Tag Archivio per: elezioni

Il trionfo di Castillo in Perù mette in evidenza l’importanza sociale e politica delle zone rurali nei paesi andini

di Francisco Hidalgo Flor (traduzione di A. Infranca)

 

Con i risultati delle elezioni del ballottaggio in Perù, del 9 giugno, e il trionfo del professore rurale e rondero[1] Pedro Castillo, designato Presidente della Repubblica, raggiungendo il 50,2% dei voti, si chiude un ciclo di processi elettorali in vari paesi della regione andina: Perù, Ecuador e Bolivia, che mettono in rilievo l’importanza che mantiene il pronunciamento sociale e politico delle popolazioni rurale, buona parte di esse indigene e contadine, capaci di provocare mobilitazioni e volontà politiche che alterano e rompono uno status quo dell’establishment razzista e dipendente.

I processi elettorali sono scenari molto avversi e complessi per le organizzazioni sociali e politiche popolari, così come per le leadership che provengono dagli strati e dai movimenti rurali, contadini e indigeni, poiché devono affrontare macchine di campagna elettorale, di potere, di mezzi di propaganda molto oliate, care e alienanti.

È un remare controcorrente.

Per questo si soppesa ancora di più questo pronunciamento massiccio, a partire dalle basi sociali nelle zone rurali, dove colpiscono fortemente le condizioni di povertà e di esclusione, marcate dalla visione delle élite, come fossero spazi arretrati e pregiudizialmente meno trascendenti che le grandi città e le loro élite cosmopolite. Così è il Perù con un centralismo molto accentuato a Lima.

Affinché una proposta politica che emerga dalle zone rurali, con vincoli nei settori indigeni, nei e nelle contadini/e, artigiani/e e professori/esse di scuola, che nasca dalle organizzazioni radicate in queste basi, con leader che provengano da questi stessi strati sociali, che essi stessi siano parte di questo tessuto sociale e con un progetto di cambio sociale contro l’establishment, e che riesca ad ottenere una tale forza che si riproduca a livello nazionale e diventi una tendenza in tutto il paese, rompendo tendenze abituali, e sia un’opzione di trionfo, si richiedono enormi volontà sociali, molta coesione, un contundente coraggio contro il sistema imperante.

È un avvenimento trascendente.

Parlando dall’Ecuador, riconosciamo e diamo valore a questo trionfo del candidato Pedro Castillo del fronte Perù Libre e del complesso della sinistra. Rispettando le distanze e le proporzioni vale rilevare nel bilancio i risultati positivi nella regione che, in Ecuador, ha raggiunto la candidatura di Yaku Pérez con un 19,7% e il movimento Pachakutik, risultato la seconda forza politica dell’Ecuador e il secondo gruppo parlamentare.

Ci sono similitudini e differenze, ma è necessario riconoscere questa matrice comune dell’emergenza e della presenza politica energica, decisiva, degli e delle indios, runas, chagras e cholos; dei e delle contadini/e e lavoratori/trici della campagna; degli e delle artigiani/e e professori/resse rurali, dei e delle esclusi/e ed emarginati/e.

In entrambi i casi sono leadership affermate nelle lotte sociali, nel caso di Yaku Pérez è nell’organizzazione indigena, nella lotta per la difesa dell’acqua e delle risorse naturali contro la pratica estrattiva, nel caso di Pedro Castillo è nell’organizzazione dell’insegnamento, nella lotta dei e delle educatori/trici di scuola e di liceo contro le riforme neoliberali.

Le lotte sociali continuano a svolgere un ruolo importante nell’esperienza e nella pedagogia politica dei settori popolari, riescono ad affrontare e rompere le strategie neoliberali, aprire il cammino e attirare l’attenzione verso nuovi discorsi, che riescono ad ingrandirsi verso lo spazio nazionale.

È un passare da un livello “Siamo qui!”, a un livello qualitativo differente, “Siamo qui e osiamo disputare il potere politico del paese!”, “Ci uniamo per questo!”. È confrontarsi e, in questa occasione del Perù, vincere nel campo altrui, delle élite razziste e dei grandi proprietari che credevano di essere gli unici predestinati e capaci a governare.

Ma già non lo sono più.

Adesso dal profondo delle società, dalle zone marginali della campagna, c’è una volontà forte e un tessuto sociale e politico che si presenta con una voce forte e una volontà politica, tenacemente segnata dall’impronta etnica.

Una differenza sostanziale è che Yaku Pérez non è potuto passare al ballottaggio per una frode, invece Pedro Castillo è riuscito a passare al ballottaggio e, affrontando un feroce attacco della destra, ha saputo e ha potuto agglutinare un grande blocco sociale e politico che lo porta ad ottenere il 50,2% dei voti e vincere la Presidenza.

È il risultato dell’unità di forze politiche, ma più che questo è il risultato di attirare nuove adesioni nei quartieri popolari, degli emarginati ed esclusi nelle grandi città.

Senza dubbio le crisi economiche e sociali acutizzate nei contesti di pandemia, dove si è evidenziata l’impossibilità dell’apparato statale e dei governi di rispondere alla domanda fondamentale di proteggere la vita della popolazione, hanno giocato un ruolo importante.

Aggiungere gli scandali di una corruzione lacerante di quelle stesse élite governanti, invitano a guardare verso un altro lato, a leadership autentiche provenienti dagli stessi settori popolari, dalle loro organizzazioni e partiti.

E recuperare le culture, i linguaggi e i simboli dei popoli, come quello di convertire in bandiera di identità la vecchia matita di legno e carbone, o la chakana[2] dei popoli indigeni e l’antico ma vigente lemma: “Solo il popolo salva il popolo”.

A nessuno sfuggono le enormi sfide e le condizioni complesse, avverse, con le quali deve confrontarsi il governo di Pedro Castillo, ancor più se sostiene il programma politico che lo ha portato alla presidenza. Sarà molto difficile.

L’evoluzione che avrà il processo politico peruviano, senza dubbio, porterà importanti esperienze e lezioni, ma l’ottenuto è già di per sé un trionfo storico.

E uno degli insegnamenti forti è che nella regione andina le zone rurali, i e le marginali/e e gli esclusi, i popoli indigeni e i contadini hanno una voce e una volontà importante, decisiva.

È una lezione del presente, in pieno XXI secolo.

È grato anche constatare come le ricerche intellettuali per capire questi fenomeni politici aspri portano a recuperare pensieri chiavi nella storia delle nostre nazioni, come risaltare le opere di José María Arguedas[3] e i suoi testi fondamentali: Los ríos profundos e Todas las sangres, che ancora oggi ci indicano strade profonde per il futuro dei nostri popoli andini e amazzonici.

 

 

 

[1] Rondero è il membro delle rondas contadine che hanno come scopo il controllo delle zone rurali per combattere l’abigeato e i furti [NdT].

[2] Pedro Castillo ha usato come simbolo della sua campagna elettorale la matita che gli scolari usano nelle scuole elementari. Chakana è la croce andina, un simbolo che unisce con l’Hanan Pacha, il mondo superiore degli dei [NdT].

[3] José María Arguedas (1911-1969), scrittore e antropologo peruviano.

Americana II. 6 gennaio 2021: insurrezione, colpo di Stato o cosa?

di Giorgio Cesarale

È appena terminato l’Inauguration Day della Presidenza Biden e un empito di emozione ha invaso il petto della stampa borghese, dalle Alpi alle Piramidi dal Manzanarre all’Hudson. Quel che si spera è che sia la volta buona per risistemare il volto, invero sfigurato, della vecchia signora “democrazia americana”. Bei tempi quando uno dei più commoventi combattenti per il “mondo libero”, Angelo Panebianco, poteva scrivere che “dalla fine della Seconda guerra mondiale” l’America “ha contribuito a difendere e a sostenere” la “società liberale occidentale”, di contro a tutti quei cattivoni dei totalitari, che magari oggi sono putiniani e filo-cinesi, ma ieri erano comunisti, e che, in quanto “nemici del libero mercato e della democrazia (occidentale)”, da “sempre, odiano l’America perché, con le idee e con le armi, ha sostenuto, e difeso (contro i vari tipi di totalitarismo che si sono succeduti nel corso del tempo), questi due pilastri della società liberale” (Le ipocrisie di chi odia l’America, “Corriere della sera”, 20 maggio 2017). Per le armi, ci sarà di nuovo tempo, specie se il nuovo presidente Biden non abbandonerà i propositi della vecchia amministrazione Trump, intensificando la guerra, commerciale e non, contro la Repubblica Popolare Cinese; per le idee, invece, spiace constatarne la scarsità o, quando ve ne sono, la confusione. Al loro posto subentra, dicevamo, il pathos, per alimentare il quale ieri si sprecavano i titoli su come l’America avrebbe “voltato pagina” fra un vocalizzo di Lady Gaga e una lacrima di Jill Biden.
Mettiamo da parte, tuttavia, i nobili sentimenti e proviamo ad aggiornare l’analisi di fase che avevamo fornito, anche su queste colonne, intorno alla situazione politica americana uscita dalle elezioni presidenziali del 3 novembre. In quella sede, dopo aver sostenuto che “Trump esce senz’altro sconfitto dalla contesa con Biden, ma ha rafforzato la sua presa sul blocco sociale conservatore, malgrado i mal di pancia delle aree più moderate del GOP, destinati probabilmente ad acuirsi”, concludevamo, con classica, ma non per questo meno incongrua, categoria gramsciana, che “una destra sempre più radicale mantiene le sue posizioni, raggiungendo una sorta di “equilibrio statico”, per citare il Gramsci dei Quaderni, con il centro liberale, ancora in possesso di molte casematte. Di fronte a situazioni analoghe, Gramsci tuttavia avvertiva: questi equilibri non durano a lungo, vengono per lo più risolti dall’intervento di un tertium. E questo tertium, a sinistra, ancora non si vede”. Il prosieguo degli avvenimenti ha pienamente confermato, mentre altrove si stappavano bottiglie di champagne, la nostra prognosi. Che ora va persino peggiorata: la nostra tesi, infatti, è che il tragicomico carnevale del 6 gennaio scorso a Capitol Hill abbia rafforzato di molto le prospettive politiche della destra radicale, a trazione trumpiana. Perché?
La risposta sta nella stessa sequenza di avvenimenti che porta dal 3 novembre 2020 al 6 gennaio 2021. Sappiamo come l’ormai ex Presidente Trump ha occupato questo tempo: tentando energicamente di sabotare la proclamazione di Biden come nuovo presidente degli Stati Uniti. Da un lato, facendo pressione su alcuni gangli della macchina dello Stato, come dimostra l’implorante richiesta al Segretario di Stato della Georgia, Brad Raffensperger, di “trovargli” quei voti, 11780 per la precisione, che gli avrebbero consentito di superare Biden in Georgia; dall’altro, decidendo di non smobilitare il suo popolo, ormai dotato di una colorita, anche se embrionale, struttura organizzata. Sì, organizzata: quando si parla di QAnon o dei Proud Boys magari l’affezionato lettore di “Repubblica” pensa a qualche mattacchione che crede di aver avvistato un Ufo, non certo a milizie armate, che creano consenso (sui social, ma anche per le strade) o usano quello esistente, per tenere sotto ricatto i maggiorenti del Partito Repubblicano. È evidente che i materiali ideologici di cui si nutre questa gente è pura ed esecrabile paccottiglia (paranoico-razzista e antiscientifica, in una parola: anti-illuministica), ma Trump, con l’intuito da rabdomante tipico dei demagoghi reazionari, lavora su un terreno già abbondantemente preparato per il suo messaggio. Facciamo un esempio: Trump protesta in modo vibrato contro i risultati delle presidenziali, giudicandoli fraudolenti. Il riconteggio dei voti, in due Stati (Wisconsin e la stessa Georgia), lo ha smentito: ma vi è ancora qualcuno, almeno fra quelli che vogliono fare scienza e non battaglia per il “mondo libero”, che sia disposto a negare che il sistema elettorale americano – pensato per una società agraria, pre-industriale, e dunque premiante spudoratamente i “borghi putridi” di ottocentesca memoria – produca risultati in costante tensione con il solenne principio della democrazia moderna “una testa, un voto”? È ancora una volta evidente che un conto è dichiarare falsamente che vi sono stati brogli; un altro è rilevare la non piena democraticità di una procedura elettorale. Ma la peculiarità della demagogia reazionaria è proprio quella di rompere le connessioni causali empiricamente e logicamente sostenibili: a effetti certi la demagogia reazionaria sovrappone cause fantasticate, che poi assumono un volto concreto sulla base di ciò che la teoria critica novecentesca ha chiamato, su scorta marxiana, reificazione (se c’è la crisi generale di capitale diamone la colpa all’ebreo, ieri, o al latino che preme alle frontiere, oggi).
Bene, il 6 gennaio 2021 queste due azioni, una centrata sullo “Stato” e l’altra sulla “società civile”, si sono accavallate: lo scopo era quello di interrompere la certificazione del risultato elettorale del 3 novembre 2020, giocando tanto sul “Palazzo” – come testimonia il coinvolgimento di alcuni membri repubblicani del Congresso nell’operazione – quanto sulla “piazza”, con le migliaia di estremisti di destra convocati alla manifestazione di protesta, coronata dal comizio “incendiario” dello stesso Trump. Il risultato è noto, con la violenta irruzione dei facinorosi nelle sale del Congresso. Insurrezione? Colpo di Stato? O cosa? Forse né l’uno né propriamente l’altro. Non un colpo di Stato, che presuppone un appoggio da parte dei settori più significativi della borghesia, che qui è vistosamente mancato. La borghesia americana è profondamente divisa al proprio interno, per ragioni che qui non abbiamo lo spazio per spiegare, ma è ancora complessivamente contraria alla diretta torsione autoritaria. Né si può parlare propriamente di insurrezione, che presuppone un certo coordinamento di forze su scala nazionale, che appare piuttosto in formazione, ma non è ancora conseguito. Al tentativo insurrezionale ci siamo però arrivati molto vicino: anzi, donde la nostra particolare preoccupazione, la relativa facilità con cui il coltello è stato affondato nel burro avrà un effetto straordinariamente galvanizzante sulle milizie della destra para-fascista. Badiousianamente, potremmo dire che con il 6 gennaio 2021 quest’ultima ha ottenuto il suo “evento”, un grosso moltiplicatore a lungo termine di energie soggettive.
Il cattivo presagio è corroborato dal modo, incerto, con cui il centro liberale sta affrontando la minaccia, essendo esso divaricato al proprio interno fra chi vuole usare la “mano dura” contro le milizie di estrema destra e chi vuole semplicemente spuntarne le armi. Ma anche la sinistra democratica-socialista è politicamente debole, come avevamo precedentemente diagnosticato: la sua rappresentanza parlamentare si è bensì irrobustita, ma non appare capace né di imporre una propria agenda (come ha dimostrato il sostanziale appeasement con Nancy Pelosi, personalità particolarmente invisa all’elettorato americano, di cui ha garantito la rielezione a Speaker della Camera dei Rappresentanti) né di suscitare un processo di organizzazione delle forze adeguato alla situazione presente. La minaccia para-fascista non si affronta infatti invocando gli impeachment, come fa Ocasio-Cortez, o meglio non solo con essi: servirebbe, a tal proposito, la costruzione di organismi di “doppio potere”, in cui possano anzitutto affluire, su base territoriale e senza discriminazioni di sesso, razza e nazionalità (altro che identity politics), tutte le componenti fondamentali della classe lavoratrice americana. Questi organismi non avrebbero solo una funzione difensiva, di argine all’espansione del trumpismo presso le classi popolari – comunque già contrastata, perché il bastione sociale del trumpismo non è il proletariato, culturalmente meticcio e altamente produttivo, ma la piccola borghesia e il piccolo capitale soffocati dalle recenti trasformazioni del capitalismo americano; essi potrebbero anche favorire il compimento di un processo che, sebbene ostacolato in tutti i modi possibili, da tempo spinge verso la formazione di un “partito di operai”, ma allo stesso tempo aperto “agli uomini illuminati di altre classi” (Engels), che è l’unica garanzia, a nostro avviso, per realizzare le promesse, quelle sì splendidamente democratiche, contenute, per un verso, nella “Rivoluzione anticoloniale” del 1776-1787 e, per altro verso, nella “Second American Revolution” (Charles A. Beard) del 1861-1865, con il suo ricco portato di idee e prassi emancipative.[ref]“Partito di operai” non significa, perciò, ridimensionamento dell’alta composizione sociale e culturale delle classi subalterne americane, attraversate, negli ultimi decenni, da imperiosi conati di lotta antirazzista, femminista, antiautoritaria, antimperialista. Significa, piuttosto, indicazione di una necessaria direzione, senza la quale la rivendicazione antirazzista o femminista non arriva a esprimere la potenza dell’universale reale, ma ripiega sul tessuto eterogeneo della “sfera della circolazione”, della perenne scomposizione e moltiplicazione delle particolarità, come tali destinate a rifluire nel discorso medio del liberalismo di sinistra. La discussione critica sul concetto di “identità”, che anima ampi settori della sinistra americana (si veda da ultimo Mistaken Identity di Asan Haider), coglie pienamente il problema, anche se è ancora incerta nell’individuazione della soluzione politica.[/ref]
La “regressione oligarchica” che deprime la repubblica statunitense può essere spezzata solo se si riapre l’orizzonte politico, introducendovi un terzo partito che sia espressione diretta degli interessi delle masse popolari, giacché, come diceva Gore Vidal, “there is only one party in the United States, the Property Party … and it has two right wings: Republican and Democrat”.[ref]Sarebbe paradossale, ma non è improbabile, che la sinistra lasci a Trump il compito di fare il terzo partito, rompendo il duopolio Repubblicani/Democratici.[/ref]

La politica tra progettualità e mera contingenza

La politica serve ancora all società?
L’idea di “sociale” è strettamente legata ad una dimensione antropologica, risalente nei secoli, che ha dato luogo all’altra idea risalente, che è quella di “politica”. Entrambe queste idee si sono tradotte in concetti individuanti entità umane riconoscibili in quanto omogenee (quali che siano i tratti in cui rilevi l’omogeneità). Tale processo identitario, che riguarda sia il sociale che la dimensione politica, è caratterizzato dalla emergenza del confine come dato materiale, che diviene anche simbolo ideale, di separazione tra un “di qua” e un “di là”, e quindi di inclusione e separazione – esclusione.