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La fede nella ragione critica ed emancipativa nel lavoro di Stefano Petrucciani (SP).

Una riflessione di Mario Reale sul pensiero e la ricerca di Stefano Petrucciani in questi anni di attività accademica. Discorso tenuto presso il dipartimento di Filosofia della “Sapienza” in Roma il 14 novembre 2023. Il presidente di Filosofia in Movimento traccia un profilo intellettuale del filosofo e studioso romano.

 

Il primo libro di SP dal titolo Ragione e Dominio. Autocritica della razionalità occidentale in Adorno e Horkheimer, Salerno Editrice, 1984, meriterebbe senz’altro, a quarant’anni esatti dalla sua uscita, una seconda edizione. Anzitutto perché, con padronanza dei testi e della letteratura critica, vi si esamina, in una sorta di amplissimo commento a Dialettica dell’illuminismo, la prima opera a quattro mani dei due fondatori della «scuola di Francoforte», e quindi perché vi sono chiamati in causa e discussi con acutezza, molti e impegnativi autori rilevanti per il tema prescelto: da Hegel e Marx, a Schopenhauer, Nietzsche e, con particolare cura, Lukàcs. Ma, più ancora, il testo si raccomanda per la maturità e novità dell’interpretazione che, per illustrare un’originale tesi circa la critica all’illuminismo dei due autori, si serve di tutte le possibili risorse della «razionalità occidentale», nella convinzione che mai dalla ragione – né sembri una cosa ovvia – si possa uscire, e che per «ragione» debba intendersi uno strumento  critico e d’intrinseca ricchezza, come già in nuce nel pensare-dire di Aristotele in Metafisica IV, 4, quasi alle origini della tradizione del pensiero nato in occidente e che Kant riconosceva ancora necessariamente nostro. Da ogni immersione critica la ragione sembra riemergere quasi chiedendo una nuova definizione, poiché esce rafforzata ogni volta che, conoscendo il mondo, allarga altresì la sua forza e la consapevolezza di sé.

La ragione è una realtà che si mantiene, per quanto forti siano le critiche che possano esserle rivolte, e che debbono essere di necessità risolte per SP in auto-obiezione, in un movimento che va entro di sé, per uscirne più avvertito e vigoroso. Sembra ovvio e persino banale, ma non lo è. Tutti cerchiamo in un certo modo la ragione, la perenne ragione occidentale – quella stessa di Hegel, nonostante tutto, e di Marx – ma nel duro lavoro perché essa si affermi, aprendosi alle più pressanti novità (perciò nella tradizione «occidentale»), estendendosi e acuendosi, rischiamo spesso, ora più ora meno, di lasciarci travolgere da questo bisogno di critica, dalla specificità e autonomia di taluni problemi o campi del sapere, fino a smarrire la forza unitaria dello stesso soggetto di queste operazioni, o, in altri casi, fino a dichiararlo persino sistematicamente diverso e contrastante con la ragione. Al contrario, SP è, nei riguardi della ragione, come un chierico cha abbia già pronunciato da tempo i suoi voti solenni, attenendovisi poi rigorosamente e à jamais; o come il cristiano consapevole che i dubbi e l’ateismo sono ciò da cui sempre la fede deve riemergere. Semplicemente, ma in modi nient’affatto semplicistici, quasi fosse una raison illuministica vista come modesto e già segnato approdo, nella selbst-Darstellung di un suo libro, SP dice in modo piano – ed è la cifra propria di tutto il suo lavoro – di aver svolto la sua ricerca «senza nulla concedere all’irrazionalismo». Della ragionevolezza, per così dire, della ragione è ineliminabile compagna, in uno scavo che, come s’è detto, non termina mai, la sua «autocritica», che già la specificazione di «occidentale», nel suo aspro e contrastato cammino, lascia intravedere.

Questa fiducia – ma direi proprio anche fede – nella ragione, nel parler raison, è così forte, costitutiva in SP che non teme di affrontare, senza paura di perdersi, le sfide più ardue e perigliose, quando altri abbandonano il campo o lo circondano di numerosi schermi gergali e fumosi. La cosa è evidente già in questo stesso libro a proposito di Adorno. Molti direbbero che il sospettoso critico della ragione, sia il meno adatto a comprovare l’assunto di cui parliamo; ma SP è un «credente» che non si lascia smuovere né commuovere, ché anzi è disposto a iscrivere impavidamente nelle fila dell’universale ragione anche Adorno e il suo sodale Horkheimer di Dialettica dell’illuminismo, del resto molto amati, quando si tratti di ricondurre a ragione il nero, sfuggente e quotidiano campo, del «dominio». La sfida forse maggiore è consistita nel salvare Adorno dalle dure critiche che Habermas gli riservò nel Discorso filosofico della modernità, un testo d’altra parte fondamentale tra i points de repère di SP: esemplare è il modo in cui SP si pone contro l’attacco di Habermas ad Adorno, finemente riconoscendogli ragioni e un sostanziale torto.

L’altro termine del titolo, Dominio, non mi risulta essere un termine del lessico marxiano e marxista, nemmeno come Herrschaft del capitalista sull’operaio (ma con l’eccezione, almeno, di Gramsci, per il quale «dominio» è termine chiave come apparato coercitivo dello Stato novecentesco, in coppia con il diverso momento di direzione, consenso ed egemonia); con i francofortesi sta qui a significare, le forme di oppressione sugli altri uomini e su se stessi al di là, non fosse che per il trascorrere del tempo con le sue novità, delle distorsioni ormai canoniche, diagnosticate e combattute da Marx, e poste a base, da Adorno e Horkeimer, di ogni teoria critica ai fini di un’emancipazione sociale e politica: dalla famiglia e dalla riproduzione della vita, dall’«autorità» in generale, fino insomma a ciò cha accade prima e dopo la stretta sfera economica, persino del tempo libero e del divertimento. La ragione, d’altra parte, come s’é detto, se vuol essere pari a se stessa, deve poter mostrare un incessante volto critico, abbracciando e valutando ogni aspetto delle ferite e dei danni che gravano sulla nostra vita, mettendo sempre in campo, appunto, un’«autocritica». Ma con questa più vasta opera la ragione, qualificata subito come «occidentale»,  si muove entro l’unico modo di ragionare che, da Aristotele a Kant e fino a noi, si conosca; e, infatti, con movenza hegeliana, il pensiero torna indietro nello scavo intensive per andare avanti,  giungendo al suo risultato attraverso un’autocritica della ragione stessa, che mentre conosce allarga altresì la sua capacità di comprendere, riemergendo ancor più forte da ogni esercizio critico.

Cercherò ora, a partire dall’ultimo libro appena uscito di SP – La Scuola di Francoforte, Carocci 2023 – di andar dietro geneticamente, fino appunto al capostipite Ragione e Dominio, avanzando in breve qualche motivo che è caratteristico dell’intera produzione scientifica di SP. Con l’avvertenza tuttavia che si tratta di note sparse, che avrebbero bisogno di ben altro impianto e spazio, poiché così come si presentano non sono sufficienti né intensive né estensive a dar conto dell’imponente ricerca di SP in più di 40 anni di intenso lavoro. E, Francoforte essendo non un luogo fisico il cui cuore, pur avendo dato i natali a Goethe, batte al ritmo delle quotazioni in borsa, ma una sorta di categoria dello spirito, una Geistige Heimat per SP, bisogna presupporre la presenza della sua ‘Scuola’, per lode o per qualche biasimo critico, in tutto ciò che verrò dicendo, anche quando non sia apertamente nominata.

La mia prima nota riguarda, come premessa, lo stile o il bello scrivere di SP, subito in qualche tacita opposizione alla prosa di Adorno. Benedetto Croce ha scritto che solo chi pensa bene scrive bene. Forse l’affermazione è troppo perentoria, gravata da un numero eccessivo di eccezioni, ma certo è che la prosa detta in senso largo «scientifica» (ossia non d’arte) ha molti scrittori «ben pensanti» al suo attivo, in una tradizione cui esemplarmene appartiene (o ne è per altri iniziatore), secondo una storia molte volte tracciata, Galilei e in cui si iscrive lo stesso Croce in quanto, è stato scritto, costituisce il «più grande prosatore italiano dopo Manzoni» (Benjamin Crémieux). Non voglio farla lunga, ma SP s’iscrive, a suo modo certo, in questa corrente le cui caratteristiche sono la chiarezza, la concretezza, la precisione e la vicinanza il più possibile al linguaggio comune, come voleva lo stesso Galilei. La notazione non è affatto irrilevante se si pensa che nei pensatori di cui SP si occupa c’è non di rado gergo o vertigine dell’oscurità e che è suo point d’honneur sciogliere ogni pesante ostacolo linguistico nella più limpida forma possibile, tanto ch’è un vero piacere leggerlo.      Anche per questa tersità di scrittura, SP è divulgatore e mediatore tra culture di alta classe, come per esempio nella curatela della difficile Dialettica negativa adorniana, o nella laterziana Introduzione ad Adorno, che volge in buon italiano un pensiero originariamente espresso in prosa avvoltolata, capricciosa e sincopata. Adorno ha scritto un saggio per aiutare i lettori a leggere la difficile prosa hegeliana, posta sulle orme dell’antico Eraclito: ’Scoteinos, ovvero come si debba leggere uno scrittore oscuro come Hegel’ (in Tre studi su Hegel, ed. or. 1963, tr. it il Mulino 1971); ma Adorno stesso ha bisogno, per essere compreso ed esplicato, di traduttori e commentatori come SP, che assumono su di sé il difficile compito di tradurre il «traduttor d’Omero», il caliginoso Adorno. La chiarezza infine è pensata da SP quasi come un compito civile e morale verso i suoi lettori, che perciò gli dovrebbero essere riconoscenti.

La prima cosa di merito su cui ora mi soffermerò è la fedeltà di SP ai suoi temi, e dunque anche a se stesso. Questo può essere anche un limite, quando si continui a lavorare per anni un ristretto campicello; ma non c’è affatto pericolo che questo sia il caso di SP, la cui vastità d’autori e d’interessi è notevole. Ciò vorrà dire allora che non vi sono nel suo lavoro né retractationes di ciò che è stato fatto fin lì, né – refrattario SP a ogni moda, anche quando si occupi di autori alla moda come Marcuse – interruzione della continuità d’interessi in cui irrompano prospettive diverse e di segno al tutto contrario. Le vie sono classicamente segnate da SP fin da da quando era giovane, e il suo lavoro di ricerca consiste principalmente perciò in un lavoro di scavo e approfondimento, di un hegeliano tornare indietro per andare avanti. Già i due libri che abbiamo ricordati, il primo e finora l’ultimo, si occupano di una costellazione vasta di autori e problemi. E SP sa bene come allargare in mille modi questo dominio già non modesto. Penso ad esempio alle tre sillogi tematiche einaudiane che SP ha dedicato a: Modelli di filosofia politica (2003), il capostipite che io amo di più, Democrazia (2014), Politica (2020). In questi brillanti, acuti e del tutto attendibili exploits, non c’è affatto ripetizione del già noto, ma fili di domande originali che danno riperimetrazione e profondità al campo di lavoro. Ed è come fare ogni volta i conti con un intero sapere, che certo è costituito, per SP anzitutto dalla filosofia politica, in senso largo, con i suoi temi e autori, con la sua storia che giunge fino alle realtà che cominciano ad affiorare o si sono appena aperte – ma all’insegna di «novità» di cui vorrei segnalarne almeno due, riguardanti la storia e la filosofia, le due fondamentali conoscenze che Croce diceva geminae ortae.

La prima è la consapevolezza che la filosofia politica, come gli antichi fino Machiavelli ci hanno insegnato, riposa sulla storia tout court, storia come accadere di eventi in cui la politica è saldamente iscritta – attraverso i molti «accidenti» di Machiavelli o, attraverso la sua fonte polibiana, le molte lotte e fatti e peripezie (dia polllon agonon kai pragmaton) – potendo solo di qui trascorrere in idealizzazioni e persino in utopie. Per esempio, ricchi e poveri sono in Aristotele materia direttamente politica, quel che non saranno più in età moderna, quando la stessa complessità dei problemi e l’irrompere sulla scena politica di grandi masse renderanno necessario l’uso dell’astrazione con tutte le sue possibili mistificazioni, donde il limite di immediatezza in taluni dei pur notevolissimi scritti giovanili di Marx, come la Judenfrage. Il senso storico di SP è così vivo da trapassare talora, nelle sillogi di cui ho detto, direttamente nella storia generale cui a volte sono dedicate specifiche rubriche a riscontro di temi e figure filosofico-politiche; ricordo qui solo la Parte prima di Democrazia, con rubriche dedicate tutte e solo alla storia generale (v. per es. pp. 64-79).

 L’altra novità sta nel modo d’intendere il rapporto di filosofia e politica nell’endiadi o sintagma «filosofia politica». C’è qui un pericolo che troppo spesso mi pare non venir scansato, quello cioè di intendere che la filosofia in quest’ambito sia solo quella che serve ai fini di un sapere politico: non di più, e trattato allora nelle convenienti e modeste maniere. Ma non è così, non esistono filosofie solo «locali» e la filosofia è sempre una. Non so, forse era meglio la dizione di Croce, che diceva «filosofia della politica», quasi un intero che si volga ad esaminare particolarmente un ambito della realtà, non una filosofia ricavabile volta a volta dal proprio oggetto. Fatto è che SP è innanzitutto un filosofo tout court, un filosofo «puro», non a caso formato alla scuola di Gennaro Sasso, che si occupa spesso o prevalentemente di politica, mantenendo tuttavia integra e piena la sua capacità di filosofare, a qualunque oggetto si volga. La filosofia nella sua interezza non è affatto un orpello o una belluria per il pensare politico e persino per la «Scienza politica»; tutt’al contrario fornisce non solo rigore logico, ma anche criteri ermeneutici, la capacità di proporre nuove tesi e suggestioni al pensare politico.

Quel che dico riuscirebbe alquanto astruso se non indicassi subito un esempio di ciò che intendo, ricordando uno dei libri più belli di SP, anche se forse non tra i più noti, che s’intitola Etica dell’argomentazione. Ragione, scienza e prassi nel pensiero di Karl-Otto Apel, Marietti 1988 (di cui, come per Ragione e Dominio, mi sembrerebbe molto utile una seconda edizione). Come Apel non è un filosofo politico, se non indirettamente per la congiuntura che lo accostò in un certo tempo ad Habermas, egli stesso non proprio filosofo politico, così del pari SP si tiene qui a questioni squisitamente filosofiche quali la «Fondazione della razionalità e l’idea di semiotica trascendentale», o «Spiegare e comprendere», e così via. Forse è evidente già di qui, inoltre, che questo non è un libro di storia della filosofia, ma di puro esercizio di filosofia in atto. E siccome neanche questa distinzione è del tutto ovvia nel senso che vi sono esimi cultori della storia della filosofia, che non hanno alcun senso e orecchio e gusto di quel che sia veramente filosofare, mi piacerebbe, se avessi tempo, soffermarmi su qualche problema determinato per mostrare cos’è questo filosofare nel libro di SP, seguendolo in esempio circa la domanda sull’«argomento migliore», se c’è e in che consista, un tema dibattuto nella prospettiva dialogica e deliberativa.

Nel denso Prologo a Modelli di filosofia politica, la silloge che m’è più cara SP s’interroga proprio intorno a questo problema, al fatto cioè che la filosofia politica «prima che essere politica è filosofia». Con Leo Strauss si osserva che ogni domanda su ‘cos’è la filosofia politica’ ne presupponga un’altra su ‘cos’è la filosofia’, domanda necessaria per un sapere non codificato, non avente un suo indiscutibile statuto. E’ sconsigliabile ora, ché mi porterebbe via molto tempo, soffermarmi su quale sia il concetto che SP ha della filosofia – che rinvia in generale a un metodo di «argomentazione pubblica, critica e aperta», in una sorta di «ininterrotto dialogo argomentativo», in un «continuo scambio di ragioni e critiche», nella ricerca di «argomenti persuasivi». Gli «strumenti del dialogo razionale» vengono impiegati per dirimere e innanzitutto impostare i grandi problemi della filosofia.

Ma qual è ora l’indirizzo metodico generale nello studio di questi problemi? SP si occupa spesso della classica distinzione tra approccio «normativo», che lui predilige, o approccio «realistico» alla filosofia politica – me ne occupo qui a partire dalla densa e bella ‘Parte prima’ di Politica. Una introduzione filosofica, Einaudi 2020. Il quadro generale entro cui SP si iscrive (e che ha irrobustito anche un mio personale convincimento) è che in ogni seria considerazione di filosofia politica, o della sua storia, non possa mancare né il momento normativo né quello realistico. Pare un asserto ovvio, ma non lo è affatto. Le resistenze maggiori a questa  pacificazione, e dunque la permanenza in una guerra, vengono forse dai «realisti», attaccati platonicamente alle rocce, e sospettosi di ogni posizione che esuli dai cosiddetti «fatti» e dalla loro inaggirabile durezza. Ciò che soprattutto disturba questi austeri esprits forts, che, a partire dal Trasimaco e dal Gorgia di Platone, sempre affermano solo il diritto del più forte, è la presenza di un’antropologia comprensiva della capacità umana di morale e giustizia politica, in un vacuo discorso aperto, come si rimprovera loro, alle sirene dell’ideologia. Ma certo è, d’altra parte, che, sia pur non sempre sottraendosi esso stesso a configurazioni ideologiche, il realismo smaschera pigre abitudini, fa pulizia di ciò che Hegel  chiamava la «pappamolla del cuore», ed è essenziale a ogni seria considerazione della realtà.  I grandi scrittori realistici si leggono volentieri e c’è sempre da imparare da essi: da Tucidite a Machiavelli a Hobbes agli stessi Hegel e a Marx. In conclusione, SP mostra una buona dose di realismo e di critica profonda, che fanno così parte del suo bagaglio culturale, tanto da indurlo a scrivere in questa vena uno dei suoi saggi più belli dal titolo: «Democratizzare la Democrazia. E’ ancora possibile?».

Ma la sfera della morale costituisce, a sua volta, essa stessa un «fatto», una realtà dell’umano che, senza bisogno di alcun fondamento né ora di più complessi ragionamenti, si dà – es gibt, o es geht so – è qualcosa di cui nessuna teoria critica, benché sofisticata, potrebbe fare a meno, e che da parte mia risolverei, con Hobbes, nelle forme della socialità, distinte dai precetti religiosi. Del resto credo che, tra i due campioni moderni del realismo, Machiavelli e Hobbes, così come per certi versi anche in Hegel e in Marx, le cose siano più complesse. Machiavelli non può essere iscritto tout court all’ordine di un radicale e totale realismo, perché non può esser privato della volontà controfattuale di mutare il mondo e mutare se stessi (un centrale passaggio come si vede nella rigidezza dell’esser o impetuosi o rispettivi). Machiavelli fa in realtà ricorso – oltre che a realistici strumenti, come la volontà di un Principe o la ferma costruttività delle leggi repubblicane capaci di creare una seconda natura dell’uomo posta politicamente – alla risorsa morale, etica e persino profetica, dell’ultimo capitolo del Principe, o della «società bene ordinata» dei Discorsi. L’ardita costruzione di Hobbes d’altra parte, l’Hobbes’s argument, non potrebbe mantenersi senza la decisiva risorsa morale della legge di natura ai fini dell’ingresso nella politica.

Se moralità e realismo vanno sempre insieme, sospetta è allora la scelta di un criterio contro l’altro. SP, che pur potrebbe falsamente apparire, richiamandosi apertamente a questa impostazione, un deciso ed esclusivo normativista, non manca affatto di un chiara esigenza realistica, che lo distingue anche da tutti gli ingenui seguaci del solo dover-essere. Il realismo è decisivo come condizione di possibilità e al tempo stesso esito dell’intero discorso argomentativo e deliberativo. In generale a me sembra che SP ascolti con passione e interesse lo svolgersi nel mondo delle cose politiche. Solo che – oltre a considerare il piano della filosofia politica posto in un piano più alto delle mutevoli contingenze – non ama critiche che cerchino di mettere in crisi, nella loro puntualità, il suo intero apparato categoriale di riferimento, per esempio riguardo alla democrazia considerata a muovere, realisticamente, da quella  che conosciamo oggi. Per SP la democrazia, a partire dal così  come la sperimentiamo oggi, costituisce un obiettivo che, nonostante le esuberanti difficoltà del caso, si deve mantenere sempre sullo sfondo, contro le repubbliche «democratiche» solo «immaginate», come diceva Machiavelli, che mai si sono «viste né conosciute in vero essere» (Principe XV); o contro le forme antiche o di spericolate e irraggiungibili o persino sconsigliabili proposte di democrazia: una realtà che per SP si legge essenzialmente nel mondo moderno, tra liberalismo e (eventuale) socialismo (o altrimenti come consapevole e diretto prodotto «engelsiano» del movimento operaio con il modello da altri imitato del suo grande partito socialdemocratico di massa). Le grandi famiglie che costituiscono l’ossatura del pensiero politico moderno sono altresì il masterplan degli studi di SP.

Ci potremmo chiedere da ultimo come la personalità di SP si trasmette nel suo lavoro di grande e infaticabile studioso. Io direi così, che c’è in SP sia un’anima profondamente liberale che un senso forte della comunità. Il tratto liberale, continuerò a chiamarlo così, consiste, nel liberalismo quale veniva definito da Adolfo Omodeo in quanto cioè formazione e natura dell’uomo moderno, critico, laico, curioso, aperto agli altri e al futuro, disposto alla parità tra gli uomini, contrario a ogni forma di retriva chiusura; un liberalismo che deriva in SP da una naturale disposizione oltre che, come suppongo, anche da educazione familiare, e che si mostra ad ogni passo della sua vita e dei suoi studi (così mi apparve quando, ormai poco meno di 50 anni fa, lo conobbi). Ma, proprio perché questo liberalismo è radicale, l’attenzione di SP è rivolta, forse di preferenza, ai limiti e alle insufficienze della democrazia liberale, a ciò che essa ha trascurato, alle molte forme di dominio che non ha combattuto. Ciò apre per SP il grande interesse per il socialismo, la forza capace di colmare questi vuoti, in cui coerentemente Marx è inteso come grande storico e critico della società, pensatore della libertà, la cui intera lezione è insostituibile e inesauribile (cfr. di SP, Marx in dieci parole, Carocci 2020). In una simile lettura, che si è intensificata negli ultimi anni, sono scansate sia le secche delle anguste e minute analisi circa il «vero Marx», con esclusione di altri volti, come ad esempio il «giovane Marx», nonché, meno che mai, le critiche che ne fanno un «cane morto» perché i suoi quarti di scientificità (secondo un rinsecchito concetto di scienza) non sono puri, o infine i tentativi di farne un autore compiuto e magari disposto a esser messo in un insegnamento dogmatico.

L’altro tema, quello della comunità, è forse già in parte mostrato dai lavori di cui parliamo. La «scuola di Francoforte» rappresenta per SP una societas, un collettivo di cui egli è studioso e custode: si veda con quanta cura ne esamina via via le sue figure, per ora fino a Jaeggi e Rosa; e soprattutto con quanta vigilanza ne difenda, al di là delle naturali diversità, una sostanziale e ancor leggibile continuità. La Scuola di Francoforte e il suo lascito sono stati da SP in ogni modo salvaguardati e seguiti attentamente con grande considerazione, ad essi dedicando, come a una grande comunità, non poca fatica e molto tempo. Ma diligenza, solerte riflessione e vigilanza di SP si rivolgono sempre, secondo la sua vocazione, alle comunità di ricerca, non ai gruppi decisamente politici o di partito. La cosa forse più evidente è il caso del Manifesto: un insieme di lavoro culturale e politico, di cui SP ha fatto parte in modo continuo, impegnato e fedele, senza però esser mai coinvolto, mi pare, sul piano strettamente politico e nei tentativi di farsi partito. Nonostante la disposizione alla communitas SP non ha mai sentito il bisogno di aderire a una comunità di partito. Credo che ci sia qui, al fondo, una difficoltà del pensiero a primaria inclinazione liberale, anche nelle persone più aperte, intelligenti e disposte a una strategia di cambiamento politico come Norberto Bobbio – di cui SP fa gran conto, cominciando dall’apprezzamento della sua civile prosa – a comprendere il partito politico, dal punto in cui la volontà generale va oltre il volere dei singoli, dando appunto vita, non potendo il tutto risolversi nel semplice gioco di maggioranza e minoranza, a una speciale comunità (donde la frequente sopravvalutazione, a parer mio, dell’opera di Robert Michels). Ma è un tema difficile e qui solo enunciabile, del quale ho avuto modo di discutere con lo stesso Bobbio nella corrispondenza che per molti anni ho intrattenuto con lui. Mi è accaduto di pensare che SP somigliasse un po’ a Frank Cunnigham, il nostro compianto e comune amico, che, come il suo maestro C.B.Macpherson, cercava di pensare gli sviluppi avanzati della democrazia, a partire dalla situazione canadese e nordamericana, prescindendo cioè quasi del tutto dai partiti politici. Ma oggi che accade, quando la realtà di un partito politico come quelli che abbiamo conosciuto fino agli anni ‘90 costituisce un’esperienza a parer mio qusi interamente consumata, in una situazione che Pietro Scoppola definì come quella del passaggio dalla «democrazia dei partiti» alla «democrazia dei (singoli) cittadini»? Oggi francamente non so se, pur con la perdita di talune esperienze, SP non abbia visto anche prima e meglio di altri quel che si doveva fare e quali ne erano i punti di riferimento.

II  Proposta sui consumi

 Quando si pensa a quel che SP ha fatto è necessario, e comunque non se ne può fare a meno, considerare anche quel che potrebbe fare nel futuro. Mi permetto qui di avanzare alla fine una modesta proposta, che mi darà l’occasione, prima, di parlare ancora dei lavori di SP già eseguiti. Il punto più nuovo e originale di La scuola di Francoforte, il testo appena uscito, sono i tre saggi su Marcuse: non solo perché, vi si affronta con ampiezza e profondità un autore che nel primo libro aveva rilievo molto modesto, né perché si riscopra un filosofo di solito superficialmente ricordato per un solo libro, unius libri, per pochi slogan o per la generica vicinanza al movimento del’68. La ragione principale è che in queste, che sono tra le pagine più belle del libro, c’è una riflessione maggiormente autonoma, libera e originale di SP che si può vedere per esempio nel capitolo sesto, e già nelle sue pagine introduttive, dove si legge cosa SP intenda per capitalismo, crescita economica, rapporto mezzi e fini, neutralità della tecnica, totalità sociale, e così via. Il testo su Marcuse non è privo di un’interessante vena biografica collettiva e forse anche autobiografica, dedicata al «complicato rapporto», pratico o ideale tra i francofortesi e il movimento del ‘68. SP ha un vero talento nell’infilarsi in argomenti scomodi, al qual proposito molti tacciono e per cui occorre libertà e coraggio, come quando fu tra i pochi che affrontarono il tema del crollo dell’URSS. Qui non era affatto facile dire felicemente in breve cosa fu il magmatico e per certi versi anche sfuggente Movimento del’68, un tema di cui bisognerà ancora occuparsi.

Tra le molte altre cose notabili in questa sezione del libro su Marcuse mi soffermerò ora su un tema in apparenza marginale e curioso, che non so fino a che punto sia tutto frutto di Adorno e Horkheimer o se non appartenga anche alla sapienza ricostruttiva di SP, che sa pensare con e oltre i suoi autori, nella direzione da essi indicata. La questione potrebbe esser posta così: nessuna generale forma di vita può dipendere dalla settecentesca imposizione di un tiranno, del soldato o del prete, dal «mero arbitrio dei gruppi dominanti», da una sorta di «follia o insensatezza collettiva». Ci interessiamo molto all’emancipazione dei «servi», ma cosa ha consentito che questa situazione di oppressione durasse secoli o millenni? Qui si parla del capitalismo che da un lato incorpora in sé l’elemento «dell’assurdo o della contraddizione» e non riesce «a superare la scarsità e la penuria se non riproducendola sempre a livelli diversi e più alti» – un’acuta osservazione  di SP circa la «società opulenta», su cui ricordo il contributo de La Rivista Trimestrale – cui si collegano tutte le altre distorsioni generate dal capitale. Ma dall’altro lato il capitalismo è pure una complessa struttura economico-sociale che riesce – si dice – oggi «imbattibile» sul piano dell’allocazione delle risorse produttive, riuscendo a «innescare l’uscita di intere aree del mondo dal cono d’ombra della scarsità e della penuria, di assicurare la soddisfazione di bisogni veri e non solo di quelli falsi e «indotti».

E’ quest’ultima capacità del capitalismo, come vediamo bene intorno a noi, che assicura sempre (se non proprio «occupazione» e «benessere» come voleva Adam Smith) beni che vanno ben oltre la proverbiale ciotola di riso al giorno per tutti i cinesi e che tengono in piedi il capitalismo opulento.  Questa opportunità di lunga vita pone in realtà problemi acutissimi a ogni tentativo di pensare il socialismo, che dovrebbe in primo luogo e necessariamente sapere ciò da cui si discosta, ciò che supera. Ad Axel Honneth mi pare che in sostanza SP dica che, pur con molti pregi, il suo ripensamento del socialismo manca di «storicità» (non tocco il punto dell’eventuale tramonto del capitalismo che somiglia alla seconda venuta del Cristo nel cristianesimo: attesa dapprima come imminente, ma quando, rinviando rinviando, non viene, costringe a ripensare interamente e faticosamente l’essere della Chiesa e dei fedeli).

Questo problema – su che si regga una società di oppressi con pochi «signori» dominanti o perché  un complesso sociale «tiene»anche quando vi sono innumerevoli «servi» – è valido, nel discorso di Horkheimer e Adorno ricostruito da SP non per il solo capitalismo, ma per un tempo sterminato, assicurando continuità alla storia per interi millenni, (v. di SP, Marx al tramonto del secolo, manifestolibri 1995, ‘L’autocritica della modernità nel pensiero di Adorno e Horkheimer’, pp. 95-114). In simili società precapitalistiche i rapporti di dominio hanno sempre avuto una duplice natura: la garanzia del privilegio, certo, ma anche la sopravvivenza e la giustificazione della riproduzione dell’intera totalità sociale. Quest’ultimo elemento, dice SP, può esser configurato come il momento di «universalità», congiunto indistricabilmente con quello della «particolarità» nel dominio. Com’è potuto accadere, si chiede Horkheimer, che «per interi periodi la subordinazione coincidesse con l’interesse dei dominati»? La prima e forse principale risposta degli autori francofortesi riposa sull’originaria penuria dei mezzi di sussistenza e sulle necessità da essa imposta: dalla formazione di un un piano preordinato, più o meno consapevole e manifesto, formulato con una qualche collaborazione dei subordinati (si può fare qui un confronto, dice SP, con il dominio e il consenso di Gramsci), cui tutti devono conformarsi per instaurare, tra l’altro, una stabile gerarchia sociale, a partire dalla distinzione tra lavoro intellettuale e manuale. E a questa risposta si devono aggiungere gli altri campi di dominio «umani e artificiali» di cui abbiamo detto. Né devono sfuggire le innovative ricerche di chi ha configurato il signore come la sola possibile umanità del servo.

Ma che tipo di rapporto c’è allora tra privilegiati e soggetti, tra dominio e consenso? Come si articola un simile problema? Anzitutto la lotta per fare autonoma la civiltà dalla mera natura, come dice bene SP, si deve ampliare nel contrasto all’artefatta instaurazione della coazione e della repressione non solo sociale ma delle più forti pulsioni individuali. Ciò è conforme alla tesi forte di SP per cui l’Illuminismo è criticato nei primi francofortesi non per troppo ma per manco di una più sviluppata teoria critica che abbracci, oltre all’arcaico dominio tecnico e scientifico sulla natura – exeundum e statu naturae, come dicevano Spinoza ed Hegel – anche le forme emancipative che si dicevano un tempo «morali»: l’oppressione degli uomini sugli altri uomini (e su se stessi), a cominciare dalla ricchezza astratta, in quanto illimitato fine a se stessa. Non è sufficiente, dice conclusivamente SP a proposito dei limiti di Marcuse, stabilire con «ingenuità» quali sono «i veri bisogni e i veri fini umani per aver risolto alla radice ogni problema di irrazionalità sociale», né meno che mai, aggiungiamo, per cominciare a risolvere praticamente il problema.

A questo proposito mi pare che ci sia uno iato o un vuoto tra la discussione delle migliori forme di vita e l’inizio della lotta per recarle praticamente, come già teoricamente, in atto, specie se si dice, non a torto a parer mio, che la formazione capitalistica è oggi, dal lato della produzione, «imbattibile» (che non vuol dire in tutto accettabile). Ma se non dalla produzione, si potrebbe forse partire dai bisogni e dal consumo – sostenuto da una forte domanda aggregata e collettiva, non affidata alla dispersione delle singole famiglie, quasi «fini» posti al capitalismo – per provare ad allentare e in parte correggere i difetti del capitalismo, in favore di una società più razionale, sociale, più giusta e, aggiungerei, anche più «bella»? Com’ è noto l’economia politica classica, Marx compreso, negano che il consumo possa mai essere reso nemmeno in parte autonomo dalla produzione. Ma sull’indipendenza dalla produzione stanno alcuni esiti irrisolti dell’economia politica classica, numerosi tentativi fatti dagli scrittori che sono stati detti «utopistici» dell’800, e anche da qualche teoria critica novecentesca. Le domande che in conclusione pongo a SP, volendo guardare avanti, e non solo ripercorrere il già fatto, sono le seguenti. Nella teoria critica francofortese c’è qualche cenno positivo al tema del consumo o i consumi sono solo tenacemente criticati nella forma attuale (consumi indotti, ecc.)? E SP, con la sua esperienza e autorevolezza, che pensa di questa via? e sennò, quali strade ritiene percorribili per cominciare a ovviare al problema che ho detto della riforma, almeno teorica, del capitalismo?

 

 

Foto di Antonio Cecere: Mario Reale e Stefano Petrucciani impegnati in una riunione del comitato scientifico di Filosofia in Movimento nel 2019. 

 

 

 

 

 

Politica- una introduzione filosofica

L’obiettivo che questo volume si prefigge è quello di presentare in modo sintetico le questioni principali della filosofia politica, con particolare attenzione alle teorie e ai problemi del tempo presente. La trattazione è articolata in tre parti.
Nella prima parte («La politica tra realismo e valori») si presentano le grandi questioni di fondo che stanno alla base della riflessione teorica sulla politica: per un verso la politica non può fare a meno di un riferimento etico e valoriale, per altro verso rimane comunque una dimensione caratterizzata dal conflitto e dalla lotta per il potere. Si tratta dunque di pensare insieme queste due dimensioni, cosa che molto spesso le filosofie politiche non sono riuscite a fare. I temi affrontati nella prima parte sono dunque: la definizione della politica, il «realismo politico», i rapporti della politica con il potere e la violenza, da un lato, con l’etica e la giu- stizia dall’altro.
Nella seconda parte («I principî della giustizia politica») vengono delineate le coordinate essenziali del patto politico moderno e sviluppati i concetti fondamentali della politica nella modernità (liberalismo, democrazia e socialismo) e la loro articolazione concreta nelle contemporanee democrazie costituzionali.
Anche in questa parte si ragiona su un duplice registro. In primo luogo si presentano i punti principali della democrazia costituzionale: diritti fondamentali, rappresentanza politica, divisione dei poteri, giustizia sociale. In secondo luogo si mostra come la promessa democratica del potere condiviso sia ampiamente ridimensionata dalle cristallizzazioni di potere non democratico che permangono ben salde anche nelle democrazie avanzate (poteri economici, mediatici, tecnocratici). Si perviene quindi a una visione dinamico- conflittuale della democrazia e della giustizia sociale, come posta in gioco delle tensioni e degli antagonismi che attraversano la società.
Nella terza parte («Cosmopolitica: la politica oltre lo Stato») si mostra come gli approdi conseguiti a livello di politica statale vengano rimessi in discussione dalla centralità che acquistano, nell’età globale, le questioni che riguardano la politica oltre lo Stato. Il pensiero moderno ha visto gli Stati come entità che sono tra loro in un rapporto simile a quello dello «stato di natura» e si è posto innanzitutto il problema di superare questa condizione e di porre le basi per la pace tra i popoli. Ma oggi sono venuti in primo piano molti altri problemi sui quali non disponiamo ancora di visioni consolidate. Come possiamo pensare, realisticamente, la costruzione di un ordinamento cosmopolitico, nel contesto del quale gli Stati e i popoli cooperino in modo responsabile per farsi carico dei problemi comuni, dalle guerre locali al terrorismo, dal cambiamento climatico ai rischi sanitari globali? Gli Stati e i popoli sono legati da obblighi di assistenza reciproca, o è giusto che ognuno pensi per sé? Condividono responsabilità comuni di fronte a fenomeni come la fame, la povertà estrema, la negazione dei diritti umani da parte di regimi tirannici? E fino a che punto è legittimo che ogni Paese si chiuda dentro i propri confini? Sono queste, a parere di chi scrive, le nuove frontiere con le quali la filosofia politica si dovrà misurare oggi e domani.

Si ringraziano l’editore e l’autore per aver concesso la pubblicazione della premessa al testo.

LA QUESTIONE DELLA SFERA PUBBLICA EUROPEA

di Manfredi Camici

 

L’Unione europea, a seguito del crescente successo dei movimenti euroscettici e della volontà manifestata dagli elettori britannici il 23 giugno scorso, si trova oggi a navigare in acque poco floride. Il clima di forte contestazione e insoddisfazione nei confronti delle politiche europee ha spalancato le porte a scenari di “disintegrazione”, che per la prima volta vengono presi seriamente in considerazione e messi a tema anche da illustri pensatori come Wolfgang Streeck e Jan Zielonka[1]. Se l’Unione appare inadeguata nel far fronte alle problematiche poste in essere dalla crisi economica e dalle ondate migratorie – rimanendo in tal modo un attore secondario sul piano internazionale – ciò viene spiegato attraverso l’impossibilità costitutiva di dar vita ad una politica comune e condivisa dal momento che risulta assente l’elemento sul quale le politiche stesse dovrebbero istituirsi: il dibattito scaturente da una sfera pubblica europea omogenea. In generale, ad essere messa in discussione, è la possibilità che si venga a formare un ordinamento politico democratico a livello europeo data l’irrealizzabilità di una sfera pubblica che vada oltre i confini nazionali. Conseguentemente, la prospettiva stessa di una democrazia transnazionale viene valutata negativamente vista l’assenza di un demos europeo culturalmente definito.

Ad affermare l’impraticabilità di una sfera pubblica europea vi sono sia i nazionalisti, che intendono il demos come entità fondata su un’a priori storico-culturale, sia coloro che come Dieter Grimm e Philip Schlesinger ne sottolineano unicamente degli ostacoli pragmatici come la mancanza di una lingua comune e di mezzi di comunicazione condivisi[2]. In entrambi i casi, risulta impossibile fondare una comunità della comunicazione europea. Il presupposto che unisce queste due visioni e che accomuna gran parte della letteratura sulla sfera pubblica europea è che ad ogni Stato membro corrisponda una sfera pubblica nazionale. La sfera pubblica viene intesa come auto evidente, omogenea e stabile. L’idea soggiacente a questa visione è quella di una corrispondenza tra confine, cittadinanza, linguaggio, identità nazionale e interessi condivisi.

Definizione e funzioni della Sfera pubblica.

Prima di poter procedere oltre è necessario chiarire cosa sia una sfera pubblica, evidenziandone gli elementi fondamentali – seppure non ne esista una definizione condivisa universalmente – ed evidenziare il suo stretto legame con la democrazia. In senso più ampio, la sfera pubblica è lo spazio sociale che si viene a creare quando gli individui deliberano e discutono su questioni comuni. L’idea della sfera pubblica si radica nella disposizione discorsiva sviluppata dal filosofo tedesco Jürgen Habermas[3], il quale elabora una teoria deliberativa della democrazia. Alla base di tale teoria, infatti, si pone il superamento del riconoscimento della democrazia con i principi del voto, della maggioranza e di una concezione della politica quale regno della razionalità strumentale e spazio di aggregazione tra interessi irrimediabilmente contrapposti. Sebbene anche all’interno della teoria deliberativa vi siano molteplici varianti, queste sono accomunate dall’idea che la deliberazione pubblica tra i cittadini rappresenti l’unica fonte possibile di legittimità democratica. Una decisione può considerarsi legittima solo nel momento in cui viene assunta a seguito di un processo di deliberazione – ovvero un processo discorsivo fondato sullo scambio di argomentazioni razionali – a cui possono partecipare tutti gli individui coinvolti dagli effetti della decisione stessa. Una norma è ritenuta valida allorquando è stata precedentemente discussa e vagliata, all’interno di un dibattito libero a cui tutti gli interessati hanno pari possibilità di accedervi.

Alla sfera pubblica, inoltre, spettano le funzioni di scoperta dei problemi che affliggono la comunità, ma cosa ancor più importante, questa fornisce la giustificazione politica intrinseca alla democrazia. È alla base del concetto di legittimità e di sovranità quello di includere nel processo deliberativo tutti i potenziali interessati.

Lo sviluppo della sfera pubblica ha profonde implicazioni sulla concezione della teoria deliberativa. Coloro che governano sono obbligati ad entrare nell’arena pubblica per difendere le loro decisioni e cercare consenso. La sfera pubblica è critica del potere. Non vi sono corpi esterni alla deliberazione pubblica che possano giustificare l’autorità della legge. Vi è una transizione dal discorso del potere al potere del discorso. Unicamente il dibattito pubblico in se stesso ha il potere di stabilire le norme. Per questo motivo, la democrazia è divenuta oggigiorno l’unico principio di legittimazione dei governi, fondata su un’inclusiva sfera pubblica che consente a ciascuno degli interessati di prendere parte nella deliberazione sugli affari comuni. É nella sfera pubblica che avviene il contesto della scoperta, della percezione e la tematizzazione dei problemi. Per converso, le discussioni istituzionalizzate, come quelle parlamentari, aiutano a filtrare le priorità tra le rivendicazioni provenienti dai discorsi periferici che scaturiscono spontaneamente all’interno della sfera pubblica informale. É in questa interazione tra discorso istituzionalizzato e discorso non istituzionalizzato che prende forma il processo collettivo di autogoverno, in tale processo ha posto la politica deliberativa. Il principio della sovranità popolare può essere realizzato unicamente assicurando una libera sfera pubblica ed una libera competizione tra partiti, insieme a corpi rappresentativi per la deliberazione e la decisione.

Inoltre, grazie al ruolo dei media e alla critica pubblica, i politici devono definire il loro mandato sulla continua ricerca della sfera pubblica generale. In questo modello, affinché i temi possano arrivare dalla periferia informale al centro istituzionalizzato, è necessario che i mass-media siano permeabili alle istanze che provengono dall’esterno.

Questa visione ha suscitato numerose critiche circa la reale possibilità della sfera pubblica di non venir manipolata e colonizzata dai grandi strumenti di comunicazione di massa, piuttosto che da giochi di potere più o meno nascosti. La concezione habermasiana nega però l’immagine del consumatore massmediatico come unicamente passivo e culturalmente drogato. Nondimeno, anche nel caso in cui si volesse pensare ad una sfera pubblica manipolata e dominata dai mass-media, quest’immagine potrebbe essere riferita unicamente ad una sfera pubblica in condizione di riposo. «Nel momento in cui si mobilitano, le strutture su cui poggia l’autorità d’un pubblico capace di prender posizione cominciano a entrare in vibrazione. Allora si modificano anche i rapporti di forza esistenti tra società civile e sistema politico»[4].

La concezione deliberativa si differenzia tanto dalla teoria liberale, quanto dal concetto repubblicano di autonomia. Nella concezione liberale, il processo democratico si compie esclusivamente nella forma di compromessi d’interesse; in quella repubblicana la formazione democratica della volontà si compie unicamente nella forma dell’autogoverno.

«Se pensata discorsivamente, la democrazia non parte né dal principio di autonomia, né da quello di pari rispetto degli interessi, ma da qualcosa che li precede e li include entrambi, cioè dall’idea che non vi siano alternative razionali alla ricerca cooperativa e paritaria delle istituzioni e delle soluzioni che meglio consentano l’equa soddisfazione degli interessi e delle istanze di tutte le persone».[5]

 

La necessità di una sfera pubblica europea e la sua costitutiva impossibilità: I problemi del “nazionalismo metodologico” e del deficit democratico.

 

Se, come si è visto, le decisioni democraticamente legittime sono quelle che coinvolgono tutti coloro che ne sono influenzati, nel contesto attuale, lo Stato-nazione – a causa della crescente interdipendenza globale – non sembra più in grado di connettere coloro che decidono e coloro su cui ricadono gli effetti delle disposizioni. Emerge così il problema del deficit democratico, dal momento che in un mondo sempre più interconnesso – sul piano ecologico, economico e culturale – gli Stati combaciano sempre meno, nel loro raggio sociale e territoriale, con le persone e le sfere che sono potenzialmente coinvolte dagli effetti di queste decisioni. Basta pensare a come la decisione francese di ricorrere a 58 reattori nucleari per soddisfare il proprio fabbisogno energetico possa, in caso di disgrazia, ricadere anche su altri Stati che hanno deciso di rinunciare all’energia atomica.

La globalizzazione ha svolto un ruolo determinante, compromettendo lo stato amministrativo attraverso cui le società democratiche sono in grado di autogovernarsi, in quanto si sviluppano problematiche (ad esempio le tematiche ecologiche, il buco dell’ozono, la gestione del nucleare etc.) non più controllabili all’interno del singolo quadro nazionale. Lo stesso vale per le capacità di redistribuzione dei redditi all’interno del confine statale: l’accelerata mobilità dei capitali impedisce l’intercettazione dei guadagni così come la minaccia di trasferire all’estero l’impresa o il denaro mette in scacco il potere contrattuale dello Stato nei confronti del mercato. Senza la capacità dello Stato di garantire determinate politiche di welfare, un cittadino può perdere la capacità di esercitare i suoi diritti, rimanendo in tal modo escluso dalla possibilità di prender parte al dibattito pubblico. Pertanto, nel momento in cui i presupposti sociali in grado di garantire una partecipazione politica vengono compromessi, anche le decisioni prese in maniera pur formalmente corretta perdono la loro legittimità democratica e la loro credibilità. Alla luce di tali evidenze, la tematica europea e quella della transnazionalizzazione della democrazia diventano sempre più urgenti, a maggior ragione nel momento in cui alla fine del XX secolo è cresciuta in maniera esponenziale la complessità della società mondiale.

L’UE nasce propriamente con l’obiettivo di far fronte ai nuovi problemi che sorgono sull’asse globale-locale, imponendo un ripensamento della spazializzazione della politica. Ma come può un’istituzione transnazionale colmare la problematica del deficit democratico nel momento in cui è sprovvista di un demos, di una cultura condivisa, di mezzi di comunicazione comuni e di una sfera pubblica da cui trarre legittimità? Senza queste componenti risulta infatti impensabile dar vita ad una politica democratica e la strada verso il federalismo sembra preclusa in partenza.

Posizioni minoritarie, ma illustri, sostengono che la questione della legittimità democratica costituisca un falso problema. Giandomenico Majone[6], concependo l’UE nei termini di uno Stato regolatore afferma che l’unico problema delle istituzioni europee sia una crisi di credibilità. L’UE è chiamata a svolgere solamente una funzione di problem-solving, per questa ragione non ha bisogno di essere legittimata in forma diretta da una sfera pubblica, poiché il suo obiettivo è quello di perseguire un criterio di efficienza. In questo caso, la legittimità viene sottratta al versante della deliberazione pubblica (input) e collocata sui risultati (output). L’approccio intergovernamentalista, sostenuto da Alan Milward e Andrew Moravcsik[7], supera l’empasse ritenendo i processi decisionali dell’UE legittimati indirettamente attraverso gli Stati membri. Gli intergovernamentalisti concepiscono il processo integrativo come il risultato di un compromesso strategico tra gli Stati, orientati al perseguimento dei propri interessi nazionali. A ciò corrisponde un sottodimensionamento del grado di autonomia delle istituzione comunitarie, dal momento che queste vengono ritenute, in ultima istanza, controllate dai governi nazionali. Entrambe le soluzioni non sembrano però in grado di risolvere definitivamente il problema. L’interpretazione dell’UE nella funzione di entità di problem-solving fondata sul criterio dell’output incorre in due errori. In primo luogo, risulta impossibile stabilire dei risultati che possano essere ritenuti soddisfacenti indipendentemente dalla deliberazione di coloro che vengono influenzati dalle decisioni prese a livello sovranazionale. È solo all’interno dello scambio discorsivo che si possono stabilire criteri di accettabilità delle argomentazioni e trovare criteri di efficacia, dal momento che non vi sono norme sostantive che stabiliscano a priori quali posizioni possano essere accettate o escluse dal processo argomentativo. In altre parole, è solo all’interno dello scambio comunicativo che si possono rintracciare gli scopi della deliberazione e gli obiettivi sul quale vengono valutate le politiche dello Stato. In secondo luogo, l’efficienza dei risultati risulta una fonte di legittimità troppo debole per garantire stabilità ad un ordinamento politico, dal momento che qualora non si raggiungessero degli esiti soddisfacenti quest’ultimo verrebbe meno. Allo stesso modo, la teoria intergovernamentalista non sembra in grado di descrivere l’attuale configurazione del sistema politico europeo. L’espansione dei poteri delle istituzioni comunitarie e lo sviluppo di un diritto autonomo e sovraordinato a quello degli Stati membri, rendono quest’approccio insufficiente ai fini di una spiegazione comprensiva del sistema politico europeo che viene ridotto alla semplice interazione strategica. Infine, l’intergovernamentalismo non riesce a dar conto del forte sentimento di frustrazione e malcontento che si può facilmente riscontrare circa l’attuale stato del processo integrativo. Se l’Europa è ancora un continente di Stati nazione e l’UE unicamente un’organizzazione intergovernativa, allora il perseguimento dei singoli interessi nazionali, con l’utilizzo di qualsiasi strumento, essendo rimesso a ciascun singolo organismo statale e non invece compito precipuo dell’Unione, non dovrebbe essere fonte di critica per l’Unione stessa. Sia lo Stato regolatore, sia l’intergovernamentalismo si rivelano pertanto inadeguati nel fornire tanto una giustificazione esplicativa quanto una giustificazione normativa dell’UE.

Il dilemma rimane ancora aperto e apparentemente insolubile. Il rischio è quello di rimanere invischiati in una situazione di stallo: se da un lato sembra evidente la necessità di stabilire un ordinamento politico democratico transnazionale, dall’altro non si riesce a trovarne una fonte di legittimazione. Così, sono molteplici gli autori che sanciscono l’impossibilità della democrazia al di fuori dello Stato nazione, ritenendo che la sola e parziale soluzione possibile del deficit democratico sia la riduzione dei poteri politici dell’UE. Il rafforzamento della dimensione europea non farebbe altro che aggravare ulteriormente la situazione[8] poiché – vista la ormai acclarata assenza di un demos, di una cultura, di un linguaggio e di mezzi mass-mediatici condivisi, di partiti politici e di una sfera pubblica europea – le riforme istituzionali non riuscirebbero a fornire una legittimazione diretta delle istituzioni europee. Dello stesso avviso sono Andreas Follesdal e Simon Hix[9], per i quali il deficit democratico viene ampliato dal fatto che il processo integrativo favorisce un progressivo aumento del potere degli esecutivi rispetto ai parlamenti, anche a livello nazionale. Per tutte queste ragioni, i sostenitori dello Stato-nazione ritengono che l’integrazione conduca ad un gioco a somma negativa, dal momento che il deficit delle istituzioni europee viene trasmesso agli Stati nazionali acuendone le problematiche invece di risolverle. Ci troviamo così, come afferma Vivien Schmidt[10], con “politiche” europee prive di “politica”, laddove i Paesi membri vivono di “politica” senza “politiche”. Le “politiche” vengono intese, in questo caso, come la capacità di prendere decisioni che possano essere efficienti e per “politica” la possibilità di dar vita a decisioni legittime fondate sul discorso pubblico.

Sia la visione della disintegrazione, tanto l’integovernamentalismo, quanto la teoria dello stato regolatore e la visione federale non riescono a fuoriuscire del paradigma dello Stato-nazione quale unica forma politica possibile avente come fonte di legittimazione una sfera pubblica monolitica. Secondo Ulrich Beck, queste teorie sono deviate da un vizio di forma che affligge gli attori sociali e gli scienziati politici: il “nazionalismo metodologico”. La denuncia di Beck è condivisa anche da Habermas il quale afferma che dimenticandosi di essere in se stessa un prodotto artificiale, la coscienza nazionale si rappresenta nei termini di un prodotto naturale dato a priori rispetto all’ordinamento ricavato del diritto positivo e alla costruzione dello Stato. Appellarsi alla nazione “organica” significa così cancellare la contingenza e l’arbitrarietà storica dei confini politici, trasfigurandoli con un’aura di “sostanzialità contraffatta”.

Un necessario ripensamento della sfera pubblica europea:

Coloro che incorrono nell’errore del “nazionalismo metodologico” ritengono, dunque, impossibile realizzare una sfera pubblica pan-europea. L’inattuabilità di quest’ultima deriva dal fatto che viene pensata in base alle medesime caratteristiche delle sfere pubbliche presenti a livello nazionale. Questa è chiamata a soddisfare gli stessi requisiti: omogeneità etnica, culturale e linguistica. L’equivoco fondamentale in cui ci si imbatte, attraverso quest’interpretazione, è quello di identificare la lingua con la precondizione della deliberazione e della democrazia: la comunicazione. In questo modo non si fa altro che confondere il mezzo con il fine. Grimm ritiene – come altri d’altronde – che a causa della pluralità linguistica (24 riconosciute ufficialmente) i cittadini dell’UE non siano in grado di comunicare tra loro. Inoltre, non vi potrebbe essere alcun dibattito europeo senza mezzi di comunicazione condivisi quali giornali e televisioni. Grimm sostiene che:

« […] le perplessità sorgono dalla considerazione che una società in grado di intendersi discorsivamente sulle proprie questioni esiste in effetti a livello nazionale, non però in ambito europeo. Le strutture intermedie composte da partiti, associazioni, movimenti civici, media della comunicazione, senza le quali è impensabile un processo democratico vitale, mancano infatti in Europa, così che risulta assente anche quella sfera pubblica europea la quale rappresenta la condizione imprescindibile di tutti gli Stati democratici»[11].

Viene ravvisata così nel progetto europeo una politica guidata da élites, in cui risulta assente il popolo. In tal maniera, le differenze linguistiche rappresentano un limite invalicabile alla creazione di una sfera pubblica democratica in grado di oltrepassare i confini delle frontiere nazionali. La trasformazione dell’Unione Europea verso il paradigma di uno Stato federale porterebbe alla creazione di un’istituzione ancor più lontana dalla sua base sociale. «La legittimazione che ne deriverebbe sarebbe quindi solamente fittizia. Per uno Stato costituzionale europeo i tempi non sono ancora maturi»[12].

A ben vedere però, ciò che conta per la formazione di una sfera pubblica è la comunicazione e non la lingua. Come sottolineato da Kalus Eder e Cathleen Kantner[13], affinché si possa parlare di scambio comunicativo è sufficiente che vengano (1) dibattute le stesse tematiche allo stesso tempo e con la stessa attenzione, (2) utilizzati gli stessi criteri di rilevanza e di riferimento per dibattere. Se questi sono gli elementi costitutivi della comunicazione è dunque possibile pensare ad una sfera pubblica europea, non più in termini monolitici, ma come europeizzazione delle molteplici sfere pubbliche nazionali. Non è indispensabile che si condivida la lingua o i mezzi di comunicazione, ma è sufficiente che i singoli media nazionali parlino delle questioni europee contemporaneamente attraverso una prospettiva comune e condivisa. La soluzione non sta nella costruzione di una sfera pubblica sovranazionale, ma nella europeizzazione delle sfere pubbliche nazionali esistenti. «Queste, senza dover modificare profondamente le infrastrutture in vigore, possono aprirsi l’una all’altra. I confini delle sfere pubbliche nazionali diverrebbero in tal modo i portali di vicendevoli traduzioni».[14]

Ma questi criteri sono sufficienti affinché si possa parlare di sfere pubbliche europeizzate? Le funzioni svolte dalla sfera pubblica non si limitano ad una reciproca osservazione, così dunque non può bastare che i media nazionali discutano delle stesse questioni monitorandosi vicendevolmente. Ciò che caratterizza la sfera pubblica è il dibattito e la comunicazione che è alla base della formazione delle opinioni e della volontà di un ordinamento politico democratico. Ritorna così la problematica del soggetto chiamato a deliberare: il demos. La possibilità che si vengano a formare sfere pubbliche europeizzate è strettamente correlata alla questione dell’identità europea.

Larga parte della letteratura sulle sfere pubbliche ritiene che l’identità sia una precondizione ineliminabile, per queste ragioni si sostiene che non sia possibile una sfera pubblica europea. Il “nazionalismo metodologico” parte da premesse giuste, ma arriva a conclusioni sbagliate. È vero che la questione dell’identità è strettamente correlata a quella della sfera pubblica, ma identificando la comunicazione con la lingua si ipostatizza l’elemento identitario.

In realtà la relazione che intercorre tra identità e comunicazione è meno problematica dalla prospettiva della teoria deliberativa. Habermas non tratta infatti le sfere pubbliche o le identità collettive come qualcosa di dato. Le sfere pubbliche emergono nel processo stesso in cui le persone dibattono. Nel momento in cui si crea un dibattito su questioni comuni si reifica e reinterpreta la stessa comunità politica. Questo punto segue dall’affermazione di Craig Calhoun[15], secondo il quale le identità sono ridefinite nella sfera pubblica, il che le rende aperte al cambiamento. Sulla base di un concetto d’identità non esistenzialistico, Thomas Risse ritiene che si possa osservare anche l’emergere di identità europeizzate nella pluralità delle opinioni pubbliche europee[16]. La frequente interazione tra le persone e la condivisione di problematiche, come quella della crisi economica, connesse a simili esperienze di vita, sono in grado di incrementare il senso di comunità. È a partire dalla concezione della cittadinanza e della democrazia mediata discorsivamente, che la teoria deliberativa della democrazia include l’altro nella discussione pubblica, dal momento che la crescita esponenziale delle problematiche che influenzano la vita delle persone e che sfuggono al raggio d’azione degli Stati nazionali, compromettono la stessa possibilità delle persone di auto-organizzarsi sia come individui che come società. Laddove una concezione statica e culturalista dell’identità ritiene impossibile fondare una democrazia sulla partecipazione diretta dei cittadini europei a un dibattito transnazionale, adottando una prospettiva post-nazionale, che supera l’identificazione della comunità politica con la comunità di “destino”, lo sviluppo di uno spazio discorsivo europeo può fornire la base per una cittadinanza costituita da una pluralità dei demoi. La nascita di un’identità europea può perfettamente coesistere con quella nazionale. Detto in altri termini, non esistono identità monolitiche, ci si può sentire tanto europei quanto membri del proprio Stato. La globalizzazione ha infatti inciso anche sul sostrato culturale di solidarietà civica che costituiva le fondamenta dello Stato nazionale. L’integrazione politica di una società molto estesa, dal punto di vista di attuazione del processo di autodeterminazione democratica, è senz’altro il merito migliore della forma Stato-nazione. Tuttavia, sintomi di frammentazione politica sono oggi evidenti e mettono a nudo le difficoltà di una simile concezione della cittadinanza e della solidarietà. Per un verso, in virtù degli innumerevoli flussi migratori, lo scontro di diverse forme culturali e dei diversi mondi di vita porta a un indurirsi dell’identità nazionale, ma per altro, l’assimilarsi di una cultura globale smussa gli angoli delle sfaccettature che rendono uniche le singole culture autoctone e indigene, ammorbidendo il tutto. La solidarietà è sempre “solidarietà tra estranei” e questo vale sia nel contesto nazionale che in quello europeo.

Le sfere pubbliche, dunque, non sono date una volta per tutte, non preesistono alla comunicazione, ma soltanto all’interno di essa. Una comunità della comunicazione può essere costruita, decostruita e ricostruita tramite l’interazione intersoggettiva. Ciò che risulta indispensabile alla comunicazione è la condivisione del “mondo della vita”: ovvero di quel corpo comune di significati e di esperienze necessarie per comprendersi a vicenda. Siffatte ragioni spingono Risse ad aggiungere un terzo criterio – ai due proposti da Eder e Kantner – per poter parlare di sfera pubblica europea: (3) è lecito parlare di una comunità della comunicazione transnazionale solo nel momento in cui i parlanti (i demoi nazionali e i cittadini europei) si riconoscono come legittimi partecipanti al dibattito, inquadrando determinate questioni dalla medesima prospettiva[17]. Sia chiaro, adottare una prospettiva europea non significa adottare una medesima identità – intesa in senso forte – ma avere lo stesso quadro di riferimento per valutare la situazione ed essere consapevoli delle altrui posizioni.

Una comunità della comunicazione europea? La necessità di politicizzare l’UE

Se finora si è tentato di ricostruire il dibattito sulla possibilità della formazione di sfere pubbliche europeizzate, tuttavia non si è detto ancora nulla circa la reale esistenza di un’opinione pubblica europea.

L’attuale modello della governance europea ritiene che l’UE non possa che legittimarsi in base ai risultati raggiunti. Attraverso una concezione “paternalistica” dell’ordinamento sovranazionale le élite europee considerano – ricalcando così l’errore del nazionalismo metodologico – che vista l’impossibilità di una sfera pubblica non sia possibile politicizzare le questioni europee. Autori, come Stefano Bartolini[18], ritengono che la partecipazione diretta dei molteplici demoi nazionali alle politiche europee comprometterebbe la possibilità da parte dei governi dei Paesi membri di raggiungere un accordo sugli interessi comuni, trovando così risultati soddisfacenti.

La bassissima affluenza registrata nelle elezioni europee – passata dal 62% del 1979 al 43,09% del 2014 – viene interpretata dai sostenitori dello Stato regolatore come la dimostrazione del fatto che gli elettori non siano interessati all’UE dal momento che non si sentono europei. Sebbene sia indubbio che le elezioni europee vengano percepite come elezioni nazionali di secondo grado, anche i politici spiegano il loro focus “domestico” nelle campagne elettorali europee con il disinteresse dei cittadini. Di conseguenza, politicizzare l’UE in questo momento comporterebbe l’immediato fallimento del processo integrativo nell’istante in cui le singole comunità nazionali dimostrano di non riconoscersi a vicenda quali appartenenti alla stessa comunità politica.

Questa lettura contrasta con la circostanza che molti studi attestano come la maggior parte dei votanti voglia sapere di più sull’UE. L’assunto di fondo è che la crescita del sentimento anti-europeo sia legato alla mancanza del suo opposto. In quest’ottica, aprire alla politicizzazione vorrebbe dire incorrere nel rischio di una ri-nazionalizzazione, come dimostrerebbe emblematicamente anche il caso della Brexit.

Ad essere completamente rimossa è la possibilità che vi sia una crescente europeizzazione delle identità nazionali e che i cittadini possano giudicare le politiche dell’UE sul merito. Al contrario, la costante denuncia dell’esistenza di un deficit democratico a livello europeo, secondo Hans-Jörg Trenz e Eder[19], starebbe a testimoniare la nascita di una emergente comunità della comunicazione. Il deficit democratico non consiste nell’appropriazione da parte dell’UE delle competenze degli Stati membri, quanto nel non fornirne un degno sostituto a livello europeo. L’esito di questo processo è l’espropriazione della capacità di influenzare le “politiche” da parte della sfera pubblica informale. Il riferimento è rivolto alle scarsissime competenze legislative attribuite al Parlamento europeo dalla procedura di codecisione. Come se non bastasse, la crisi dell’euro ha contribuito ad aumentare la discrasia esistente tra le sfere pubbliche informali europeizzate, volte a politicizzare il discorso europeo e il centro amministrativo-istituzionale. Appare infatti emblematico il distacco tra i discorsi provenienti dalla Commissione europea, che hanno lo scopo di consentire la formazione di politiche sovranazionali senza “politica” e la contestazione emergente nella sfera pubblica. Il deficit democratico che ne risulta non è dovuto all’assenza del demos europeo, ma all’incongruenza esistente tra il luogo dove le decisioni vengono prese e quello dove queste agiscono. Tale contrasto ha fatto sì che le sfere pubbliche si risvegliassero assediando il centro istituzionalizzato, imponendo il loro dissenso vincolante al consenso permissivo che ha sinora guidato il processo d’integrazione europeo. Emerge così l’impreparazione dell’assetto istituzionale europeo ad affrontare la politicizzazione degli affari dell’UE. Le élite temevano che la politicizzazione dell’UE potesse condurre ad uno stallo politico, invero paradossalmente sta accadendo l’opposto: è la mancata politicizzazione del processo d’integrazione europeo a condurre verso il blocco dello stesso. La lezione che l’élite europea ha imparato dal proprio fallimento è stata quella di silenziare il dibattito pubblico, ma questi sforzi volti alla depoliticizzazione sono stati pagati a caro prezzo. Le questioni dell’UE sono rimaste visibili data la loro importanza. Temi come il cambiamento climatico, la politica monetaria, l’immigrazione, le politiche sociali, la sicurezza, gli interventi militari e l’ingresso della Turchia sono argomenti politici scottanti nella maggior parte degli Stati membri.

L’equivoco di base sta nel credere che sfere pubbliche europeizzate coincidano con il supporto verso l’Unione. La tesi che si vorrebbe provare a sostenere può apparire a prima vista inverosimile. Vale a dire, sottolineare il paradosso che individuerebbe nella crescita esponenziale dei movimenti euroscettici la nascita di un dibattito pubblico sulle questioni europee. Per questo, benché pericolosa, la politicizzazione è necessaria alla creazione dell’identità politica. Infatti, le persone sebbene non apprezzino le politiche europee, si identificano sempre più con l’UE. La fiducia nelle istituzioni europee non è mai stata così bassa, ma i livelli di riconoscimento sono cresciuti. Dibattere le questioni europee in quanto europei serve a costituire una comunità della comunicazione. Questo non significa consenso. D’altronde se per euroscetticismo si intende l’insieme di critiche volte all’UE allora euroscetticismo e politicizzazione sono la medesima cosa poiché ogni divergenza invoca un certo grado di disaccordo sulle politiche dell’UE. Il progressivo dissenso verso l’UE non fa che attestare la percezione che i cittadini hanno circa la rilevanza dell’ordinamento politico.

Dal punto di vista della teoria deliberativa e normativa della democrazia la politicizzazione è fondamentale. Controversie e discussioni sono ingredienti necessari per una sfera pubblica vivace e per un centro istituzionalizzato capace di trasformare gli impulsi provenienti dai processi comunicativi, posti alla periferia, in decisioni vincolanti. In questo modo, i dibattiti relativi alle questioni del processo integrativo e dell’identità europea, costituiscono il cardine di un’istanza di democratizzazione da parte della sfera pubblica. Il pubblico silente, attraverso il dibattito, si trasforma in pubblico capace di esprimere consenso o dissenso nei confronti delle politiche europee.

Comprensibilmente non è sufficiente che ci sia agonismo tra le parti, ma è necessario dar vita a politiche deliberative fondate sulla discussione e sul confronto. Il disaccordo è un presupposto necessario, ma non sufficiente alla nascita di un confronto discorsivo. Se il disaccordo non si articola in modo discorsivo rimane “contrapposizione” irriducibile e irrimediabile. Occorre, come si è detto, il riconoscimento dell’altro come appartenente alla medesima comunità politica. Ma esiste una simile agnizione tra le pluralità delle sfere pubbliche?

In questa prospettiva si può osservare la nascita di posizioni chiaramente europeizzate tra le diverse comunità della comunicazione. Il referendum greco, così come quello britannico hanno testimoniato come vi fosse una netta politicizzazione europea all’interno di ciascun Paese membro. Benché i quesiti fossero nazionali, le tematiche referendarie sono state dibattute all’interno delle molteplici sfere pubbliche informali come qualcosa che le coinvolgesse direttamente. In casi come questi, secondo Ruud Koopmans e Jessica Erbe[20], si può parlare di europeizzazione orizzontale. Laddove quest’ultima indica l’apertura di un pubblico nazionale verso gli altri, l’europeizzazione verticale sottolinea il rapporto che intercorre tra le sfere pubbliche europeizzate e l’UE. Un esempio può essere la tematica dell’austerity che viene posta in termini e prospettive comuni, proponendo una contrapposizione tra Stati debitori e Stati creditori che si riconoscono vicendevolmente come membri della medesima comunità politica. Allo stesso modo, si può individuare un nazionalismo cristiano e europeo contrario all’ingresso della Turchia. I movimenti “No-Euro” che sono sorti nell’eurozona avanzano delle istanze condivise e si riconoscono vicendevolmente come membri della stessa comunità e in quanto tali legittimati a prender parte al dibattito pubblico. Ciò viene attestato dal fatto che le posizioni espresse dalle singole sfere pubbliche, nei confronti di quelle degli altri Stati membri, non vengono più considerate ingerenze esterne. Appare dunque evidente la politicizzazione di queste linee di conflitto secondo prospettive europee. L’affiorare dell’opposizione alle “politiche” dell’UE implica necessariamente l’affermarsi di un soggetto in grado di muovere delle critiche: le sfere pubbliche europeizzate. Le rivendicazioni avanzate dall’euroscetticismo chiamano il centro istituzionale a giustificare le proprie decisioni nell’arena pubblica.

La discussione su quale Europa si vuole non può essere sottratta a coloro che ne fanno parte e ne subiscono passivamente le decisioni. Occorre prendere atto dalla politicizzazione – con la consapevolezza che è qui per rimanere – evitando che la prima decisione realmente deliberata dalle sfere pubbliche europeizzate possa essere quella di rinunciare all’Unione. I centri istituzionali hanno il compito di aprirsi alle istanze provenienti dalle sfere pubbliche europeizzate, dopodiché se ai cittadini informati non piace quello che vedono nell’UE, questo dovrebbe essere accettato come un normale e legittimo risultato espresso da un ordinamento democratico. Le élite sono chiamate a sostenere la loro visione dell’Europa all’interno del dibattito pubblico senza difendere l’UE al di là della forma politica assunta. Con il manifestarsi di sfere pubbliche europeizzate, l’era del consenso permissivo è probabilmente giunta al suo termine.

[1] Per approfondire la tematica della disintegrazione Cfr. W. Streeck , Tempo guadagnato. La crisi rinviata del capitalismo democratico, Milano, Feltrinelli Editore, 2013. e J. Zielonka , Disintegrazione. Come salvare l’Europa dall’Unione Europea, Bari, Editori Laterza, 2015.

[2] Cfr P. Schlesinger, Europeanisation and the Media: National Identity and the Public Sphere, in Arena 7 working paper, 1995. e D. Grimm, ‘Does Europe Need a Constitution?’, European Law Journal 1(3): pp. 282–302, 1995.

[3] Cfr. J. Habermas, Fatti e norme. Contributi a una teoria discorsiva del diritto e della democrazia, Bari, Editori Laterza, 2013.

[4] J. Habermas, Fatti e norme. Contributi a una teoria discorsiva del diritto e della democrazia, Bari, Editori Laterza, 2013, p. 425.

[5] S. Petrucciani, Democrazia, Torino, Einaudi editore, 2014, pp. 126-127

[6] Cfr. G. Majone , ‘The Credibility Crisis of Community Regulation’. Journal of Common Market Studies, Vol. 38, No. 2, 2000, pp. 273–302. eThe European Commission: The Limits of Centralization and the Perils of Parliamentarization’. Governance, Vol. 15, No. 3, 2002, pp. 375–92.

[7] Cfr. A. Moravcsik, ‘In Defense of the “Democratic Deficit”: Reassessing the Legitimacy of the European Union’. Journal of Common Market Studies, Vol. 40, No. 4, 2002, pp. 603–34. e A. Milward, ‘The European Rescue of the Nation State, Routledge, 2005.

[8] Cfr. R. Bellamy , D. Castiglione , Legitimizing the Euro-“Polity” and its “Regime”: the Normative Turn in EU Studies, « European Journal of Political Theory», 2, 2003: pp. 7-34.

[9] Cfr. A. Follesdal, S. Hix, Why There is a Democratic Deficit in the EU: A Response to Majone and Moravcsik, Eurogov Paper, N. 05, 2005.

[10] V. A. Schmidt. Democracy in Europe: The EU and National Polities, Oxford University Press, 2006.

[11] D. Grimm, Il significato della stesura di un catalogo europeo dei diritti fondamentali nell’ottica della critica dell’ipotesi di una Costituzione europea in, Diritti e Costituzione nell’Unione Europea , a cura di G. Zagrebelsky, Roma-Bari, Editori Laterza, 2005, p. 20.

[12] Ivi, p. 21.

[13] Cfr. K. Eder , C. Kantner, Transnationale Resonanzstrukturen in Europa. In Die Europaisierung nationaler Gesellschaften, edited by Maurizio Bach, Wiesbaden: Westdeutscher Verlag, 2000.

[14] J. Habermas , La democrazia ha anche una dimensione epistemica? Ricerca empirica e teoria normativa, in Il ruolo dell’intellettuale e la causa dell’Europa, Roma-Bari, Editori Laterza, 2011, p. 106. Per approfondire la tematica relativa all’apertura delle sfere pubbliche nazionali cfr. J. Habermas , Perché l’Europa ha bisogno di una costituzione?, in Tempi di passaggi, Milano, Feltrinelli Editore, 2004, pp. 57-80.

[15] Cfr. C. Calhoun, Habermas and the Public Sphere, Cambridge, Mass.: MIT, 1992.

[16] Cfr. T. Risse., European Public Spheres. Politics Is Back, Cambridge University Press, 2014.

[17] T. Risse., A Community of Europeans? Transnational Identities and Public Spheres, Ithaca, NY: Cornell University Press., 2010, p. 156.

[18] Cfr. S. Bartolini, S. Hix, Should the Union be ‘politicised’ ? Prospects and Risks in Politics: The Right or the Wrong Sort of Medicine for the EU?, Notre Europe Policy Paper; 2006/19.

[19] Cfr. K. Eder , H. Trenz, The Democratizing Dynamics of a European Public Sphere: Towards a Theory of Democratic Functionalism, in European Journal of Social Theory 7, no. 1, 2004, pp. 5-25.

[20] Cfr. R. Koopmans , J. Erbe, The Transformation of Political Mobilization and Communication in European Public Sphere. Integrated Report: Cross-National, Cross-Issue, Cross-Time. Berlin: Europub.com, 2004.