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Gianni Vattimo e Stefano Petrucciani dialogo alla fine del secolo

In una intervista per L’Unità a fine anni 90 del secolo scorso, Stefano Petrucciani discute con Gianni Vattimo di pensiero debole e della trasformazioni della  filosofia italiana al tramonto del millennio. Una testimonianza che coglie i due filosofi a riflettere intorno alle grandi tematiche che saranno al centro del dibattito nei nostri tempi. Riproponiamo l’intervista per gentile concessione di Petrucciani che con questo ricordo intende rendere omaggio all’amico, al collega e ai rapporti umani e intellettuali che hanno alimentato la fortuna del nostro movimento. Per questo pubblichiamo la foto di Petrucciani e Vattimo a Roma durante un convegno di Filosofia in Movimento per ricordare uno dei momenti più belli per tutti noi.

Intervista: 

«Io non mi sono mai sentito in senso politico e culturale remissivo o dimissionario», dice Gianni Vattimo, ironicamente risentito per il fatto che al pensiero debole sono state addebitate ogni tipo di colpe. Compresa, a suo tempo, quella di aver fatto perdere alla sinistra le elezioni. debole non vuol dire flebile; anzi, quello di Gianni Vattimo vuole essere un pensiero a ridosso del presente dei suoi mutamenti e delle sue inquietudini. Editorialista della stampa è oltretutto uno dei pochi filosofi italiani i cui libri si trovino anche a Parigi, a Londra e a Berlino. Un acuto commentatore del costume, nonché un intellettuale che non disdegna le battaglie politiche e per i diritti civili. Ecco il suo modo di raccontarsi come filosofo

La fede cattolica e la politica, le idee degli anni 60 e 70, quanto hanno contato nella formazione del filosofo Gianni Vattimo?

Le istanze degli anni 60 mi sono arrivate in un relativo ritardo, nel senso che io sono diventato

«maoista» solo nel Marzo del ’68; dal ’64 avevo già l’incarico di Estetica a Torino, e quindi sono arrivato al ’67, all’inizio del movimento studentesco, stando dalla parte sbagliata della barricata. L’atmosfera che si respirava nel mio istituto, con Pareyson, era quella di chi si sentiva molto poco solidale con il mondo moderno, borghese, ma se ne distaccava per ragioni, diciamo così, «heidggeriane».

E le sue radici cattoliche?

Io ero passato attraverso l’esperienza cattolica di Maritain, poi, di lì, ero approdato ai critici della modernità da Nietzsche ad Adorno, a Heidegger. E’ vero che ho trascorso due anni a Heidelberg, dove allora insegnava Habermas, però io, per ragioni puramente esteriori, non capivo il suo tedesco, quindi, anche se ce l’avevo a due passi non l’ho mai ascoltato. Quando sono tornato a Torino, E ho cominciato a insegnare, il mio primo approccio con il movimento degli studenti fu un po’ alla Pasolini. Mi sembravano troppo ricchi per essere dei rivoluzionari (Io ero meno ricco dei miei compagni di scuola) e tutto ciò mi teneva lontano. La fine del 67 fu per me un periodo di sofferenza, stette ma stetti male anche fisicamente e poi, mentre ero a letto convalescente per un’operazione, ho letto più intensamente Marcuse, Kostas Axelos, E mi sono reso conto che era possibile interpretare le ragioni di Heidegger contro la metafisica in modo simile alle ragioni di Marx e di Adorno contro il capitalismo e l’alienazione. I miei libri su Heidegger e su Nietzsche dei primi anni 70 sono un modo di leggere l’oltrepassamento della metafisica come oltrepassamento dell’alienazione capitalistico-reificante, che non era poi una cosa tanto inverosimile.

 

Poi, però, arriva il grande cambiamento di clima dopo la metà degli anni 70 e la svolta del «pensiero debole».

Il mio libro su Nietzsche, «Il soggetto la maschera», quello che è pubblicato da Bompiani nel ‘74, io lo pensavo come se dovesse diventare la filosofia del “Manifesto”, la sentivo come la filosofia dell’ultrasinistra, che invece se ne infischiava altamente.  A un certo punto però il nichilismo diventa la moda culturale post marxista estremistica dell’epoca. Fino al 78 io mi sforzo di pensare insieme Heidegger, il marxismo, e Nietzsche. In realtà il pensiero debole nasce in realtà come conseguenza del terrorismo.

 

Che c’entra il terrorismo?

 

In quell’epoca uccidono Casalegno, io stesso nel ‘78 divento bersaglio di minacce abbastanza serie delle Brigate Rosse, mentre milito nel Partito Radicale, che a mia insaputa mi candida alle elezioni come rappresentante del Fuori, il movimento di liberazione omosessuale, cosa che mi turba abbastanza, perché pensavo: la mia carriera accademica è finita (anche se io ero uscito a 68, come Eco scherzando mi ricorda sempre, non solo maoista ma anche professore ordinario). Il passaggio del terrorismo fu fondamentale; non nel senso che io mi sia convertito perché mi hanno minacciato per telefono, ma insomma ho cominciato a pensare che non si poteva “prendere il potere” perché se si prendeva il potere si diventava dei rivoluzionari professionisti che erano ancora peggio dei burocrati borghesi. Io avevo degli allievi che erano veramente coinvolti col terrorismo, mi sembravano così impregnati di una retorica pauperistica, per cui, tutta l’idea che non dovevamo accettare il rinvio della soddisfazione ( come insegnavano Nietzsche e Marcuse) veniva smentita. Il leninismo era una forma di ascesi drammatica…il pensiero debole allora intende la liberazione come una mossa del cavallo, come una specie di scarto che ridistingue il destino dell’anima da quello della storia. Davanti alle degenerazioni dell’imperativo della presa del potere, unica risposta è l’idea che non si può pretendere di rovesciare l’ordine storico. Si può tuttalpiù seguirlo in certe sue derive di tipo frammentativo, distorcerlo, tirarlo da una parte.

Ma che resta del discorso filosofico se con il pensiero debole lo priviamo del suo elemento argomentativo e razionale?

Pensiero debole non significa solo fine della razionalità totale, bensì anche «ontologia». Il che implica, utilizzando Heidegger che è l’essere stesso che ha questa vocazione al «darsi-sottraendosi», all’indebolimento. Pensiero debole non è solo l’apologia di una ragione non universalistica, non argomentativa. Ma è anche la teoria di un filo conduttore ontologico di indebolimento. Proprio perché l’indebolimento è ontologico, credo che nel discorso della debolezza si trovino anche dei criteri di giudizio, dei criteri etici. Del resto, sono consapevole che la fase puramente decostruttivo-ironica della critica filosofica deve essere superata. Io stesso ho pubblicato non molto tempo addietro un saggio che ho dedicato proprio alla “Ricostruzione della razionalità”.

A proposito di criteri etici, la bioetica è una bella opportunità per i filosofi oppure un grosso pericolo?

Io la vedo anche come un pericolo, perché fatalmente chi domina oggi nella bioetica sono i preti. Cioè quelli che confidano in «essenze naturali». Per esempio, a me gli stessi «diritti della vita» in quanto tale, come essenza biologica, sembrano molto dubbi. Per me il problema non è il valore della vita, e non mi interessa il sopravvivere in quanto tale; la domanda è semmai: cosa possiamo decentemente fare, con le nostre possibilità tecniche, per non doverci vergognare difronte alle persone con cui stiamo? Il riferimento è a una comunità culturale, a una comunità di discorso, come insegna l’Ermeneutica, non a una qualche essenza naturalistica o principio metafisico. Mentre ho paura che finiscano per vincere, nei dibattiti, quelli che hanno una metafisica naturalistica più forte (“l’essenza della vita”, o della riproduzione). E’ per questo che il Papa è costretto a pareggiare la masturbazione con il genocidio, perché non riesce a non ragionare in termini di “uso naturale”.

Oggi molti filosofi (anche lei nel suo ultimo libro) sperimentano forme di comunicazione più personali, narrative, come mai?

Non so. O a lungo mi sono trattenuto da questa effusione individualistica. Il mio ideale del trattato filosofico resta ancora una saggistica argomentativa più neutrale.

Per inciso, a cosa sta lavorando adesso?

Sto finendo di scrivere un libro che uscirà prima in inglese, presso la Columbia University Press, intitolato «Dopo il cristianesimo», che deriva da lezioni americane. E poi ho sempre in cantiere un grande libro che ha già cambiato tante volte titolo e che ora si chiama «Ontologia dell’attualità», il mio «testo fondamentale», che non so mai se finirò. Ma non credo che mi manterrò fedele allo stile che più personale che ho usato in «Credere per credere». Quella è stata soprattutto una scelta polemica verso chi scrive di cose religiose, per esempio Cacciari con una specie di auto-sottrazione del soggetto in prima persona, per cui non si capisce mai bene se «ci crede o no». E possibile in religione fare un discorso così oggettivo, culturale? Io ho avuto troppa storia religiosa personale per potermi accontentare di “sta roba lì”.

La filosofia italiana è sempre un po’ colonizzata e arretrata rispetto alla filosofia europea, oppure no?

Ma no, io non ci ho mai creduto tanto a questa storia; è vero che noi scriviamo in una lingua che viene letta poco, però…ricevo adesso la quarta di copertina che Rorty ha scritto per l’edizione inglese di «Oltre l’interpretazione», che mi loda sperticatamente, sono gongolante.

Ma Rorty non è la brutta copia di Vattimo?

No (ride), per carità! Ma a parte questo la recettività del pensiero italiano rispetto alle filosofie straniere è parso sempre un vantaggio. Perché qui il problema non è l’esportazione del prodotto interno lordo, ma la vivacità intellettuale. Lo sa quanto c’è voluto per tradurre in inglese i «Minima moralia» di Adorno? Più di 20 anni! Ecco, quasi quasi, direi che c’è un “un primato morale e civile degli italiani” …

Viva l’Italia?

E perché no?

 

IL CORANO NELL’EPICA LAICA DELLE FONTI DEL DIRITTO

Esiste, soprattutto in Francia, una letteratura quanto mai eterogenea che associa al diritto e, in particolar modo, al diritto interno alle diverse esperienze religiose, due componenti fondamentali. Da un lato, il diritto invoca una propria solennità, spesso direttamente mutuandola dalla sfera del sacro, per favorire il riconoscimento della propria necessità e la garanzia della propria legittimazione. D’altra parte, il contenuto concreto dei comandi giuridici rischia di dipendere sin troppo spesso dalle intenzioni del singolo detentore della potestà decisionale e dal contesto sociale e culturale entro cui quei comandi devono essere attuati. A conclusioni simili sono giunti, tra gli altri, l’orientalista Herbert Fingarette, che ha studiato le istituzioni del pensiero politico cinese, e ancor prima lo storico del diritto canonico Pierre Legendre.

Risulta, semmai, difficile stabilire se la transitorietà debba essere riferita alle forme o al contenuto materiale degli obblighi. Le une e gli altri possono mutare in ragione delle esigenze fattuali o, all’opposto, pretendere una propria irrevocabilità, desumendola, secondo i casi, da argomentazioni religiose, politiche, ideologiche, persino militari. Simili riflessioni sulla natura del comando coinvolgono ormai ampiamente le scienze sociali secolari e finiscono per inscrivere anche le fonti di natura religiosa in una rappresentazione tipicamente laica, umana, immanentista, del potere e del diritto. Parafrasando Schmitt, il problema non è più soltanto quello di capire chi decide sullo stato d’eccezione, ma anche come si definisce lo stato d’eccezione, chi lo definisce e perché la sua definizione dovrebbe risultare più convincente delle altre.

Tutte le volte in cui ci si rifiuta di prendere in considerazione questo aspetto del problema (come si definiscono le istituzioni che governano l’ambito normativo dell’agire umano) si cade nel fondamentalismo. Il fondamentalismo, in altre parole, dipende molto spesso dal ritenersi gli esclusivi portatori di grandezze incommensurabili, sottratte a qualunque riflessione comparatistica, di approfondimento evolutivo o di ricostruzione storico-giuridica.

I pastori battisti americani che diedero vita all’inizio del XX secolo ai movimenti cristiani fondamentalisti e neocongregazionalisti ritenevano la Bibbia incomparabile a qualunque testo religioso, incomprensibile con i normali strumenti cognitivi dell’interpretazione. E non fornivano alcuna spiegazione sulla presunta fondatezza della scelta compiuta, sottraendola in radice alla riflessione dei fedeli.

Come si attua, però, l’interpretazione letterale di un testo religioso se la massima parte dei fedeli di quella religione non conosce l’alfabeto in cui il testo sacro è stato scritto? Può il favore per l’interpretazione letterale generare ex se una traduzione univoca, perfetta persino più dalle sacre scritture da cui si è partiti? Questo travaglio riguarda tutte le esperienze religiose, in particolar modo quelle in cui si è data stretta corrispondenza tra l’appartenenza religiosa e il diritto alla partecipazione nella sfera politica.

Il proselitismo che poggia sul primato dell’interpretazione letterale non si premura di chiarire le due questioni fondamentali: perché l’interpretazione letterale dovrebbe essere la più fedele? E chi ha deciso che l’unica interpretazione letterale possibile sia quella oggetto della propaganda fondamentalista? Come può, poi, l’interpretazione più rigorosa divenire contemporaneamente quella più massificata e più ampia, senza deformarsi o con la coazione sulle menti o con la manipolazione delle fonti?

Dilemmi del genere hanno crescente rilievo nella riflessione dell’Islamismo politico, dove istanze di liberazione rispetto alla tirannia politica si uniscono al fondamento religioso delle istituzioni normative di riferimento.

Non è, ad esempio, estranea all’esegesi coranica l’esigenza di raggiungere il più vasto numero di fedeli possibile. E anche un’istanza del genere si è declinata in modo spesso policromo, dal punto di vista storico-giuridico. Restando a traduzioni celebri del testo coranico, ad esempio, lo stile del grande letterato anglosassone convertito, Marmaduke Pickthall, ha il gusto dell’arcaismo, del tono declamatorio. Ciò non ha impedito a Pickthall di realizzare una delle più diffuse traduzioni del Corano nell’Inghilterra del XX secolo: oltre a rendere manifesta la conversione personale, Pickthall dimostrava di avere scelto un linguaggio congruo allo scopo.

Un convertito di pari fervore era lo scrittore austriaco Muhammad Asad, eppure la sua traduzione del Corano, omologa nell’impianto, è in più punti diversa da quella di Pickthall: qui si preferisce sottolineare l’aneddotica pragmatica, da cui al fedele sia sempre possibile ricavare con immediatezza e decisione il precetto giusto. Non stupisce perciò che la traduzione del Corano sia spesso stata, fuori dai Paesi di lingua araba e anche all’interno delle stesse comunità islamiche, una questione eminentemente politico-religiosa. Non si trattava più di fermarsi a rispettare i vincoli di fedeltà al testo rivelato; la problematica diventava (e di molto) più complessa: dare alla traduzione uno scopo – se divulgativo, propagandistico, letterario, accademico – e trovare il linguaggio secolare più opportuno per quello scopo. Le testate cartacee e telematiche che predicano l’odio dei movimenti terroristi utilizzano un linguaggio di massa e per le masse convincente? Conta più il numero di persone che le segue o la cieca determinazione a seguirle, anche da parte di gruppi estremamente minoritari? E il linguaggio di questa propaganda non perde ogni valenza religiosa proprio quando si esaurisce nel pretendere cruda e diretta efficacia?

Anche alla luce di questi interrogativi, non sembrano da prendere in considerazione le letture, spesso di provenienza occidentale, che ascrivono al Corano limitata efficacia giuridica formale, enfatizzandone la componente narrativa o quella etica, pratica e prudenziale. Questo approccio al Corano è in fondo inesatto per qualunque testo lo si adotti. Non ci si può estraniare consapevolmente dalle implicazioni globali di un testo, a meno che non sia proprio il testo in esame a dichiarare espressamente una specifica destinazione (anche se, dalla retorica classica in poi, sappiamo che questa “dichiarazione” può essere spesso mimetica, artificiosa, inattendibile).

Con intenti apparentemente inclusivi, si tende a privare il Corano di effetti giuridici vincolanti per i fedeli musulmani. Argomentazioni del genere sono note: quel testo non merita alcun interdetto laico, in nulla è in contrasto con i valori liberali occidentali, perché non si tratta di un testo giuridico. Questa visione, però, è solo in apparenza pluralista: nei fatti derubrica il riferimento religioso e normativo di milioni di persone ad appendice del folklore etnico e geografico. Il Corano ha, invece, un’intrinseca valenza normativa, non è l’atto di negarla la via migliore per evitare i conflitti al riguardo.

Il diritto non si riduce per forza all’idea positivistica della norma (breve, puntuale, immediatamente dispositiva), che noi stessi a Ovest attuiamo sovente così male, finendo per produrre arbitrii e burocrazie tutto fuorché agevoli e razionali. è ben possibile, al contrario, che in culture diverse da quella euro-occidentale il diritto sia il prodotto di narrazioni antropologiche che non conducono affatto a esiti univoci e già scritti. Chi potrebbe mai scambiare per codici civili l’etica confuciana, la cosmologia induista o i commentari biblici in slavo ecclesiastico? E, al tempo stesso, chi potrebbe mai negare all’etica confuciana, alla cosmologia induista e ai commentari biblici dell’Europa ortodossa l’ambizione a individuare alcune condotte che le donne e gli uomini sono tenuti fedelmente ad osservare?

Studiare l’attitudine giuridica del Corano, perciò, è una sfida necessaria. In forza di una giurisprudenza religiosa basata sull’interpretazione esclusiva dei precetti coranici, nelle comunità islamiche in Occidente va aumentando il peso delle giurisdizioni confessionali, che dirimono contrasti che gli altri cittadini (i non fedeli) affidano all’autorità civile, secondo logiche, principi e soluzioni concrete anche profondamente diverse. L’applicazione del diritto islamico, sia in una prospettiva giuridica e formalista sia in un’ottica sociologica e sostanzialista, tende, poi, a dipendere dalla comunità entro la quale le norme coraniche sono applicate. Il preteso universalismo del Corano è piegato, spesso dall’inettitudine umana, a scopi e situazioni che aborriva. Lo stesso comportamento (si pensi alla poligamia) può essere ammesso o vietato, e chi sostiene l’una o l’altra posizione lo fa usando come scudo lo stesso parametro religioso.
Proprio questo, in fondo, è indice tipico dell’epica laica delle fonti giuridiche. Esse, pur così altamente fondate (nella rilevanza che molti attribuiscono al sentire religioso, per gli studiosi laici; nella diretta rivelazione di Dio, per i giuristi teocratici; nel patto costituzionale, per i teorici del diritto pubblico), non sfuggono mai alla mutevolezza umana. Ecco perché suggerire l’evoluzione non significa snaturare il testo, semmai implica orientarne l’applicazione in direzioni più rispondenti alle esigenze della comunità cui quel testo si riferisce. E questo forse è l’unico lascito universalmente difendibile nella tradizionale elaborazione liberale sulla libertà d’opinione: il contrasto interpretativo esiste soprattutto quando viene negato. A garantire la parte soccombente non può essere ad incertam diem la sola provvidenza divina. Qui e ora, esige la responsabilità umana.