica probabilmente è attualmente molto più lontano rispetto a quel mondo arabo-musulmano del Vicino e Medio Oriente in cui siamo abituati a collocare naturalmente l’Islam.

In Italia, poi, la confusione è probabilmente più accentuata a causa della particolare collocazione del paese. Anche nella Penisola l’espressione Medio Oriente è indubbiamente la più utilizzata, intendendola chiaramente come onnicomprensiva di tutti quei paesi che vanno quantomeno dall’Egitto fino all’Afghanistan. Da un lato, la mancanza di un’adeguata e soprattutto nostra categorizzazione geopolitica ci riporta ad un passato coloniale italiano ben diverso da quello britannico o francese; d’altro canto, l’adozione pedissequa della tradizione linguistica anglofona è derivata da una costante inadeguata consapevolezza del ruolo dell’Italia nel contesto geografico in cui si colloca. Se per i britannici o gli americani esiste un Vicino Oriente solo in termini geopolitici per l’Italia esiste un Vicino Oriente anche e soprattutto in termini geografici: il nostro paese si colloca, infatti, per quasi tutta la sua interezza nel bacino del Mediterraneo e quel Vicino Oriente ormai desueto nella tradizione anglosassone per noi continua naturalmente ad essere il mondo più prossimo con cui confrontarci. L’aggettivo medio, ormai costantemente preferito a vicino, sembra voler allontanare anche tramite le parole quel mondo che rappresenta la sponda sud della nostra stessa civiltà mediterranea. Il nome che si dà alle cose spesso nasconde dietro di se ciò che pensiamo di loro: riscoprire il termine Vicino Oriente per quei paesi che si affacciano sul Mediterraneo, in primis l’Italia, probabilmente significherebbe cominciare ad assumere una nuova prospettiva che possa avvicinare di nuovo un mondo con il quale da secoli esistono scambi e rapporti di ogni tipo.

 

  1. Spazio religioso: il variegato e multiforme mondo islamico

Fonte: http://www.pressreader.com/usa/daily-times-primos-pa/20170115/282269550093205

Come abbiamo visto l’espressione Mondo arabo non è sovrapponibile a quella di mondo musulmano; quest’ultimo fa, infatti, riferimento al dato religioso comprendendo dunque quei paesi dove l’Islam è maggioritario. La parola musulmano deriva dalla radice derivata araba aslama e significa «sottomesso/devoto a Dio». Dopo il cristianesimo, l’Islam è la seconda religione, professata dal 23% della popolazione mondiale, con un tasso di crescita particolarmente significativo.

Il rapporto tra l’Islam e le altre due religione monoteiste è strutturato tramite l’istituto del dhimma, il patto di protezione. I dhimmi, in arabo «i protetti», sono coloro che appartengono ai “popoli del Libro” (ebrei, cristiani e zoroastriani), autorizzati a restare nelle terre in cui governava la legge islamica con il beneficio di praticarvi il proprio culto e di gestire secondo il proprio diritto gli affari privati. Ai dhimmi veniva garantita la sicurezza personale, una certa autonomia e la certezza della proprietà; in cambio di questi specifici riconoscimenti cristiani ed ebrei dovevano però rispettare alcuni obblighi tra i quali il principale era quello del pagamento di un’imposta specifica. Sebbene cristiani ed ebrei fossero considerati inferiori dai musulmani, mai in termini di paura o di odio razziale quanto piuttosto semplicemente in termini di inferiorità dovuta all’irrazionale scelta di aderire ad un messaggio religioso inferiore rispetto a quello musulmano, Bernand Lewis nota che sotto molti aspetti la loro posizione era “molto più facile di quella dei non cristiani o anche dei cristiani eretici nell’Europa medievale”4. La stessa annotazione è stata fatta da molti storici ottomanisti con riferimento alla tolleranza religiosa che per molti secoli aveva contraddistinto l’Impero Ottomano, turco-musulmano sunnita, rispetto all’intolleranza religiosa tipica del continente europeo nel medesimo periodo. Quando nel XIX secolo l’Impero cominciò a percepire sempre più le spinte autonomiste al suo interno, si avviò un periodo di riorganizzazione dell’Impero, noto con il nome di Tanzimat, «riforme» in turco-ottomano, che mirava ad una modernizzazione dell’impero che si inscrivesse nel solco del modello europeo di stato moderno. I sultani riformatori speravano in questo modo di frenare le spinte autonomiste delle molteplici etnie che componevano l’Impero tramite un processo di integrazione che si spingesse fino all’uguaglianza tra comunità musulmane e turche e comunità non-musulmane e non-turche, cioè le comunità che fino a quel momento erano state considerate come dhimmi. Con l’editto imperiale di Gülhane del 3 novembre 1839 si garantì a cristiani ed ebrei il loro diritto fondamentale alla vita, alla sicurezza personale, al rispetto della loro dignità umana e alla conservazione dei propri beni; con un secondo editto del 18 febbraio del 1856, conosciuto con il nome di Hatt-i Hümâyun, si consacrò l’esistenza ufficiale delle comunità cristiane, dotate di loro prerogative e competenze e poste sullo stesso piano, secondo un rapporto di uguaglianza, con la umma (comunità di fedeli, comunità di musulmani; ha valenza puramente religiosa senza sfumature culturali, etniche o linguistiche). Infine con la Costituzione del 1876, la proclamazione della quale segnò non a caso la fine del periodo delle riforme, si proclamò per la prima volta nell’Islam, l’uguaglianza civile delle comunità non musulmane con quelle musulmane.

Il Libro sacro dell’Islam è il Corano, dalla radice qr‘, «recitare salmodiando». Esso si compone di 114 capitoli, chiamati sure, divisi a loro volta in 6.236 versetti. Le sure si dividono in sure meccane e sure medinesi, in riferimento al periodo in cui esse sono state rivelate da Allah a Maometto. Le prime, le sure meccane, sono quelle rivelate prima dell’egira, il trasferimento cioè di Maometto e dei primi fedeli musulmani da Mecca alla città-oasi di Yathrib, la quale sarà poi rinominata Medina. Le sure meccane sono quelle legate maggiormente agli aspetti religiosi, etici e mistici dell’Islam. Quelle medinesini, rivelate cioè nel periodo in cui il Profeta era a capo della neonata comunità islamica di Yathrib, sono invece più lunghe e dal senso più “politico”, concentrandosi soprattutto sugli aspetti pratici della vita in comunità. Inizialmente affidate alla memoria dei primi seguaci, le rivelazioni coraniche vennero fissate su carta soltanto dopo la morte di Maometto, durante il califfato di ῾Othmān (644-656), nel tentativo di porre fine alle diverse letture e interpretazioni che ne venivano fatte, letture spesso caratterizzate anche da una certa tendenziosità e faziosità.

Il testo coranico è la principale fonte della legge islamica o Sharī‘a, vale a dire l’insieme delle regole rivelate da Dio a Maometto, che si applicano alla vita sociale e religiosa dei musulmani all’interno della comunità. In realtà la sharī‘a può essere intesa secondo due diverse accezioni; ad essa può darsi un’accezione più spirituale, nel senso cioè di Legge di Dio, una sorta di codice di condotta morale ed etica, e una più pragmatica intesa proprio come fondamento del diritto positivo islamico. Sebbene in molti Stati a maggioranza musulmana la sharī‘a venga considerata come base per la creazione del diritto positivo interno, nell’Islam delle origini e per molti studiosi attuali essa è più propriamente un codice di comportamento etico che dovrebbe essere privo di potere coercitivo. Del resto, non tutto il testo coranico è fonte di sharī‘a, bensì soltanto 190 versetti sui 6.236 di cui si compone. Altra fonte della legge islamica è la Sunna, in arabo «consuetudine», «modo abituale di comportarsi», «tradizione», cioè la raccolta dei detti e dei fatti del profeta Maometto. Il comportamento assunto da Maometto nelle varie circostanze della vita ha valore di norma per i credenti ed è proposta come esempio da imitare e come chiave interpretativa per la liceità o meno di fattispecie non previste espressamente dal Corano. In questo senso è assolutamente fondamentale il rapporto che viene a crearsi tra Corano e Sunna soprattutto per quanto concerne l’interpretazione attuale del Testo Sacro. Le sfide che oggi l’Islam si trova a dover affrontare sono quelle tipiche di altre religioni: la convivenza e il bilanciamento tra la sfera puramente privata e interiore della religione e la sua dimensione “sociale” e “politica”; la riconsiderazione di quegli aspetti religiosi che meno riescono a sposarsi con la modernità e la rivalutazione del processo interpretativo dei Testi Sacri con una particolare attenzione al conseguente pericolo che talune interpretazioni possano essere “politicizzate”. Ogni frase, ogni parola, ogni concetto ha una serie infinita di possibili letture: pensiamo al nuovo Testamento o anche alla filosofia occidentale e a come alcuni filosofi siano stati così profondamente strumentalizzati da divenire addirittura, contro ogni logica, la base filosofica dell’ideologia nazista. Inoltre non bisogna mai dimenticare che accanto al percorso religioso deve esserci un parallelo sviluppo filosofico: l’Occidente non sarebbe il mondo che oggi conosciamo se non avessimo avuto pensatori come Cartesio, Erasmo, de Montaigne, Voltaire, Rousseau, Nietzsche, ecc., o momenti di rottura, anche violenti, come la Rivoluzione francese o quella americana.

Fonte: http://france-fraternites.org/90-victimes-de-daech-civils-musulmans/

Accanto a queste brevi considerazioni occorre poi fare un’ultima importante considerazione. Al contrario di quello che si tende a credere e che troppo spesso emerge dalla stampa, l’Islām non è in alcun modo un blocco monolitico, omogeneo ed unito. Il discorso non è in alcun modo puramente teorico se si considera che dal 2001 al 2015, su 167.221 vittime di attacchi terroristici nel mondo, il 98% (circa 163.532) delle vittime non erano su suolo Europeo o statunitense e che tra tutte le vittime di terrorismo il 75% viveva in uno dei 25 paesi a maggioranza musulmana. Certamente non tutte le vittime erano musulmane, essendo state colpite anche molte minoranze (cristiani, ebrei e Yazidi in particolare) ma in ogni caso la maggioranza delle vittime era musulmana.

 

Fonte: https://fr.wikipedia.org/wiki/Islam

La principale e fondamentale divisione all’interno dell’Islam è quella tra Sunnismo e Sciismo; ma questa divisione non è che la prima ramificazione di una lunga serie di dottrine, correnti, divisioni in cui ciascuno ha proposto la propria interpretazione del Corano e della Sunna e che pertanto disegnano un quadro molto più complesso e di difficile gestione rispetto a quello che comunemente emerge agli occhi del grande pubblico. Per quanto la rivelazione coranica abbia unito angoli del mondo così lontani, un millenario processo di diversificazione e adattamento culturale ha dato luogo a un fenomeno religioso che spesso ha mantenuto soltanto una superficie di somiglianza di credenze e pratiche.

Bisogna dunque essere assolutamente consapevoli del fatto che la riduzione ad un’unità semplificate è il maggiore pericolo che si corre in un mondo religioso così variegato e complesso come quello musulmano.

Fonte: http://www.limesonline.com/gli-islam-nel-mondo/44323

  1. Spazio politico-sociale: il linguaggio dei cliché

È proprio l’aspetto politico-sociale a sollevare i maggiori interrogativi e probabilmente le maggiori semplificazioni. Dall’islam politico all’Islam fondamentalista, integralista, al fanatismo islamico e quindi al terrorismo il salto è stato relativamente breve ed è stato fatto spesso mischiando concetti, travisando il senso e creando innaturali generalizzazioni. Certamente la semplificazione è stata una conseguenza naturale della complessità: il rapporto tra l’Islam e lo spazio politico-sociale è un rapporto complesso e difficile sia da descrivere che da interpretare; esso soprattutto è caratterizzato da una grande varietà di pensieri e talvolta di pregiudizi che rendono difficile procedere ad un dibattito onesto sulla questione. Inoltre lo spazio politico-sociale è sicuramente quello maggiormente influenzabile, dalle epoche storiche, dai luoghi in cui si sviluppa il dibattito e soprattutto dall’approccio all’Islam che si ha nei singoli paesi.

La prima precisazione terminologica doverosa riguarda l’ormai inflazionato aggettivo islamista. Se per lungo tempo il termine islamista ha fatto riferimento a “colui che studia quanto correlato all’Islām”, negli ultimi anni l’aggettivo “islamista” ha cominciato ad essere sinonimo di Islām politico, di Islām radicale e, per analogia giornalistica, di terrorista. In questo senso, Massimo Campanini suggerisce dunque di lasciare alla parola “islamista” l’ormai evidente connotazione politica e di riprendere il termine islamologo per indicare lo studioso dell’Islām. Da questa prima e fondamentale precisazione scaturisce l’esigenza di definire cosa intendiamo per fondamentalismo, integralismo e infine Islām politico. Le parole fondamentalismo e integralismo sono applicabili a tutte le religioni: esse non solo non sono nate con riferimento all’Islām ma anzi sono nate proprio nell’ambito del cristianesimo. L’integralismo, parola comparsa per la prima volta in Francia all’interno dell’universo cattolico, è una concezione in base alla quale la società, la politica e la cultura devono essere integralmente modellate e assoggettate alle norme religiose. Per questo gli integralisti rifiutano qualsivoglia concezione laica del pensiero, della scienze e della politica e considerano la religione non come una circostanza individuale e personale ma come la sola visione del mondo possibile ad ogni livello dell’esistenza. Movimenti integralisti sono ancora oggi presenti in tutte le grandi religioni monoteiste; la loro azione si è accentuata soprattutto in seguito al processi di modernizzazione e secolarizzazione vissuti dall’Occidente negli ultimi decenni del XX secolo dai quali è spesso scaturito un progressivo abbandono delle pratiche religiose tradizionali. Il termine fondamentalismo, invece, è stato utilizzato per la prima volta dai sociologi anglosassoni per indicare una corrente religiosa che si sviluppò negli Stati Uniti fra Otto e Novecento all’interno della chiesa protestante battista. I “fondamentalisti” affermavano che il testo biblico andasse letto e interpretato in senso letterale; arrivavano a negare la validità delle ricerche storiche, filologiche e archeologiche sui rapporti fra la realtà e il testo sacro, così come le teorie darwiniane sull’origine dell’uomo e sulla sua evoluzione della specie poiché in evidente contraddizione con il racconto della creazione del mondo fatto nella Genesi.

Nel tempo, le parole integralismo e fondamentalismo, applicate alle religioni, hanno assunto una connotazione negativa collegandosi sempre più indissolubilmente nell’immaginario collettivo al fanatismo e alla violenza. Oggi poi quelle stesse parole hanno quasi completamente abbandonato il variegato universo religioso per caratterizzare esclusivamente la religione islamica e il mondo arabo (quest’ultima affermazione è in realtà una contraddizione in termini poiché come abbiamo visto il mondo arabo non è qualificato tale in base a parametri religiosi, mentre i concetti di integralismo, fondamentalismo e fanatismo hanno una base dogmatica). È importante evidenziare in questo senso che le dottrine fondamentaliste o integraliste nate in ambito musulmano da un lato non sono condivise da tutti i musulmani e, dall’altro, quelle stesse dottrine non sfociano sempre e necessariamente in forme di fanatismo votate alla violenza.

Al termine integralismo si ricollega quello di islamismo o Islām politico. Mentre l’Islam è una religione, il termine islamismo rimanda ad un insieme di ideologie che ritengono che l’Islam debba guidare la vita sociale e politica così come la vita individuale del credente. Si tratta dunque di una concezione essenzialmente politica dell’Islam tramite la quale si rivendica il valore pubblico- governativo dei precetti presenti nel Corano e nella Sunna. La dottrina politica islamica pur derivando logicamente dal messaggio religioso non ne costituisce un corollario imprescindibile. Certamente esiste un collegamento fra le due sfere in quanto come abbiamo visto una certa dimensione politica è parte integrante dell’Islam fin delle origini e il Corano contiene esplicitamente norme volte a regolare la vita civile e politica della comunità musulmana. Per questa ragione, probabilmente, movimenti integralisti e politici si sono sviluppati più facilmente in seno alla umma piuttosto che in altri contesti religiosi. Eppure la varietà di posizioni politiche all’interno del variegato mondo musulmano esprime meglio di qualsiasi altra affermazione l’impossibilità di associare inderogabilmente una specifica lettura dell’islam politico all’islam in quanto religione.

Se il comune denominatore è quello di legare l’aspetto religioso a quello politico, all’interno dell’islam politico esistono una serie di diverse ideologie, di visioni dell’Islam, di un ideale Stato islamico e dell’ordine morale, pubblico e politico, tali da rendere pericoloso il riferimento ad un’unica categoria. L’islam politico è un fenomeno complesso e difficile sia da descrivere sia da interpretare, poiché il termine racchiude una gran varietà di pensieri e di modalità di azione che variano non solo da gruppo a gruppo ma anche all’interno dello stesso gruppo a seconda delle diverse epoche e dei diversi luoghi. La definizione di islam politico, per di più, si concentra soltanto sullo scopo, delineandolo in maniera unitaria senza alcuna considerazione per le innumerevoli sfumature, ma nulla dice con riferimento ai mezzi adottati per raggiungere lo scopo politico. Da questa difficoltà di definire univocamente un concetto che è fortemente sfaccettato derivano le maggiori ambiguità politico-diplomatiche. All’interno di questa macrocategoria dell’islam politico si finisce così per ricomprendere alcuni dei regimi esistenti nei paesi arabi, gruppi pacifici, così come gruppi violenti e terroristici, il tutto senza alcuna attenzione per le differenze ma con il solo obiettivo di standardizzare la nostra comprensione riducendo tutto in categorie standardizzate.

Proprio a partire da queste ambiguità e dalla consueta lettura semplicistica della realtà, l’Islam politico, il fondamentalismo e l’integralismo sono diventati sinonimi di Islam radicale, quanto meno nei suoi mezzi, cioè l’Islam che ricorre alla violenza e al terrore e che sta sfidando l’occidente cristiano con “la sua jihad”. La parola Jihad, dalla radice araba ǧhd, significa, correttamente, «sforzo volto ad uno scopo». La caratterizzazione femminile che ha assunto nella lingua italiana, la jihad, deriva da una traduzione ideologizzata impropria che ne è stata fatta: il termine jihad è infatti ormai naturalmente tradotto come “guerra santa. Nella lingua araba, invece, il termine si presenta altamente complesso tanto da poter essere oggetto di una serie innumerevole di interpretazioni. Si può dire che nella tradizione musulmana (per il jihad non si fa tanto riferimento al testo coranico quanto ad un hadith, un racconto sulla vita del Profeta) il concetto di jihad ha quantomeno due diverse sfumature: si differenzia, infatti, tra il grande jihad (o jihad superiore) e il piccolo jihad (o jihad inferiore). Il primo è inteso come lo forzo che il credente deve compiere per migliorare se stesso, la propria comprensione dei testi sacri, per divenire un musulmano migliore e per purificarsi contrastando le pulsioni passionali dell’io umano; il secondo è invece inteso come la lotta per preservare l’Islam e facilitare la sua diffusione, sforzo che soltanto in alcuni casi limite può essere inteso come sforzo militare, il quale sarebbe comunque prima di tutto inteso in termini difensivi. Lo spettro di significati che può assumere il termine jihad è dunque molto ampio ma l’uso politicizzato del termine in quel quadro generale di scontro di civiltà citato all’inizio ha fatto sì che esso sia ormai diventato sinonimo di guerra santa contro gli infedeli e strumento armato per la diffusione dell’Islam.

 

Conclusione

La questione terminologica non è cosa di poco conto o mero esercizio di erudizione da confinare nelle aule universitarie: prima di tutto, definire correttamente i vari concetti fornisce degli spunti su cui riflettere, in un mondo in cui alla riflessione è dedicato sempre meno tempo e che trova nelle etichette, per loro stessa definizione generiche, uno dei principali strumenti di lavoro. Ma soprattutto, definire correttamente i concetti permette di non cadere in alcune delle trappole più frequenti nell’attuale mondo della dis-informazione. La riduzione della realtà a semplici cliché, parole codificate semplicistiche, non è soltanto scientificamente scorretto quanto molto più spesso “politicamente pericoloso”. Come ha egregiamente scritto uno dei principali narratori della guerra in Libano tra il 1975 e il 1990, il giornalista Robert Fisk:

Si presume che la lingua debba esprimere i pensieri, liberare le idee, renderci liberi. […] La lingua dei cliché non ci aiutava a liberare la mente. Le parole ci imprigionavano. Quelle parole erano doppiamente pericolose perchè uccidevano anche la verità. Non la verità in senso assoluto, quell’obiettivo irraggiungibile che i giornalisti inseguono a loro rischio o pericolo. […] Quegli stereotipi collaboravano però attivamente a creare pregiudizi politici.5

Ed è proprio questo il pericolo maggiore: ridurre la realtà ad una serie imperturbabile di cliché, di etichette e di “verità” e consegnare a ciascuna di queste etichette una sfumatura politica che ci fa schierare in automatico dalla parte del “bene” o dalla parte del “male” in quelle categorie di “amico- nemico” di schmittiana evocazione. L’impossibilità di ridurre tutto quanto attiene alle scienze umane in poche e sempre valide “leggi”, è tanto più vera quando ci si approccia ad un mondo così complesso, eterogeneo e con assiomi di partenza molto diversi da quelli tipicamente “occidentali”, quale è quello arabo-musulmano. L’Islām non è un blocco monolitico come troppo spesso si tende a credere e soprattutto non è riducibile ad una mera “compagine aggressiva”6; esso rappresenta un mondo estremamente variegato che si estende dall’Afghanistan ai Balcani, passando per la Turchia e arrivando fino all’Indonesia e alla Malesia; un mondo che oggi, tramite il naturale e irrefrenabile movimento delle popolazioni, arricchisce e complica sempre più anche il quadro politico e valoriale europeo.

 

Principali riferimenti bibliografici

 

BAUSANI A., L’Islam. Una religione, un’etica, una prassi politica, Garzanti, Milano, 1980 BRANCA P., I musulmani, Il Mulino, Bologna, 2000

  • Introduzione all’Islam, Paoline, Milano, 1995

CAMPANINI M., Quale Islām? Jihadismo, radicalismo, riformismo, Editrice la Scuola, Brescia, 2015

  • Il pensiero islamico contemporaneo, Il Mulino, Bologna, 2005
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IL CORANO NELL’EPICA LAICA DELLE FONTI DEL DIRITTO

Esiste, soprattutto in Francia, una letteratura quanto mai eterogenea che associa al diritto e, in particolar modo, al diritto interno alle diverse esperienze religiose, due componenti fondamentali. Da un lato, il diritto invoca una propria solennità, spesso direttamente mutuandola dalla sfera del sacro, per favorire il riconoscimento della propria necessità e la garanzia della propria legittimazione. D’altra parte, il contenuto concreto dei comandi giuridici rischia di dipendere sin troppo spesso dalle intenzioni del singolo detentore della potestà decisionale e dal contesto sociale e culturale entro cui quei comandi devono essere attuati. A conclusioni simili sono giunti, tra gli altri, l’orientalista Herbert Fingarette, che ha studiato le istituzioni del pensiero politico cinese, e ancor prima lo storico del diritto canonico Pierre Legendre.

Risulta, semmai, difficile stabilire se la transitorietà debba essere riferita alle forme o al contenuto materiale degli obblighi. Le une e gli altri possono mutare in ragione delle esigenze fattuali o, all’opposto, pretendere una propria irrevocabilità, desumendola, secondo i casi, da argomentazioni religiose, politiche, ideologiche, persino militari. Simili riflessioni sulla natura del comando coinvolgono ormai ampiamente le scienze sociali secolari e finiscono per inscrivere anche le fonti di natura religiosa in una rappresentazione tipicamente laica, umana, immanentista, del potere e del diritto. Parafrasando Schmitt, il problema non è più soltanto quello di capire chi decide sullo stato d’eccezione, ma anche come si definisce lo stato d’eccezione, chi lo definisce e perché la sua definizione dovrebbe risultare più convincente delle altre.

Tutte le volte in cui ci si rifiuta di prendere in considerazione questo aspetto del problema (come si definiscono le istituzioni che governano l’ambito normativo dell’agire umano) si cade nel fondamentalismo. Il fondamentalismo, in altre parole, dipende molto spesso dal ritenersi gli esclusivi portatori di grandezze incommensurabili, sottratte a qualunque riflessione comparatistica, di approfondimento evolutivo o di ricostruzione storico-giuridica.

I pastori battisti americani che diedero vita all’inizio del XX secolo ai movimenti cristiani fondamentalisti e neocongregazionalisti ritenevano la Bibbia incomparabile a qualunque testo religioso, incomprensibile con i normali strumenti cognitivi dell’interpretazione. E non fornivano alcuna spiegazione sulla presunta fondatezza della scelta compiuta, sottraendola in radice alla riflessione dei fedeli.

Come si attua, però, l’interpretazione letterale di un testo religioso se la massima parte dei fedeli di quella religione non conosce l’alfabeto in cui il testo sacro è stato scritto? Può il favore per l’interpretazione letterale generare ex se una traduzione univoca, perfetta persino più dalle sacre scritture da cui si è partiti? Questo travaglio riguarda tutte le esperienze religiose, in particolar modo quelle in cui si è data stretta corrispondenza tra l’appartenenza religiosa e il diritto alla partecipazione nella sfera politica.

Il proselitismo che poggia sul primato dell’interpretazione letterale non si premura di chiarire le due questioni fondamentali: perché l’interpretazione letterale dovrebbe essere la più fedele? E chi ha deciso che l’unica interpretazione letterale possibile sia quella oggetto della propaganda fondamentalista? Come può, poi, l’interpretazione più rigorosa divenire contemporaneamente quella più massificata e più ampia, senza deformarsi o con la coazione sulle menti o con la manipolazione delle fonti?

Dilemmi del genere hanno crescente rilievo nella riflessione dell’Islamismo politico, dove istanze di liberazione rispetto alla tirannia politica si uniscono al fondamento religioso delle istituzioni normative di riferimento.

Non è, ad esempio, estranea all’esegesi coranica l’esigenza di raggiungere il più vasto numero di fedeli possibile. E anche un’istanza del genere si è declinata in modo spesso policromo, dal punto di vista storico-giuridico. Restando a traduzioni celebri del testo coranico, ad esempio, lo stile del grande letterato anglosassone convertito, Marmaduke Pickthall, ha il gusto dell’arcaismo, del tono declamatorio. Ciò non ha impedito a Pickthall di realizzare una delle più diffuse traduzioni del Corano nell’Inghilterra del XX secolo: oltre a rendere manifesta la conversione personale, Pickthall dimostrava di avere scelto un linguaggio congruo allo scopo.

Un convertito di pari fervore era lo scrittore austriaco Muhammad Asad, eppure la sua traduzione del Corano, omologa nell’impianto, è in più punti diversa da quella di Pickthall: qui si preferisce sottolineare l’aneddotica pragmatica, da cui al fedele sia sempre possibile ricavare con immediatezza e decisione il precetto giusto. Non stupisce perciò che la traduzione del Corano sia spesso stata, fuori dai Paesi di lingua araba e anche all’interno delle stesse comunità islamiche, una questione eminentemente politico-religiosa. Non si trattava più di fermarsi a rispettare i vincoli di fedeltà al testo rivelato; la problematica diventava (e di molto) più complessa: dare alla traduzione uno scopo – se divulgativo, propagandistico, letterario, accademico – e trovare il linguaggio secolare più opportuno per quello scopo. Le testate cartacee e telematiche che predicano l’odio dei movimenti terroristi utilizzano un linguaggio di massa e per le masse convincente? Conta più il numero di persone che le segue o la cieca determinazione a seguirle, anche da parte di gruppi estremamente minoritari? E il linguaggio di questa propaganda non perde ogni valenza religiosa proprio quando si esaurisce nel pretendere cruda e diretta efficacia?

Anche alla luce di questi interrogativi, non sembrano da prendere in considerazione le letture, spesso di provenienza occidentale, che ascrivono al Corano limitata efficacia giuridica formale, enfatizzandone la componente narrativa o quella etica, pratica e prudenziale. Questo approccio al Corano è in fondo inesatto per qualunque testo lo si adotti. Non ci si può estraniare consapevolmente dalle implicazioni globali di un testo, a meno che non sia proprio il testo in esame a dichiarare espressamente una specifica destinazione (anche se, dalla retorica classica in poi, sappiamo che questa “dichiarazione” può essere spesso mimetica, artificiosa, inattendibile).

Con intenti apparentemente inclusivi, si tende a privare il Corano di effetti giuridici vincolanti per i fedeli musulmani. Argomentazioni del genere sono note: quel testo non merita alcun interdetto laico, in nulla è in contrasto con i valori liberali occidentali, perché non si tratta di un testo giuridico. Questa visione, però, è solo in apparenza pluralista: nei fatti derubrica il riferimento religioso e normativo di milioni di persone ad appendice del folklore etnico e geografico. Il Corano ha, invece, un’intrinseca valenza normativa, non è l’atto di negarla la via migliore per evitare i conflitti al riguardo.

Il diritto non si riduce per forza all’idea positivistica della norma (breve, puntuale, immediatamente dispositiva), che noi stessi a Ovest attuiamo sovente così male, finendo per produrre arbitrii e burocrazie tutto fuorché agevoli e razionali. è ben possibile, al contrario, che in culture diverse da quella euro-occidentale il diritto sia il prodotto di narrazioni antropologiche che non conducono affatto a esiti univoci e già scritti. Chi potrebbe mai scambiare per codici civili l’etica confuciana, la cosmologia induista o i commentari biblici in slavo ecclesiastico? E, al tempo stesso, chi potrebbe mai negare all’etica confuciana, alla cosmologia induista e ai commentari biblici dell’Europa ortodossa l’ambizione a individuare alcune condotte che le donne e gli uomini sono tenuti fedelmente ad osservare?

Studiare l’attitudine giuridica del Corano, perciò, è una sfida necessaria. In forza di una giurisprudenza religiosa basata sull’interpretazione esclusiva dei precetti coranici, nelle comunità islamiche in Occidente va aumentando il peso delle giurisdizioni confessionali, che dirimono contrasti che gli altri cittadini (i non fedeli) affidano all’autorità civile, secondo logiche, principi e soluzioni concrete anche profondamente diverse. L’applicazione del diritto islamico, sia in una prospettiva giuridica e formalista sia in un’ottica sociologica e sostanzialista, tende, poi, a dipendere dalla comunità entro la quale le norme coraniche sono applicate. Il preteso universalismo del Corano è piegato, spesso dall’inettitudine umana, a scopi e situazioni che aborriva. Lo stesso comportamento (si pensi alla poligamia) può essere ammesso o vietato, e chi sostiene l’una o l’altra posizione lo fa usando come scudo lo stesso parametro religioso.
Proprio questo, in fondo, è indice tipico dell’epica laica delle fonti giuridiche. Esse, pur così altamente fondate (nella rilevanza che molti attribuiscono al sentire religioso, per gli studiosi laici; nella diretta rivelazione di Dio, per i giuristi teocratici; nel patto costituzionale, per i teorici del diritto pubblico), non sfuggono mai alla mutevolezza umana. Ecco perché suggerire l’evoluzione non significa snaturare il testo, semmai implica orientarne l’applicazione in direzioni più rispondenti alle esigenze della comunità cui quel testo si riferisce. E questo forse è l’unico lascito universalmente difendibile nella tradizionale elaborazione liberale sulla libertà d’opinione: il contrasto interpretativo esiste soprattutto quando viene negato. A garantire la parte soccombente non può essere ad incertam diem la sola provvidenza divina. Qui e ora, esige la responsabilità umana.

 

Mondo Cane

Il cane è l’amico dell’uomo per antonomasia. Eppure, l’espressione “mondo cane” non solo è entrata nel linguaggio comune, ma è stata utilizzata negli anni ’60, e dopo, quasi fino ad oggi, in alcuni documentari – “verità” per illustrare gli orrori del mondo.

Già nel 1924 Hound dava il titolo ad un racconto horror di Howard Phillips Lovercraft, pubblicato sulla rivista Weird Tales, nel quale la figura del cane (da caccia, hound appunto) era associata ad una vicenda nella quale la negromanzia svolgeva un ruolo decisivo, fino a condurre a morte i due protagonisti.

C’è allora da chiedersi come mai questo animale, domestico per eccellenza, presti però la sua immagine a rappresentare aspetti truculenti e violenti della vita umana; forse, ma è solo una timida ipotesi, perché il cane viene ricondotto ad alcune specie di canidi, come lo sciacallo, il coyote ed il lupo, che propriamente domestici non sono. In più, lo stesso cane, in altre culture, che non sono quella europea ed occidentale in generale, è oggetto di combattimenti e di sacrifici, fino a divenire cibo per gli uomini. Ma senza arrivare a questi eccessi che oggi ci sembrano “esotici”, fino a qualche tempo fa tutti avevamo presente cosa volesse dire guardarsi “in cagnesco” e cosa volesse dire, dopo una sfida perduta, ritirarsi “con la coda tra le gambe”. In generale, era del tutto ovvio constatare che il “mondo” canino, pur connotato da dimostrazioni di sensibilità e, in senso lato, di affettuosità, può diventare facilmente il simbolo di una condizione umana segnata dal disagio della lite e della sconfitta. Da qualche tempo a questa parte, tuttavia, il cane ha assunto nella società contemporanea un ruolo indiscutibilmente ed esclusivamente benigno: quello del migliore amico di cui l’uomo (è ovvio che usi il termine al di là della specificità di genere), penso a quello italiano di oggi, possa beneficiare. E da qui intendo cominciare la mia riflessione.

La società italiana contemporanea è affetta da una intensa ondata di cinofilia. Che si sia in coppia oppure singoli, donne e uomini esibiscono il loro cane, ovunque: non solo per strada, che è il luogo più ovvio e che, ora, ha anche la capacità di farne balzare agli occhi la cospicua quantità, ma a teatro, in chiesa, in autobus, in treno e in aereo, nelle trattorie e nei supermercati ecc. Per non parlare del commercio, che attorno al cane si sta sviluppando: dai negozi “dedicati”, dove la specializzazione si associa spesso alla ricercatezza nel campo della nutrizione e dell’abbigliamento (sì, proprio, “abbigliamento”), alle pubblicità che circolano sui media, alla specializzazione veterinaria, fino al contributo dello psicologo.

Insomma dire oggi “mondo cane”, significa rappresentare un mondo ove l’orrore dei documentari-verità è del tutto sostituito dal benessere e dal confort che quell’animale dispensa all’uomo. A voler essere realisti, nel mondo contemporaneo, quei documentari di denuncia dovrebbero sostituire nel titolo alla parola “cane” la parola “uomo”, anche se mentre “mondo cane” eufonicamente è accettabile, “mondo uomo” non funziona. Eppure, è proprio perché oggi esiste un “mondo uomo”, come luogo di violenza e di orrore pubblico e privato, che il cane ha il suo straordinario successo nell’ambiente umano.

Vorrei spiegarne il perché, dal mio punto di vista.

Il cane rappresenta per l’ Io l’antidoto contro il rischio dell’alterità e della differenza; meglio: dell’alterità, in quanto differenza strutturale, nel senso che “alterità” e “differenza” sono termini che identificano concetti non separabili e privi di ogni significato valutativo. Il cane, infatti, consente al suo proprietario – padrone di esprimere e manifestare quella affettività, quel bisogno di non essere solo, senza correre il rischio della non corrispondenza, e quindi della delusione. Il cane corrisponde alla richiesta di riconoscimento affettivo del padrone senza alcuna fatica per quest’ultimo; l’“alterità” canina si pone sul piano della non competizione umana e la differenza stessa, poiché anche questa non è umana, non espone al pericolo dell’ignoto. In fondo, il rapporto Io – cane si presenta come un circuito emotivo, con il quale l’ Io può manifestarsi con quella immediatezza espressiva che gli evita anche il lavorìo psicologico di rappresentarsi al mondo come un “sé”. Il cane è, quindi, un’entità vivente ma “altra”, nel senso specifico che esiste su di un piano che non è umano. Per questa ragione la sua “alterità” è innocua e, in più, emotivamente disponibile alla richieste di riconoscimento del padrone. In altre parole, esso costituisce il tramite di un percorso circolare indispensabile per ri-condurre all’Io la possibilità di dar vita, nella sua realtà quotidiana, ad un rapporto con un’entità altra, con un’“alterità” che non sia in alcun modo rischiosa. Attraverso il cane, il suo padrone non corre il rischio che l’alterità sia una sua mera immaginazione né quello di un desiderio destinato a rimanere insoddisfatto. Una alterità, infine, che evita il maggior pericolo che pervade l’ambiente sociale odierno: quello di un individualismo monadico-competitivo.

Un corollario. Il percorso circolare padrone – cane – padrone soddisfa una ulteriore esigenza: quella propria di mascherare di fronte al se stesso e al mondo la propria insicurezza e solitudine.

Questo attuale “mondo cane”, nella versione esclusivamente benigna che ho rapidamente descritto, apre una questione che va ben oltre la quotidianità canina; esso mette a nudo una dimensione antropo-psicologica che investe e conforma l’ Io nelle società contemporanee. Mette a nudo la perdita di una dimensione, che potremmo definire ontologica, dell’esistenza umana e di un’altra che propriamente è storico-culturale. La dimensione ontologica si individua nella strutturalità della relazione Io – Tu; strutturalità ontologica in quanto derivante dalla finitudine esistenziale di ciascun Io. Quella storico-culturale prende corpo e visibilità nel Noi, in quanto risoluzione storico-politica di diversi modi di concepire la vita associata, oltre l’originario Io – Tu. Dimensioni, quella ontologica e quella storico-culturale, che nella storia dell’occidente hanno formato, spesso anche in modo tensivo e dialettico, una antropologia capace di costruire un mondo umano nel quale Io – Tu – Noi sono stati i pilastri sui quali la nostra Ragione teoretica ha costruito una filosofia politica e giuridica, un pensiero sociale ed istituzionale e l’istanza etica.

La società contemporanea, un tempo definita come “post-moderna”, non credo che, oggi, sia definibile ancora così. Il post-moderno, infatti, ha segnato una stagione culturale nella quale il pensiero ha portato a compimento, dissacrazione e dissoluzione quella visione del mondo che la Ragione aveva allestito tra 700 e 800. La gran parte del‘900, nella sua esplicazione post-metafisica e post-sistematica, ne ha allestito la strada. Per fare solo un esempio, basti pensare alla torsione della teoresi intorno alla verità in quella della utilità, che include altre torsioni. Tuttavia il pensiero novecentesco ha introdotto e costruito la post-modernità usando le medesime categorie filosofiche della modernità: Nietzsche non avrebbe mai potuto dissacrare Hegel senza la categoria teoretica della “storia” hegeliana. O l’esistenzialismo non avrebbe potuto soprattutto ripensare la soggettività senza la “postilla” kierkegaardiana. E questo è stato solo l’inizio. Come potevano affermarsi una filosofia empiristica e linguistica senza discutere nel profondo la tradizione ontologico-metafisica? e così via. Dunque la post-modernità, pur con la “liquidità” dei suoi concetti e delle sue visioni umane, è stata, però, un “pensiero”, cioè un apparato di ragionamenti capace di produrre una rappresentazione del mondo sulla quale l’uomo era portato a riflettere e discutere.

La contemporaneità, invece, non solo non ha un pensiero, ma non è un pensiero, poiché sono venute meno le condizioni per le quali la mente umana possa “pensare”. Mi spiego.

Il pensare, del quale il ragionare è la sua dimensione articolata in rappresentazioni ideali e concettuali espresse dal linguaggio, sia alfabetico che iconico, implica come premessa strutturante quella costituita dalla categoria della “temporalità”. Il pensare consiste in una successione seriale di attività mentali, originate dalla esperienza materiale dell’incontro dell’uomo con il mondo. Il conoscere, che ne è un possibile esito, è poi la traduzione elaborata dall’attività della ragione dell’incontro con il mondo in rappresentazioni concettuali.

Pensare, come premessa del conoscere, e la connessa espressione linguistica, corrispondono a specifiche attività cerebrali, come spiega Lamberto Maffei in un suo libro di qualche anno fa (Elogio della leggerezza, Il Mulino, Bologna 2014), nelle quali sono impegnate le aree di Broca e Wernicke, la prima legata alla formazione del pensiero, la seconda alla comprensione del linguaggio. Queste attività cerebrali hanno come determinante e, direi, strutturante per le loro operazioni, il fattore “tempo”.

Questo è il punto-chiave. E’ su questa proprietà, infatti, della parte sinistra del nostro cervello che si determina una diversità di risposta cerebrale che determina un modo diverso di agire della persona. Si tratta della diversità tra gli effetti prodottisi a partire da eventi ricevuti in successione temporale, come avviene per la comunicazione linguistica, ed effetti derivati da stimoli visivi. “La vera rivoluzione evolutiva nel lobo sinistro – scrive Maffei – non riguarda solo il linguaggio ma anche i meccanismi nervosi che generano le stringhe di eventi legati tra loro nel tempo in maniera tale che, nella maggior parte dei casi, solo la stringa assume significato. Per questa ragione propongo di chiamare l’emisfero linguistico ‘emisfero del tempo’. Le stringhe di eventi legati tra loro sono la base del ragionamento, e contrastano ad esempio con la comunicazione visiva, dove gli eventi nervosi concernenti un’immagine non sono in serie ma in parallelo, in quanto sono trasmessi contemporaneamente, tutti insieme. Si potrebbe dire che la comunicazione visiva, al contrario di quella linguistica, è atemporale” (pp.54 – 55, il corsivo è mio).

Il fattore “tempo” dunque non è solo un’idea della mente, ma appartiene allo stesso strutturarsi e svilupparsi della funzione cerebrale; la conseguenza è decisiva per il comportamento umano prodotto dalla forma dei modelli comunicativi e dalla loro frequenza e prevalenza nell’ambito dell’agire sociale. Se al modello linguistico si sostituisce, in modo prevalente e direi abitudinario, quello visivo, si avrà una sorta di riformattazione del cervello, il quale, come quello di qualsiasi altro muscolo, modifica lo sviluppo delle sue parti, rafforzando quelle più impegnate e riducendo le potenzialità di quelle meno impegnate.

Se i modelli comunicativi sono quelli che, da sempre, mettono in forma un ambiente sociale, allora occorre chiedersi in che misura l’attuale modello comunicativo operi in base a due fattori: la sua struttura strumentale e il suo destinatario.

La struttura strumentale è quella propria di una tecnologia informatico-digitale, il cui fine è l’immediatezza degli effetti comunicativi. E’ una tecnologia il cui obiettivo è realizzare effetti in tempo reale; dove, per “tempo reale” intendo una tecnologia il sui successo sociale si fonda sulla capacità di inviare messaggi in modo da realizzare, proprio, reazioni immediate. Quasi che il fine ed il successo della comunicazione consista nell’immediatezza della reazione del destinatario, sia sotto forma di parola che di decisioni o più genericamente comportamenti.

In altre parole, quello avviato dalla attuale tecnologia è un modello comunicativo che punta sull’impatto dell’evento, prodotto dalla immediatezza a-temporale della dimensione visiva, annullando l’intervallo tutto temporale tra la comunicazione linguistica, la lettura e la riflessione; una procedura, quest’ultima, che proprio nella temporalità della successione degli eventi consente di sviluppare il pensare ed il ragionare.

Il secondo fattore riguarda il destinatario della comunicazione. Quest’ultimo è costituito dall’utente – massa, il quale è esposto in modo del tutto passivo ad una molteplicità di meccanismi comunicativi, dai social network a Whatsapp a Twitter che lo illudono di essere partecipe attivo del villaggio globale della comunicazione senza confini. L’immediatezza del “tempo reale”, allena il suo cervello a reazioni immediate, nelle quali alla riflessione razionale si sostituisce una sorta di pulsionismo emotivo. E questo accade proprio perché l’atemporalità del visivo si è sostituita alla temporalità del ragionamento.

Un tale modello comunicativo, appartenendo ormai alla abitudine mentale dell’uomo contemporaneo, invade necessariamente anche la dimensione del politico, trasformando, quest’ultimo, in una sequenza di spot capaci di produrre impatto emotivo e quindi risposte ambientali valide nella a-temporalità dell’immediato. Non deve stupire, quindi, che oggi la politica sia priva di progettazione ideale, per la ragione che il “cervello” dell’attuale classe politica ha perso la funzione delle temporalità, e quindi del pensare e ragionare, per essersi conformata a quella della atemporalità dell’impatto. La battuta: “siamo sempre in campagna elettorale” o la stessa impossibilità di operare riforme che hanno come spazio temporale il “futuro” (si pensi alla rischiosa complessità sociale che investe la vita dell’uomo contemporaneo in tutto il pianeta) hanno origine proprio nella perdita della temporalità di qualsiasi modello comunicativo destinato ad un utente – massa. E quest’ultimo viene evidentemente pensato come sensibile alla pulsione provocata da argomenti e parole che si fermano alla cosiddetta “pancia”; in altre parole l’utente-massa non ha più una testa.

Un tale tipo di comunicazione investe ogni campo della vita, non solo quella pubblica, ma anche quella privata. Un esempio per tutti: facebook, dove si realizza ad un tempo la globalizzazione della notizia, la esibizione visivo-atemporale di un se stesso, consegnato ad immagine esteriore, ed una reazione che si riduce, perché non può andare oltre, ad un immediato I like.

Un tale tipo di comunicazione, che gioca tutta la sua efficacia sulla atemporalità, priva gli utenti della soggettività della riflessione e del ragionamento e del relativo, articolato ed adeguato linguaggio destinato a veicolare il ragionamento. Così facendo, si rende sterile ogni rapporto interpersonale, rinsecchendo ogni possibilità di relazione inter-soggettiva, la quale, invece, si costituisce proprio sulla temporalità della durata. Tra il tocco di un I like e un dialogo tra due amici corre tutta la differenza strutturale che passa tra il vivere nel tempo e l’agire nell’immediatezza del momento.

Allora, perché meravigliarsi se i giovani di oggi, formatisi alla tecnologia dell’impatto, hanno perduto l’idea stessa della Storia e della sua costitutiva diacronicità e, con essa, la capacità di pensare e ragionare per un futuro? La ragione è terribilmente semplice: tale categoria è scomparsa dalla loro abitudine mentale. Perché loro, come l’uomo medio peraltro, hanno perso la capacità di relazioni intersoggettive effettive, nel senso di pensate come durevoli e non concepite come strutturalmente effimere? Per la ragione che il mondo dei messaggini riduce il linguaggio a semplice manifestazione di emozioni momentanee, non a caso adeguatamente espresse, peraltro, soprattutto dalle “faccette”.

Ecco perché il mondo che viviamo ogni giorno è diventato “mondo cane”; per lo meno i cani hanno ancora un loro modo di manifestare la durevolezza di una relazione vivente con il padrone: leccano e abbaiano.

Sulla sinistra “senza compagni e senza storia”: da Ezio Mauro a quel che sta accadendo a sinistra del PD

In un bell’articolo, che in realtà è un piccolo saggio, Ezio Mauro ha tracciato il quadro di questa sinistra “senza compagni e senza storia”. Ha ricordato che “l’inconcludenza politica e la tragedia tribale” esibite in Italia sono di tutta la sinistra di questo occidente, ormai, pressoché ovunque, sull’orlo dell’estinzione. Ne ha additato l’origine nella “frattura tra il mondo compatto del Novecento e l’universo frammentato della globalizzazione, che cancella le classi ma trasforma le diseguaglianze in esclusioni”, che sposta il “ceto medio tra gli sconfitti”, che fa del precariato la “moderna interpretazione del proletariato” e che, infine, produce una “nuova solitudine repubblicana, uno spaesamento democratico dove crescono i “risentimenti individuali incapaci di trovare traduzione collettiva … una Causa”. E ne ha evinto che l’ultima chance di quella che fu la sinistra sta “in un popolo disperso e dimenticato da riconquistare”, in uno “spazio sociale da riorganizzare”, e dunque in una “scommessa culturale da giocare per ridefinire la propria presenza nel secolo”.

C’è tutto, e detto nel modo migliore. Ma fa chiedere: chi può farlo e come si può fare, magari cominciando dall’Italia.

Tutto questo è avvenuto in forza di processi oggettivi e potenti che hanno cambiato il mondo, ma hanno cambiato con esso le sinistre che in un modo o nell’altro lo avevano governato nella seconda metà del “secolo breve”.

Piaccia o no, l’attuale PD è una formazione politica di centro, e lo è non dal tempo di Renzi. Non è certo un’ingiuria, ma solo una constatazione: non perché non è più anticapitalistica, ma perché ha finito per far proprio il pensiero unico, l’idea che ai fallimenti del mercato si ovvia solo con più mercato, e dunque, in primis, riconducendo il lavoro, tutto il lavoro, alla logica della merce. Ha provato, e prova, a salvare l’assistenza, ma dall’esterno, senza “disturbare il manovratore”. Renzi ha solo accelerato questo processo, abbandonando antiche prudenze con l’idea di sfondare a destra, una destra che all’epoca della sua ascesa appariva in disarmo.

Questo mutamento del PD potrebbe sembrare reversibile, se non fosse che è mutato con esso lo statuto antropologico del suo personale politico e dei ceti che questo personale coinvolge (il popolo delle primarie): il professionismo rampante in luogo della vocazione politica e la contiguità subordinata alle èlite in luogo del “popolo disperso e dimenticato”.

Questo fa sembrare improbabile che la costituzione di una nuova sinistra possa consistere in una ri˗collocazione del PD o, comunque, in una ri˗conversione che muova dal suo interno: piaccia o no, non è facile immaginare che un tal personale politico sia folgorato sulla via di Damasco o che possa essere scalzato, protetto com’è dalla sua estesa rete di piccoli patrocini. E fa pensare che le chance di una sinistra, che ripensi la propria “presenza nel secolo”, rimangano affidate, piuttosto, all’incerta e problematica costruzione di una nuova formazione politica che provi a ri˗coniugare il grande retaggio della solidarietà e della dignità con un mondo ormai dominato dalla tecno˗scienza. Il suo problema è: con quali parole si parla oggi di una nuova Causa (come la chiama Ezio Mauro) e come si recluta ad essa un personale che vi creda e che sia disposto a mettersi in gioco.

Per costruirla questa nuova sinistra ci vogliono idee nuove e programmi inediti, ma ci vuole anche una soggettività politica iniziale che si proponga di accudirvi con una attitudine che guardi oltre la contingenza.

Ed è qui che appaiono i limiti di chi dichiara di volersi far carico di questo compito.

Il campo progressista di Pisapia non riesce ad andare oltre l’obbiettivo, un po’ patetico e alla fine velleitario, di ricondurre le pecore smarrite all’ovile: ma l’ovile non cambia di certo perché c’è dentro anche Pisapia, magari con un manifesto comune che parla di diseguaglianze e povertà (se non dice quanto si dà e da chi si toglie). Senza il PD oggi non si governa? Ma se non si immagina un discontinuità non si capisce a che serva costruirgli accanto un nuovo movimento. Soprattutto, se si pensa che si governa anche dall’opposizione e che l’opposizione non vuol dire affatto perdere il filo della responsabilità (si ricordi il PCI).

In questo hanno, di sicuro, ragione MDP e Bersani e D’Alema: prima si capisce e definisce cos’è questa nuova formazione e poi si discute da dove e come parla col PD. Ma inciampano anch’essi in due limiti. Il primo è che questo PD, la sua incorporazione del pensiero unico ed il suo reclutamento opportunistico sono figli loro. Sicché non basta a definire una nuova identità limitarsi alla critica di quel che ha fatto Renzi. La seconda è che lo svuotamento del PD e dei partiti che in esso sono confluiti si è prodotto a partire dalla loro riduzione a mero anti˗berlusconismo. Sicché l’anti˗renzismo promette solo lo stesso finale.

Mentre SI di Fratoianni e Vendola dovrebbe, infine, convincersi che dal crescere o diminuire di un punto ne va solo della sopravvivenza di una “nicchia”, che può conservare vecchie parole d’ordine e il personale che ad esse è legato, ma che, di certo, non giova alla sinistra e, soprattutto, al “popolo disperso e dimenticato” di cui dovrebbe curarsi. Sicché ha ragione Macaluso a dire che, dopo Livorno, non c’è stata scissione che sia andata oltre la rivendicazione di una “purezza” che lasciava soli gli ultimi e i deboli.

Occorrerebbe, piuttosto, che tutti si convincessero di tre cose.

La prima è che una nuova sinistra non si può presentare, ed autorappresentarsi, come supporto esterno del PD: una nuova formazione deve innanzitutto costruire la sua identità e definire la sua autonomia, e dunque concepirsi e proporsi in competizione (che non vuol dire guerra).

La seconda è che, tuttavia, un rapporto con il PD non sembra allo stato (specie dopo gli ammiccamenti “a destra” del M5S) abbia reali alternative e che la segreteria di questo partito è una questione solo sua: non conta chi lo guida, ma dove si rende realmente disponibile ad andare.

La terza è che deve farsi carico dei problemi di quel pezzo di società che è trascinata nella precarietà e deve farsene carico mostrando che il superamento di questa cifra della contemporaneità salvaguarda il futuro di tutti: dunque, pensando una politica, che muova dal disagio della società e dalle sue ragioni strutturali, che indichi come rispondervi già oggi seppur con il necessario gradualismo e che si interroghi sull’Europa sapendo che fuori non c’è il ripristino delle sovranità nazionali ma solo il dominio delle potenze globali.

La crisi europea e la sua ideologia: riflessioni a partire da Slavoj Žižek

La richiesta del potere governativo nei confronti dei cittadini diventa esplicita nei molti casi della politica di “austerity” contemporanea, ove, per fronteggiare la necessità di un debito da ripagare (nel caso dei paesi europei nei confronti dell’European Central Bank) si decide di effettuare dei tagli sulla spesa pubblica e su fondi normalmente destinati ai servizi. Prima di mettere in discussione un sistema finanziario ed una forma di economia, il filosofo di Lubiana, in tutte le sue ultime opere, rileva due qualità presenti nell’espressione mediatica di “necessità” come taglio della spesa pubblica: a) quella relativa allo stato d’emergenza in cui una nazione si trova (presentazione, dunque, di alcuni “dati di fatto”) e b) quella relativa al carattere di neutralità e terziarietà delle decisioni che i governanti prendono per reagire alla minaccia (giustificazioni logiche).

L’EUROPA E LA SUA CRISI ORIGINARIA

Sul limes: tra “crisi d’Europa” e senso europeo della “crisi”.
Che la categoria di “crisi” faccia parte dell’attuale lessico politico è cosa certa. Altrettanto evidente è il fatto che, oggi più che mai, la crisi venga associata ad Europa. La nostra crisi è la crisi del sistema europeo, delle sue istituzioni, dei suoi valori, delle sue – più o meno mancate – decisioni politiche. Di questa crisi europea si sente ormai parlare abitualmente; dalle testate giornalistiche, ai programmi televisivi, passando per i dibattiti pubblici, la crisi d’Europa sembra essere ormai una realtà esistenziale[1]. Non è un caso che essa venga ormai ammessa tanto dai partiti euroscettici[2], quanto da quelli europeisti; con questi ultimi costretti ad accettare una lenta e continua disaffezione dell’opinione pubblica intorno il progetto di un’Unione Europea[3]. Non è qui possibile sviluppare una minuziosa genealogia delle cause che hanno portato a questa situazione. In questa sede ci si vorrebbe limitare a riflettere sul senso più teoretico di «crisi» e del suo rapporto con «Europa».

Ad uno sguardo superficiale – ma non per questo meno veritiero – la crisi d’Europa si articola intorno due momenti tra loro differenti ma assolutamente complementari. L’Unione Europea è stata, prima di tutto, vittima della crisi finanziaria scoppiata nel 2008. Si tratta qui di una crisi che trova la sua ragione all’interno di un dispositivo squisitamente economico. A farne le spese, in termini sociali ed esistenziali, sono state tanto le classi deboli e meno tutelate, quanto la cosiddetta fascia media che, consapevolmente o meno, ha subito una proletarizzazione[4] della propria forma lavoro. Accanto a questa crisi è possibile registrarne una più ampia del Politico. Sono molteplici i fattori che evidenziano questa rottura: dalla dissoluzione dei partiti tradizionalmente legati all’eredità socialista, all’irruzione delle dinamiche globale nelle dialettiche interne gli Stati-Nazione, passando per il problema della rappresentanza democratica, fino alla dissoluzione della forma partito e al mancato ripensamento delle forme sindacali.

L’Europa vive oggi nel segno di questo doppio volto della crisi. Una crisi che, vista la sua natura sdoppiata, mutevole, ambigua, risulta molto difficile da sondare, misurare e infine risolvere. A poco sono serviti gli appelli al senso di responsabilità e ancor meno il giustificazionismo delle politiche di austerità. Sicché oggi l’Europa è in crisi. Tuttavia questo assunto non rappresenta alcun novus della modernità. Ad esempio, già Marx, riferendosi alle contraddizioni interne al capitale, notava come le crisi fossero l’espressione necessaria e, al medesimo tempo, la soluzione temporanea al cosiddetto problema della caduta tendenziale del saggio di profitto[5], tanto da ipotizzare la necessità di una loro sistematica ciclicità. Così, secondo Marx, la crisi non viene mai da fuori, non è contingenza e nemmeno errore di qualche scellerato borghese; essa è piuttosto una patologia interna al sistema:

 

«[…] le crisi sono sempre soluzioni violente soltanto temporanee delle contraddizioni esistenti ed eruzioni violente che servono a ristabilire l’equilibrio turbato»[6],

 

ove l’equilibrio ristabilito è chiaramente quello capitalistico, lo stesso che consente il sorgere di nuove crisi. Ma cosa vuol dire più in generale crisi? Seguendo il dizionario etimologico di Salvatore Battaglia il sostantivo femminile «crisi» significa:

«Notevole e improvviso cambiamento […] che avviene in una malattia; fase risolutiva che coincide con la repentina caduta della febbre 2. Inasprimento o accesso improvviso, fenomeno violento, per lo più di breve durata 3. Figur. Profonda perturbazione nell’esistenza di una persona che produce effetti più o meno gravi e dolorosi incidendo sull’intera condotta morale e concezione delle cose – Essere in crisi […] Attraversare una crisi di coscienza, una crisi spirituale 4. Figur. Turbamento vasto e profondo nella vita di una collettività, di un gruppo, di una società, di uno Stato […]»[7].

 

Il dizionario sembrerebbe dunque confermare gli elementi espressi dalla proposizione marxiana: la crisi ha a che fare con un momento di profonda perturbazione, caratterizzato da un’intrinseca violenza di breve durata. Si tratta – e il riferimento alla febbre non è affatto casuale – di un lemma specialistico della medicina, ma che può assumere anche una portata politico-economica nel senso di una condizione negativa che riguarda un «deterioramento» e su cui sarebbe interessante riflettere a partire dal saggio Naissance de la clinique di Foucault[8].

Tuttavia, tornando a Marx, ciò che si voleva rendere manifesto va ben oltre l’etimo medico della parola. Infatti, il carattere interno di questo deterioramento fa sì che lo statuto epistemico della crisi non solo non rappresenti una novità né per la scienza economica, né per quella politica ma, ben al di là, esso delinea un vero e proprio topos sistematico dell’intera narrazione moderna. Ma – e qui sta il punto determinante – proprio in quanto topos e lemma originario, la crisi perde il suo carattere critico, instabile, perturbante, per divenire aspetto fondamentale, determinante, costitutivo della storia d’Europa. Così, per quanto patologiche, le crisi rimangono nel rassicurante orizzonte della dialettica come le fasi antitetiche dello sviluppo capitalistico[9]. Ed anzi, nel materialismo storico-dialettico di Marx la loro risoluzione è pensabile unicamente con l’avvento sintetico della società comunista, unico momento in grado di superare la contraddizione insita nel capitale. Ma cosa accade quando il sistema dialettico marxiano perde la sua partita con la storia? Cosa rimane di queste crisi quando il fallimento dei socialismi reali rende manifesta l’impossibilità del superamento comunista? Accade che la crisi diviene una nevrosi[10] che cessa di venir recepita come tale, come perturbamento o interferenza della salute, divenendo piuttosto il carattere cronico dello stesso corpo storico europeo. Sicché, il passo da Marx a Nietzsche è breve: “l’Europa in crisi” altro non sarebbe che la diagnosi del suo nichilismo fisiologico. La crisi non è più momento antitetico nel sistema dialettico, ma messa in crisi del sistema. Per Nietzsche infatti:

 

«La crisi non è un momento, come per i neoclassici. La crisi risulta costantemente dal Wille zur Macht – e nella misura in cui questo si ripete, essa non giungerà mai […] a una fine, a una sintesi perfetta, la crisi sarà il divenire stesso […]»[11].

 

Tuttavia, questa variazione implica un radicale mutamento di prospettiva: non si tratta più di disquisire intorno il “senso della crisi europea”, né dal punto di vista economico-finanziario, né da quello politico, si tratta piuttosto di dialogare intorno al “senso di crisi” che appartiene all’Europa, alla sua storia, al suo linguaggio. La domanda da porre non chiede più «che cosa sia la crisi europea», ma «che cosa sia la crisi per l’Europa»: Umwertung aller Werte.

Ciò implica che almeno il termine «Europa» ci sia chiaro; un po’ come quando chiediamo del significato profondo di un testo avendo precedentemente cura di indagare il con-testo nonché – e soprattuto – chi sia il suo autore. Dunque per capire cosa significhi «crisi» occorre chiedersi: “chi è Europa”? E, lo si noti di sfuggita, chiedere chi sia Europa ci pone già al di fuori di quel modo di interrogarsi che pone l’inevitabilità della res: già da questa domanda Europa non è una «cosa», non è un «prodotto», non è una «merce», un qualche cosa di cui si può disporre, o su cui ci si può imporre. Europa è un «chi», una vita, un volto e ciò ci spinge verso quella particolare filosofia che Nietzsche chiama genealogia. Quel che si vorrebbe proporre è quindi una mito-fenomenologia dell’originario «Chi» europeo; un’archeologia del nome attraverso cui tracciare una breve ed incisiva genealogia di una vita segnata dalla crisi, dalla nevrosi, dal nichilismo.

 

  1. Il tentativo mito-fenomenologico e l’Urgrund d’Europa.

Dunque, chi è Europa? Fin da subito ci si può imbattere in un cliché che la filosofia non ha fatto altro che invigorire: la Grecia e, più nello specifico, la Grecia classica sarebbe l’Anfang, l’Inizio della nostra “europeità”. La Grecia di Socrate ed Aristotele, di Pericle ed Euripide svolgerebbe così la funzione di principium individuationis europae. Nella Grecia risiederebbe il leibniziano principio di ragione che fonderebbe l’Europa, determinandone la Wesen. Secondo questa tradizione l’autenticità greca coincide con il λόγος o, meglio, con la pretesa del λόγος razionale di opporsi all’inautenticità del μύθος. La nascita della filosofia rappresenta questo punto di rottura che è, sin da Omero, frattura politica con l’Oriente, con l’Asia e con i suoi miti fondativi[12]. Ancor oggi questa lettura domina il paradigma culturale europeo e a poco sono serviti gli studi degli antichisti più avveduti che, come Bonazzi, invitano a riflettere sull’inquietudine della Grecia classica[13] o sull’importanza della tradizione “dionisiaca” nell’Ellade[14]. D’altro canto, nella più antica tragedia attica che ci sia giunta nella sua completezza – I Persiani di Eschilo – l’autore, per bocca della regina persiana Atossa, descrive così la Ionia:

 

«[…]Due donne m’apparvero: erano belle le loro vesti. Una era abbigliata con vesti persiane, l’altra con vesti doriche: le avevo davanti agli occhi, ed erano entrambe di statura imponente […]. Erano sorelle di sangue, della stessa stirpe, ma a una era toccato in sorte d’abitare la terra dell’Ellade, l’altra la terra dei barbari. Erano in contrasto fra loro, a quanto mi parve di vedere, ostili l’una all’altra: mio figlio se ne avvide e le teneva, cercava di ammansirle: ecco le lega entrambe ad un carro col giogo, ecco impone le redini sul collo. E una stava ritta come una torre, fiera di quei finimenti e prestava docile la bocca alla briglia; ma l’altra recalcitrava. Ecco con le mani le bordature del carro fa a pezzi, a forza si strappa: è senza morso; ecco spezza il giogo, a metà»[15].

 

E poco oltre, dopo aver portato le offerte agli antichi altari, Atossa incalza i suoi servitori:

 

«Regina: [..] dove dicono sia Atene, miei cari? In quale terra?
Coro: Lontano, verso Occidente, dove il Sole potente nel tramonto si strema. […]
Regina: E chi è il loro signore?
Coro: Si gloriano di non essere schiavi di nessun uomo, a nessun uomo sudditi»[16].

 

Il λόγος greco-europeo rappresenta una forza liberatrice o, nella sua rilettura più radicale, quella potenza recalcitrante che scalpita, morde e, infine, rompe il mitologico giogo dei re-padroni, come lo sono tutti gli eroi fondativi delle civiltà orientali: dai persiani Dario e Serse, a Gilgamesh e ai faraoni dell’Egitto teocratico. Tuttavia la realtà dipinge un quadro più complesso, sia se si affronta la questione su un piano storico – e gli stessi barbari altri non sono che i popoli che parlano lingue differenti dal greco ma con cui proprio i greci hanno intensi rapporti economici, politici e culturali –, sia se la si affronta su un piano squisitamente critico-teorico. Per quanto concerne il primo aspetto basterebbe qui ricordare la fascinazione platonica per le dottrine egizie, la provenienza tracia del dio Dioniso, il florido commercio tra città della Ionia e della Fenicia etc. Per quanto riguarda il piano critico-teorico ci si vorrebbe limitare ad un rapido richiamo ad Ernst Jünger quando in I prossimi titani scriveva:

 

«Penso invece che i teologi e gli intellettuali che praticano oggi con tanto zelo la demitologizzazione assomiglino a un esercito di formiche entrate in una pingue cucina: divorano e distruggono tutte le leccornie che vi trovano, ma non smettono di raccontarsi quanto sono squisite»[17].

 

Detto altrimenti, la Grecia intesa come Ur-grund d’Europa rappresenta un dei miti più duri a morire dell’intera tradizione storico-filosofica. Eppure – proprio se non si pretende una radicale sconfessione del μύθος – ci si trova nell’ambito ove più è pertinente chiedere il “chi originario” d’Europa. Questo perché il nome proprio di «Europa» è effettivamente il nome di una persona o, per lo meno, di un personaggio della mitologica greca: quello della figlia dei reggenti di Tiro[18].

Nel mito, Europa – figlia del re fenicio Agenore e di Telefassa – passeggia con le sue ancelle sulle spiagge nei pressi della città. Qui s’imbatte in un muscoloso toro bianco che altri non è che Zeus. Tra i due s’instaura immediatamente un rapporto ambiguo; se per un verso è evidente la diffidenza di Europa, per un altro verso ella guarda al toro con gli occhi di Eros. Ed è precisamente in questo momento inquieto che Zeus mette in atto il suo piano d’amore, rapendo la fanciulla e gettandosi velocemente in mare.

In Le nozze di Cadmo e Armonia, Roberto Calasso riflette molto su questo momento del mito chiedendosi se, vista l’ambiguità dell’incontro, la fanciulla venga effettivamente rapita o se piuttosto non ne approfitti per fuggire. Ciò che appare chiaro a Calasso è che nella mitologia il dispositivo ratto-fuga costituisce un vero e proprio architrave della narrazione mitica, tanto da venir usato come escamotage con cui legare miti tra loro molto distanti. Sicché, se per un verso Europa viene effettivamente rapita, per un altro ella approfitta del καιρός per fuggire dalla propria Vaterland, dall’Heimat, dal grembo dell’oikos.

Dunque, i due si dileguano rapidamente per giungere infine a Creta ove consumano il loro rapporto sessuale. Da questa relazione nascono tre figli, Minosse[19], Radamanto e Sarpedonte; ma è solo alla morte del primo – molti anni dopo i fatti narrati – che i Greci, per onorare la stirpe regia, decidono di dare il nome «Europa» al continente che si trova a nord di Creta.

Un’altra variante del mito specifica anche che, a portare la buona novella, sono proprio i fratelli minori di Minosse. Si può presumere che il loro viaggio sia lungo – ed infatti compariranno in miti ben più recenti come fondatori di città in Lidia e in Boezia –, ma anche travagliato dal momento che il loro è un peregrinare in terre di cui non si conosce né storia, né estensione. Di queste terre i greci sanno unicamente definire l’indefinibile: l’assenza di un nome che le qualifichi e la riduzione del regnum all’indefinitezza di un punto cardinale. Delle nuove terre d’Europa si conosce solo l’insondabile, l’indicibile, la dismisura: l’insecuritas.

Dunque, ciò che ci è consentito desumere da un’interpretazione fenomenologica del mito è che non solo il nome Europa rimanda chiaramente ad un passato orientale, fenicio, per nulla greco[20], ma, ancor di più, il nome identifica tutte quelle terre a Nord che, fino a prima dell’omaggio a Minosse, erano senza nome[21].

Le origini non-europee del nome Europa rinviano tanto al rapporto con l’Asia e con l’Oriente quanto ad un’origine che è un movimento nomade di sradicamento che dalla Vaterland porta alle terre dell’insecuritas, del senza-nome-proprio. Radicalizzando l’indagine si potrebbe dire che l’autentica origine d’Europa è questo movimento che lacera il rapporto con la terra, tradisce l’Urgrund, fugge verso l’ignoto. Questo non può che essere l’Occidente, lì dove il sole viene rapito e, tramontando, lascia spazio alla notte dove ogni ente è nel buio, nell’indecifrabile, in quel senza-nome che è già l’incertezza del dubbio filosofico nel cuore del mythos.

Ed è in questo crepuscolo occidentale che l’emergere sfumato del fenomeno si fa autentica thaumazein, tragico attimo d’incontro ove il senza-nome vuole ora esser detto, vuol esser nominato dalla voce di qualcuno capace di deciderlo, di dargli un τέλος e un valore. L’approccio mito-fenomenologico evidenzia quindi uno scarto tra il comune modo d’intendere l’origine, il puro Grund che tutto fonda, ἀρχή come sacra fonte sorgiva, e l’ οὐσία d’Europa, originariamente lacerata da un movimento di sradicamento, impura, sempre diveniente, già da sempre decisa, discussa.

C’è poi da fare un’ulteriore precisazione, questa volta etimologica, legata all’origine d’Europa; c’è quindi da chiedersi cosa significhi filologicamente “Europa” per i greci che ascoltavano il suo mito. La proposta del filosofo francese Jean-Luc Nancy – apostrofata da Rodolphe Gasché in Europe, or the Infinite Task come «obiettivamente discutibile»[22] ma «ricca di suggestioni» – prevede un doppio etimo. Il primo deriverebbe dal termine semitico pre-greco «ereb», con il significato di «oscurità»[23], con cui i fenici indicavano tutti i territori dove “tramonta la luce”. La seconda si troverebbe in Omero – e successivamente anche in Erodoto – dove l’uso dell’aggettivo ϵὐρύοπα riferito a Zeus sembrerebbe derivare dall’unione di «εὐρύς», «ampio», e «ōp», «occhio», col significato di «ampio sguardo». L’ampiezza non è tuttavia da concepirsi come un’apertura orizzontale dello sguardo ma come un oltre, un al di là del banale osservare; uno sguardo penetrante e perforante. Ma, come osserva Gasché, in Nancy queste due etimologie si coappartengono:

 

«Concordemente con questa origine il nome “Europa”, per citare Nancy, “significa: colei che guarda nella distanza” […]. Ma Nancy mette in campo anche l’ altra possibile etimologia della parola, determinando così lo sguardo di Europa come un “guardare lontano nell’oscurità, nella propria oscurità”»[24].

 

Insomma, per quando possa destare perplessità, la ricerca di Nancy, traducendo il nome di Europa in uno sguardo prospettico che mira oltre, al di là di sé, verso il confine, verso la radicale alterità del senza-nome, ha il merito di arricchire ulteriormente la “frattura” di un Urgrund certo, «chiaro e distino». Europa segna un divenire: un provenire da origini dimenticate e un volgersi oltre, verso l’ignoto delle terre crepuscolari dell’Occidente. Così il nome “Europa”:

 

«[…] non disegna “niente”, solo una separazione originale da ciò che è nativo, una fondamentale apertura al mondo e una trascendenza originale verso ciò che essa non è»[25].

 

A tal riguardo è possibile ricavare dal mito e dalla riprova filologica due ulteriori spunti di riflessione. Il primo riguarda l’«ereb» d’Europa, la sua essenza crepuscolare. Qui il mito infrange un altro cliché tipico di una certa retorica illuminista; quello che vorrebbe la filosofia come conoscenza diurna, come scienza del dato, della res auto-evidente, come forza luminare che dilegua le ombre delle mitologie. Ci basti qui osservare che esiste una parola greca capace di sconfessare questo mito e che, di rimando, sembra proprio rimarcare l’essenza crepuscolare d’Europa.

Questa parola è ἀλήθεια, tradotta dai latini con la parola Veritas. Aletheia non però indica la certezza, la vis, della veritas ma, piuttosto, lo svelarsi, lo scoprirsi. L’ἀλήθεια indica una pratica tutt’altro che diurna; essa è la phronesis di coloro che vivono le terre di Eraclito, detto l’oscuro, che anticamente sentenziava: «La natura ama nascondersi». Nelle terre europee la natura si cela nella notte, i fenomeni perdono la loro certezza, i colori sfumano, così come i loro limiti, qui nessuna luce squarcia le tenebre dell’erebo. Quel che i greci sanno bene è che ἀλήθεια è la pratica degli animali notturni quelli che, come athene noctua – la nottola di Minerva che spicca il volo al calar del sole – , possiedono quello sguardo penetrante capace di discernere nell’insecuritas. Vi è qui un’intima vicinanza al mito. Come l’Urgrund d’Europa coincide con un fuga della propria Heimat e, cioè, con uno s-fondamento, con uno s-radicamento, così l’aletheia procede per negazione nel senso in cui si apre con un’«α» privativa: verità non è il dato certo, ma la pratica che s-vela, che s-copre.

Quanto detto consente di approfondire anche l’ultimo aspetto degno d’interesse del mito. Infatti, solo se l’ente viene prima esperito nel suo nascondersi, nel suo oblio, «solo se la velatezza dell’ente circonda l’uomo e lo angustia nella sua interezza e nel suo fondamento» è possibile che l’uomo si metta in cammino verso la verità. Ma ciò è quanto viene testimoniato dal viaggio di Radamanto e di Sarpedonte, coloro che portano la verità del nome “Europa” in quelle terre anguste la cui essenza è l’oblio. Oblio e abisso – in tedesco Abgrund, ovvero senza Grund, privo di fondamento – hanno chiaramente a che fare con Φόβος, l’angoscia, il vivere in una situazione di incertezza, di dubbio costitutivo. Ed è esattamente attraverso questi vocaboli che il padre della psicoanalisi, Sigmund Freud, teorizza il suo concetto di Unhemlichkeit, il perturbante, il patologico[26].

Ancora una volta si ha a che fare con un lemma che si apre nei termini di una negazione: Unheimlichkeit può essere tradotto, in senso letterale, come «ciò-che-è-senza-patria» o, meglio, «lo spaesante». Si faccia ora attenzione: poco sopra, parlando del viaggio dei fratelli di Minosse, si era osservato che il loro viaggio è un peregrinare nei luoghi crepuscolari e senza-nome, nel regnum dell’oblio e del nascondimento, lì dove manca la misura che fonda la certezza, la res «chiara e distinta» di Cartesio. Queste terre sono l’Unheimlichkeit: in questo Welt nulla ci è più prossimo, più vicino e più domestico dello spaesante[27], la qual cosa equivale a dire – con Nietzsche – che «nel fondo del Greco c’è la mancanza di misura, la caoticità»[28].

Se la casa rappresenta il luogo del nostro quieto vivere, dell’intimità dell’abitare e se la sua legge è quella dell’oikonomia, del disporre ed imporre di ogni realtà in quanto conosciuta, individuata, r-assicurante, allora la «casa europea» è lo spazio che nega ogni economia in quanto gli è intimo il perturbante, il patologico, l’innominato. Parlando in termini non dissimili Massimo Cacciari afferma che Europa:

 

«[…] si riconosce perciò soltanto giunti alla sua “soglia”, al suo confine, là dove, cioè, esso si fa cum-finis, vicino, prossimo, contiguo all’altro da sé dove rivela qualcosa di communis con l’altro. Europa è là dove essa “tocca” l’estraneo, lo straniero»[29].

 

Ma con ciò non si è tornati all’inizio? Non sono proprio questi i sinonimi con cui ci si era riferiti alla crisi d’Europa? Non sono l’insecuritas, l’assenza d’origine, la Stimmung crepuscolare e lo spaesamento esistenziale i tratti con cui ci si era riferiti alla krisis? Non erano proprio l’intimità della patologia e la domesticità della crisi a spalancare le porte del nichilismo?

Ma, se così stanno le cose, non solo si è trovato ciò che si cercava – ovvero il significato autentico di crisi attraverso la domanda sul “chi originario”– ma, ben più in profondità, si è trovata la sostanziale equivalenza tra il significato d’Europa e il significato di krisis: Europa è la crisi, la frattura del principium individuazionis, l’angoscia che abita la domus, la decisione che scompagina e recide l’ ἀρχή. In tal senso l’origine europea si oblia, si svincola da qualsiasi tentativo di riduzione in Grundsatz: cercare il “chi originario” è trovare la crisi.

Da ciò residua, ineludibile, un’ultima domanda; quella del «più inquietante fra tutti gli ospiti», quella che chiede del nichilismo: infatti, se vi è corrispondenza tra Europa e crisi, bisogna ammettere che Europa è la patologia e la sua storia è il nichilismo. Ben al di là delle crisi marxiane congenite al capitale, qui è l’intero edificio narrativo che rischia di entrare in una crisi totale, in una krisis che già da sempre gli appartiene e che ora mostra il suo volto totalizzante. Europa e nichilismo, dunque: che fare?

 

 

 

  1. Decostruzione della Respublica e pratiche di sinisteritas.

In precedenza ci si era riferiti al dizionario di Salvatore Battaglia per qualificare la crisi come lemma medico il cui campo semantico definiva l’attimo patologico della negatività, del deterioramento. Tuttavia, questa definizione rappresenta un’acquisizione abbastanza recente che risulta da un graduale spostamento semantico del termine dal suo significato più originario. Crisi deriva infatti dal greco κρίσις, utilizzato in riferimento alla trebbiatura, cioè all’attività di separazione del frumento dalla paglia. Da qui deriva il suo significato di “separare”, “dividere” e che risuona anche nell’origine recisa d’Europa di cui si è trattato. Ad uno sguardo più vasto krisis significa anche “scelta”, “giudizio”, “valutazione”. Il passaggio tra le due significazioni appare giustificato se si pensa all’intimo senso di “decisione”, dal latino de-cedo, ovvero, ancora una volta, tagliare, separare e dunque scegliere tra frumento e fieno.

Europa è così quella regione che, di volta in volta, ritorna eternamente come luogo della krisis originaria, come spazio dell’eterna decisione, come confine del suo rinominarsi. Presentare Europa nella luce opaca della notte, definire la sua abitabilità come spaesatezza, è pensare ad un Grund formalmente anarchico, che non riesce mai a concludere il proprio scopo – che è precisamente quello di fondare – in quanto il suo essere non è, ma diviene nella forma di una crisi: l’origine d’Europa è decisione, lacerazione, fuga dal principium e rapimento dall’archè, la sua identità diviene alterità, la sua intimità lo spaesamento, la sua certezza il dubbio. La tradizione d’Europa altro non sarebbe che il suo costante scegliersi, decidersi, tradursi, di volta in volta, in modi specifici del tradimento rispetto il suo stesso pretendersi “cosa certa”. La tradizione d’Europa è la crisi, in quanto solo attraverso essa Europa risulta fedele a sé stessa.

Se, a differenza dell’accezione moderna, il deterioramento della krisis non è patologia «soltanto temporanea» – in quanto momento contraddittorio interno alla sintesi dialettica –, ma forza attraverso cui la violenza della negazione tende a decidersi, come imporre ad Europa una de-finizione? Come risolvere la crisi originaria d’Europa? Come disporre della certezza del suo esser-Stato, della sua identità, se essa è provenienza e tensione aneconomica, trascendenza ed eccedenza perturbante, frattura originaria?

Queste domande portano al limes estremo dove la Respublica, l’essenza pubblica della “cosa-Europa”[30], si scopre negata, deposta, indisponibile, addirittura opposta, alla crisi che la costituisce. Se in apertura si affermava che Europa non è una “cosa”, ora si può ulteriormente dedurre che Europa è la messa in crisi di ogni “cosa”, di ogni fatto puramente auto-evidente, di ogni fenomeno preteso come dato certo, misurabile, amministrabile, sfruttabile e dominabile. Europa è veramente la forza “recalcitrante” di cui scrive Eschilo; ma non in quanto libera, piuttosto poiché vincolata alla sua criticità, alla sua contraddizione instancabile ed irrisolvibile. Nel pubblico, la res di tutti viene discussa, decisa, messa eternamente in crisi in quanto cosa certa:

 

«Fino in fondo, vita è contraddizione e conflitto. […] Ciò che eternamente ritorna è la contraddizione chiaritasi nel mondo effettuale-temporale dell’operari e del Macht. Il conflitto è degno di ripetersi. Il Ritorno non consola né accorda – ribadisce […] Nel tempo del Dasein esiste soltanto conflitto-contraddizione – esiste crisi soltanto. E il tempo si sviluppa attraverso queste crisi – è un ciclo eterno di crisi, un Eterno Ritorno di crisi»[31].

 

Una conflittualità che resta all’esterno della dialettica senza per ciò stesso cadere nel nichilismo. Qui la crisi vive nel detto eracliteo[32]: «Polemos è signore di tutte le cose». Bisogna fare però attenzione: rendere originaria la crisi, trasformare l’Europa nella terra dell’Unheimlichkeit, apre effettivamente alla possibilità di un orizzonte nichilistico. Il rischio di trovarsi in un territorio ove è il Letztemensch nietzscheano a farla da padrone o, il che è lo stesso, in un territorio filosofico-politico dove dominano relativismo, oggettivismo e psicologismo – le scienze discusse dall’intera tradizione fenomenologica –, è certamente alto.

Eppure, quel su cui si vorrebbe insistere è il carattere razionale di questa filosofia della crisi. Si tratta cioè di continuare a porre la crisi come irriducibilmente anti-dialettica senza, con ciò stesso, farla naufragare nel nichilismo. Ma come ottener ciò? Ed è precisamente su questo punto che il discorso, per così dire, frana nuovamente sul versante politico, quello a cui ci si riferiva in apertura parlando del doppio volto della crisi europea. Rivolgendosi ad un attento studioso di nichilismo, come fu Franco Volpi, possiamo affermare che:

 

«Il nichilismo della cultura contemporanea non è soltanto crisi dei valori […]: è anche il fatto che l’agire dell’uomo non si infiamma più tra i due poli opposti della tradizione e della rivoluzione, ma si avvita nella ristretta prospettiva del “qui e ora”. Non la storia né l’avvenire, ma la puntiformità dell’attimo presente è l’orizzonte per l’agire dell’uomo contemporaneo»[33].

 

Decaduta la promessa sintetica dei socialismi reali, la prospettiva di un Aufheben della crisi si rende impossibile; tuttavia essa non viene eliminata ma, al contrario, ribadita come patologia, nevrosi cronica, nichilismo fisiologico che inchioda al puntiforme «qui ed ora», trattenendo – τὸ κατέχον[34] – nell’Augenblick qualsiasi politica del novus, della trascendenza, della differenza. Da questo versante la crisi-patologia diviene un dispositivo atto a frantumare ogni immagine critica ed organica sul mondo, aprendo a quella deriva relativistica che altro non è che la forma dietro cui essa dispiega la sua coercizione, la sua violenza normativa, la sua messa fuori legge di concetti quali quelli di rivoluzione, Geist der Utopie[35], adveniens del Politico.

Insomma, dal lato patologico, crisi del politico e crisi economica non solo sono conniventi ma proprio lo Stesso. Le due fasi altro non sarebbero che «qui ed ora» della medesima e sistematica forza. Nel tempo economico la crisi mostra il suo volto feroce, violento, temporaneo, nel tempo politico il suo volto di “nichilismo di Stato”, di norma reattiva e di governo della décadence. Nonostante ciò, Volpi ricorda anche un secondo carattere del nichilismo:

 

«Il nichilismo ci ha dato la consapevolezza che noi moderni siamo senza radici, che stiamo navigando a vista negli arcipelaghi della vita, del mondo, della storia: perché nel disincanto non v’è più bussola che orienti; non vi sono più rotte, percorsi, misurazioni pregresse utilizzabili, né mete prestabilite a cui approdare»[36].

 

Ecco così che il nichilismo insegna anche la decostruzione della res-publica certa, chiara e distinta; di quella “cosa” dogmatica che ogni potere politico – anche il potere annichilente della crisi – usa per fondare sé stessa, per rendersi incontestabile, in-criticabile e che lega la res alla sua insindacabile reālitās. Ed infatti, sempre con Volpi:

 

«Il nichilismo ha corroso le verità e indebolito le religioni; ma ha anche dissolto i dogmatismi e fatto cadere le ideologie, insegnandoci così a mantenere quella ragionevole prudenza del pensiero, quel paradigma di pensiero obliquo e prudente, che ci rende capaci di navigare a vista tra gli scogli del mare della precarietà»[37].

 

Come è evidente, da quest’altro versante il nichilismo palesa la sua forma di autentica krisis, di radicale decisione, di pura contesa. Il «qui e ora» si trova per così dire redento, nessun potere frenante ci inchioda; nell’Augenblick lo spirito della contesa si fa ek-stasis, fuoriuscita da sé, dalla sua situazione, pura tensione, differenza, alterità. Lo spazio-tempo di questo differente modo d’intendere il «qui ed ora», l’evento, è lo stesso spazio in cui si trova Europa, la principessa del mito che insegna l’aletheia, l’Unheimlichkeit, il cumfinis. Qui la temporalità trattenuta nell’istante, la cronicità del Neuzeit, si trasvaluta in un «qui ed ora» che altro non è la tensione decisiva del καιρός. Epoché dello “stato di fatto”, l’attimo dalla crisi-decisione si dilata nel tempo del καιρός; nulla della crisi è risolto, tutto è da decidere.

Qui il pensiero si arma, si fa contesa e ingaggia la sua battaglia sul crinale più pericoloso – quello della reificazione del nichilismo, del tramutarsi in patologica della crisi, del suo divenire potere e sistema – perché è in questo pericolo mortale che esso scopre il suo καιρός, il giusto momento. Qui la crisi d’Europa è filosofia anarchia, non governo della res. Anarchica è l’origine come decisione, sovversiva quella aletheia che è prassi nel dubbio, contesa quella conoscenza che sta sullo sfumare della veritas, rivoluzionario quel «qui ed ora» che sospende ogni autorità dello stato di cose per affidarsi all’autorevolezza della crisi. Europa è la sua crisi originaria: questa la maledizione del senza-nome.

Maledizione in latino si dice sinisteritas[38]. La sinisteritas non solo indica la «parte maledetta» – come lo sono il suono sinistro di un fantasma, il colpo mancino che non ti aspetti – ma l’errore, il contraddire, il procedere per contraddizioni: l’affermazione – direbbe Zarathustra – che la realtà è falsa. Ma in questo dire contra della crisi originaria si apre lo spazio stesso di una politica; ad essere aurorale è polemos. Certamente una simile maledizione non potrà mai farsi res normativa, mai divenire reālitās su cui erigere il proprio regnum – pena il suo divenire maldestra, poco retta [rectus], cioè impreparata a reggere [rĕgo] il potere. Ma qui è in gioco proprio la possibilità di una sostanziale messa in crisi del potere attraverso una krisis che lo costringa, come Europa, al suo s-fondarsi, al suo rinominarsi, al suo decidersi: ἀναρχία dell’aletheia, καιρός dell’Unheimlichkeit.

 

 

[1] D’altro canto lo stesso presidente della Commissione europea Jean-Claude Juncker afferma che: «La Ue non è in gran forma. Sono cambiate tante cose. Possiamo parlare di crisi esistenziale» in Ue, Juncker: “Europa in crisi esistenziale. Non è abbastanza sociale. Ma patto di stabilità non è patto di flessibilità”, Il Fatto Quotidiano, 14 settembre 2016.

[2] In una recente intervista Matteo Salvini ha dichiarato che: «L’Europa perde i suoi valori, vengono a mancare sicurezze, perde l’identità e non ha più orgoglio, […] Mai nella sua storia l’Europa è stata rammollita come oggi!» in “Das Problem ist die Kultur des Islam”, Die Welt, 3 Gennaio 2017.

[3] Ed infatti Matteo Renzi osservava come: «l’Europa non può essere solo vincoli e spread, non solo parametri, ma deve riscoprire la sua anima: serve una scommessa ampia che vada oltre la risposta alla paura» in M. Giro, Serve una leadership visionaria per ritrovare l’anima dell’Europa, Huffpost, 22 Giugno 2016.

[4] A tal riguardo si rimanda alla prima parte di Bloch E., Eredità di questo tempo, Mimesis, Milano 2005.

[5] Si rimanda al Capitolo tredicesimo, Libro III de Marx K., Da Capital, a cura di B. Maffi, Il Capitale. Libro terzo, Torino, UTET, 2009, pp. 271-297.

[6] Marx K., Da Capital, a cura di B. Maffi, Il Capitale. Libro terzo, Torino, UTET, 2009, p. 319.

[7] Battaglia S., Grande dizionario della lingua italiana, vol. III, Torino, UTET, 1971.

[8] Foucault M., Naissance de la clinique: une archéologie du regard médical, trad. it di A. Fontana, Nascita della clinica. Una archeologia dello sguardo medico, Torino, Einaudi, 1998.

[9] Per una attenta analisi del rapporto tra il materialismo storico e dialettica hegeliana si veda Finelli R., Un parricidio mancato. Hegel e il giovane Marx, Torino, Bollati Boringhieri, 2004 e il successivo Finelli R., Un parricidio compiuto. Il confronto finale di Marx con Hegel, Milano, Jaca Book, 2014.

[10] Il termine vuole essere un chiaro riferimento a Nietzsche e, più in particolare agli studi genealogici più tardi e contenuti in F. W. Nietzsche, Genealogia della morale, in Opere, a cura di G. Colli e M. Montinari, Adelphi, Milano, 1968 e in F. W. Nietzsche, Al di là del bene e del male, in Opere, a cura di G. Colli e M. Montinari, Adelphi, Milano 1968

[11] M. CACCIARI, Krisis. Saggio sulla crisi del pensiero negativo da Nietzsche a Wittgenstein, Feltrinelli Editore, Milano, 1976, p. 51.

[12] Ad esempio si veda il celebre riferimento di Hegel ad Omero in G. W. F. Hegel, Lezioni sulla filosofia della storia, tr. di G. Calogero e C. Fatta, Firenze, La Nuova Italia, 1961, p. 6.

[13] Bonazzi M., Atene. La città inquieta, Torino, Einaudi 2017.

[14] Il riferimento non è al dionisiaco nietzscheano ma a quello ripensato da Colli in Colli G., Apollineo e Dionisiaco, Milano, Adelphi, 2010.

[15] Eschilo, I Persiani, a cura di M. Centanni, Milano, Feltrinelli 1991, p. 39-41

[16] Ivi, p. 43.

[17] Gnoli A., Volpi F., I prossimi Titani. Conversazioni con Ernst Jünger, Milano, Adelphi, 1997, p. 94.

[18] R. Calasso, Le nozze di Cadmo e Armonia, Milano, Adelphi, 1988, p.16.

[19] Secondo re di Creta, nonché unico successore dopo la morte del padre adottivo Asterione.

[20] Non a caso Gasché ricorda un passo tratto da Le Storie (Libro IV, 45.) di Erodoto in cui lo storico afferma che Europa «era di origine asiatica e non giunse mai in quella regione che ora i Greci chiamano Europa», in R. Gasché, Europe, or the Infinite Task, R. Gasché, trad. it. L. Marinucci, G. Menditto, Europa, il Compito Infinito. Studio di un Concetto Filosofico, Lithos, Roma, 2015, p. 39.

[21] Una mancanza espressa anche da R. Calasso: «Ma come era cominciato tutto? Europa, verso l’alba […] aveva avuto un sogno strano: si trovava tra due donne, una era l’Asia, l’altra era la terra che le sta di fronte, e non ha un nome» in R. Calasso, Le nozze di Cadmo e Armonia, Milano, Adelphi, 1988, p.17.

[22] R. Gasché, trad. it. L. Marinucci, G. Menditto, a cura di R. Frauenfelder, F. Vitale, Europa, il Compito Infinito. Studio di un Concetto Filosofico, Lithos, Roma, 2015, p. 40.

[23] R. Gasché, Alongside the horizont in On Jean-Luc Nancy. The sence of philosophy, Routledge, Londra, 1997, p. 136.

[24] Ibidem. «According to this origin the name “Europe”, to cite Nancy, “would mean: the one who looks in the distance” […] But Nancy brings to bear the other possible etymology of the word, thus determining Euryopa’s glance as a “look far into the obscurity, into its own obscurity” […]». Traduzione mia.

[25] R. Gasché, trad. it. L. Marinucci, G. Menditto, a cura di R. Frauenfelder, F. Vitale, Europa, il Compito Infinito. Studio di un Concetto Filosofico, Lithos, Roma, 2015, p. 43.

[26] S. Freud, Il perturbante, in Opere 9 a cura di C. L. Musatti, Bollati Boringhieri, Torino, 1977, pp. 70-115.

[27] Si rimanda a E. Ferrario (a cura di), Oikonomia, Roma, Lithos, 2009. Preme qui sottolineare un passaggio tratto dall’Introduzione; passo che permette di comprendere tanto il carattere di Anspruch, quanto quello di dominio/organizzazione dell’oikonomia. Dopo aver fatto riferimento alla Politica di Aristotele (1261 a) si afferma che «Il passo è notevole […] perché sottolinea il carattere plurale, differenziato proprio della polis. In secondo luogo, perché indica come caratteristica dell’oikonomia una certa non politicità; e cioè il tendere, insito nell’economico, a una […] “unificazione del molteplice” […] quale quella che opera nell’ “amministrazione familiare” […]» (p.12). Se l’oikos-nomia tende all’unità erodendo la molteplicità è proprio perché il sentirsi-a-casa annulla le distanze, distrugge le differenze, arresta il divenire. Ma se questi sono i termini dell’oikos non è proprio l’Europa quel margine scucito che permette di pensare la possibilità di uno spazio al di là della pretesa di dominio dell’oikonomia?

[28] F. W. Nietzsche, Frammenti postumi 1888-1889, in Opere, a cura di G. Colli e M. Montinari, Adelphi, Milano 1974, p. 16.

[29] M. Cacciari, Europa o Filosofia, in Filosofi per l’Europa. Differenze in dialogo, a cura di L. Alici e F. Totaro, EUM, Macerata, 2006, pp. 21-22.

[30] Per una più completa rilettura della “cosa” in quanto tradizione politica d’Europa si rimanda – nonostante l’estrema differenza d’impostazione e di vedute – ai classici di Severino come Severino E., A cesare e a Dio. Guerra e violenza in controluce,                    Milano, Rizzoli, 2007; Severino E., La potenza dell’errare, Milano, Rizzoli, 2013; Severino E., Téchne. Le radici della violenza, Milano, Rizzoli, 2002.

[31] Cacciari M., Pensiero negativo e razionalizzazione, Venezia, Marsilio, 1977, p.12. Per una rapida lettura storica del “pensiero negativo” e delle sue ricadute politiche si rimanda a Gentili D., Italian Theory: dall’operaismo alla biopolitica, Roma, Il Mulino, 2012; Gentili D., Stimilli E., Differenze italiane. Politica e filosofia: mappe e sconfinamenti, Roma, Deriviapprodi, 2015.

[32] Per una attenta indagine fenomenologica del momento polemico come origine della filosofia e della politica si rimanda a due allievi di Heidegger: Jan Patočka e Hannah Arendt. Si vedano quindi: Patočka J., Platón a Evropa, tr. di G. Grigenti, Platone e l’Europa. Vita e pensiero, Milano 1998; Patočka J., Kacirske eseje o filosofii dejin, tr. di G. Pacini, Saggi eretici sulla filosofia della storia. Giulio Einaudi Editore, Torino 2008; Arendt H., The human contidion, tr. di S. Finzi, Vita activa, Bompiani, Torino 2001.

[33] Volpi F., Il nichilismo, Roma-Bari, Laterza, 2009, p. 145.

[34] Immagine ormai classica della teologia politica. Per una visione più completa si rimanda a Metzger P., Il Katéchon. Una fondazione esegetica in Il Katéchon (2Ts 2,6-7) e l’Anticristo. Teologia e politica di fronte al mistero dell’anomia, rivista Politica e Religione 2008/2009. Morcelliana, Brescia, 2009; Nicoletti M., Tra filosofia della storia e relazioni internazionali. Il concetto di katéchon in Carl Schmitt in Il Katéchon (2Ts 2,6-7) e l’Anticristo. Teologia e politica di fronte al mistero dell’anomia, rivista Politica e Religione 2008/2009. Morcelliana, Brescia, 2009; Cacciari M., Il potere che frena. Adelphi, Milano 2013.

[35] Il riferimento è chiaramente a Bloch E., Der Geist der Utopie, trad. it. V. Bertolino, Lo spirito dell’utopia, Milano, BUR, 2009. Per quanto concerne il rapporto politico tra Utopia ed Europa si rimanda a Cacciari M., Prodi P., Occidente senza utopie, Bologna, Il Mulino, 2016.

[36] Volpi F., Il nichilismo, Roma-Bari, Laterza, 2009, p. 178.

[37] Ibidem.

[38] Gentili D., Italian Theory: dall’operaismo alla biopolitica, Roma, Il Mulino, 2012, pp. 12-14.

Verità e Diritto: episteme o fictio? Ambedue?

1….per cominciare

 

Per l’ “uomo della strada” e, dunque, per il senso comune, il termine “diritto” si accompagna ad un altro termine, “giustizia”, e quest’ultimo, a sua volta, ne evoca un altro ancora: “verità”. Il “chi” sociale accetterebbe forse un giudizio di condanna se non credesse che un tale giudizio fosse “giusto”? E, per esser tale, chi non legherebbe la più immediata, semplice idea di giustizia alla conoscenza della verità? Ogni giudizio, infatti, per il senso comune, deve, innanzitutto, poggiare sull’accertamento di una verità; insomma, si parte sempre dal sapere “come stanno veramente le cose”. Questo percorso, sempre per il senso comune, vale per qualsiasi forma di giudizio, come ho detto; sia esso morale, politico o, infine, giuridico-giudiziario: una sentenza processuale.

Per un senso “meno” comune, che è quello della filosofia teoretica e pratica, il rapporto tra giustizia e verità si presenta assai più articolato e talora problematico; fino al limite della reciproca indifferenza, come appunto accade nel mondo del diritto, nella sua versione positivistico-formalistica.

Anche se, proprio nella versione più rigorosa del formalismo normativo, intendo quella kelseniana, la “verità” trova un suo posto inaspettato. Sappiamo tutti, infatti, che “validità” ed “esistenza” della norma sono qualificazioni formalmente coincidenti; tant’è che una norma non valida “non è una norma”. Allora, per l’equivalenza di Tarski, si può dire che una norma valida è una “vera” norma; in altre parole, la validità, costituendo l’esistenza di una norma, dichiara che è vero che è una norma. Si può dire, quindi, di una prescrizione, che abbia i requisiti della validità formale, che è “vero” che è una norma; e di una prescrizione priva di tali requisiti che è “falso” che sia una norma. La questione è particolarmente significativa, atteso che, di recente, Luigi Ferrajoli ha definito la coincidenza esistenza – validità della norma come un’aporia della dottrina kelseniana ([1]), per ragioni, tuttavia, che non entrano nella questione che sto prospettando e che non intendo discutere qui.

In ogni caso, una prospettiva filosofica dalla quale ragionare attorno al concetto di diritto, così come è venuto sviluppandosi nel corso della storia del pensiero che noi conosciamo, non può non avere a suo centro la tematizzazione teoretica ed epistemologica della “verità”.

Riflettendovi, in questo lavoro, mi limito ad un ambito specifico: quello che ha il suo inizio nella “modernità” della Ragione, per due motivi. Il primo, perché è proprio sulla teoresi della “verità” che viene a giocarsi la soggettività dell’uomo moderno, come ente finito e, al tempo stesso, costituito nella “potenza” della Ragione; il secondo, perché è il razionalismo moderno che opera come fondamento per la scientia juris, nelle versioni giunte fino a noi (sinteticamente: jus naturale, codificazioni, Begriffsjurisprudenz, teorie generali) ([2]), avendo come chiave teoretico-epistemologica l’idea di “ordine”. Basti pensare al tema del governo e della sovranità, nel quale i concetti di “soggettività” e “ordine” sono in continuo e strutturale dialogo: è il tema della “legittimazione” che, costituendo lo spartiacque tra potere arbitrario e potere di governo, distingue il “vero” sovrano dall’usurpatore: la “verità” dell’investitura genera la “giustizia” dell’esercizio (anche se qui “giustizia” può assumere il contenuto formale della “legittimazione”: intreccio complicato!). Fin ai primi decenni del ‘900 viene ribadita una sorta di sinallagma tra giustizia e verità; si ricorderà come, nella polemica attorno alla legge tra Kelsen e Schmitt, quest’ultimo affermasse con vigore che, di fronte all’impersonalità formale della norma, la legge evoca la figura del re “giusto”; che perciò può essere definito “veramente” un re.

La questione, allora, si sposta sull’ “investitura”, la quale rinvia, secondo modelli o paradigmi differenti, ad un “ordine” superiore che ne costituisce la fonte ed il fondamento ([3]): il “potere” deve avere un’origine “oggettiva”; non deve dipendere cioè da un gesto arbitrario. Al di là delle diverse configurazioni e fondazioni dell’investitura, l’ordine sociale, che l’artificio del sovrano deve realizzare, ne è la manifestazione peculiare in continuità con l’ordine della natura. In fondo, anche la sovranità hobbesiana ha il suo più autentico fondamento non tanto in un atto umano (pactum subiectionis), quanto nella “natura” umana, la quale è tale che solo un potere sovrastante gli individui può davvero regolare il loro appetiti, al di là di ogni loro, pur possibile, convenzione (pactum societatis).

 

  1. Il dubbio

 

Dunque, un tema di fondo ed una parola, “Verità”. Parola, peraltro, strutturalmente affetta da un paradosso: chiarezza e ambiguità. Al centro del paradosso, quasi a scioglierlo o comunque a renderlo intellettualmente accettabile, si aggiungono un “pensiero” ed un’altra parola, che il diritto conosce assai bene: “dubbio”. Accettabilità intellettualmente e praticamente sostenibile, proprio se concepita come argine nei confronti di “certezze” facilmente attraenti ed invece bisognose di maggiore e più scrupolosa indagine. E, tuttavia, anche il dubbio si presta ad una ambiguità, contenuta in due espressioni ugualmente utilizzabili: “non ho più dubbi” e “non ci sono più dubbi”. In ogni caso, è il nesso dubbio – Verità ad essere particolarmente significativo, ancora una volta per due ragioni.

La prima, perché scandisce il percorso verso la “Verità” iniziato dal cogito cartesiano, che assumo in questa sede, per ovvia semplificazione, come emblematico della teoresi gnoseologica della modernità razionalistica; la seconda, perché quel nesso pervade il giudizio giuridico più invasivo per l’uomo: quello del processo penale, per riflettersi, nel suo interno svolgersi e complicarsi, in quella modellistica processuale, che va sotto le qualificazioni storiche di processo “inquisitorio” e “accusatorio”, e fino a contemplare quello che potremmo definire il brocardo: “oltre ogni ragionevole dubbio”. Di questo più avanti.

Ma, fin d’ora, il punto che intendo sottolineare è il seguente: il “dubbio” ha un suo significato teoretico, prima ancora che epistemologico, in relazione ad una, altrettanto teoretica, idea di “Verità”. Il suo significato cambia in conseguenza del trasfigurarsi, proprio sotto il profilo teoretico, dell’idea di “verità” in quella di una possibile “rappresentazione teorica” del mondo. E la chiave della questione diviene allora non la “oggettività” del conosciuto, ma la sostenibilità della teoria ([4]). In quest’ultimo contesto, che è quello proprio del sapere contemporaneo, il ricorrere del dubbio, in ambito giuridico, può dirsi il residuo di una idea di verità, che fa riferimento ancora al paradigma cartesiano, ed alla quale, tuttavia, il diritto non può rinunciare, al fine di garantire ciò che è gli è proprio: la costruzione dell’ordine sociale.

Se si guarda, da un lato, alla sequenza giustizia – verità – dubbio, che orienta il ragionare giuridico, e, dall’altro, alla questione epistemologica che trasfigura la “Verità” nella “sostenibilità della teoria”, ne segue che la nostra contemporaneità esibisce, tra diritto e conoscenza, un rapporto, che potrei definire nuovo, rispetto a quello che si era instaurato nel contesto del razionalismo moderno. Rapporto, segnato dalla tensione tra due aspetti dell’esistenza propri dell’uomo come ente finito, l’uno inevitabile e l’altro indispensabile: “incertezza” del sapere e “certezza” del normare.

Vi sono, infatti, settori del vivere sociale, nei quali è possibile tradurre l’incertezza teorica in “complessità” socio-epistemologica e sostituire il concetto razionalistico di ordine con quello pragmatico di equilibrio rappresentato dalla nozione di governance ([5]). Sono questi i settori ove opera il diritto privato, largamente inteso e, in parte, quel che resta del diritto pubblico e costituzionale; per non parlare dell’ambito giuridico del “sovranazionale”. E su questo spenderò qualche parola più avanti.

Vi sono però altri settori, quali quelli che investono la libertà della persona, quelli cioè del diritto penale in genere, dove non è possibile sostituire l’ordine dei “moderni” con la governance dei “contemporanei”. In tali settori, il diritto non può non tener conto dei paradigmi cognitivi che il sapere scientifico oggi propone, ma nello stesso tempo non può rinunciare al paradigma della “certezza”, di cui si è detto, in vista della costruzione di un ambiente sociale sufficientemente stabile. Per una tale stabilità è necessario, infatti, disporre di un affidamento nei processi cognitivi e nelle loro risultanze, che possono essere raccontate come “certe”, e dunque corrispondenti alla nozione di “realtà”, propria del linguaggio comune. Così, il superamento “soggettivo” del dubbio (“non ho più dubbi”) trapassa in un “oltre” ragionevolmente oggettivo: “non ci sono più dubbi”. Lo scarto epistemologico, tuttavia, con ciò che si può definire “conoscenza scientifica”, e con la sua complessità (il termine è molto generico), resta intatto. Proprio a sottolineare tale scarto, grazie alla conversione di “razionale” in “ragionevole”, il “dubbio” riesce a svolgere una sua propria funzione eminentemente pratica, di tipo “critico-cautelare”: è come dire che una good governance della scienza sconfina in un problema di democrazia ([6]).

 

  1. 3. Diritto e “incertezza”

 

Il Diritto, dunque, è, nell’attuale momento storico, al centro di un intreccio epistemologico e pratico, che definirei, senza esagerare, “epocale”: quello tra incertezza cognitiva e governo della società.

La questione dell’intreccio mi sembra complicarsi, se si pensa che all’ “incertezza cognitiva” si aggiunge un altro genere di incertezza: quella che investe il paradigma ed il concetto stesso dell’ “ordine”, quale si è formato nella Modernità e che, in qualche misura – come ho già accennato poco più sopra – la modellistica centrata sullo Stato ha fatto giungere fino al nostro ‘900, salvo l’ultimo decennio. La “globalizzazione”, con la conseguente evaporazione della Sovranità territoriale, e, con essa, l’affermarsi del primato dell’economico “finanziario” sul politico, hanno trasformato le società in ambienti umanamente “complessi”, privi di confini territoriali, e tuttavia segnati da nuovi confini: quelli etnicoculturali. Questa nuova situazione fa sì che al paradigma dell’ “ordine” se ne sostituisca uno di tipo funzionalistico – gestionale: l’ “equilibrio”, che, come è noto, Luhmann aveva già disegnato negli anni ’70, ma con una differenza, rispetto all’oggi, non trascurabile. Luhmann aveva costruito la sua epistemologia “funzionalistica” avendo come riferimento cognitivo un paradigma “sistemico” debitore ancora all’impianto storicistico hegeliano, innervato dal “materialismo” post-marxiano, così come emerge però attraverso la declinazione post-metafisica novecentesca. E’ a partire da qui che occorre comprendere la ragione per cui il nesso complessità – equilibrio si pone come epistemologicamente alternativo all’idea di ordine, fermo restando, però, l’idea del “sociale” è comprensibile come sistema, sebbene non di processi “causali”, ma di sequenze “funzionali”. Basti aver presente la “funzione”, appunto, che Luhmann riconosce alla dogmatica giuridica rispetto al sottosistema politico. Diversamente, il proceduralismo gestionale, affermatosi come conseguenza regolativa della globalizzazione, consiste in un mero pragmatismo negoziale che di per sé trascende il sistema sociale come cornice, ma affida alle forze in campo, quale che sia loro soggettività e ovunque si dispieghino, il formarsi degli equilibri e la loro tenuta. Globalizzazione e pragmatismo negoziale determinano quella “incertezza” che avvolge l’idea stessa di società e di diritto, nel senso, quest’ultimo, di “sistema” capace di organizzazione normativa di un ambiente umano: l’ordinamento giuridico.

Per non arrendersi alla ineffabilità che il mutamento in atto potrebbe a buon diritto legittimare, provo ad indagare meglio il rapporto tra “incertezza scientifica” e quel che resta della tradizione giuridica della quale abbiamo fatto esperienza e di cui resistono tracce formali e semantico-linguistiche.

Innanzitutto si tratta di vedere, in generale, quale tipo di relazione venga ad instaurarsi ed articolarsi tra il momento, giuridicamente qualificante, della tipizzazione del fatto (irrinunciabile, per assolvere alle ovvie finalità regolative) e le problematiche cognitive della “realtà”, promosse da una attenta epistemologia.

Il punto centrale della questione, infatti, è dato dalla considerazione che la trasformazione e riduzione di “eventi” o “accadimenti” naturali in “fattispecie” è la conseguenza di una lettura del “mondo” secondo un paradigma epistemologico, idoneo a dar luogo ad un processo di tipizzazione. Come dire che le condizioni per una tipizzabilità dei fatti sono già contenute nel paradigma di lettura adottato dal soggetto; dipende, cioè, da come il soggetto “osserva” un evento, configurandone cognitivamente quella che definiamo “realtà”.

Basti considerare come l’espressione cognitiva comunemente adoperata – “fenomeno” – sia un prodotto puramente congetturale, e dunque “mentale”, proprio di un certo modello epistemologico, e non la mera traduzione semantica di un dato materiale: in natura non si danno “fenomeni”, ma solo “accadimenti”.

Occorre, perciò, aver presente qualcosa di molto scomodo per la scienza del diritto, soprattutto per le sue applicazioni processuali. E dico soprattutto nell’ambito processuale, e processuale penale, perché, in relazione a questo, non ci si può permettere di civettare con l’altra “incertezza”, quella giuridico-categoriale, che origina dai processi di governance, come invece fa quella dottrina, prevalentemente privatistica, cui ho già fatto cenno, che ritiene di saper cogliere al meglio il mutamento apportato dalla globalizzazione e quindi di essere al passo con i tempi.

Ciò dunque che ho definito “scomodo” per la scienza giuridica è che il “conosciuto”, e che comunemente indichiamo con il termine “realtà”, giunge al termine di una operazione cognitiva umana (che comincia già con l’osservazione e si completa nella astrazione concettuale), consistente nella traduzione semantico-congetturale di un incontro dell’uomo con il “mondo”. Il punto chiave è, però, che tale incontro implica, per lo statuto stesso dell’atto cognitivo umano, uno scarto incolmabile con il referente naturale, che è, nel suo “in sé”, totalmente altro dal soggetto (questione che ho appena introdotto nelle pagine precedenti, facendo riferimento al tema della sostenibilità delle teorie e sulla quale tornerò di qui a pochissimo).

Il fulcro della questione allora è tutto nella determinazione della nozione di “realtà”, in quanto parola che raffigura l’incontro del soggetto conoscente con tutto ciò che è fuori di lui (che per brevità ho già chiamato “mondo”), e che si pretende essere “qualcosa” di analogo a ciò che è davvero. Questo “qualcosa” di analogo a ciò che è davvero viene qualificato spesso, soprattutto nel linguaggio comune, che vorrebbe essere anche “scientifico”, con il vocabolo “oggettività”. Insomma: per il senso comune si dà una sequenza almeno tra tre termini: conoscenza, oggettività, realtà; termini che dovrebbero confluire nel luogo agognato: “verità”.

Verrà fuori in seguito come questa sequenza sia epistemologicamente inesatta, poiché l’ “oggettività” non corrisponde a “ciò che è davvero” (vale a dire “la cosa in sé”), ma è esclusivamente l’esito di una operazione metodico-congetturale del soggetto, chiamata “nesso di causalità”. Fin d’ora si può sottolineare come il sapere giuridico abbia importato nel suo contesto, dall’ambito della scienza naturale, tale piattaforma congetturale, cioè il “nesso di causalità” tra gli eventi-fenomeni che cadono sotto il suo sguardo regolativo, trasformandoli in “fattispecie”, che consentono di costruire quella “certezza” dell’agire pratico, necessaria al mettere in forma l’ordine sociale. La chiave della “certezza” come simulacro di “verità”, in quanto prodotto del legame tra “nesso di causalità” e “fattispecie”, ha storicamente garantito quella oggettività del “conosciuto”, che la dottrina e la scienza giuridica incontrano comunque e sempre nel loro operare.

 

  1. Per salvare il diritto che conosciamo: spunti epistemologici .

 

Se, oggi, invece, si mettono assieme “incertezza scientifica” e “globalizzazione” si va incontro ad un rischio, che considero enorme per le due attività pratiche necessarie alla costituzione di una società: la politica ed il diritto. Tale rischio è il nichilismo pragmatico-economicistico. Cui se ne aggiunge un secondo: una sorta di neo-dogmatismo, che investe il nesso conoscenza – valutazione – decisione normativa. Una polarizzazione, forse propria di ogni momento di mutamento storico profondo, ma capace di condurre verso una conflittualità umana e sociale dagli esiti, questi sicuramente, imprevedibili.

Questo a me pare essere il contesto che si pone di fronte a chi, come me, rifletta sul tema in una prospettiva filosofico-giuridica.

E, allora, l’interrogativo diviene davvero centrale, e addirittura inquietante, se si assume come teoreticamente ineludibile quella “trasfigurazione” della Verità, quale fu concepita dalla “Ragione moderna” in senso “essenzialistico”, in quella che ho più sopra definito come rappresentazione possibile del mondo, affidata al succedersi delle “teorie”, in quanto sistemi di proposizioni.

A mo’ di introduzione al mio ragionamento, valgano le parole di Carlo Sini, a proposito dell’antico logos come “discorso” che mette in forma la cosa, in quanto struttura eidetica della “cosa” stessa: “La mente dunque è un discorso, in quanto proprio il discorso è quella immagine logica (non sensibile) della cosa…. Che possono mai avere in comune i segni del discorso e la cosa che dicono? Ma come potrebbero significare senza avere qualcosa in comune, senza che il discorso (la mente) e la cosa (…) non posseggano una comune natura?…Come però operi (e quindi cosa sia) la mente resta un gran problema, che è appunto l’oggetto specifico della logica: la disciplina filosofica che deve chiarire come la mente vede, comprende e ragiona”. Ma “guardati – incalza subito Sini – dal farti catturare da questi problemi logici…Tutt’al più essi sono demandati alle indagini di discipline particolari…Ma queste analisi parcellizzate ed empiriche [che hanno per oggetto unicamente la struttura linguistica della forma-discorso] con i loro caratteristici e spesso complicatissimi problemi astrattivi, anziché avvicinare alla semplice e originaria domanda sul contenuto della forma, ancor più ce ne allontanano…”[7]. E qualche pagina oltre, a proposito della “verità”: “La verità pubblica, nella quale siamo ancora totalmente immersi, presenta così vari livelli correlativi, che sono costitutivi della mente e del soggetto ‘puri’. C’è la storia, la cui pratica determina la formazione di un soggetto prosaico astratto che cerca, attraverso i ‘documenti’, di creare una prospettiva ‘esterna’…, qualcosa che finge, nella scrittura, una verità degli eventi che è il lor accadere al cospetto dell’universale storico (come se fossero davvero accaduti così). E poi c’è la filosofia, la cui pratica determina la nascita di un soggetto panoramico e teoretico che definisce la verità in sé di tutte le cose, cioè che traduce le cose dal vissuto esperienziale alla loro definizione logica astratta (come se le cose fossero davvero così; e bada che il vissuto esperienziale non è un dato primario, ma a sua volta il risultato di pratiche di parola e scrittura peculiari). Infine c’è la scienza…” ([8]).

Dunque, il tema della “verità”, che io ho trasfigurato attraverso la formula “rappresentazione possibile del mondo”, è la trama di un tessuto nella quale si intrecciano la mente dell’uomo, costituita nella sua ontologica finitudine, il suo logos, cioè il suo essere “parola” ed “eidos” al tempo stesso, e la “forma”, come rappresentazione saputa di una “cosa” (episteme), che “storia”, “filosofia” e “scienza” riconducono al “soggetto”, alla sua mente, alla sua parola, alla scrittura. Un percorso ed un processo, del quale si possono ovviamente studiare analiticamente ed empiricamente le singole parti o gli specifici aspetti, ma nel quale fluisce, come filo conduttore, l’incontro eidetico tra soggetto e mondo.

Appare chiaro, mi sembra, come in questo percorso il tema del “dubbio” abbia una sua cittadinanza unicamente come omaggio alla tradizione cartesiana, dalla quale proveniamo ed alla quale si ispira ancora, nei settori che ho detto, il modo di ragionare del diritto. Quel tema può in qualche misura sopravvivere, insomma, più per semplicità pratica che per ragioni epistemologiche, e forse per ricordarci quale fosse il suo fondamento, questo sì “teoretico”, non “epistemologico”: l’essere il segno della tensione tra la imperfezione umana dell’ io, cum sim res cogitans, e la perfezione di Dio ([9]). In particolare, al dubbio era ascritta la proprietà razionale di essere passaggio obbligato per eliminare quei pregiudizi che intralciano la via per la definizione di ogni certezza ([10]).

Già all’interno del razionalismo moderno, tuttavia, la questione aveva acquistato una luce del tutto nuova, che poi si sarebbe proiettata nel tempo a venire, con la Critica kantiana. Possiamo assumere, come “chiave” impressionistica della forza speculativa del passaggio in questione, proprio la critica esplicita che Kant rivolge alla dottrina del cogito cartesiano, in una nota che si trova nella “Dialettica trascendentale”.

Sottolineando la differenza da Cartesio, Kant chiarisce il senso dell’ “io penso” nella prospettiva fondante della precedenza dell’esistere sul pensare; meglio, Kant stabilisce teoreticamente il radicamento esistenziale del pensiero, senza tuttavia ridurre quest’ultimo ad una dimensione meramente empirico-fenomenica. ([11]).

Se quel testo kantiano viene letto ed interpretato con gli occhiali del “dopo”, questo, allora, può essere assunto come la base teoretica dalla quale si diparte l’epistemologia del ‘900. Mi spiego, pensando al modo in cui Sini fa i conti con la “modernità” attraverso il pensiero antico.

Nel testo kantiano vi è la chiara sottolineatura della finitudine della “soggettività”; finitudine della quale era ben consapevole anche Cartesio, ma dalla quale Kant trae tutte le conseguenze, in quanto limite e potenza del pensiero umano, senza alcun appello al Trascendente. Potenza, proprio in quanto prodotto di un limite che non è solo ontico-naturale, ma ontologico-esistenziale. Tale limite, infatti, contiene in sé la capacità di pensare oltre il dato empirico-fenomenico. Capacità razionale (ogni “limite” implica razionalmente un oltre, appunto), che a sua volta contiene la provvisorietà del risultato cognitivo, poiché ogni dato conosciuto, rientrando nell’esperienza, è solamente una possibilità del pensiero strutturalmente finito, retta dalla logica interna della pensabilità ([12]). E qui si gioca davvero la differenza della finitudine kantiana rispetto a quella cartesiana. Ed è qui che prende avvio l’epistemologia contemporanea: la possibilità che il costrutto operato dal pensiero si presenta sotto forma di “teoria” e l’oggettività altro non è che quel livello di stabilità cognitiva, che usiamo chiamare “risultato” e che, proprio perciò, può essere messo in comune. Una tale stabilità del dato svolge una funzione decisiva soprattutto quando si opera nel settore della “pratica”, come accade appunto nel campo dell’obbedienza normativa.

Vale la pena di ricordare quanto spiegava Ernst Cassirer nel suo corso invernale 1920 – ’21, presso la sua Università di Amburgo, intorno ad una questione allora impellente e di rilievo epocale. Si trattava, infatti, della riflessione filosofica originata dalla teoria della relatività generale di Einstein([13]). Voglio ricordare alcuni di quei pensieri in un contesto come questo, con uno spettro tematico ben più limitato di quello nel quale si muoveva Cassirer, perché aiutano a capire quale sia il rapporto tra risultanze cognitive e senso comune, sul quale grava una relazione fondamentale: quella tra “verità” dell’attività conoscitiva e rappresentazione simbolica. E’ un modo per proiettare Kant nel XX secolo.

Spiega Cassirer: «La concezione ingenua del mondo ritiene di cogliere immediatamente la realtà delle cose, della natura delle percezioni sensoriali; ma già fin dai primordi delle considerazioni scientifiche del mondo si scopre la relatività e la mutevolezza dei contenuti della percezione sensibile e si mostra con ciò che essi non possono essere attribuiti all’oggetto “stesso”»([14]).

Da qui in poi Cassirer evidenzia, attraverso numerosi esempi, come la conoscenza scientifica incorpori o sconti uno “scarto” tra la verità scientifica contenuta in una formula matematica, quale quella che viene costruita da una determinata “teoria”, e la verità che proviene dalle rappresentazioni sensoriali, per la cui inaffidabilità basti pensare al ruolo che gioca la “direzione dello sguardo”: «…nella stessa osservazione, nella determinazione del suo contenuto e del suo significato non si tratta appunto mai solamente dell’accaduto passivamente, bensì anche della specifica disposizione spirituale, della specifica direzione dello sguardo. E’ questa direzione dello sguardo che distingue il procedimento del fisico da ciò che comunemente si chiama “esperienza sensibile” »([15]).

Perché mi spingo così lontano, fino a toccare un ambito di questioni che ai giuristi può sembrare irrilevante per l’attualità del loro lavoro? La ragione è la seguente e spero di darne conto in modo convincente e condivisibile, anche se sono costretto ad esporla in modo sintetico e per grandi punti.

 

  1. Dall’epistemologia ai modelli processuali

 

Ho ritenuto di dare un certo spazio dal punto di vista epistemologico al tema, che è innanzitutto teoretico, della “verità”, poiché questo conforma la questione, più specifica e lessicalmente affine, che riguarda l’esperienza giuridica: il tema della “verità”, quando questa è messa alla prova nel processo penale. Qui entrano in gioco due capisaldi del diritto processuale: la prova scientifica ed il libero convincimento del giudice ([16]). Come dire, per usare l’espressione di Cassirer, formule matematiche (lato sensu) di una possibile rappresentazione teorica dell’evento e, non uno, ma due sguardi: quello dell’investigatore e quello del giudice. Ed alla fine del percorso, la necessità del diritto: la “certezza” del giudicato, nella quale la forma processuale viene intesa come rappresentazione corrispondente ad una “sostanza accertata”.

Ed è ancora qui che prende forma la fictio terminologica, “verità”, ed assume senso, esclusivamente pratico, il “dubbio”, nella sua trasmigrazione dal necessariamente soggettivo al ragionevolmente oggettivo, cui poi si lega l’ “oltre…”.

La scienza giuridica ha sempre avuto contezza che operava tramite una fictio; ma una fictio, alla quale non ha mai potuto sottrarsi. Ha aggirato invece il problema, di una teoria che deve farsi “pratica”, delegandone la risoluzione alla qualificazione-configurazione dei soggetti processuali, che ha condotto a delineare i due modelli: l’inquisitorio e l’accusatorio.

In altre parole, la “verità” del giudizio viene a dipendere dalla legittimazione degli sguardi dei soggetti processuali. Prova ne sia, che nel tempo in cui si riteneva che la verità del giudizio non potesse essere una fictio dell’uomo, lo “sguardo” cui si ricorreva era quello di Dio (che stava dietro anche alla confessione del supposto reo). Lo mostra bene Franco Cordero, in un suo celebre testo ([17]), evocando l’origine del modello processuale che ne verrà fuori: l’ “inquisitorio”. Il suo contrappunto epistemologico è il modello “accusatorio”.

Intendo sottolineare che la differenza processuale tra i due modelli ha la sua radice proprio in un contrappunto epistemologico, legato al significato dei due termini-chiave, che danno il nome ai rispettivi modelli: la “colpa” e l’ “accusa”.

La “colpa” esige la dimostrazione della verità; l’ “accusa”, al contrario, chiede l’argomentazione logica di una possibile e plausibile ricostruzione dell’evento operata dal magistrato dell’istruzione ([18]). La “colpa”, allora, si inscrive nell’orizzonte logico del vero/falso; essa altro non è che la radice animistica originaria del concetto di “causa” di un evento, come ebbe a sottolineare Kelsen, risalendo al greco aitia, che comprendeva le due declinazioni di colpa e causa ([19]). Il modello inquisitorio è tutto raccolto in questa configurazione razionale, ed il ricorso al “Cielo”, di cui parla Cordero, ne è la testimonianza più suggestiva ed immaginifica.

Giustizia e verità sono termini che evocano, nel loro strettissimo legame concettuale, uno scenario teoretico-argomentativo di tipo sostanzialistico. L’attività corrispondente è attribuita ad un Ente, lo Stato, come autore supremo della Legge; tale attribuzione, per quanto esclusiva, si fonda però su di un presupposto formale, la legittimazione, e viene esercitata da soggetti, dotati anch’essi dell’investitura, ancora formale, della “competenza”, dipendente dall’ essere organi dello Stato. In definitiva, la fictio consiste nel soddisfare alla domanda di verità, che è “ontologica”, attraverso una modalità argomentativa che, però, è formalistico-funzionale, fermo restando – ancora un “però” – il fine: l’affermazione della giustizia, che è un concetto, a sua volta, di ordine di nuovo sostanziale.

Il paradigma concettuale dell’ “accusa” è del tutto differente. “Accusare”, nella tradizione storica e nella sua struttura concettuale, individua una iniziativa di origine privata, individuale o sociale, ma comunque non pubblica, almeno nel senso che non ha la sua origine nello Stato. Un individuo accusa un altro individuo dell’offesa ricevuta e l’offensore, a sua volta, contesta l’accusa su di un piano di parità. Una tale fenomenologia riposa sull’idea che la verità umana si manifesti per via argomentativa e dialettica.

Da qui segue che la caratteristica peculiare di questo modello: la centralità cioè del profilo retorico – epistemologico. Alla “verità”, sia pure nella sua accezione processuale, si sostituisce il concetto di ipotesi sostenibile, che porta con sé, a sua volta, due conseguenze teoriche dagli importanti riflessi pratici. Accusa e difesa vengono incarnati da soggetti processuali pari ordinati, coerentemente con la premessa che il magistrato che promuove l’azione penale non attribuisce una “colpa” con le relative “prove”, ma prospetta solo una “ipotesi” argomentativamente sostenibile attraverso elementi di prova; e la difesa, a sua volta, potrà fornire una diversa “ipotesi”, attraverso altri elementi di prova.

Insomma, nel modello processuale accusatorio l’uomo sperimenta tutta la sua finitudine. Non presume di conoscere la verità, ma solo cerca, a volte drammaticamente, di inseguire una possibilità, nella quale la dimensione epistemologicamente “ipotetica” può essere corroborata solo dalla sostenibilità retorica, messa alla prova attraverso il confronto tra parti, processualmente pari ([20]). Al giudice, non solo super partes, ma soggetto altro dalle parti, spetta di formarsi una “opinione”, che valga come “giudizio”. Tutto ciò significa che il confronto tra ipotesi retoricamente ed argomentativamente sostenibili si traduce, nella mente del giudice, in una rappresentazione plausibile, che dà luogo alla sentenza. E non senza significato: appellabile.

In altre parole, nel modello accusatorio prende forma la “verità” intesa, in generale, come “rappresentazione possibile del mondo”, alla quale ho fatto riferimento nelle pagine introduttive.

 

  1. Per finire…una “puntualizzazione”

 

Pensando a questo modello di “verità”, quale si manifesta nel processo penale sotto la veste dell’ “accusatorio”, non intendo ascrivere al processo, ed al diritto di cui è manifestazione decisiva, una sorta di relativismo scettico. Intendo invece costruire una sorta di “arca”, nella quale salvare il tema cruciale per il pensiero e per l’agire dell’uomo, in quanto ente finito: il tema della episteme, dando il rilievo che merita alla dimensione empirica della mente umana, come visione, logos, ragione, idea, discorso e, al tempo stesso, dando altrettanto rilievo al fatto di esistere al mondo, di appartenere al mondo e di incontrare il mondo, come realtà altra dall’uomo come soggetto pensante e agente.

Il termine “possibile” indica, allora, lo spazio logico, nel quale il soggetto -“ente finito” si confronta con una dimensione altra da sé: quella che ho definito, appunto, “mondo”. Il “possibile” va inteso come uno “spazio reale”, proprio in quanto corrispondente ad una possibilità di rappresentazione offerta dalla esistenza di una “cosa”. Entro un tale spazio, il soggetto elabora le sue conoscenze (ricostruzioni e interpretazioni “possibili”, e dunque discutibili), le sue valutazioni (giusto – ingiusto)e, infine, motiva le sue decisioni.

Insomma, puntualizzando. In termini più generali, “rappresentazione possibile del mondo” può riassumersi nei seguenti 5 punti:

  1. Esiste un “mondo”, altro dal soggetto, di cui quest’ultimo dà una “rappresentazione”, attraverso un atto cognitivo;
  2. Si dà uno scarto tra l’in sé di questo mondo e la sua rappresentazione possibile da parte dell’uomo (se si vuole, è un’allusione alla noumenicità kantiana);
  3. Da qui, la molteplicità delle rappresentazioni possibili, tutte però riferibili al “mondo”;
  4. Le radici soggettive dell’oggettività, il che significa che il concetto di oggettività è strettamente legato a quello di possibilità, poiché il possibile individua lo spazio di agibilità logica tra soggetto e mondo esterno;
  5. Rispetto e dialogo sul piano delle ricadute pratiche, non come opzioni soggettivistiche, ma come dovere morale derivabile dalla lettura critica della realtà, che dalla “rappresentazione possibile” discende (a-dogmatismo).

Due parole ancora sull’oggettività, che è un tema che affanna i giuristi di tutti i settori, come generico contrappunto della “soggettività”. Tale contrappunto è epistemologicamente inesatto, poiché l’ oggettività è comunque l’esito di quel ragionamento che ha origine soggettiva, in quanto proviene dalla “testa” di un uomo. La peculiarità dell’ “oggettivo”, invece, si pone in contrasto con un altro aggettivo: soggettivistico, in quanto indica quel dato che, pur avendo una origine soggettiva, non coincide con una mera opinione individuale (“soggettivistica”, appunto), ma assume una forma argomentativa tale da essere generalizzabile, e quindi capace di fornire una rappresentazione del mondo “possibile”, ma, al tempo stesso, idonea a soddisfare attese sociali. Proprio perciò pur rimanendo discutibile, lo è su quel piano epistemologicoargomentativo che ha origine soggettiva, ma che non è soggettivistico. Prova ne sia l’imprescindibilità della “motivazione” negli atti giudiziari

Questa è la “mia” arca, che mi sembra possa navigare attraverso il mare del pragmatismo, dagli esiti scettici e nichilisti, e destreggiarsi tra gli scogli del dogmatismo del pensiero.

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

[1] L.Ferrajoli, La logica del diritto. Dieci aporie nell’opera di Hans Kelsen, Laterza, Roma – Bari 2016, in part. la IV aporia.

[2] Per un’analisi dettagliata di questo percorso, mi permetto di rinviare al mio Ragionare per decidere. Dalla scientia juris alla governance, in AA.VV. Ragionare per decidere, a cura di G.Bombelli e B.Montanari, Giappichelli, Torino 2015, pp. 1 – 33.

[3] Su questo punto, ancora C.Schmitt, Dialogo sul potere, tr.it. Il Melangolo, Genova 1990

[4] Intorno al tema della “sostenibilità della teoria” ed a quello ad esso strettamente connesso dell’ “incertezza scientifica” resta emblematico un dibattito centrale per l’epistemologia scientifica contemporanea: Kuhn- Feyerabend (cfr., del primo, The Structure of Scientific Revolutions, Chicago University Press, Chicago 1962, tr. it. La struttura delle rivoluzioni scientifiche, Einaudi, Torino 1969; e, del secondo, almeno Against Method. Outline of an Anarchistic Theory of Knowledge, London 1975, tr. it. Contro il metodo, Feltrinelli, Milano 1979). In particolare di Kuhn merita di essere sottolineato come l’affermarsi di un paradigma di “verità” (ovviamente scientifica) dipenda dalla sua “codificazione” manualistica. Quest’ultimo tema fu anticipato da Kuhn in un lungo saggio precedente al 1962 e pubblicato, insieme due lettere di Feyerabend, da Cortina nel 2000 (Dogma contro critica, Milano). Cfr. intorno a questo tema il saggio, breve ma assai intrigante di Giorgio Agamben, Che cos’è reale? La scomparsa di Majorana, Neri Pozza, Vicenza 2016.

[5] Mi permetto su questi punto di rinviare al mio Dall’ordinamento alla Governance, in “Europa e diritto privato”, n. 2/2012, pp. 397-436, ed alle riflessioni ivi espresse

[6] Cfr. su questo tema il bel saggio di Mariachiara Tallacchini, Between uncertainty and responsability. Precaution and the complex journey towards reflexive innovation, in AA. VV., Trade, Health and the Environment: The European Union Put to the Test, Routledge, London 2014, pp. 74-88 (in part. pp. 78-81), nel quale si fa il punto, con il corredo di una amplissima bibliografia, sul tema della “incertezza scientifica” in specifico rapporto alle ricadute sociali, sul piano delle decisioni politiche e della statuizioni giuridiche. In part., p. 81 con il riferimento al testo di S.Jasanoff, Science and public reason, Oxon, Routledge, 2012

[7] C.Sini, L’alfabeto e l’Occidente, Opere vol.III / I, La scrittura e i saperi, Jaca Book, Milano 2016, pp. 27 e 26.

[8] Ivi, p.44

[9] Il tema è sviluppato, come è più che noto, nelle Meditations Métaphisiques, nelle due ed. il latino (1641-’42) ed in quella in francese (1647). L’espressione cit. è nella. Med. III, ma cfr. anche, in part. la II, la IV e la VI. (Flammarion, Paris 1979)

[10]Cumque attendo me dubitare, sive esse rem incompletam et dipendentem, adeo clara et distincta idea entis indipendentis et completi, hoc est Dei, mihi occurrit” (IV, ed. cit., p.130)

[11] Critica della ragion pura, Libro II, tr.it. Laterza, Bari 1972, p.334, nota

 

[12] Ho trattato questo tema più ampiamente nel mio Potevo far meglio. Kant e il lavavetri. Ovvero: l’etica discussa con i ventenni, CEDAM, Padova 2008 (3^ ed.), cui mi permetto di rinviare.

[13] E.Cassirer, I problemi filosofici della relatività. Lezioni 1920-1921, tr.it a cura di R.Pettoello (con Premessa e note del traduttore-curatore editoriale), Mimesis, Milano-Udine 2015

[14] Ivi, p.57

[15] Ivi, p.70.

[16] Si veda, ad es., il ricchissimo testo M. Bertolino – G. Ubertis (a cura di), Prova scientifica Ragionamento probatorio e Decisione giudiziale (Atti del Convegno tenutosi all’Università Cattolica del Sacro Cuore il 10 e 11 ottobre 2014), Jovene, Napoli 2015. Sulla questione di un possibile modello di “verità” riferibile agli enunciati normativi cfr. ancora F.D’Agostini, cit., p.36 e ss. Alla crisi culturale del nostro tempo presta la sua attenzione anche G.Forti nella sua Introduzione al testo La “verità” del precetto…, sopra citato, pp. 3 – 23, in part. le osservazioni di p. 10 e ss, La questione è partitamente analizzata da G.Forti, in un “chapter”, in corso di redazione per un testo che avrà come ed. Sprjnger, dal titolo From scientific evidence to scientific proof: Daubert standard and medical standard care.

[17] F,Cordero, Riti e sapienza del diritto, Laterza, Bari 1981, in part. p.556 e ss.

[18] Cfr. R. Alexy, Theorie der juristischen Argumentation. Die Theorie des rationalen Dioskurseswe als Theorie der iuristiscen Begrundung, Suhrkamp, Frankfurt a.M. 1978, tr.it. Teoria dell’argomentazione giuridica, Giuffré, Milano 1998, p.171.

[19] H.Kelsen, Reine Rechtslehre, Wien 1960, tr.it. Einaudi, Torino 1966, p. 103

[20]In argomento, cfr., il significativo testo di P.Ferrua, Il giudizio penale: fatto e valore giuridico, in Diritto e Processo. Studi in memoria di Alessandro Giuliani, ESI, Napoli 2001, vol. III, pp. 315 – 368.

Diritto, religione e politica nell’arena internazionale (a cura di G. Macrì, P. Annicchino, Rubbettino, Soveria Mannelli, 2017, pp. 323)

AA.VV.

Diritto, religione e politica

Rubbettino, Soveria Mannelli (CZ)

2017, pp. 325, € 16,15.

 

 

 

 

 

Il volume Diritto, religione e politica nell’arena internazionale prende le mosse dagli atti di un ciclo di seminari, tenutosi nella primavera 2016 presso l’Università degli Studi di Salerno. I temi trattati riguardano problematiche diverse: i rapporti fra religione islamica e costituzionalismo, le organizzazioni religiose e la rappresentanza degli interessi particolari, le c.d. “Primavere arabe”, il rapporto fra diritto e letteratura, la questione dei diritti umani, le vecchie e nuove forme di obiezione di coscienza nel panorama giuridico italiano, etc. Si tratta di temi “caldi”, su cui la società occidentale si interroga da prospettive differenti (giuridiche, politologiche, storiche) con l’obiettivo – problematico – di elaborare strategie e proposte di risoluzione massimamente condivise. Il volume si divide in due parti: la prima raccoglie tutti i contributi di coloro che hanno partecipato al ciclo di seminari in qualità di relatori ma anche quelli degli studiosi che pure non avendo partecipato attivamente ai seminari hanno comunque voluto “contribuire alla causa” con un loro elaborato. Nella seconda, invece, si è voluto riservare uno spazio alle riflessioni di giovani laureati componenti la redazione del blog “Law&Politics for Unisa” – un esperimento culturale inserito nel contesto accademico dell’Università degli Studi di Salerno. Quasi la totalità dei contributi presenti nel volume, pur affrontando questioni diverse, presentano come denominatore comune il tema del ruolo e dell’influenza giocato dalla religione nello spazio pubblico e la tutela di quei diritti umani che ne vengono intaccati. Non manca però anche l’analisi di questioni più di “contorno” che risultano utili ad arricchire il dibattito e a fare del lavoro uno strumento capace di sviluppare una coscienza critica che tenga conto delle mutate condizioni dei tempi e che sia capace di includere, senza stabilire premesse culturali escludenti, e di utilizzare categorie valoriali aperte. Fra queste il contributo di Bilotti e Placanica, che analizza la recente giurisprudenza sulla delibazione di sentenza ecclesiastica in Italia, quello di Lorenzo Zucca che, partendo dall’analisi dell’opera di Shakespeare “Il mercante di Venezia”, propone un parallelo con la società di oggi profondamente intrisa, come allora, da crescenti contraddizioni nel rapporto tra diritto, economia e religione, il contributo di Abu Salem e Fiorita che tratta della persecuzione di natura religiosa e della conseguente protezione internazionale, il contributo di Pasquale Annicchino sul diritto di libertà religiosa negli Stati Uniti d’America, quello di Antonio Ansalone che propone un approfondimento sulla possibile convivenza fra quanto stabilito dalla Cedu e i dogmi dell’Islam fondamentalista in particolare guardando a quanto accaduto recentemente in Turchia, il contributo di Ciani e Santoro che affronta il tema dell’arbitrato internazionale, il contributo di Paola D’Acunzo sulla sussidiarietà quale strumento di solidarietà e infine quello di Raffaella Ienco sulla tratta degli esseri umani nelle dinamiche migratorie.

Ritornando al macrotema della curatela, si cercherà ora di proporre una sua breve disamina al fine di individuarne le diverse prospettive di analisi e le altrettante chiavi di lettura proposte da ogni autore. Significativamente il volume si apre con una riflessione su: “La comunità globale è una società senza sacro (le religioni fuori dallo spazio pubblico)” redatta da Antonio Cecere che analizza la “preoccupante” tensione che si è instaurata fra la società dei diritti e il riemergere di nuove comunità confessionali, che tendono a chiudersi in vincoli dogmatici e a non voler riconoscere i nuovi valori più liberali della modernità. Secondo l’autore le cause di questa “lotta” fra individuo e comunità sono due: l’avvento, da una lato, del web e dei social network – e dunque di una comunicazione fra individui più immediata – e la nuova ondata migratoria dall’altra, la quale rispetto alle precedenti si distingue proprio per la presenza del web, che se da un lato permette a questi nuovi migranti di mantenere un legame continuo con la proprio comunità e la propria cultura, allo stesso tempo impedisce, secondo l’autore, una completa integrazione con il nuovo spazio pubblico in cui si trovano, creando inevitabilmente scontri e intolleranza. Con questa nuova ondata migratoria, inoltre, si è assistito ad un “ritorno del sacro” nello spazio pubblico con tutto il suo bagaglio di violenza, e dunque ad una deprivatizzazione della religione (fenomeno a cui i paesi democratici non erano più abituati). È a questo punto, dunque, che l’autore suggerisce quale soluzione “l’espulsione delle religioni dallo spazio pubblico per confinarle definitivamente al loro posto nello spazio privato. […] [In quanto] uno spazio pubblico limitato da sensibilità soggettive sarebbe la morte stessa dell’idea di universalità e di bene pubblico”. È chiaro che per l’autore non si può avere una doppia lettura dello spazio pubblico: o si va verso una società formata da uomini mossi da medesime necessità, o si rimarrà un aggregato di individui in costante lotta per le differenti credenze e culture. Dopotutto, conclude Cecere, “la libertà di critica è il fondamento del progresso dell’umanità, perché è sempre stato dalle voci dissenzienti che è partita la marcia verso un futuro migliore”.

Sulle medesime posizioni, se pure affrontando il tema della deprivatizzazione della religione in maniera diversa, si pone lo scritto della scrivente: “Riflessioni su alcune forme di obiezione di coscienza nel panorama giuridico italiano”. In effetti, pur incentrandosi in particolare sull’analisi delle forme di obiezione di coscienza rivendicate (servizio militare, aborto) e rivendicabili (obiezione dei farmacisti alla vendita della c.d. “pillola del giorno dopo” e degli ufficiali civili alla celebrazione delle unioni civili per le coppie omosessuali), e sulle possibili ripercussioni che queste possono avere sullo stesso istituto dell’obiezione, il contributo parte dalla constatazione che è a seguito del diffondersi del fenomeno della deprivatizzazione della religione – che come abbiamo già detto si tratta di una “teoria che vede le confessioni religiose allontanarsi sempre più dalla sfera privata per immettersi in quella pubblica e nell’arena del dialogo/contrapposizione tra politica e morale e che produce gravi conseguenza sul piano del già precario equilibrio fra istanze minoritarie e maggioritarie faticosamente raggiunti nei secoli” – che si è giunti a delle vere e proprie “guerre di coscienza”, ovvero allo scontro fra istanze di coscienza e alla configurazione dello spazio politico “aperto”. A seguito della deprivatizzazione della religione, cioè, si è assistito ad un utilizzo dello strumento dell’obiezione di coscienza (di per sé non problematico) “non più invocato dalle minoranze marginali ma da soggetti (spesso a caratterizzazione religiosa) che si fanno portatori di istanze tradizionali viste come prevalenti nella società […]”. Ciò a cui si è arrivati dunque è un “sistema di obiezione di massa” che produce la paralisi di norme poste a tutela di determinati diritti, e che viene utilizzato quale mera strategia politica nelle mani di gruppi e movimenti fortemente caratterizzati in senso religioso. L’obiezione di coscienza, cioè, perde i suoi connotati costitutivi di strumento strettamente individuale a disposizione delle istanze delle minoranze. Ciò che si auspica, in conclusione, è che si riesca a garantire il bilanciamento fra tutti i diritti in gioco (sia quelli maggioritari che quelli minoritari) e che si ponga fine, come sostenuto da Rodotà, a questa “pericolosa cultura dell’obiezione di coscienza senza confini, incurante dei diritti delle altre persone”.

Un ulteriore contributo che analizza, pur se non direttamente, il tema della deprivatizzazione della religione è quello di Gianfranco Macrì, “Il ruolo delle organizzazioni religiose tra libertà della formazioni sociali, tutela del bene comune e rappresentanza degli interessi particolari (lobbying). Brevi considerazioni sul persistere di alcune discrepanze lesive della democrazia costituzionale”, allorché, trattando dell’attività di lobbying condotta dalla Chiesa cattolica, si segnala il 1985 come data a partire dalla quale la Chiesa, per il tramite dell’attività di pressione suddetta, rivede a rialzo la propria posizione nello spazio pubblico italiano. “Gli anni che vanno dal 1948 al 1984 sono quelli in cui la Chiesa darà prova evidente della sua capacità di «resistenza corporativa» per il mantenimento dei propri privilegi di fronte a una società che cambia repentinamente”. Seguono le vicende, più recenti, sulla tutela dei valori c.d. «non negoziabili» (ad esempio le “radici cristiane” in Europa) e le battaglie affrontate sui temi etici. Tale posizione, ovviamente, ha determinato una “distorsione grave al circuito della democrazia (degli interessi)”, in quanto ha provocato uno sbilanciamento dell’ago della bilancia tutto a favore di quelli che sono gli interessi della Chiesa cattolica, senza assicurare, dunque, a tutti i soggetti collettivi connotati religiosamente di poter avere le stesse possibilità. Nell’ultimo decennio, però, lo spazio pubblico è profondamente mutato, caratterizzandosi maggiormente in senso multiculturale e multireligioso. Questo cambiamento, secondo l’autore, ha provocato un cambiamento nella strategia della Chiesa, che non è più indirizzata ad inserirsi nello spazio pubblico quale attore monopolizzatore del dibattito politico, ma come soggetto desideroso di orientare al “bene” la società per il tramite dello strumento della sussidiarietà. Ciononostante, risulta necessario, come auspicato nel contributo, che in Italia si arrivi ad una legge generale sulla libertà religiosa, soprattutto al fine di garantire l’uguaglianza sostanziale tra tutte le organizzazioni religiose.

Interessante anche la prospettiva che si delinea nello scritto di Filomena Albano, “Religione e diritti umani: tra conflitto e prospettive di collaborazione”, nel quale si parte dalla constatazione che in una società sempre più multiculturale e multireligiosa, è difficile riuscire a trovare per i diritti umani la giusta collocazione nel tempo e nello spazio. In effetti, oggi la prospettiva garantista dei diritti dei singoli secondo cui si sono sviluppati i diritti umani, si trova ad essere contrapposta a forme associative della religiosità che sempre più spesso fanno ricorso all’attività di lobbying per far prevalere i propri interessi. Non solo, sempre più spesso, le religioni sono causa di conflitto in ambito istituzionale per la loro tendenza (anche qui) alla deprivatizzazione. Tuttavia, la prospettiva che l’autrice vuole mettere in risalto è che le religioni non sempre rappresentano un ostacolo per la tutela dei diritti umani. Sono diversi infatti gli esempi riportati di figure religiose che si sono prodigate per la difesa dei diritti in questione: Martin Luther King, Mahatma Gandhi, Shirin Ebadi, per citarne qualcuno. Dunque, secondo quanto la Albano auspica in conclusione, “piuttosto che fare delle religioni un elemento di separazione e conflitto, bisognerebbe avvalersene per raggiungere una maggiore integrazione ai fini del consolidamento e rafforzamento di taluni diritti”.

Nel contributo di Kristina Stoeckl, “Il ruolo della Chiesa ortodossa russa nell’ambito della dottrina dei diritti umani”, si fa riferimento, invece, all’attività posta in essere dalla Chiesa ortodossa russa (Cor) per la tutela dei suoi “valori tradizionali” in materia di diritti umani. In effetti, secondo la Cor, i diritti umani, cosi come garantiti dalla Dichiarazione universale dei diritti umani del 1948, nascono da una realtà storica e culturale occidentale che non è condivisa da essa. Ciò a cui la Cor si oppone, in particolare, è l’adeguamento dei diritti umani ai tempi che cambiano, ovvero a quel “processo di estensione dei diritti umani nel nome del principio della non discriminazione verso gruppi e temi precedentemente esclusi (bambini, omosessuali, minoranze religiose, ecc.)”. Per la Cor, ad esempio, la prima pronuncia sul caso Lautsi vs Italia della Cedu che obbligava lo Stato italiano a rimuovere i crocifissi dalle scuole, avrebbe confermato la presenza di una cospirazione laica europea contro la religione. Da qui il dibattito – in seno alla confederazione russa – sul modo come i “nuovi” diritti umani tendono a tutelare le minoranze a scapito delle maggioranze, meritevoli invece, secondo la Cor, di una maggiore protezione.

Quello del caso Lautsi è soltanto uno dei tanti esempi di pronunciamenti della Corte di Strasburgo in materia di simbologia religiosa negli spazi comuni, che rivela una diffusa tendenza sovranazionale verso l’innalzamento dell’asticella e l’avvicinamento verso uno standard comune per la tutela dei diritti di tutti i gruppi in gioco. Tale andamento, però, sembra aver avuto una battuta d’arresto a seguito della decisione della Cedu sul caso S.A.S. vs Francia, ben analizzato nel contributo di Marco Parisi, “La legislazione francese sul velo integrale alla prova del vivre ensemble. Riflessioni sui più recenti orientamenti della Corte di Strasburgo in tema di manifestazione pubblica dell’appartenenza religiosa”. In questa particolare sentenza, infatti – nella quale la richiedente, una ragazza di origini musulmana residente in Francia, si opponeva alla legislazione francese che proibisce di indossare in pubblico il velo integrale, invocando il suo diritto a farlo in quanto scelta coerente con la sua fede, la sua cultura e le sue personali convinzioni – la Corte, se in un primo momento aveva precisato che attraverso “il ricorso al burqa o al niqab, […] non avrebbe dovuto ritenersi violato il principio della parità di genere”, come sostenuto invece dal governo francese, in un secondo momento ha preferito cambiare “indirizzo” e appellarsi alla teoria del margine di apprezzamento riconosciuto agli Stati membri, in quanto, secondo la Corte, si tratta di una vicenda nella quale non è “individuabile un «consenso europeo» sul divieto oggetto del contendere”. Si tratta però di una dottrina, quella del margine di apprezzamento, che “se applicata con ampiezza, pur rispettosa delle specificità sociali e politiche dei singoli contesti territoriali, potrebbe minare alle fondamenta la tutela sovranazionale dei diritti umani”. Cosi facendo, dunque, lo sforzo della Cedu volto al raggiungimento di uno standard elevato e comune nella protezione dei diritti umani potrebbe essere vanificato, in quanto si legittimerebbero delle restrizioni importanti ai diritti fondamentali delle minoranze religiose pur di salvaguardare la libertà delle maggioranze cristiane. Perciò, come sostenuto in conclusione dall’autore, il compito della Cedu, “alla luce della tutela promossa dalla Carta convenzionale in favore di un determinato diritto, dovrebbe essere quello di vegliare se un atto o un comportamento espresso da un potere statale abbia leso quel diritto. […] Se le differenze nazionali rendono necessario il margine di apprezzamento, la supervisione europea condotta dalla Corte potrebbe sminuire le difficoltà incontrate dalla costruzione di standards europei, esercitando in modo corretto e imparziale la propria funzione di controllo giudiziale della condotta degli Stati membri”.

Il lavoro di Ciro Sbailò, “I diritti di Dio. Una sfida ai fondamenti epistemologici della secolarizzazione”, invece, analizza il rapporto tra Islam ed Occidente, in particolare in relazione al problema della riespansione delle questioni religiose sulla scena pubblica sia in ambito islamico che occidentale e relativamente a come il diritto europeo debba confrontarsi con le nuove istanze culturali che ne derivano. Secondo l’autore, le istanze di carattere identitario del mondo arabo-islamico si offrono quale alternativa ai modi occidentali di governare la politica e la convivenza civile. Il diritto occidentale, dal canto suo, fatica a trovare una soluzione affinché si riesca ad allestire uno spazio pubblico di inclusione che non vada ad indebolire il complesso di valori-principi cari al costituzionalismo europeo. La caratterizzazione in senso radicale della sfida islamica e i diversi orientamenti delle maggioranze di governo dei sistemi politici occidentali, hanno portato ad una polarizzazione dell’atteggiamento nei confronti della sfida suddetta: da una parte alcuni sistemi protendono verso un “riconoscimento tout court delle istanze identitarie e comunitaristiche provenienti dal mondo islamico […] in nome del pluralismo e di una tolleranza intesi in senso letterale; dall’altro lato, si assiste ad una politica di «imposizione» della democrazia costituzionale, tanto all’interno dei confini nazionali («assimilazionismo») quanto all’esterno di essi («esportazione della democrazia»)”. Ma, come sostenuto dall’autore, trattare l’Islam alla stregua di un qualsiasi fenomeno religioso e culturale diverso, fa chiudere la porta ad ogni comprensione della sua capacità innovativa e della sua forza espansiva.

Interessante è anche il contributo “«Dabiq» e «Inspire»: magazine jihadisti a confronto” di Paolo Maggiolini e Andrea Plebani, che ci porta a conoscenza delle nuove strategie di comunicazione e dei nuovi metodi di proselitismo utilizzati da quei gruppi di matrice islamica fondamentalista (Al-Qa’ida e Isis) al fine di aumentare il numero di affiliati alla causa jihadista. Si tratta, nello specifico, di due riviste jihadiste online in lingua inglese (scelta non casuale quella della lingua inglese che permette di avere un più ampio pubblico di lettori): “Inspire” e “Dabiq”. Queste due riviste, se pur presentano percorsi, obiettivi e un pubblico simile, mantengono elementi di specificità, dovute alle diverse formazioni di cui sono emanazione. “Inspire”, per esempio, è la rivista che fa capo ad Al-Qa’ida e il suo obiettivo principale “è quello di spingere i potenziali mujahiddin residenti in occidente a prendere parte alla lotta ingaggiata contro il nemico, senza abbandonare i territori nei quali sono nati, hanno vissuto e sono cresciuti”, ovvero cerca di fornire a qualsiasi musulmano ispirato il know-how operativo per eseguire attacchi all’Occidente. “Dabiq”, invece, è la rivista che fa capo al sedicente Stato islamico (IS) e che nasce con l’obiettivo di raccontare puntualmente l’avanzamento del suo progetto politico finalizzato alla creazione di un Califfato, portato avanti chiamando l’intera umma a prendervi parte ed a dirigersi verso i suoi territori, quasi fosse un manifesto di chiamata alle armi. Queste due riviste dimostrano chiaramente come questi movimenti radicali si adeguano al progredire della tecnologia, e laddove in un primo momento l’identificazione della causa jihadista avveniva per il tramite di strumenti maggiormente tradizionali, attraverso ad esempio le azioni di reti di reclutamento o di indottrinamento, oggi un ruolo sempre più rilevante è giocato dal web, che ha fornito a questi gruppi uno spazio ideale all’interno del quale diffondere il proprio messaggio e attirare sempre più proseliti.

Ad occuparsi della materia islamica nella seconda parte del volume, invece, troviamo il contributo di Giuseppe Luongo, “Che cosa ci lascia lo «Stato Islamico»”, nel quale si analizza il nesso fra la reazione del governo statunitense agli attacchi terroristici del settembre 2001 e la nascita del Califfato. In effetti, secondo Luongo, “il Califfato è figlio delle profonde mutazioni geopolitiche innescate dalla reazione statunitense agli attentati dell’11 settembre 2001 e della relativa politica di esportazione della democrazia”. In effetti quando nel 2011 gli ultimi soldati statunitensi lasciarono Baghdad, la capitale risultava divisa in due: da un parte i quartieri sciiti protetti dalla polizia, dall’altra la comunità sunnita esclusa dal potere, ed è in questa situazione che l’Isis si insinua e riesce ad ergersi a protettore dei sunniti iracheni e siriani: “il califfo, cioè, riesce a conquistare la fiducia delle tribù sunnite perché ha offerto ordine e stabilità in una regione afflitta da un costante senso di precarietà […], riuscendo a proporsi come un’alternativa credibile a governi ritenuti corrotti e usurpatori dalle tribù […]”. In conclusione, però, sebbene lo Stato Islamico stia vivendo la sua fase discendente, Luongo pone l’accento su un ulteriore fattore che potrebbe continuare a destabilizzare quella particolare regione, ovvero “lo scontro ideologico intraislamico sullo spazio da riservare alla religione nella vita politica e sociale, in cui gli estremisti continueranno a cercare di spuntarla, creando ragioni di divisioni tra chi opta per posizioni moderate al fine di fare proseliti”.

In ultimo, alcune considerazioni attorno al contributo di Luca Mezzetti, “Le primavere arabe: bilancio e prospettive”, all’interno del quale viene svolta una puntuale disamina di quelle che sono le differenti ragioni che queste hanno prodotto, interessando, in particolare, i paesi del Nord Africa e dell’area mediorientale. Si tratta di un tema che Luca Mezzetti ha analizzato in maniera approfondita in un libro intitolato “La libertà decapitata. Dalle primavere arabe al Califfato” (Editoriale Scientifica, Napoli 2016) del quale troviamo un’accurata recensione da parte di Giampiero di Plinio proprio nella curatela oggetto di questa mia breve analisi. Secondo Luca Mezzetti, per “Primavere arabe” devono intendersi tutti quegli “esperimenti di superamento dei regimi autocratici vigenti negli ordinamenti dei Paesi islamici”, e tra le ragioni giustificative che hanno dato luogo a questi “moti” bisogna fare menzione dei livelli di democrazia, della permanenza al potere dei leader, del PIL, dei tassi di disoccupazione, dei tassi di natalità e delle tensioni di natura etnica e settaria. Gli aspetti più “innovativi”, nonché comuni a tutte le “Primavere arabe”, sono da rinvenirsi principalmente nel “profilo dei rivoltosi”, ovvero giovani in prevalenza disoccupati e senza prospettive di lavoro, frustrati sia dalla mancanza di capacità e volontà dei governi di trovare soluzioni tali da correggere alla radice sistemi economici e meccanismi redistributivi sclerotizzati, che dalla comparazione (grazie al massiccio utilizzo del web e dei social network, che è il secondo aspetto innovativo di tali proteste e che hanno funto da strumenti di propagazione delle stesse) con le condizioni raggiunte dai propri omologhi in quei contesti attraversati da eventi simili. Tuttavia, il risultato sperato, ovvero il raggiungimento del successo del costituzionalismo liberale, si è rivelato solo parziale. Una delle cause di questo “fallimento” potrebbe essere attribuita alla minaccia dell’islamismo radicale, che ha rappresentato un ostacolo per la materializzazione di una evoluzione in senso democratico in questi paesi, ed anzi che in alcuni casi ha addirittura provocato una loro involuzione conservatrice. Ciò che si rileva, dunque, è che la religione islamica produce importanti condizionamenti nell’assetto costituzionale e politico soprattutto di quei paesi che hanno mostrato una tendenza a degenerare in forme di involuzione radicale. Secondo l’autore, dunque, “ai fini dell’avvio del processo di effettiva democratizzazione, sembra imprescindibile per gli ordinamenti islamici superare la frammentazione sociale […], l’organizzazione autoritaria […], le pratiche ritualiste […]. Si impone, a tal fine, una ridefinizione del ruolo dell’Islam in seno alla politica e una progressiva autonomizzazione della religione dalla politica e della politica dalla religione, che passi anche attraverso la individuazione della sharia quale fonte di riferimento, ma non quale fonte principale o esclusiva, nel sistema costituzionale delle fonti del diritto adottato dai singoli ordinamenti […]”.

Per concludere, ciò che si evince da tutti i contributi è che negli ultimi anni si è assistito ad una sempre più rilevante presenza della religione all’interno dello spazio pubblico aperto, che ha provocato nella maggior parte dei casi, a causa soprattutto dell’aumento delle istanze cui i governi si sono ritrovati a far fronte, uno sbilanciamento della tutela dei diritti a favore delle istanze maggioritarie, o per meglio dire “tradizionali”, a discapito, perciò, di quelle “marginali”. Tale condizione, fra l’altro, pare “sclerotizzarsi” ancora di più nei paesi islamici, dove la religione ha da sempre giocato un ruolo fondamentale sia nella politica che negli assetti costituzionali.

Dunque, tenendo conto che la società di oggi tende sempre di più a caratterizzarsi in senso multiculturale e multireligioso, tutti gli autori sembrano proporre una medesima soluzione alle questioni emerse, ovvero quella di raggiungere la più piena attuazione del principio del pluralismo, nonché di riuscire a realizzare un migliore bilanciamento dei diversi diritti in gioco e di riuscire a “riconfinare” la religione nello spazio che meglio le si addice, quello privato.

Milena Durante