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LA DIMENSIONE FILOSOFICA DEL MEDITERRANEO

di Fathi Triki

 

(Traduzione dell’articolo La dimension philosophique de la Méditerranée, pubblicato su Rue Descartes, 2014/2, n. 81)

Traduzione a cura degli studenti della classe IV L del Liceo Carducci di Roma e della classe IV M del Liceo Majorana di Guidonia

 

È per noi impossibile, in questo documento, dare un quadro esaustivo delle modalità di circolazione e di migrazione delle idee filosofiche nel Mediterraneo. Ciò, come sapete, richiede una ricerca fondata ed approfondita che questo intervento, per mancanza di tempo, non può assicurare. Proverò, in questo mio contributo, a mettere in rilievo alcuni punti cardine della dimensione filosofica del Mediterraneo.
Ma, innanzitutto, bisogna precisare che la mediterraneità non deve essere concepita come un’altra forma di identità cristallizzata, conseguenza di un approccio geopolitico del mondo. Niente giustifica l’uniformazione dell’appartenenza dei popoli di questa regione, come niente può cancellare le differenze, la straordinaria diversità delle culture e dei modi di vivere di questi popoli. Non bisogna immaginare neanche per un istante che la mediterraneità sia sinonimo di pace. Troppe guerre, troppi conflitti, molta xenofobia, esclusione, deportazioni che hanno imperversato e imperversano tuttora in questa regione in movimento. La mediterraneità è un atteggiamento intelligente che è capace di mettersi all’ascolto degli straordinari sconvolgimenti delle civiltà che hanno potuto attraversare questo mare. Atteggiamento volontario di lotta contro ogni chiusura, contro ogni forma di distruzione dei valori che hanno segnato questa regione.
Rispetto all’Atlantico, si è spesso affermato che il nostro mare è un lago quasi chiuso. Certo, ma è proprio questo che ha permesso una forte circolazione di idee e di oggetti, la creazione di diverse civiltà interattive, di comunicazioni di ogni genere come i dialoghi, i conflitti o le guerre.

Partirò da questa osservazione di Alexandre Koyré:
“La filosofia, o almeno la nostra filosofia, si ricollega in tutto alla filosofia greca, segue le linee tracciate dalla filosofia greca, si esprime attraverso gli atteggiamenti previsti da questa. I suoi problemi sono sempre quelli del sapere e dell’essere posti dai greci. È sempre l’ingiunzione delfica che dice a Socrate: “conosci te stesso”, in risposta alle domande: Che cosa sono? Dove sono? Vale a dire: Che cosa significa essere e che cos’è il mondo? Ed infine, io che cosa è ciò che faccio e cosa devo fare in questo mondo?[1]”.
E, a seconda dell’una o l’altra risposta che si dà a queste domande, a seconda dell’uno o l’altro atteggiamento che si adotta, si può essere platonico, o aristotelico o, ancora, plotiniano. A meno che non si sia già stoico. O scettico.

È chiaro che la filosofia è greca nel suo modo di essere e nel suo modo di funzionare. Questa referenzialità non deve essere presa come argomento in favore di una fissità dei problemi filosofici o di una qualsiasi perennità della sua posizione nei confronti dei grandi problemi che si pone l’umanità. Come Heidegger, Koyré insiste qui sulla grecità della problematizzazione filosofica in generale. Il luogo di nascita della filosofia si rivela di grande importanza poiché la presa di coscienza dell’essere dell’uomo, del suo topos e del suo modo di fare si riflette nell’azione filosofica stessa. La filosofia non è semplicemente una presa di coscienza; essa è la coscienza della coscienza stessa, è la consapevolezza che l’uomo ha della sua presa di coscienza e, in ciò, essa è l’apprendistato della libertà e della morte stessa. Il “conosci te stesso” è l’indice di questa riflessione della coscienza, l’indice del fatto che l’uomo ha deciso di farsi carico del mondo, del suo topos, del suo essere e del suo agire.
Noi sappiamo che questo luogo di nascita si è allargato rapidamente, inglobando tutta la Mediterraneità, questo mare compreso tra l’Europa, l’Asia e l’Africa e collegato all’Oceano Atlantico tramite lo stretto di Gibilterra. Attraverso numerose guerre, la straordinaria circolazione delle merci, i viaggi dei pensatori e dei cronisti, è venuto a crearsi, dopo la nascita della filosofia, un circuito di comunicazione, a volte pacifico, a volte violento tra le diverse entità culturali e religiose (le tre grandi religioni monoteiste). Certo, Atene resta la città che ha assistito, in un lasso di tempo relativamente breve, alla costituzione di opere culturali, di ideologie, di scienze e di teorie che, in maniera decisiva, hanno segnato tutta la storia dell’umanità. Ma questa luce greca ha potuto essere propagata universalmente soltanto grazie a questa straordinaria circolazione mediterranea, inizialmente permettendo la costituzione di scuole filosofiche a Sirte, Alessandria e Cartagine, in seguito universalizzando il pensiero filosofico attraverso l’intermediazione della filosofia araba, nel Medioevo.
Se l’antichità filosofica è greca, il Medioevo è arabo. Così scrive Koyré :
«Certamente, nell’epoca in questione, ovvero il Medioevo, l’Oriente – all’infuori di Bisanzio – non era più greco. Era arabo. Quindi sono gli Arabi che sono stati i maestri e gli educatori dell’Occidente latino[2]».
Infatti, Koyré constata che i Romani si interessavano solamente alle cose pratiche come l’agricoltura, la strategia della guerra, la politica, il diritto, l’architettura. Al contrario, essi non si preoccupavano affatto della riflessione filosofica e scientifica ad eccezione della morale che, senza dubbio, ha una portata pratica evidente. Scrive a questo proposito:
«È veramente sorprendente il fatto che i Romani non abbiano nemmeno provato il bisogno di procurarsi delle traduzioni di testi filosofici. Infatti, all’infuori di due o tre dialoghi tradotti da Cicerone (di cui il Timeo) – traduzione di cui quasi niente è giunto fino a noi -, né Platone, né Aristotele, né Euclide, né Archimede sono stati mai tradotti in latino”.
E aggiunge più avanti:
«Il mondo arabo si sente, e si proclama, erede e continuatore del mondo ellenistico. In ciò ha perfettamente ragione. In effetti, la brillante e ricca civiltà del Medioevo arabo – che non è un Medioevo ma piuttosto un Rinascimento – è, in tutta verità, continuatrice ed ereditiera della civiltà ellenistica. Ed è per questo motivo che ha potuto svolgere, nei confronti della barbarie latina, il proprio ruolo eminente di educatrice[3]».
Conosciamo il resto. La filosofia araba ha fondato “l’unità dell’intelletto”, conditio sine qua non di ogni pensiero dell’umano e dell’universale, dal momento che ora la verità è pensata come una per tutti e la ragione come comunicazione universale tra tutti gli uomini. La filosofia occidentale è figlia della filosofia araba, la quale è, a sua volta, figlia della filosofia greca. Che sia tramite la penisola iberica dove Ibn Roshd e Maïmonide erano maestri dell’Intelletto o tramite la Sicilia e l’Italia attuale, la fioritura della civiltà araba e islamica ha avuto come effetto la trasmissione all’Occidente latino di questa preoccupazione per l’universalità e l’unità dell’intelletto. Ibn Khaldoun constata questa trasmissione scrivendo:
«Ho appena appreso che le scienze filosofiche sono molto apprezzate nel paese di Roma e verso Nord, vicino ai paesi dei Franchi. Mi dicono che vengono nuovamente studiate ed insegnate in molti corsi. Ci saranno molti trattati su queste scienze, molte persone che potranno conoscerle e molti studenti che potranno impararle. Ma Dio sa più di me, perché “Egli crea ciò che vuole e sceglie ciò che è meglio[4]».
Il ciclo è così chiuso. La circolazione delle idee filosofiche riguarda ora tutto il Mediterraneo. Filosofia greca, filosofia araba, filosofia latina ed occidentale costituiscono il nucleo essenziale del corpus del percorso storico della filosofia.
Questa lettura della storia della filosofia non pretende affatto di essere “progressista” e cumulativa, cosa che lascerebbe intendere che dietro questi periodi ci sia un’evoluzione significativa e un progresso reale del pensiero umano. Essa vuole evidenziare, semplicemente, il fatto che la filosofia, nella sua circolazione mediterranea, sia sempre stata fondatrice, differente, creatrice. Legata costantemente alle “culture” diversificate del Mediterraneo, essa ha potuto pensare diversamente le cose ma sempre nel quadro di una razionalità greco-araba fondata sull’unità della verità e della ragione.
Se noi rinunciassimo alla concezione ingenuamente progressiva della filosofia secondo cui l’umanità si dirige dalle tenebre verso la luce e dalla pre-ragione alla ragione compiuta, sarebbe possibile riflettere su ciò che dà origine, in questo gigantesco continente di opere filosofiche, le rotture, gli scarti, le deviazioni, in poche parole, le differenze. Informare non è sottolineare le differenze? In questo caso, c’è un elemento di differenziazione che abbia sempre alimentato la filosofia mediterranea? Infatti, il pensiero filosofico ha sempre oscillato tra il chiuso e l’aperto, tra l’ affermazione dell’uno e del molteplice, tra l’ipseità e l’alterità. Abbiamo sempre sostenuto che la filosofia è nata libera, aperta ed itinerante. Ciò che chiamiamo “filosofia presocratica” (notiamo questa ingenuità di denominazione) è un pensiero dell’erranza. Liberatosi dal potere del mito e della religione, il filosofo di questa epoca si è armato di una «libera curiosità ostile alle immagini sacre dell’antropomorfismo mitico e desideroso di associare la solidità delle osservazioni[5]» allo sforzo di teorizzazione senza, tuttavia, cadere nella trappola della teoria compiuta delle religioni. “L’evento Socrate”, per utilizzare un’espressione di François Châtelet, ha avuto due conseguenze fondamentali: orientare questa erranza filosofica verso una gestione legale e morale dell’umano e dedicarsi alla “retta filosofia”, quella che mira a stabilire, con Platone ed Aristotele, l’essenza delle cose, il “Che cosa è?”, l’essere come tale.
È, a nostro avviso, questa seconda conseguenza che ha segnato il percorso filosofico che si è iscritto in un luogo chiuso, in un ambito specifico con il suo oggetto preciso, il suo potere interrogativo, il suo ordine proprio e un metodo appropriato. Era, in questo caso, più facile islamizzare la filosofia, giudaizzarla o cristianizzarla; era, allo stesso modo, facile per la filosofia interiorizzare i dogmi di queste religioni e sposare questa forma dogmatica del pensiero per proporre all’umanità dei sistemi chiusi, dei pensieri compiuti, delle dottrine architettonicamente costruite. San Tommaso, Cartesio, Malebranche, lo stesso Kant malgrado il suo criticismo, e Hegel, per citarne solamente alcuni, sono delle figure esemplari di questa filosofia dottrinaria e sistematica. Notiamo che più ci si allontana dal luogo di nascita e di sviluppo della filosofia, ossia il Mediterraneo, più si ha tendenza, tanto nella filosofia classica francese quanto nella filosofia tedesca, a sistematizzare questo pensiero. Certo, il luogo non spiega tutto. L’aperto è anche l’effetto dello scoppio del mondo chiuso perpetuato da un pensiero religioso e dottrinale che si riferisce ad un sistema aristotelico strutturato ed anche trasformato dal pensiero medievale. L’aperto è anche l’effetto del Rinascimento italiano in ciò che esso ha potuto liberare, come immaginazione e creazione, nelle arti, nella politica e nelle tecniche. È anche l’effetto dell’Illuminismo che ha dato vita ad un pensiero della libertà, della cittadinanza e della razionalità.  L’aperto è infine l’effetto dello sviluppo della circolazione degli oggetti e delle persone, conseguenza della rivoluzione industriale e tecnologica. Ma è importante segnalare che questa dialettica del chiuso e dell’aperto restituisce, attualmente, alla filosofia la sua vocazione originaria, quella di viaggiare, di errare, di vagabondare anche attraverso i molteplici problemi in cui l’uomo si imbatte nella sua quotidianità.
Desanti sottolinea del resto che:
«Hegel fu, senza dubbio, l’ultimo filosofo a essere seppellito nello stesso luogo in cui era nato. Solo, è bastato a scavare la terra natale che non aveva lasciato mai: questa terra (o questo cielo?) dove si articolavano le figure della Ragione e dove il pensatore immobile uguagliava l’infinita mobilità dell’Essere. Era ancora il tempo in cui, nel campo del concetto, nessun viaggiatore era sconosciuto. Chiunque lasciasse una traccia, matematico, giurista o poeta, tradiva il proprio marchio di origine e il legame che lo incatenava alla trama del discorso vero[6]».
Questo perché, contro l’imperium degli “ismi” e contro ogni egemonia delle dottrine totalitarie, bisogna fare l’elogio di questa filosofia attuale che abbiamo qualificato come aperta e la cui origine non è altro che la mediterraneità del pensiero.
È in questo quadro della filosofia aperta che possiamo comprendere una delle funzioni assegnate alla filosofia da Michel Foucault, funzione complessa ma che deve cessare di “legittimare”, attraverso i diversi metodi di insegnamento o di ricerca, ciò che già si sa, per re-interrogare le evidenze, i postulati, Sappiamo già come riesaminare le evidenze, i postulati, per scuotere le abitudini e rischiare di pensare altrimenti, abbandonare la verità per il più rude compito di “dire il vero”. In questo senso, la filosofia si afferma come pensiero libero, strategia e lotta per la vita e per l’uomo.
La filosofia, come abbiamo visto, è nata come saggezza, riflessione nomade il cui oggetto è indefinito, illimitato, senza frontiere né sistemi; essa è, oggi, presente nel suo stato di “vagabondaggio”, presente al richiamo della ragione, pronta a servire lo scienziato, il politico, l’ideologo, lo stratega, lo storico, l’artista, il poeta, ecc. I filosofi sono attualmente viaggiatori provenienti da diversi luoghi, ma come scrive Desanti ne La filosofia silenziosa:
«Viaggiatori fecondi, nei loro paesi maestri di verità, ambasciatori di cose lontane, non avevano condannato nessuno al silenzio. Avevano semplicemente ridisegnato il campo in cui si sarebbe potuta inscrivere la parola filosofica e dove il filosofo avrebbe potuto cercare di ritrovare un sottile filo di voce[7]».
Dunque, possiamo dire che l’attuale cammino filosofico distrugga, attraverso un ritorno genealogico ai fondamenti della filosofia, quindi un ritorno alla grecità, il solco della verità sistemica ed immutabile per rimpiazzarla attraverso questo desiderio sempre rinnovato di scoprire le verità, qualunque siano le conseguenze, e di denunciare il progetto esclusivo di universalità come è stato imposto dalla ragione classica.
Al limite si può affermare, seguendo Michel Serres, che il progetto di universalità di questa ragione classica che ha operato per riduzione, può essere considerato come «una proiezione nel razionale della situazione violenta del Maître e del Colonizzatore. L’insensibile, l’impensabile e l’incosciente sono (dice Serres) letteralmente, eretici, selvaggi, schiavi; l’età classica colonizza le terre vergini attraverso negazione, omicidio e terra bruciata… cacciava i demoni… bruciava le streghe, gli ebrei e qualche astronomo; reprimeva l’immaginazione, dominava il sogno, eliminava l’errore, rifiutava, in senso stretto, la cultura, le culture; mimava continuamente le orde dei bianchi, che, dall’altra parte del mare, trucidavano gli Incas, gli Aztechi e gli Algonchini[8]».
È per questo che solo la filosofia aperta fondata sul potere della critica e l’imperativo della libertà può nel suo continuo viaggio fare delle incursioni nella strategia delle nostre abitudini mentali, pensare ed agire, per esempio, sui problemi della donna, della libertà, della sessualità, delle minoranze, delle prigioni, dei diritti dell’uomo, della qualità della vita:  problemi acuti della nostra attualità.
In questo senso, la mediterraneità della filosofia si inscrive realmente nella sua erranza originaria quando, ad Atene, inventava il pensiero libero, la democrazia delle idee, la critica pubblica ed il dibattito. Allo stesso modo, si inscrive nella sua apertura attuale, quando, attraverso i continenti del sapere, naviga, non senza pericolo, sfidando i bastioni ed i muri che li dividono, per mettersi all’ascolto dell’oggi pensando, per esempio, all’improvviso manifestarsi delle verità, alla moltiplicazione delle tecniche, alla specificità e all’interferenza delle scienze, alla cittadinanza e ai problemi sociali, all’etica, alla guerra, alla sofferenza, alle deportazioni, ecc. problemi specifici che i differenti rami del sapere constatano ma che solamente la filosofia problematizza coi suoi concetti e la sua tecnicità.

[1] A. Koyré, Etudes d’histoire de la pensée scientifique, Editions Gallimard, Paris, 1973, p. 28

[2] Ivi, p. 26

[3] Ivi, p. 27

[4] Ibn Khaldoun, Discours sur l’histoire universelle, Editions Sindbad, Paris, 1978, t.3, p. 1049

[5] J. Bernhardt, La pensée présocratique, in La Philosophie paienne, Histoire de la philosophie de François Chatelet, Editions Hachette, Paris, 1972, p. 24

[6] J. Toussaint Desanti, La philosophie silencieuse, Editions du Seuil, Paris, 1975, p. 7

[7] Ibidem

[8] M. Serres, La communication, Editions de Minuit, Paris, 1978, p. 198

Solidarietà e mutualismo oltre l’Europa dei mercati

Giacomo Pisani affronta la critica all’Europa dei mercati affermando l’importanza della solidarietà e della cooperazione come principi fondamentali per un nuovo processo costituente.

Autonomia e secessioni: la Catalogna e le altre

I recenti indipendentismi (o addirittura secessionismi) invocati da più parte in Europa, a mio modo di vedere, rappresentano un errore clamoroso. Essi dipendono da una doppia inefficienza: quella dello Stato da una parte e quella delle istituzioni sovranazionali dall’altra. Gli indipendentismi sono connessi, altresì, agli egoismi irresponsabili delle comunità monoculturali. Stiamo andando nella direzione esattamente contraria a quella di una sana e quanto mai auspicabile integrazione europea.

In questo quadro, credo sia impossibile occuparsi della “questione catalana” senza porre quest’ultima in un contesto storico e politico più ampio. Sono convinto, anzi, che tale crisi sia incomprensibile se non la si considera alla luce della globalizzazione – intendendo quest’ultima come lo stadio estremo della storia occidentale moderna.

 

  1. Globalizzazione

Dal 1945 al 1989 i confini interni dei paesi europei non sono cambiati. Alla caduta del muro di Berlino, invece, annose quanto irrisolte questioni culturali e politiche sono riemerse con prepotenza. A partire dalla fine della guerra fredda, infatti, sono venute alla ribalta questioni etniche e nazionalistiche che hanno provocato spesso conflitti dolorosi. Tutto ciò, del resto, alla maggior parte degli osservatori è apparso non facile da spiegare dal momento che molte dei problemi riaffiorati – peraltro talvolta in maniera estremamente cruenta – erano parsi superati da una nuova e più pacifica fase storica. E così, la dissoluzione della ex-Iugoslavia avvenuta nel sangue, negli anni Novanta, è stata la prima grande lacerazione, esplosa peraltro nel cuore stesso dell’Europa, che ha riportato alla luce il problema della convivenza pacifica fra etnie diverse.

Questi fenomeni – come detto – sono particolarmente complessi da valutare e anche gli analisti politici fanno fatica poiché ci sono buoni motivi per ritenere che le spinte indipendentistiche costituiscano delle secessioni illegali (o addirittura dei tradimenti), ma si può ammettere anche che esse rappresentino il coronamento libertario di un sogno cullato da tempo.

Ciò che è certo, tuttavia, è che viviamo in un tempo in cui la frammentazione socio-politica – per non parlare di quella esistenziale, familiare, istituzionale – costituisce una questione di estrema rilevanza. Sul piano geopolitico il referendum catalano, così come quello svoltosi nel Kurdistan iracheno, insieme alle molteplici manifestazioni indipendentistiche in diversi Paesi del globo, mostrano in quale misura il nazionalismo a base mono-etnica o mono-culturale riguardi ormai tutti i continenti. Per rimanere nella vecchia Europa, e citando soltanto en passant le rivendicazioni nostrane relative alla Sardegna e soprattutto al Lombardo-Veneto, come non menzionare in Spagna, oltre alla questione catalana, il focolaio indipendentistico basco, quello corso in Francia, quello relativo alle Fiandre in Belgio e, anche, le richieste autonomistiche delle Isole Far Oer per quanto riguarda la Danimarca?

Se dunque alla fine del bipolarismo USA-URSS vanno riemergendo, magari con rinnovata virulenza, antichi conflitti etnici, mi sembra che si possa giungere già ad una conclusione teorica: il processo di globalizzazione, nel momento in cui si prende atto che non riesce a coniugare insieme l’universale dello Stato e delle istituzioni sovra-nazionali con le spinte identitarie delle appartenenze locali, fallisce il suo intento e anzi si risolve drammaticamente in un potente stimolo verso ulteriori frammentazioni più o meno cruente.

 

  1. Comunità europea

Il dato su cui dobbiamo lavorare, dunque, è molto chiaro: la globalizzazione ha coinciso con una nuova e ancor più rigida ripresa dei nazionalismi particolaristici. Diventa di somma importanza, allora, verificare quali elementi siano venuti meno dal lato dell’universalismo, ossia dello Stato e delle comunità sovranazionali nate nel tempo della globalizzazione.

A questo proposito, vorrei citare qualche rigo di un libro che io stesso, in quanto appassionato di letteratura e soprattutto come uomo del sud, ho sempre amato. Carlo Levi, in Cristo si è fermato ad Eboli, riferendosi al governo fascista nell’Italia degli anni ’30 del Novecento, scrive quanto segue: “Pare infatti che il governo avesse da poco scoperto che la capra è un animale dannoso all’agricoltura, poiché mangia i germogli e i rami teneri delle piante: e aveva perciò fatto un decreto valido ugualmente per tutti i comuni del Regno, senza eccezione, che imponeva una forte imposta su ogni capo, del valore all’incirca della bestia. Così, colpendo le capre, si salvavano gli alberi. Ma a Gagliano non ci sono alberi, e la capra è la sola ricchezza del contadino, perché campa di nulla, salta per le argille deserte e dirupate, bruca i cespugli di spine, e vive dove, per mancanza di prati, non si possono tenere né pecore né vitelli. La tassa sulle capre era dunque una sventura: e, poiché non c’era il denaro per pagarla, una sventura senza rimedio. Bisognava uccidere le capre, e restare senza latte e senza formaggio”[1].

Nella potente suggestione della pagina di Levi, mi pare che un punto debba essere sottolineato con forza. Il potere centrale – in particolare quello dei governi democratici – ha il dovere di conoscere e di “rappresentare” l’intero territorio entro il quale gli è stata attribuita la sovranità. Ebbene, è storia antica e sempre rinnovata che ciò non avvenga, o avvenga in maniera parziale o addirittura del tutto insufficiente. Venendo alla situazione che si è venuta determinando nei nostri giorni, la comunità europea appare maggiormente inclinata verso la promozione di fatti burocratico-finanziari i quali, in larga misura, non vengono compresi come propri da tutte le micro-regioni che fanno parte integrante dell’Unione. Le decisioni dell’Unione Europea vengono viste anzi dai territori locali, soprattutto quelli più poveri, più o meno come veniva considerato il governo fascista e la politica di Roma dai contadini del sud al tempo di Levi, e cioè come un fenomeno lontano se non addirittura ostile.

Vi è inoltre da considerare un altro elemento estremamente importante, ossia le crescenti disuguaglianze in abito europeo che vengono registrate e perfino incrementate.

Per limitarci al caso della Catalogna, vorrei elencare alcuni dati particolarmente significativi. In questa bellissima regione spagnola, quasi il 20% delle importazioni arrivano dalla Germania: un numero decisamente superiore a qualunque altro paese. Basterebbe già questo a mostrare l’importanza decisiva che assume per questa regione il rapporto con la potente economia tedesca. Ma c’è dell’altro. La Germania è il secondo più grande acquirente delle esportazioni catalane. In Catalogna, inoltre, oltre il 10 per cento degli investimenti provengono dalla Repubblica Federale. La regione, infine, è il principale punto di appoggio per le aziende in Spagna, dal momento che circa la metà delle 1600 aziende spagnole con partecipazione tedesca hanno la loro sede in Catalogna. Fra queste BASF, Bayer, Böhringer, Henkel, Merck e Siemens.

Sotto il profilo della collaborazione commerciale con la Germania, oltre all’esempio catalano, è possibile, anzi doveroso, ricordarne altri: tutti molto significativi dal punto di vista delle richieste di autonomia. Una situazione simile, infatti, vige anche nei rapporti tra la Germania da una parte e la Lombardia e le Fiandre dall’altra. Esistono canali esclusivi e privilegiati che connettono insieme “economie forti”, indifferenti, se non ostili, ad economie più deboli. Tutto ciò – è evidente – ha provocato un aumento considerevole delle disuguaglianze in ambito europeo e infra-nazionale. E ciò si comprende assai bene: mentre giocavano un ruolo decisivo nell’espansione della già forte economia tedesca, tre regioni economicamente rilevanti come Catalogna, Fiandre e Lombardia aumentavano il già consistente divario con le zone più povere di Spagna, Belgio e Italia.

Esiste, infine, un altro elemento che crea disuguaglianza. All’interno della comunità europea, vi sono accordi fra regioni più ricche, tesi a tagliare fuori le regioni meno sviluppate. Va detto, inoltre, che tali collaborazioni fra economie forti non è soltanto – come forse vorrebbero i liberali – una faccenda “naturale”; una situazione, cioè, che risponde a dinamiche spontanee del mercato. Molto diversamente, essa rientra in un preciso disegno politico. Un esempio significativo è costituito dalla comunità di lavoro denominata “Quattro motori per l’Europa”, fondata nel 1988. Di tale comunità fanno parte – manco a dirlo – il Land tedesco del Baden-Württemberg, la Catalogna, la Lombardia e il Rodano-Alpi. Tale comunità si propone il non trascurabile obiettivo di estendere la cooperazione economica delle aree consociate. Insomma, si prevede una stretta collaborazione fra ricerca, investimenti e tecnologia sul campo: l’accordo era infatti quello di intessere una relazione fra le quattro regioni suddette nei campi della scienza, della ricerca, dell’istruzione, dell’ambiente, della cultura e in altri ancora.

 

  1. Indipendentismo

In una situazione di questo tipo, e cioè in una situazione di forte e crescente disuguaglianza, è chiaro che le élite regionali hanno fatto (e faranno) di tutto per condizionare il flusso di redistribuzione nazionale dei fondi statali, chiedendo a viva voce maggiore autonomia o, in ultima analisi, perfino la secessione. E pazienza – così come è avvenuto nel referendum sull’autonomia catalana – se tutto ciò impone uno strappo profondo del dettame costituzionale e non potendo contare neppure sulla maggioranza interna che sia favorevole alla secessione.

L’età moderna – ciò che è nato con la fine delle guerre civili di religione e la fondazione degli Stati nazionali – aveva colmato il vuoto che si era aperto fra gli uomini, quando le comunità tradizionali si erano sgretolate, con i grandi apparati politico-burocratici nei quali si identificavano, in fondo, le costituzioni delle “nazioni”. Lo Stato aveva ricondotto, cioè, ad unità quelle soggettività frammentate, irrelate, atomizzare e fondamentalmente solitarie che rivendicavano uguaglianza e libertà meramente individuale se non individualistica. Nel nostro tempo, ora che lo Stato appare bypassato da sovranità sovra-nazionali da una parte, infra-nazionali dall’altra, il vuoto riemerge allora in tutta la sua forza.
In una condizione geopolitica nella quale la finanziarizzazione dell’economia elide le sovranità statuali classiche, oltre alle loro abituali prerogative, accade pertanto che piccole comunità etniche – appunto, più ricche di altre – rivendichino piena autonomia politica. Tali richieste vorrebbero andare nella direzione della libertà: in realtà rappresentano un’espressione inconsapevole e pericolosa delle disuguaglianze, degli egoismi e delle inefficienze delle istituzioni statuali – in fondo, dunque, esse non sono altro che l’espressione dello stesso vuoto che le ha generate.

La forma caratteristica della soggettività moderna fa sì che gli individui entrino soltanto in quanto unità astratte e sradicate nelle masse storiche (di consenso o di partecipazione) che di volta in volta si costituiscono. Gli individui a noi coevi, però, non dispongono di alcuna massa o, meglio, le masse contemporanee vengono formate rapidamente e repentinamente si dissolvono. E tutto questo grazie all’ausilio di una tecno-scienza che informa di sé, nel profondo, tutte le forme di vita dell’attuale. L’individualismo diventa così polverizzazione estrema del fatto sociale e lo sradicamento raggiunge livelli inauditi nella storia dell’uomo.

Slegati da qualsiasi contesto comunitario, privi di un potere centrale capace di porsi da collante, vincolati esclusivamente alle regole della finanza e a quelle del capitalismo tecnocratico, è inevitabile, allora, che forze regionalistiche provino, in ogni modo, a far prevalere i propri egoismi ai quali, del resto, non si contrappone altro che l’egoismo simmetrico dei poteri centrali – magari collocati in maniera supina e subalterna rispetto ad organizzazioni sovra e transnazionali.

Se vogliamo traghettare questo mondo fuori dal nichilismo della globalizzazione – credo sia evidente a tutti – dobbiamo cercare un’altra strada.

 

 

  1. Lungimiranza

La civiltà europea si è caratterizzata da sempre in virtù d’una peculiarità decisiva. Essa, cioè, si è perennemente posta come una forma culturale “particolare” che ha in sé l’”universale”. La nostra cultura ha mostrato una singolare attitudine che soltanto apparentemente sembrerebbe andare in direzione auto-contraddittoria: essa, infatti, disgrega l’unità nella differenza proprio mentre si mostra disponibile a dare delle differenze una visione unitaria. È questa la nostra storia, ed è in questo dato che risiede anche la nostra grandezza. In un quadro simile, allora, è del tutto ovvio che porre la questione di identità etnicamente stabili e monolitiche in Europa sia una impresa destinata al fallimento anche soltanto per ragioni di tipo culturale – per non parlare di quelle economiche che vi si connettono. Nel nostro continente, nel corso dei secoli, nulla è stato più massiccio ed influente della contaminazione e di un fruttuoso incontro/scontro di valori. In fondo, a rifletterci bene, non stiamo parlando soltanto della storia ma anche dell’essenza stessa della libertà e della democrazia nate all’interno di quella storia. Non c’è libertà o democrazia – appunto – senza un confronto fra differenze da ricondurre all’unità della rappresentazione/rappresentanza. Per rimanere sul piano storico, tuttavia, occorre ribadire fortemente che la cultura occidentale è diventata la forma di vita più forte del pianeta non certo per il suo integralismo, meno che mai per la difesa rigida e ottusa delle sue innumerevoli forme culturali, ma piuttosto per la sua capacità di metterle in gioco. È diventata forte, cioè, per la sua portata democratica e perfino “anarchica” – per la sua capacità di emancipare gli individui e di considerare tutti, a prescindere dalle etnie e dalle convinzioni individuali, ugualmente preziosi per la comunità. La cultura europea – in estrema sintesi – fa del pluralismo il motore propulsivo della propria azione nel mondo.

Se tutto questo è vero, mi sembra ineludibile il bisogno di contrastare il gretto provincialismo che sembra dettare legge ormai nelle egocentriche (piccole o grandi) capitali europee: è del tutto ovvio, infatti, che non si possa fare affidamento soltanto sulle solite logiche di potenza economica particolaristica che, mentre favoriscono alcune zone dell’Europa, lasciano indietro le altre, incrementando ferali disuguaglianze che, prima o poi, non potranno che produrre frutti avvelenati. Se si vuole creare o consolidare un’identità politica, io credo, è invece assolutamente necessario indicare dei valori comuni capaci di integrare i territori e le diverse identità, lasciandole essere per quello che sono, nella convinzione che soltanto chi possiede una propria identità può metterla in gioco sul piano pubblico a beneficio di tutti.

Da questo punto di vista, pertanto, un’entità geopolitica che possiede da sempre una vocazione differenzialistica e universalistica insieme – come l’Europa appunto – potrebbe offrire un contributo decisivo al mondo globale. Al di là e oltre un’Unione Europea concentrata quasi esclusivamente su questioni finanziarie, e indifferente ad elementi che dovrebbero essere fondamentali quali la ricerca dell’uguaglianza e del confronto politico fra uguali, sono convinto che la politica, nazionale e internazionale, abbia il compito ineludibile di riprendere a praticare un valore come la “democrazia lungimirante”. Senza la capacità di con-vergere su un fronte unico, infatti, e senza “guardare lontano”, non c’è alcuna speranza di affrontare i fenomeni e gli eventi di un mondo sempre più complesso che richiede tutta la nostra attenzione e i nostri sforzi.

Le politiche che, per inseguire il loro interesse particolaristico, mostrino una pervicace incapacità di guardare al domani e tengano conto soltanto della logica del consenso a breve termine, della ricchezza del “noi” isolati dagli altri, sono viziate in partenza e gli effetti negativi non tarderanno a farsi sentire.

È necessario perciò – ora più che mai – ripensare con forza ad una “grande politica” europea. All’interno di un mondo sempre più interrelato, infatti, quale potrebbe essere il destino di una regione, magari oggi più ricca delle altre, ma che, slegandosi dalla nazione nella quale è cresciuta e si è sviluppata, rischia di tagliare lo stesso ramo sul quale è seduta?

Ancora una volta, dunque, credo sia assolutamente necessario l’uso d’una virtù consustanziale ad ogni “grande politica”: ciò che rappresenta una dote imprescindibile per ogni uomo politico o classe politica degni di questo nome, ossia – come detto – la lungimiranza.

 

ANTONIO MARTONE

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

[1] C. Levi, Cristo si è fermato ad Eboli, Einaudi, Torino 1990, pag. 42.

Le Enneadi di Plotino

La lunga storia del platonismo antico, a partire dalla prima Accademia e dagli allievi diretti di Platone nel IV secolo a.C. e fino alla chiusura della Scuola di Atene a opera di Giustiniano nel 529 d.C., è normalmente scandita in tre fasi fra loro distinte, per quanto in una certa misura artificialmente e per convenienza: una prima fase è quella che, da Platone stesso, giunge fino al I secolo a.C. ed è caratterizzata da una sostanziale continuità istituzionale, ma niente affatto dottrinaria e filosofica, basata sulla successione di caposcuola che conservano il nome e la tradizione dell’Accademia; una seconda fase, cui si attribuisce convenzionalmente la denominazione di platonismo “medio”, è quella che si colloca, tra I secolo a.C. e II secolo d.C., a metà strada fra il platonismo accademico e il “neo”-platonismo (e appunto da questa collocazione “intermedia” dipende la sua denominazione); una terza fase è infine quella che prende avvio nel III secolo d.C., con Plotino, e giunge appunto fino alla chiusura della Scuola di Atene nel VI secolo d.C. Anche il neo-platonismo si rivela in realtà come una corrente di pensiero assai varia ed eterogenea, ma non è implausibile difenderne una concezione in qualche modo unitaria, proprio sulla base del frequente e decisivo riferimento dei suoi esponenti alla filosofia di Plotino e alla sua opera di maestro e commentatore di Platone: a Plotino i neo-platonici posteriori riconosceranno costantemente, pur quando se ne discostino per alcuni aspetti, un ruolo fondamentale nel rinnovamento della lettura e dell’interpretazione di Platone e nella formulazione di una serie di tesi che andranno a costituire la versione standard della concezione neo-platonica della realtà, da un punto di vista ontologico e cosmologico, psicologico ed etico.

La gran parte delle informazioni a nostra disposizione sulla vita di Plotino derivano dalla biografia del filosofo composta dal suo discepolo Porfirio (Vita Plotini). Nacque probabilmente nel 205 d.C. in Egitto, a Lico o Licopoli, e si recò poi ad Alessandria dove frequentò la scuola di Ammonio Sacca per circa dieci anni. Nel 244 seguì la spedizione dell’imperatore Gordiano in Oriente, ma, dopo la sconfitta e la morte di questi, dovette rifugiarsi ad Antiochia da cui poi partì alla volta di Roma, dove rimase fino a quando, ormai malato, si spostò in Campania, dove morì nel 270 d.C. A Roma, Plotino fece parte della cerchia dell’imperatore Gallieno e di sua moglie Salonina, animò un circolo culturale e filosofico di una certa ricchezza e influenza e tentò perfino, senza successo, di fondare in Campania una città ispirata ai principi e alle leggi di Platone, Platonopoli. Appunto nell’ambito di questo circolo culturale Plotino si diede all’insegnamento della filosofia, di fronte ai suoi discepoli e ascoltatori, essenzialmente nella forma di un esame e di un commento delle opere filosofiche dei “classici” greci: Platone, innanzitutto, ma anche Aristotele e i loro commentatori più recenti; senza trascurare un attento confronto con le grandi scuole ellenistiche, stoica ed epicurea. Inizialmente, l’insegnamento di Plotino rimase essenzialmente orale; solo a partire dai cinquant’anni egli prese a mettere per iscritto i trattati che compongono le Enneadi.

Delle Enneadi Porfirio fu l’editore: egli raccolse gli scritti del maestro e li strutturò in sei gruppi di nove trattati ciascuno (appunto in sei “enneadi”), cui diede un ordine tematico: la prima Enneade contiene i trattati di argomento etico, la seconda i trattati di argomento fisico, la terza i trattati di argomento cosmologico, la quarta i trattati relativi all’anima, la quinta i trattati che riguardano la natura intellegibile e l’Intelletto, la sesta i trattati che, a partire dall’intellegibile, conducono all’esame del primo principio del tutto, l’Uno. Tuttavia, nel rendere conto della sua opera editoriale nella biografia di Plotino, Porfirio ricorda anche l’ordine cronologico in cui Plotino ha composto i trattati: se ne deduce che, all’arrivo di Porfirio alla scuola, nel 263 d.C., Plotino aveva composto ventuno trattati; nei cinque anni che Porfirio rimase presso di lui, Plotino compose i successivi ventiquattro trattati; mentre gli ultimi nove trattati furono da Plotino redatti dopo che Porfirio, a causa di una depressione, si era recato in Sicilia. In effetti, anche al di là della tematizzazione che ne propone Porfirio, i trattati plotiniani presentano una dottrina, per quanto articolata, assai compatta, che difficilmente si lascia interpretare in termini evolutivi né pare caratterizzata da significative rotture o svolte concettuali. Di trattato in trattato possono mutare naturalmente il tono, il punto di vista o l’approdo argomentativo, a seconda dello specifico soggetto esaminato e discusso; ma il sistema teorico plotiniano si presenta in generale come estremamente stabile ed è fondato, come è noto, sullo schema delle tre ipostasi: l’Uno (hen), l’Intelletto (nous) e l’Anima (psuche).

Nei limiti di un approccio soltanto introduttivo alle Enneadi ci si potrà attenere ad alcune considerazioni di ordine generale. Innanzitutto, il termine “ipostasi” (hupostasis), comunque piuttosto raro nelle Enneadi, allude a un “piano di esistenza”, ossia al livello e ai modi in cui esistono le diverse cose che sono: ora, distinguendosi su questo punto dalla tradizione platonica precedente, che individuava la causa e il principio del mondo fisico nel mondo intellegibile delle idee platoniche trascendenti, a vario titolo associate a un’intelligenza demiurgica che ne fa uso per la produzione del cosmo sensibile, Plotino identifica (per esempio in Enneadi V 1 [10]) il primo principio del tutto con una realtà assolutamente semplice e una, cui si può attribuire la denominazione convenzionale di “Uno” o “Bene”, che, senza esercitare nessun atto volontario, intelligente o provvidenziale, emana da sé, per l’infinita potenza che lo caratterizza, porzioni “sovrabbondanti” di se stesso, dando origine così alle realtà inferiori. Al livello più alto nella gerarchia del reale, e come prima ipostasi, si colloca perciò questo principio, che è descritto abitualmente da Plotino come “potenza di tutte le cose” ossia in una condizione di assoluta sovrabbondanza che trascende tutte le cose esistenti di cui è l’origine e la fonte e che si colloca perciò al di là dell’essere stesso e di ogni forma di conoscenza ordinaria; appunto in ragione della sua sovrabbondanza, l’Uno emana da sé, come un’inesauribile fonte di luce, dei residui della propria infinita potenza, che a loro volta, assumendo una dimensione sostanziale stabile, si configurano come altrettanti livelli di esistenza, o ipostasi, via via inferiori nella gerarchia del reale.

La seconda ipostasi, cioè il prodotto più immediato dell’emanazione dall’Uno, è l’Intelletto, che corrisponde al mondo intellegibile delle idee platoniche, nel quale si pone una piena e compiuta identità fra essere e pensiero. L’Intelletto è infatti descritto come una totalità organica, la cui unità si articola cioè in una molteplicità di forme o idee eterne e immutabili che rappresentano i modelli e i principi delle cose esistenti nel mondo sensibile; ma a tale articolata molteplicità è attribuita da Plotino una dimensione o una potenza attiva, giacché ciascuna delle idee, e l’Intelletto nel suo insieme, sono anche concepiti come atti di pensiero, in modo che ogni ente intellegibile si configura allo stesso tempo come soggetto pensante e oggetto pensato o appunto come pensiero ed essere o ancora come attività intellettuale dotata di efficacia causale e come contenuto paradigmatico, stabile ed eterno, di tale attività. Ma in accordo con la dottrina platonica, il mondo intellegibile si colloca al di fuori dello spazio e del tempo, sicché quella dell’Intelletto è una molteplicità, ontologica e funzionale, estranea a ogni forma di estensione o pluralità concreta: è al livello sottostante della terza ipostasi, infatti, che entrano in gioco le dimensioni spaziale e temporale.

Prodotto dell’emanazione dell’attività dell’Intelletto, che è analoga, benché inferiore, a quella dell’Uno che produce l’Intelletto, e dunque indirettamente dell’Uno, l’Anima è la realtà che, letteralmente, anima e vivifica il mondo sensibile, imponendo alle cose la forma loro propria, che consiste in un principio razionale attivo (logos) corrispondente a una versione indebolita e resa ormai concreta dalla sua applicazione alle cose sensibili delle forme intellegibili che si trovano nell’Intelletto. Ciò è reso possibile dalla natura duplice, o anfibia, dell’Anima che, per un verso, in quanto prodotto dell’attività dell’Intelletto, rimane strettamente connessa a esso e perciò partecipe del suo statuto intellegibile, mentre, per altro verso, in ragione della sua funzione “animatrice” del sensibile, discende nel sensibile e si dispiega così nell’estensione spazio-temporale. Al di sotto dell’Anima, estrema propaggine dell’intellegibile nel sensibile, si colloca il mondo fisico, che deve appunto la sua solo parziale consistenza ontologica alla forma che riceve, in virtù dell’azione dell’Anima, dall’intellegibile, ma possiede una dimensione materiale che dipende dal progressivo esaurimento dell’azione generatrice dell’Uno. Ed è pertanto per tale ragione che, al limite inferiore del reale o piuttosto come suo termine negativo, la materia di per sé, cioè considerata indipendentemente dalla forma che la “informa”, rappresenta l’esito della cessazione degli effetti dell’emanazione dell’Uno, la sua assenza, e, in questa misura il non essere.

Anche da un’illustrazione così sintetica emergono con chiarezza alcuni elementi caratteristici della concezione plotiniana del reale. In primo luogo, l’ininterrotta continuità che di fatto unifica le cose che sono in quanto esistono, tutte e sempre le stesse, ai diversi livelli ipostatici: nell’Uno, nella forma della sua potenza infinita di produrle; nell’Intelletto, come idee intellegibili eterne e immutabili che ne costituiscono i principi causali e i modelli; nell’Anima, come principi razionali destinati a ordinare il mondo sensibile come forme immanenti in esso; nel mondo sensibile stesso, infine, ormai come enti fisici e naturali concreti. Una simile continuità ontologica si basa sul fatto che, a ogni livello ipostatico, il meccanismo produttivo secondo il quale si generano le ipostasi inferiori rimane immutato: a ogni realtà (l’Uno, l’Intelletto, l’Anima) appartiene infatti una doppia attività, quella che le è propria in virtù della sua natura e che essa realizza di per sé e quella che deriva dall’emanazione da sé della propria sovrabbondanza. Come il fuoco è caldo, e in tale produzione di calore esplica la propria attività prima, ma lascia anche espandere il suo calore a distanza, così producendo una condizione di calore “seconda”, perché indebolita e via via resa autonoma dalla prima, allo stesso modo tutte le realtà esistenti non sono altro che una riproduzione, a un livello inferiore e come sbiadito, dell’attività della realtà che le ha generate: così è l’Intelletto rispetto all’Uno, che della potenza infinita di quest’ultimo riceve una semplice porzione che si sostanzia nella sua attività intellettuale di conoscenza immediata della totalità degli intellegibili; così è l’Anima rispetto all’Intelletto, che dell’attività intellettuale di quest’ultimo riceve anch’essa una semplice porzione che si sostanzia nella sua attività razionale, affine ma inferiore a quella intellettuale per il suo carattere discontinuo e generalmente mediato. Inoltre, come pure Plotino insiste nel sottolineare (per esempio in Enneadi VI 7 [38], 1-3), tale processo generativo, a ogni livello del reale, non dipende da una pianificazione intelligente o da un disegno volontario e provvidenziale, ma esclusivamente da una necessità assoluta, che è quella, puramente ontologica, secondo la quale ogni realtà non può che sussistere per come è e realizzando la propria attività e da tale attività non può che scaturire, come suo effetto collaterale, un’attività seconda e derivata che è ciò in cui consiste la realtà generata. Ne risulta che l’intera realtà si genera così, appunto per necessità, da un unico principio originario e primo, in una prospettiva rigorosamente monista; che i livelli successivi di tale generazione, corrispondenti alle diverse ipostasi, costituiscono altrettanti gradi discendenti e degradanti in quanto coincidenti con il progressivo indebolimento della potenza infinita dell’Uno, ciascun prodotto generato essendo sempre inferiore al produttore che lo genera nella misura in cui ne è un effetto derivato e secondo; che, infine, nessun orientamento teleologico – ex ante, per esempio dovuto a un intelletto divino che dispone il tutto secondo ragione, o ex post, per esempio associato a un ordine naturale oggettivamente dato – è possibile nel mondo di Plotino: l’emarginazione della causa finale appare tanto più notevole se si considera il ruolo che a essa era riservato dai grandi “classici” di riferimento di Plotino, Platone e Aristotele.

Può essere legittimamente sollevata la domanda, di fronte a una simile compattezza, se non sistematicità, dottrinaria, relativa al modo corretto o più proficuo di leggere le Enneadi, se nell’ordine cronologico della composizione dei trattati da parte di Plotino oppure in base all’ordine tematico deciso da Porfirio; se assumendo come punto di partenza il principio primo che è l’Uno, dunque, per così dire, dall’“alto” verso il “basso”, oppure il mondo sensibile della natura, dunque dal “basso” verso l’“alto”, o ancora altrimenti, sulla base di determinate scelte tematiche, per esempio a partire dall’insieme di problemi che la tradizione filosofica dei commentatori precedenti consegna a Plotino. Ciascuna di queste opzioni ha senza dubbio una sua plausibilità. Abbiamo visto fin qui come, privilegiando il ruolo e la posizione dell’Uno in quanto principio primo del tutto, dunque dall’“alto” verso il “basso”, emerga una ricostruzione fortemente unitaria della prospettiva ontologica plotiniana: ci si può chiedere però a tale proposito come sorga, agli occhi di Plotino, l’idea, o piuttosto l’esigenza, di un principio primo assolutamente semplice cui ricondurre o da cui derivare l’intera realtà e tutte le cose esistenti, ossia, in altre parole, quale sia il fondamento, storico e teorico, del suo monismo filosofico. Da un punto di vista teorico, pare operante nella riflessione plotiniana un principio che è stato definito dell’“anteriorità del semplice”, vale a dire che, per ogni realtà a qualunque titolo e da qualunque punto di vista plurale e composita, occorre individuare un principio e una causa che risultino più semplici e meno compositi del loro prodotto o effetto, in modo da poterne rappresentare un elemento componente. In altre parole, ogni processo causale e generativo sembra concepito come un passaggio dal semplice al complesso, sicché è inevitabile che il principio primo del tutto sia assolutamente semplice, privo di parti e dunque necessariamente “uno”: solo così esso può essere “primo”, cioè non rinviare ad altro che lo preceda, e unico, cioè non avere altro che sussista accanto a sé. È noto altresì che Plotino ritiene di poter individuare un’anticipazione della sua dottrina delle tre ipostasi, e particolarmente della sua concezione dell’Uno come principio primo e assolutamente semplice di tutte le cose, in alcuni passi della seconda parte del Parmenide di Platone, che egli legge in parallelo con le pagine del VI libro della Repubblica in cui viene fornita una descrizione dell’idea del Bene, posta alla sommità del mondo intellegibile e cui paiono ambiguamente riconosciuti un ruolo e un potere rispetto alla generazione dell’essere stesso. Anche da un punto di vista storico ed esegetico, quindi, Plotino trova in Platone le premesse per l’introduzione di un principio primo del reale che, in virtù della sua assoluta semplicità e priorità rispetto alle cose che sono, compreso l’essere stesso dell’Intelletto e degli intellegibili che da esso derivano, precede l’essere che da esso procede e in tale misura, di conseguenza, “non è”; e, come già Platone aveva osservato appunto nel Parmenide, a questo “Uno” che, per essere davvero e soltanto “uno”, neppure “è”, non è possibile rivolgere né pensiero né discorso, né conoscenza né linguaggio, appunto in quanto trascende l’ambito di ciò che è pensabile e dicibile, cioè l’essere e l’intellegibile, sicché intorno a esso ci si può esprimere solo negativamente, approssimandosi a esso dicendo ciò che non è, secondo una procedura argomentativa che, specie nel posteriore neo-platonismo, avrà ampia diffusione con il nome di “teologia negativa”.

Ne consegue ancora, così stando le cose, che l’unico accesso possibile all’Uno, da parte di chi si ponga alla sua ricerca, non ha i caratteri della conoscenza razionale o discorsiva né può verificarsi tramite il pensiero o altra forma di procedura intellettuale ordinaria, se appunto l’Uno si colloca al di là dell’essere e del pensiero, ma soltanto attraverso un’esperienza immediata che Plotino descrive nei termini di una “uscita da sé” (ekstasis), appunto per ricongiungersi al principio primo da cui in ultima analisi tutto deriva e di cui perciò tutto conserva in sé una traccia, per quanto affievolita e debole. Non si tratta però di un esito irrazionalistico o mistico né di un’“uscita da sé”, per così dire, verso l’“esterno” o verso l’“altro da sé”, così trascendendo o annullando il proprio sé nell’Uno; si tratta al contrario di oltrepassare ogni procedura razionale per abbandonare il sé composito e plurale in cui ogni cosa esistente consiste, recuperando invece il proprio sé più autentico, cioè quella traccia del principio che ogni cosa conserva in sé in quanto ne proviene e che può far emergere spogliandosi progressivamente di tutte le aggiunte esteriori che all’unità originaria si sono sovrapposte e “sommate” nel corso della discesa, attraverso i diversi livelli ipostatici, nella gerarchia del reale. Da questo punto di vista si comprendono le ragioni che hanno indotto Porfirio a stabilire un ordine tematico della sua edizione delle Enneadi che prende le mosse dall’etica individuale, per passare poi all’ambito fisico e cosmologico, quindi all’anima, all’Intelletto e infine all’Uno, cioè, per esprimerci come sopra, dal “basso” verso l’“alto”. In questo caso, infatti, emerge l’intenzione di fornire, attraverso la lettura delle Enneadi, una vera e propria introduzione, se non un’effettiva esortazione, alla filosofia, che accompagni il discepolo dalla condizione in cui si trova, immerso nel mondo sensibile e nel corpo e distratto dai flussi e riflussi dei suoi processi materiali determinati dai desideri e dalle passioni, alla consapevolezza della sua superiorità rispetto alla natura sensibile dalla quale egli si distacca grazie alla propria anima, che gli consente di elevarsi all’ambito intellegibile, attraverso l’esercizio dell’attività intellettuale, e fino all’Intelletto e alla conoscenza delle idee, oltre il quale, però, solo uno slancio individuale ed extra-razionale può condurre infine all’esperienza dell’unione con l’Uno. Un’esperienza rara ed eccezionale, che lo stesso Plotino avrebbe realizzato solo per quattro volte nel corso dei cinque anni che Porfirio ha trascorso con lui, come quest’ultimo racconta nella biografia del maestro (Vita Plotini 23), e comunque temporanea, puntuale e parziale, se la collocazione ontologica delle cose che sono nella gerarchia del reale e ai diversi livelli ipostatici dipende dalla necessaria degradazione a partire dal principio primo, la cui direzione discendente non può essere sovvertita. La risalita verso l’Uno, in altre parole, non rappresenta un percorso suscettibile di invertire l’ordine del reale, che, in ragione della sua emanazione a partire dal principio primo e per la necessità che regola la sua generazione, rimane discendente e degradante; ma fornisce uno strumento che consente di ritrovare il principio primo in ogni cosa e ai viventi di scoprire la propria origine e la propria natura più autentica.

Fra le innovazioni che Plotino apporta alla precedente tradizione platonica e fra gli elementi che ne fanno il caposcuola di una nuova lettura di Platone, appunto quella neo-platonica, vanno perciò valorizzati, nel commento ai testi di Platone, il riferimento al Parmenide, e particolarmente alla seconda parte di questo dialogo, che contiene una serie di svolgimenti deduttivi relativi all’uno che Plotino legge come un’anticipazione della sua dottrina delle tre ipostasi, e la polemica contro ogni forma di influsso religioso, ricollegabile alla teurgia, alle dottrine gnostiche o alle correnti astrologiche sue contemporanee, in favore di una concezione rigorosamente razionalista della realtà e degli esseri che in essa, in ciascuno dei suoi gradi o livelli, sono collocati.

 

Bibliografia essenziale

Edizioni P.F. Henry – H.-R. Schwyzer, Plotini Opera, 3 vols., Oxford 1964-1982. Traduzioni italiane M. Casaglia, A. Linguiti, C. Guidelli, F. Moriani, Plotino, Enneadi, a cura di, Torino 1997. Strumenti bibliografici R. Dufour, Plotinus. A Bibliography: 1950-2000, Leyden (<http://rdufour.free.fr/BibPlotin/Plotin-Biblio.html>) 2002. J.H. Sleeman – G. Pollet, Lexicon Plotinianum. Leiden 1980. Studi H.J. Blumenthal, Plotinus’ Psychology, The Hague 1971. E.K. Emilsson, Plotinus on Sense-Perception. Cambridge 1988. D.J. O’Meara, Plotinus: An Introduction to the Enneads, Oxford 1993. P. Gerson, (ed.). The Cambridge Companion to Plotinus, Cambridge 1996. P. Hadot, Plotin ou la simplicité du regard, Paris 1997. E.K. Emilsson, Plotinus on Intellect. Oxford 2007. R. Chiaradonna, Plotino, Carocci, Roma 2009.

La Repubblica di Platone

Fra i dialoghi più densi e complessi di Platone (427-347 a.C.), la Repubblica, che fu composta verosimilmente fra il 385 e il 375 e appartiene perciò alla piena maturità del filosofo, rappresenta certamente la fonte principale per la ricostruzione del suo pensiero etico e politico, che non cessa di suscitare fra i commentatori un dibattito intenso e controverso, tanto dal punto di vista del progetto sociale e costituzionale che disegna, quanto sul piano delle implicazioni psicologiche, epistemologiche e ontologiche connesse alla definizione del sapere dei filosofi che, secondo Platone, devono essere collocati alla guida di tale progetto. Non è questo, naturalmente, il contesto opportuno per suggerire un’interpretazione d’insieme della Repubblica; quanto mi propongo è di segnalare alcune delle principali linee di discussione che consentono di mettere a fuoco alcuni dei problemi suscitati dalla lettura dell’opera. Una difficoltà preliminare, che va in qualche modo immediatamente affrontata, riguarda l’oggetto del dialogo: se Diogene Laerzio non mostra dubbi nel catalogare la Repubblica fra i dialoghi politici di Platone (III 50-51), è abbastanza facile constatare come l’opera sia caratterizzata da un intreccio tematico che non si lascia sciogliere in una scansione disciplinare ben determinata, se non al prezzo di schematizzazioni in parte forzate.

Il dialogo, infatti, si snoda come segue: mentre il libro I introduce il tema della giustizia, della sua natura e della sua definizione sul piano psicologico del comportamento individuale, con un’andatura e uno stile che ricordano abbastanza esplicitamente le indagine socratiche condotte nei cosiddetti “dialoghi giovanili”, con la consueta contrapposizione, a tratti assai violenta, alle posizioni ascrivibili alla sofistica, a partire dal libro II, il problema della giustizia viene esteso, per analogia, all’ambito politico della costituzione e della struttura della città, forse meglio identificabile per il suo carattere concreto e storicamente determinato (368b-369b), con il tentativo, condotto ancora nel libro III, di effettuare una ricognizione completa della struttura socio-istituzionale della città, con l’individuazione delle classi che la compongono e con la rigorosa ripartizione dei compiti e delle funzioni che a ciascun cittadino sono assegnati. Ma è il libro IV che produce una svolta nell’analisi, perché, riproponendo l’analogia fra l’indagine sulla giustizia a livello psicologico individuale e al livello politico della città, giunge a stabilire la sua definizione universale come consistente nell’esercizio, per ogni individuo (e per ogni componente psico-fisica di ogni individuo) o per ogni agente istituzionale (cittadino, classe sociale, città), della sua funzione propria: la giustizia è, di conseguenza, ta heautou prattein (433a), in base al principio, che rappresenta un filo conduttore narrativo e a un tempo un nucleo teorico situato, implicitamente ed esplicitamente, al cuore della Repubblica, secondo cui l’esercizio, da parte di ogni elemento particolare di un insieme, della propria funzione naturale compone, garantisce e preserva l’equilibrio armonico dell’insieme, dunque, in tal senso, il suo ordine, che coincide di fatto con la “giustizia” della sua disposizione strutturale e funzionale. A partire dal libro V, la sfida rivolta a Socrate dai suoi interlocutori consiste nel precisare le condizioni di possibilità di una simile struttura istituzionale, di cui vengono fissate dapprima le “scandalose” tappe socio-politiche, con le celebri “ondate” relative alla necessità della comunanza pianificata della proprietà, della produzione dei beni e della procreazione, fino alla più ardua esigenza del governo dei filosofi. Particolarmente quest’ultimo assunto richiede, dall’ultima parte del libro V e fino al VII, una rigorosa giustificazione, che si articola attraverso un’assai complessa dimostrazione che sancisce la differenza fra il sapere dei filosofi e le opinioni degli uomini comuni, premessa indispensabile per spiegare e difendere il ruolo dominante dei filosofi nella città, e di seguito stabilisce l’opportuno curriculum formativo dei futuri filosofi-governanti. Il libro VIII esamina poi, con il rigore diagnostico di una vera e propria analisi sociologica della natura e delle degenerazioni del potere politico nella dialettica del suo esercizio istituzionale e sociale, le diverse forme di governo storicamente corrispondenti alle forme assunte come canoniche nel pensiero politico greco e, del resto, di fatto coincidenti con i principali generi di regime concretamente prodottisi nel mondo greco (timocrazia, oligarchia, democrazia, tirannide), cui segue, nel libro IX, una ripresa del tema originale della giustizia, al fine di dimostrare, tornando nuovamente sul piano psicologico individuale, la superiorità e la felicità del giusto rispetto all’ingiusto, in virtù del parallelismo stabilito, sul piano della forma di governo, con la relazione fra il sistema istituzionale più giusto rispetto all’ingiusto. Il dialogo, che potrebbe a questo punto dirsi compiuto, prosegue invece nel libro X, nel quale si torna, pur se con accenti diversi, sulla giustificazione della superiorità del sapere dei filosofi, che va assunto come paradigma pedagogico e gestionale della condotta individuale e collettiva, rispetto al sapere comune rappresentato dalle forme abituali della cultura tradizionale, per esempio dell’arte imitativa e della poesia, epica o tragica. Un lungo e complesso monologo mitologico, dedicato all’esposizione del destino dell’anima individuale nel corso della sua vicenda immortale, conclude la Repubblica, trasponendo di fatto l’affermazione della superiorità e della desiderabilità della giustizia rispetto all’ingiustizia, dall’ambito psico-fisiologico e socio-politico all’ambito propriamente metafisico ed escatologico.

Di fronte a un’articolazione tematica così complessa, è inevitabile chiedersi dove si collochi esattamente il nucleo propriamente “politico” del dialogo. Del resto, come ha osservato Mario Vegetti, è possibile individuare alcune linee di riflessione abbastanza nette nella concezione platonica della politica: dalla definizione dello statuto del governo della città, con la determinazione dei requisiti per accedervi, degli obiettivi da raggiungere e degli strumenti di consenso per conservarlo, alla corrispondente struttura sociale, economica e istituzionale della città, con l’esame dei rapporti di classe cui essa dà luogo e delle diverse possibili situazioni concrete in cui la città storicamente si trova (in pace o in guerra, stabilendo oppure no relazioni di scambio con altre città e così via). Il punto di partenza abituale per questa indagine è rappresentato dalla constatazione che la città esistente è “malata” (VIII 544c) e che occorre pertanto studiare le cause e il decorso della sua malattia per poterla curare e infine proporre un modello istituzionale immune da tali rischi; il sintomo principale della malattia della città è il conflitto perdurante, non solo nell’Atene di Platone, fra le sue distinte componenti sociali, che produce una sorta di guerra civile permanente, interna alle singole città oppure fra le diverse città del mondo greco: in questo ambito, l’imputato principale è certamente il regime democratico ateniese, che Platone considera come ineludibilmente esposto all’esito di una degenerazione demagogica, coincidente con l’asservimento dei fini di governo alle spinte irrazionali provenienti dalla massa e dunque in contraddizione radicale con il principio platonico del perseguimento del bene, individuale e collettivo, sulla base del sapere. Si è ricordato poco sopra quali siano gli elementi principali della “cura” che Platone suggerisce per guarire la “malattia” della città: si tratta di stabilire un’organica distribuzione di funzioni e compiti basata sulla natura e le competenze di ogni individuo e di ogni gruppo sociale che componga un equilibrio efficiente e armonico. La condizione di realizzabilità di questo sistema organico viene individuata da Platone attraverso l’attribuzione del governo a un gruppo quantitativamente ristretto di “sapienti”, i filosofi, che svolgono la propria funzione direttiva in virtù della facoltà e delle competenze razionali che prevalgono in loro; a questo gruppo dirigente Platone associa un gruppo più numeroso, composto dai “guerrieri”, che, rigorosamente subordinato al primo e in esecuzione delle direttive di quello, opera le funzioni di controllo e di salvaguardia dell’ordine pubblico, come un apparato di sicurezza che garantisce, in virtù del proprio carattere “aggressivo”, la conservazione dell’insieme; a un terzo e ultimo gruppo sociale, il più numeroso, appartengono infine compiti produttivi e commerciali, indispensabili al benessere della città e tuttavia necessariamente sottoposti al controllo e alla disciplina imposta dei gruppi superiori, per evitare che l’elemento individualistico e potenzialmente capace di sovvertire l’equilibrio dell’insieme, connesso alla produzione, all’accumulo e allo scambio di ricchezze, possa incrinare la buona disposizione della città.

Da questa rigida scansione gerarchica derivano altrettante conseguenze, teoriche e pratiche, sul piano dell’ingegneria politica e istituzionale. A garanzia dell’obiettivo generale perseguito dall’azione dei governanti, e dell’applicazione esclusiva di un criterio razionale nell’esercizio di tale azione, Platone prescrive la norma che estirpa ogni possibile fonte di interesse o inclinazione individuale nella formazione e nella vita quotidiana dei membri di questo gruppo: la collettivizzazione patrimoniale e affettiva e, subito oltre, la durissima selezione, genetica e pedagogica, dei filosofi mirano precisamente a sancire le condizioni necessarie per l’accesso al potere e per il suo esercizio. E, nonostante la complessa articolazione di questo percorso di analisi e prescrizione politica, Platone avverte, e dunque fa emergere con acutezza, l’inevitabilità della degenerazione di ogni forma istituzionale, che, per quanto vicina al modello descritto, si trova esposta alla natura instabile delle vicende umane e della storia o, in altre parole, alla caratteristica deficienza ontologica del mondo sensibile, irrimediabilmente vincolato al divenire in opposizione all’eterna stabilità del modello ideale intellegibile.

Lo sfondo del dibattito novecentesco intorno all’etica e alla filosofia politica della Repubblica è rappresentato certamente, e tuttora, dalle violente accuse che Karl Popper ha rivolto a Platone in The Open Society and its Enemies (1944). Come è noto, secondo Popper, Platone avrebbe, per un verso, preteso di identificare le “leggi della storia” e, con esse, di predeterminare lo svolgimento e la realizzazione delle vicende umane e, particolarmente, della condizione dell’uomo e della sua funzione in seno alla città e allo stato; per altro verso, e di conseguenza, avrebbe costruito nella Repubblica uno schema socio-istituzionale fondato su una serie di principi a-priori che sono finalizzati alla realizzazione della felicità collettiva, a scapito di ogni forma di individualismo e di libertà o inclinazione individuale. Quella platonica si configurerebbe perciò come un’“utopia totalitaria”, nella misura in cui il carattere utopico dipende appunto dal riferimento a un set di principi eterni e immutabili “posti in cielo”, cui ispirarsi e da riprodurre nell’azione politica e istituzionale, che sfocia a sua volta in una prospettiva totalitaria in quanto, per realizzare questo progetto, occorre piegare qualunque tendenza soggettiva dei singoli cittadini alla superiore esigenza di costituire una società perfetta, sacrificando interessi e opzioni delle parti in nome della suprema indicazione del benessere e dell’efficienza del tutto. Ora, come è noto, l’accesa requisitoria di Popper ha suscitato un’ampia serie di reazioni, per lo più dominate dall’intento, del resto in gran parte esplicito, di difendere Platone dalle accuse rivoltegli, finendo spesso, tuttavia, per optare piuttosto per uno sforzo implicito di difendere Platone da se stesso, senza invece operare un’attenta disamina, storica e filosofica, dei presupposti esegetici della ricostruzione popperiana – senza considerare, insomma, che l’estraneità di Platone alla tradizione etica e politica liberale o democratica, denunciata da Popper, potrebbe evidenziare più che un limite o una colpa da ascrivere allo stesso Platone, un presupposto interpretativo miope, che a sua volta non tiene conto dei diversi momenti della storia del pensiero, quasi assumendo il liberalismo moderno come la dottrina definitiva e definitivamente stabilita in base alla quale misurare, e giudicare, i pensatori del passato. È chiaro come, adottando simili strategie difensive, ancora oggi ben presenti e documentabili negli studi recenti, si corra il rischio di indebolire e depotenziare la riflessione politica di Platone, neutralizzandola sotto ogni profilo, pur di evitare, di fronte alla constatazione innegabile che egli non fu un liberale e un democratico, di farne un nemico della libertà e della democrazia, un pensatore totalitario diretto precursore dei regimi dittatoriali del novecento.

Un’analoga strategia, almeno rispetto alla tesi secondo la quale non bisogna considerare come autenticamente platoniche le affermazioni relative al progetto politico della Repubblica, si ricollega ai nomi di due celebri filosofi del Novecento, Hans-Georg Gadamer e Leo Strauss: il primo ha insistito sul carattere esclusivamente utopico della costruzione politica di Platone, riducendola al rango di una proiezione immaginaria, edificata come fantasiosa e piacevole evasione nella mente e non certo nella concretezza della realtà e della storia, il cui scopo si riduce essenzialmente al gioco puramente astratto del confronto intellettuale; il secondo ha sottolineato, più che i tratti utopici del progetto della Repubblica, la caratteristica modalità della “dissimulazione” che Platone avrebbe messo in atto, allo scopo di evitare il rischio di urtare la morale prevalente e la communis opinio dei suoi contemporanei, di incorrere in contrasti o punizioni da parte dell’autorità. Non si tratta soltanto di nascondere, tramite prudente reticenza, le proprie tesi autentiche, ma di proporre alternativamente, dissimulandone i contenuti attraverso un complesso schema dialogico che ne cela ironicamente i contenuti effettivi, un progetto ben preciso, i cui contorni risultano identificabili e accessibili ai lettori che sappiano oltrepassare l’immediatezza letterale di quanto Platone scrive, per cogliere i riferimenti esoterici che egli tratteggia attraverso gli articolati scambi dialogici fra i suoi personaggi. Il disegno fondamentalmente comunistico della Repubblica, che recide ogni aspirazione e dimensione individuale, trascurerebbe volutamente, e perciò ironicamente, gli impulsi riconducibili al corpo, alle differenze specifiche dei singoli cittadini e di genere fra i sessi, manifestando così il suo carattere assolutamente contro natura e perciò ideale, e in tal senso utopico, e dunque di fatto consapevolmente impossibile rispetto alla sua realizzazione concreta. Impossibile e perfino indesiderabile, la città ideale della Repubblica avrebbe allora solo il fine di denunciare i limiti di ogni progettualità politica che, secondo la nota concezione straussiana, deve astenersi dall’invadere gli spazi propri della filosofia e della teologia.

Come si vede, al centro di questi complessi, e talora assai contorti, tentativi esegetici, si colloca, pur se con diverse sfumature e da diversi punti di vista, la questione della cosiddetta “utopia” platonica, come forma estrema di difesa, o via di fuga, dalle accuse popperiane di totalitarismo politico. Ma, che si evochi un’utopia “fantastica” o un’utopia “dissimulatoria”, pare impossibile non tenere conto dei numerosi richiami, contenuti nella Repubblica, all’essenziale problema della concreta realizzabilità del modello che viene via via disegnato (cfr. per esempio 450d, 458a-b, 499c ecc.), anche se, appunto in virtù della differenza fra il modello ideale “nel cielo”, eterno e perfetto, e il mondo sensibile del divenire e della storia, le condizioni di possibilità di tale realizzazione sono ardue e di difficile attuazione (cfr. per esempio 499d, 502c, 504d ecc.). Il tratto utopico del progetto della Repubblica risiede allora nello iato che inevitabilmente sussiste fra la perfezione del modello, che nulla, tuttavia, rende di per sé oggettivamente irrealizzabile, e le sue condizioni di possibilità, che si scontrano invece con l’altrettanto inevitabile imperfezione della sua realizzazione. Ma questo tratto utopico non dipende dal progetto platonico, la cui perfezione ideale costituisce anzi, per il suo valore paradigmatico, il principale elemento di forza e di attrattività politica, bensì dalla dimensione pratica e concreta nella quale occorre realizzarlo: in questa misura, ed entro questi limiti, è certo possibile individuare una tensione utopica nella riflessione politica di Platone, appunto quella tensione insopprimibile determinata dalla distanza mai definitivamente colmabile fra il modello e la sua realizzazione concreta, e a un tempo, per converso, dall’attrazione mai sopprimibile che quello esercita su questa. Nello iato così determinato, fra il modello e la sua realizzazione concreta, si apre lo spazio per l’elaborazione di una vera e propria teoria normativa, con l’indicazione di una serie di requisiti necessari per la sua attuazione efficace, che, per quanto a loro volta di difficile applicazione, appaiono nuovamente non impossibili, in linea teorica, rispetto alla loro esecuzione: il governo dei filosofi, o la conversione dei governanti alla filosofia, rappresenta da tale punto di vista la prescrizione fondamentale che, abbinata a un rigido controllo sociale, può indirizzare la costituzione della “città in terra” a imitazione della “città in cielo”. Si noterà come, a questo punto, il quadro esegetico intorno all’interpretazione “politica” della Repubblica si collochi al di fuori della gabbia polemica costruita da Popper, ma accettata di fatto anche dai suoi critici, che intendeva imbrigliare la riflessione politica di Platone all’interno del confronto esclusivo con il pensiero liberale e democratico moderno e della sua contrapposizione, tutta novecentesca, alle contemporanee dottrine totalitarie; gli sviluppi descritti fin qui per sommi capi, con le relative acquisizioni esegetiche, ci restituiscono un Platone estraneo, perché non assimilabile neanche in linea di principio, tanto al liberalismo quanto al totalitarismo, un Platone attraverso il quale tornare a pensare ai termini generali della progettualità della politica, dei suoi requisiti normativi, giuridici e istituzionali, e alle condizioni della sua azione concreta, nella società e nella storia degli uomini.

Si è accennato alla stretta corrispondenza, nella Repubblica, fra la riflessione politica intorno alla costituzione e alla struttura della kallipolis e l’analisi psicologica che esamina la costituzione dell’anima individuale e la sua struttura funzionale, e ciò sulla base di una precisa analogia fra l’anima e la città: proprio su questo piano si può individuare un altro elemento assai significativo, benché anch’esso non esente da ambiguità e difficoltà, dello svolgimento argomentativo del dialogo, appunto in riferimento alla teoria dell’anima. Platone elabora infatti una concezione dell’anima strutturata secondo una ben precisa tripartizione funzionale, individuando altrettanti “centri pulsionali” o facoltà psichiche che, di per sé indipendenti, devono tuttavia collaborare per la corretta ed equilibrata armonia operativa dell’individuo: una facoltà razionale (logistikon), cui spetta il comando dell’intera anima, una facoltà irascibile o ardimentosa (thumos), che, alleata della prima deve garantirne la supremazia, e una facoltà desiderativa o concupiscibile (epithumethikon), che tende a contrapporsi al governo della prima e alla costrizione della seconda, alimentando le inclinazioni più basse e irrazionali. La pluralità composita del soggetto psichico che ne deriva, corrisponde, sul piano politico, alla pluralità sociale e funzionale dei tre gruppi di cittadini che compongono la kallipolis – i filosofi, i guerrieri e i produttori – e permette di rendere conto, al livello psicologico del singolo come al livello politico della città, della varietà di comportamenti, individuali e collettivi, che possono prodursi su entrambi i piani: quando infatti, rispettivamente, la facoltà razionale è sostenuta alla guida dell’anima della facoltà irascibile, e sottomette le pulsioni inferiori, e i filosofi, con l’ausilio dei guerrieri, reggono la città imponendo il proprio comando ai produttori, l’individuo e la collettività si mantengono nell’equilibrio e nella giustizia; ma quando invece, rispettivamente, la facoltà razionale sia soverchiata dall’inopportuna alleanza fra la facoltà irascibile e le pulsioni inferiori, e i filosofi siano sopraffatti da un’improvvida coalizione dei guerrieri e dei produttori, l’anima e la città risulteranno sconvolte e prive di ordine, in preda al caos irrazionale, all’ingiustizia e al conflitto.

Ora, benché questa concezione dell’anima fornisca indubbiamente un contributo decisivo all’illustrazione della natura della giustizia nell’ambito dei rapporti sociali all’interno della città, specie a partire dal libro IV della Repubblica, si nota tuttavia che una dottrina della tripartizione pare assente dai dialoghi precedenti e, con l’eccezione del mito del Fedro (246a), non viene utilizzata da Platone nei contesti “genetici”, in cui cioè si propone una descrizione della costituzione dell’anima, del suo ingresso e della sua uscita dal corpo, del suo destino immortale. Perfino nella stessa Repubblica, nel libro X (611b-c), si afferma che la «mutilazione» dell’anima, ossia la sua partizione, dipende dal fatto che essa è congiunta al corpo e soggetta ai fenomeni a esso relativi, perché, di per sé, si tratta invece di una realtà pura: l’anima è in effetti come il Glauco marino, di cui non si scorge la vera natura, pura e semplice, perché a essa si sono aggiunti, ricoprendola e ispessendola, strati di incrostazioni saline, «conchiglie, alghe e pietre», che la corrodono e ne sfigurano il profilo. Questa immagine dell’anima, non propriamente tripartita bensì bipartita, pare supporre perciò una dottrina più semplice e fondamentale della precedente, che si lascia ricondurre alla distinzione fra un principio razionale e immortale, in cui esclusivamente consiste l’anima in sé, e una sfera funzionale irrazionale e mortale, che all’anima è aggiunta nel corso della sua permanenza nel corpo – una dottrina che sembra a sua volta piuttosto diffusa in altri dialoghi (dal Fedone al Politico e al Timeo): è controverso, di conseguenza, se si tratti di due dottrine diverse, e fra loro in contraddizione, o se si lascino invece ricondurre a due aspetti distinti, eventualmente per ragioni strategico-dimostrative, di una dottrina unitaria. Resta però, comunque si sciolga la difficoltà, che la dottrina della tripartizione funzionale dell’anima del libro IV della Repubblica introduce una sorta di isomorfismo che, in qualche modo ridimensionando l’opposizione dell’anima al corpo, prefigura una concezione del vivente come “organismo integrato” di anima e corpo, nel quale il corpo viene assunto come potenziale alleato dell’anima, in un quadro che preannuncia gli sviluppi psico-fisiologici del Timeo e la riflessione psicologica di Aristotele.

Si può passare così, dal dibattito intorno allo statuto dell’anima, all’esame della sua funzione più alta, quella razionale e conoscitiva, cui risale la sostanziale differenza che i libri V-VII della Repubblica stabiliscono fra i filosofi, cui spetta il compito del governo della città, e gli uomini comuni, i “non filosofi” che si limitano a possedere un sapere apparente fondato sulle opinioni. A tale esito si giunge compiendo innanzitutto (1) una complessa riflessione epistemologico-politica che permette di distinguere, in virtù del loro sapere e del loro grado di accesso alla verità, i filosofi destinati al governo della kallipolis dai loro imitatori, nelle ultime dieci pagine del libro V e nelle prime del libro VI; (2) una schematica e perfino contratta illustrazione della funzione dell’idea del bene, che orienta e a cui è orientato il sapere dei filosofi, nell’arco di poche pagine del libro VI; (3) e un’articolata costruzione epistemologica, con la celebre immagine della “linea” divisa, nelle ultime sei pagine del libro VI, e l’altrettanto celebre esposizione della caverna, che conduce alla descrizione della paideia dei filosofi, con particolare riguardo alla formazione dialettica, dunque al metodo e alla scienza di ciò che è in senso proprio, nell’intero libro VII.

Per un esame della prima questione, è possibile prendere le mosse dall’affermazione di Socrate (476e-479e), secondo cui chi conosce conosce necessariamente qualcosa che è, perché è impossibile conoscere ciò che non è, sicché, per estensione, viene formulato questo saldo principio: ciò che è assolutamente è assolutamente conoscibile; ciò che non è assolutamente, d’altra parte, è assolutamente inconoscibile. Se, ancora, qualcosa è e non è allo stesso tempo, intermedio fra il puro essere e l’assoluto non essere, ad esso si addice una forma di conoscenza intermedia fra la vera conoscenza – la scienza – e l’ignoranza: l’opinione. Viene infine specificata la natura degli oggetti delle tre differenti specie di conoscenza. Ciò che è realmente e a pieno titolo rimane sempre invariabilmente costante e immobile nella propria condizione: si tratta degli enti in sé e per sé, come il bello, il giusto e così via. Ciò che non è affatto si riduce invece al puro nulla, la semplice privazione d’essere, di cui è impossibile dire alcunché. In ultimo, l’oscuro oggetto dell’opinione, collocato fra l’essere e il non essere, si identifica con l’infinita molteplicità delle cose sensibili che appaiono contemporaneamente giuste e ingiuste, pie ed empie, grandi e piccole, leggere e pesanti, belle e brutte, che, per questa ragione, si distinguono da ciò che è e pur tuttavia, non coincidendo con il vuoto nulla, rappresentano comunque un “qualcosa” che almeno parzialmente è. Ecco perché chi non ammette la realtà degli enti in sé, ma soltanto l’apparenza delle cose sensibili, cioè il non filosofo, possiede un’opinione mutevole del proprio mutevole oggetto, senza poterlo conoscere davvero, mentre chi si volge agli enti in sé, il filosofo, raggiunge la vera e immutabile conoscenza del proprio oggetto vero e immutabile. Emerge qui la scansione gerarchica di tre livelli “esistenziali” e, più semplicemente, “oggettuali” distinti: ciò che è, ciò che non è e ciò che è e non è allo stesso tempo come dimensione intermedia fra i primi due livelli. Ora, prendendo atto del fatto che ciò che non è, in quanto è concepito come ciò che non esiste affatto, ossia come il puro nulla, appunto non è – e non costituisce pertanto un autonomo livello “esistenziale” né tantomeno “oggettuale” del quale opinare o pensare alcunché –, tale gerarchia finisce per distinguere esclusivamente due piani di esistenza e due gruppi di oggetti che appartengono all’uno e all’altro piano di esistenza e che, quindi, sono ed esistono in due modi diversi. L’argomento ha dunque soprattutto come scopo quello di completare questa ontologia con un’epistemologia che le corrisponda efficacemente come suo pendant: a fronte di un’ontologia almeno in una certa misura “esistenzialista” (nel senso che prevede a qualche titolo l’esistenza degli onta), viene proposta un’epistemologia fondamentalmente realista, per cui a oggetti distinti appartenenti a piani di esistenza diversi si addicono forme di conoscenza diverse, secondo uno schema rigido che dispone la corrispondenza della scienza con ciò che è e dell’opinione, mutevole e perciò talora vera (come la scienza) e talora falsa, con ciò che a un tempo è e non è (e dell’ignoranza, come totale assenza di conoscenza o opinione, con il non essere, totale assenza dell’essere e di alcunché).

Una simile scansione onto-epistemologica è ripresa e articolata, nella sezione conclusiva del libro VI (509d-511e), attraverso la celebre immagine della “linea” divisa, preceduta dal complesso riferimento, da parte di Socrate, alla collocazione e alla funzione causale dell’idea del bene, che conviene tuttavia trattare in seguito. Tracciando una linea e dividendola in due segmenti disuguali corrispondenti all’ambito sensibile e all’ambito intellegibile, se questi ultimi si dividono a loro volta in due segmenti ulteriori, avremo quattro distinti generi di oggetti e altrettanti modi di conoscenza, dal basso verso l’alto: le immagini, le ombre e riflessi degli oggetti sensibili, che vengono colti con l’immaginazione (eikasia); gli oggetti sensibili stessi, naturali e artificiali, contenuto di una percezione immediata (pistis); segue un primo set di oggetti intellettuali, esemplificati dalle figure geometriche o dai numeri, cui conviene il metodo proprio della geometria che procede ipoteticamente, non però risalendo verso il principio anipotetico per dimostrare la verità delle ipotesi formulate, ma assumendo tali ipotesi come vere e discendendo analiticamente fino alla conclusione del ragionamento: tale specie di conoscenza, benché appartenente al genere intellegibile e consacrata all’indagine delle realtà in sé, in quanto si serve di immagini sensibili ed è incapace di trascendere le proprie ipotesi per raggiungere il principio incondizionato di ogni ipotesi, prende il nome di pensiero dianoetico; al termine del percorso, nel quarto e ultimo segmento, si colloca un secondo set di oggetti intellettuali, cui si addice il metodo dialettico, che tratta le ipotesi che venivano formulate nel segmento precedente non come principi primi, ma come punti di partenza per ascendere al principio anipotetico del tutto e, dopo averne avuto conoscenza diretta, discendere da quello fino alla conclusione, senza utilizzare nessuno strumento sensibile, ma soltanto le idee in sé, per sé e rispetto a sé stesse: a tale forme di conoscenza viene attribuita la denominazione di nous o noesis, che ne designa incontrovertibilmente il carattere esclusivamente intellettuale.

Fra i problemi principali, tanto controversi quanto filosoficamente appassionanti, posti dal dibattito critico intorno alla “linea”, emerge quello della distinzione fra il genere di conoscenza dianoetica che compete al metodo dei geometri e quello che invece caratterizza il pensiero noetico dei dialettici. In particolare, c’è un’ampia discussione sulla possibilità che Platone si riferisca, parlando di nous o noesis, a una forma di conoscenza intuitiva e immediata e, in questo caso, di quale natura epistemica. Basti osservare, di fronte alla vastissima serie di opzioni esegetiche prospettate, che Platone pare alludere essenzialmente, attraverso il riferimento a una forma di conoscenza immediata e perciò in qualche modo “intuitiva”, all’esigenza indispensabile di stabilire la verità assoluta della razionalità discorsiva, che non sembra in grado di auto-giustificarsi. Nessuna “mappa” ontologica è possibile se ci si basa esclusivamente sull’esame delle relazioni fra le idee, che poggia a sua volta sulla definizione (proposizionale) di ogni singola idea, giacché, se non si possiede una conoscenza immediata della singola idea, non sarà mai possibile definirle tutte per differentiam. Si potrà definire “A” in relazione a “B”, “B” in relazione a “C” e così via; ma la conoscenza dell’ultimo termine della catena, sul quale poggia il grado di verità della conoscenza dell’intera catena, risulterà sempre problematica: o si tratterà di una conoscenza, questa volta, intuitiva, immediata e definitiva, oppure essa dovrà a sua volta poggiare sul primo termine esaminato, dando vita così a un inesauribile circolo vizioso. Si comprende come, precisamente a partire da queste pagine della Repubblica, sorga il dilemma teorico, così presente nella storia della filosofia posteriore, che oppone una forma di razionalità sostanzialmente ancorata all’ambito linguistico e dimostrativo a una forma di razionalità di carattere extra-linguistico, o pre-linguistico, e perciò non proposizionale.

Ancor più complessa, fin dall’antichità, è infine la questione dell’idea del bene, sulla quale è inevitabile limitarsi a tratteggiare un quadro estremamente selettivo, in relazione soltanto al problema della sua collocazione ontologica: il bene, infatti, pur essendo “causa di conoscenza e verità, appare tuttavia altro e più bello della conoscenza e della verità” e perciò situato “al di là dell’essere, che supera per dignità e potenza”, in virtù della sua funzione causale, per la quale esso “conferisce la verità alle cose conosciute e la facoltà di conoscerle al soggetto conoscente”, sicché è “da esso che provengono l’essere e l’essenza alle cose che sono” (VI 508d-509c). Basti ricordare che una parte dei commentatori difende tuttora un’interpretazione, di lunga tradizione, secondo la quale il bene coincide con l’origine e la causa delle altre idee e di tutte le cose, alla maniera di un principio (1) ontologico o (2) meta-ontologico, che conferisce alle idee il loro essere e la loro verità: nel primo caso (1), il bene sarebbe un’idea, situata al culmine dell’intellegibile e superiore alle altre idee, ma comunque interna all’ambito dell’essere; nel secondo caso (2), invece, si tratterebbe di un principio precedente l’essere e la verità e perciò diverso dalle idee di cui sarebbe l’origine. Questa interpretazione non è però affatto unanime e un altrettanto ampio numero di commentatori non è disponibile ad attribuire all’idea del bene una posizione di tale preminenza ontologica, optando piuttosto per una lettura a un tempo teleologica e assiologica dello statuto del bene all’interno del mondo intellegibile: in questo caso, l’idea del bene viene concepita, per un verso, come il fine ultimo dell’agire e del conoscere e, per altro verso, come l’origine e l’unità di misura dell’ordine perfetto, e dunque della disposizione “buona”, delle altre idee e di tutte le cose. Una così netta contrapposizione esegetica ha naturalmente determinato una serie di interpretazioni più prudenti e sfumate, da chi giudica di fatto insolubile il problema del bene in questa sezione della Repubblica, rilevandone inoltre l’unicità nell’ambito del corpus platonico, a chi ha invece sostenuto che il bene evocato qui non è un’idea intellegibile in senso proprio, ma la “nozione”, o l’“insieme di nozioni”, che costituiscono il sapere supremo associato alla condizione dei filosofi destinati al governo della città.

È comunque fuor di dubbio che il bene rappresenta il fondamento ultimo del sapere dei filosofi, che, grazie alla competenza dialettica loro propria, giungono a conoscere ciò che esiste eternamente e immutabilmente, le idee intellegibili, che sono i modelli di cui il mondo sensibile non è che una copia imperfetta; ed è appunto in virtù di tale sapere, che culmina nella conoscenza del bene ed è reso loro accessibile dall’esercizio della facoltà razionale che presiede all’equilibrio della loro anima, che i filosofi si rivelano come gli appropriati governanti della kallipolis, per garantirne la somiglianza, nei limiti del possibile, al modello ideale e perfetto che essi conoscono e conservarne la stabilità, nei limiti del possibile, trasponendo l’ordine e la giustizia che caratterizzano la loro anima nel corpo sociale della città che governano. Nei limiti del possibile: perché la città dei filosofi, con tutte le città umane, è inevitabilmente sottoposta al divenire della natura e della storia ed è soggetta perciò a cicliche degenerazioni, come anche ogni anima individuale, per quanto si conduca secondo giustizia, non può considerarsi definitivamente libera ed esente dal rischio del disordine e dell’ingiustizia.

 

Bibliografia essenziale

Edizioni
S.R. Slings, Platonis Respublica (Bibliotheca Oxoniensis), Oxford, Oxford Univ. Press 2003.

Traduzioni italiane
M. Vegetti, Platone, La Repubblica, a cura di M. Vegetti, Milano, Rizzoli 2007.

Studi
G.R.F. Ferrari, The Cambridge Companion to Plato’s Republic, ed. by G.R.F. Ferrari, Cambridge, Cambridge Univ. Press 2007.
M. Vegetti, Platone, La Repubblica, traduzione e commento a cura di M. Vegetti, 7 voll., Napoli, Bibliopolis 1998-2007 (questi volumi comprendono una traduzione italiana commentata della Repubblica, a cura di M. Vegetti, e, per ciascun libro del dialogo, un’ampia serie di saggi di interpretazione a opera di numerosi studiosi).
M. Vegetti, «Un paradigma in cielo». Platone politico da Aristotele al Novecento, Roma, Carocci 2009.

Il Timeo di Platone

Il Timeo di Platone

di Francesco Fronterotta

[drop_cap style=”2″ bgcolor=”#dddddd” color=”#787882″]I[/drop_cap]l Timeo, composto fra il 355 e il 350 a.C. e appartenente perciò all’ultima fase della produzione di Platone (che morì, mentre era intento alla redazione dell’ultima sua opera, le Leggi, nel 347), è un dialogo peri phuseos, sulla natura. Ma tale precisazione non chiarisce in nessun modo l’oggetto dell’esame che vi è condotto né giustifica l’ampiezza e la varietà degli argomenti che gli interlocutori del dialogo si dedicano via via ad affrontare, con accenti, modalità e lunghezza di volta in volta assai disuguali. In linea di principio, e in via del tutto preliminare, è possibile osservare che il Timeo doveva offrire, insieme con il Crizia e forse con l’Ermocrate, che non fu mai scritto, un quadro complessivo che permettesse di fondare en te phusei, “nella natura”, quei tratti ideali, e in qualche misura utopici, della città perfetta che Socrate aveva presentato nella Repubblica e riassunto per sommi capi proprio all’inizio del Timeo (17c-19c). Si può quindi immaginare che, per legittimare un’adeguata fondazione della città perfetta nella concretezza del divenire e della storia, si debba innanzitutto procedere esaminando l’educazione, la costituzione e l’origine degli uomini che ne saranno i cittadini e, avanzando ancora a ritroso lungo questo percorso, il principio, la composizione e la struttura dell’intero universo, nel quale e a partire dal quale gli uomini trovano la loro origine. Infatti, solo a condizione di mostrare che l’universo e i viventi che lo popolano manifestano una qualche forma di equilibrio, di armonia e di perfezione, diverrà possibile pensare che la fondazione di una città perfetta, costituita cioè secondo il modello dello stesso universo e con il materiale “umano” effettivamente disponibile, sia concretamente e storicamente verosimile e credibile. Una volta individuato così il fondamento di legittimità del discorso intorno alla città perfetta, l’esposizione potrà progredire ulteriormente, giungendo a proporre un resoconto, a metà strada fra la storia e il mito, del comportamento “reale” della città perfetta e dei suoi cittadini, delle sue azioni belliche e dei suoi straordinari exploits. Timeo discuterà perciò, nel Timeo, della “natura dell’universo, (…) cominciando dall’origine del cosmo e fino alla natura dell’uomo”, mentre Crizia, nel Crizia, “come avendo ricevuto [da Timeo] gli uomini cui ha dato vita con il suo discorso (…), dopo averli condotti davanti a noi come fossimo giudici”, ne farà “i cittadini di questa città, gli ateniesi di quell’epoca, che, da oscuri che erano, la tradizione dei testi sacri ci ha riportato alla memoria”, parlandone “come di nostri concittadini e di ateniesi” (Tim. 27a-b).

Il primo e fondamentale interrogativo che si pone per ogni discorso cosmologico, o quantomeno per quello che il Timeo si propone di condurre, è certo il seguente: il mondo ha un inizio nel tempo oppure è eterno? In prima battuta, il Timeo sembra fornire una risposta esplicita al nostro interrogativo. Infatti, alla domanda se il cosmo (1) sia sempre stato (en aei); oppure (2) sia nato (gegonen), Timeo replica netto (28b-c): il mondo “è nato” (gegonen) e ciò, inoltre, “per azione di una causa”, un’affermazione che pare supporre, quale che sia l’interpretazione del dialogo nel suo insieme, un “inizio” della vicenda cosmica. È vero, naturalmente, che il verbo greco gignesthai significa sia “divenire” sia “nascere”, nel secondo caso soltanto, dunque, implicando la “nascita” dell’universo, cioè la sua generazione nel tempo, mentre nel primo caso, se l’universo “diviene”, ciò significa semplicemente che si tratta di una realtà instabile e soggetta al mutamento e che in un certo senso si genera e si corrompe continuamente (o si generano e si corrompono gli enti in esso contenuti), il che non implica però che sia “nato” in un momento determinato del tempo, cioè che se ne possa porre un “inizio”. Vi sono però ragioni per supporre che il mondo sia stato generato, e che dunque abbia avuto un inizio nel tempo, e in particolare il fatto che viene chiamato in causa un demiurgo divino che lo genera e che, di conseguenza, se ne descrive concretamente la generazione. Ma anche questo argomento, apparentemente inconfutabile, risulta tuttavia in qualche misura controverso, perché dipende dallo statuto narrativo, letterale o metaforico, che si attribuisce all’esposizione di Timeo e al ruolo che in essa viene così attribuito al demiurgo cosmico. Le due questioni, dell’origine o dell’eternità del mondo e della natura dell’artigiano supremo che lo ha prodotto e della sua azione produttiva, sono perciò indissolubilmente connesse.

Il demiurgo è infatti colui il quale riproduce nel tempo l’ordine e la disposizione delle realtà eterne, così fabbricando le cose sensibili assumendo come modello le idee intellegibili. Ora, fra le numerose questioni che una simile ipotesi, appena evocata, suscita, ne sottolineo particolarmente una, a mio avviso fondamentale per l’attuale esame: il demiurgo agisce nel tempo o al di fuori del tempo? In altri termini: con la figura del demiurgo, che rinvia all’esigenza di una mediazione fra le realtà atemporali e le realtà temporali, Platone vuole farci intendere che tale mediazione fra l’atemporale e il tempo (1) sussiste da sempre, al di fuori del tempo, sicché quella del demiurgo è di fatto una metafora, oppure (2) che essa ha avuto un inizio nel tempo, sicché il demiurgo va concepito allora come una figura personale, caratterizzata da una volontà e da una capacità di decisione che si esplica in base a un piano o a una previsione razionale? Questa è, evidentemente, la difficoltà principale posta dall’esposizione del Timeo. Ma le risposte possibili a tale domanda comportano entrambe delle temibili difficoltà. (1) Se infatti la mediazione demiurgica fosse originaria ed eterna e al di fuori dal tempo, bisognerebbe allora supporre o (A) che essa è in atto già da sempre, sicché, dunque, la funzione demiurgica non si configura come un’azione deliberata, ma come metafora di uno stato di cose o di una condizione che sussistono da sempre, e occorrerebbe in tal caso spiegare in che modo, negando di fatto che si dia un’effettiva generazione dell’universo che, anch’esso, sussisterebbe da sempre come una realtà eterna; oppure (B) che, trattandosi invece di un’azione deliberata di produzione e di modellaggio di un materiale informe, essa si estende letteralmente da un “prima” a un “poi” (perché, se la mediazione demiurgica si presenta come una vera e propria azione deliberata, vi saranno in tal caso un “prima” e un “poi” di questa azione, un momento o una condizione che la precedono e un momento o una condizione che la seguono), introducendo così nuovamente una scansione temporale e, di seguito, un principio o un’origine di tale produzione. (2) Ma se, di conseguenza, il demiurgo possiede questa funzione, se è davvero una “causa” cosciente e responsabile nella misura in cui compie un progetto che, come tale, deve avere un inizio o un punto di partenza, si cade nell’ulteriore difficoltà di dover giustificare sul piano razionale una simile funzione demiurgica associata all’intervento di una divinità personale. Mi pare si tratti di una difficoltà da non sottovalutare per un filosofo, come Platone, che fa dipendere di fatto l’ordine e la disposizione di tutte le cose da un set di modelli eterni, le idee, la cui struttura viene riprodotta su un materiale sensibile altrettanto eterno. Che spazio c’è, infatti, nell’interazione fra un modello e un materiale eterni, per un agente cui si attribuisce l’inizio o l’origine, nel tempo, di tale interazione? Da dove viene questo agente, di cui non sembra esservi traccia negli altri dialoghi? Perché e come questo agente avrebbe scelto un momento in cui dare inizio a tale interazione? A cosa servivano i modelli e il materiale eterno prima dell’intervento del demiurgo? Queste sono solo alcune delle questioni che, nella prospettiva di un’interpretazione letterale del Timeo, rimangono senza una soluzione soddisfacente.

Bisogna allora rivolgersi direttamente, per saggiare la coerenza della concorrente interpretazione metaforica, alla figura del demiurgo. “Costruttore e padre del tutto” (28c), il demiurgo è, innanzitutto, “buono” (29e e passim) il che implica che l’opera da lui compiuta sarà la migliore possibile. Egli possiede molteplici competenze, tecniche e intellettuali a un tempo: plasma la cera (74c), fonde i metalli e lavora il legno (28c; 33b), riunisce armoniosamente le diverse parti della sua opera (30b; 33d); più in generale, è l’artigiano che fa apparire l’ordine universale nel disordine cosmico (53b; 75d) e, allo stesso tempo, l’intelligenza (nous) che “riflette” (30b; 34a; 52d; 55c), “considera” (33b), “parla” (41a-e), “si rallegra” (37c) del prodotto realizzato e della sua somiglianza al modello eterno. In questo senso, il demiurgo rappresenta legittimamente la causa della generazione delle cose sensibili, cui conferisce la forma e la struttura dei paradeigmata ideali, pur rimanendo entro i limiti imposti dalla “minorità” e dall’imperfezione del mondo sensibile: il divino artefice non compie quindi in nessun modo una creatio ex nihilo, perché è costretto a operare nel contesto degli elementi già esistenti a sua disposizione, ai quali può, semplicemente, attribuire un ordine determinato. Ciò spiega l’uso in apparenza stravagante, da parte di Platone, del termine demiourgos, che indica a un tempo l’attività produttrice degli artigiani e la funzione regolatrice dei magistrati: come artigiano, il demiurgo dalle molteplici competenze tecniche e meccaniche “lavora” la materia informe; come magistrato in seno a una comunità, stabilisce l’ordine della sfera sensibile, adeguandolo, per quanto possibile, alla “legge” delle supreme realtà. Diviene così piuttosto chiara la funzione filosofica della figura del demiurgo: trait d’union ontologico fra le cose sensibili e le idee intellegibili, ma diverso da entrambe, egli contempla il mondo delle idee per riprodurne l’immagine nel mondo sensibile su cui ha il potere e la capacità “artigianale” di agire; d’altra parte, può agire sul mondo sensibile proprio in quanto ha il potere e la capacità “intellettuale” e “regolativa” di contemplare e riprodurre in esso l’immagine delle idee. Abbiamo a che fare insomma con l’indicazione di una serie di competenze tecniche o operative del demiurgo, che non contraddicono una sua rappresentazione funzionale e metaforica né pare lecito sostenere che, nell’esercizio delle sue funzioni, il demiurgo metta in atto una volontà personale e che proceda perciò ad azioni propriamente deliberate, dal momento che, nei passi del dialogo in cui si fa riferimento a una “volontà” del divino artefice (cfr. per esempio 30a6-c1; 41a7-c6; 42d2-e4), risulta abbastanza chiaro che ogni sua possibile azione è necessariamente e invariabilmente condizionata dalla perfezione della sua natura, sicché egli non può che produrre l’ottimo, nei limiti del possibile, al punto che, anzi, là dove emerge l’esigenza di popolare il mondo di viventi mortali, il demiurgo affida il compito della loro generazione agli dei suoi aiutanti, appunto perché, essendo a lui inferiori, potranno costituire creature mortali, cioè inferiori a quelle che, se egli se ne assumesse il compito, necessariamente (dunque anche contro la sua volontà) costituirebbe immortali (41a-c). Resta però la questione fondamentale: anche ammettendo la maggiore plausibilità di una comprensione metaforica, e non letterale, della figura e dell’azione produttiva del demiurgo cosmico, come conciliarla con l’indicazione di partenza di un inizio di tale azione, e della vicenda del cosmo cui essa dà avvio, che pare invece da assumere letteralmente?

Si deve tornare a tale proposito alla distinzione fondamentale, che viene stabilita in 27d-28b, fra un genere di realtà “che è sempre, senza avere generazione” e un genere di realtà “che sempre diviene, senza mai essere”; il primo genere di realtà, in quanto è eterno, immobile ed esente da generazione e corruzione, consiste delle idee intellegibili, che possono essere conosciute attraverso il pensiero e il ragionamento, dando luogo a una conoscenza e a un discorso veri perché sempre identici a se stessi, mentre il secondo genere di realtà, in quanto diviene nel tempo, si muove, si trasforma ed è soggetto a generazione e corruzione, consiste nell’insieme delle cose sensibili, che costituiscono l’oggetto di una conoscenza e di un discorso solo parziali e imperfetti. Ciò comporta che il discorso di Timeo, poiché riguarda l’universo (che è una realtà, o un insieme di realtà, sensibile, mutevole, soggetta alla generazione e alla corruzione), e non il modello eterno, immobile e sempre identico, non sarà un discorso pienamente vero, coerente con se stesso ed esatto da ogni punto di vista; si tratterà invece di un discorso soltanto “verosimile” (eikos), nella misura in cui si rivolge a una realtà, o a un insieme di realtà, l’universo, che altro non è che un’immagine (eikon) simile alla realtà vera, una copia imperfetta del modello originale perfetto (29b-d). Se dunque l’universo è una realtà sensibile e se, a questo titolo, esso non può costituire l’oggetto di un discorso pienamente vero e stabile, ma solo di un’esposizione verosimile, sarà proprio questa esposizione a esigere un punto di partenza, in modo da poter dare conto, nei termini temporali di un discorso umano soltanto verosimile, di una realtà eterna. La genesi del cosmo di cui Timeo si ripromette di parlare all’inizio del dialogo (27a-b) non costituirebbe dunque il suo inizio effettivo, la sua origine, ma indicherebbe la sua condizione eternamente mutevole e instabile, soggetta a successive generazioni e corruzioni, ma non a una generazione prima o assoluta – una condizione eternamente mutevole e instabile, nell’ambito della quale occorrerà tuttavia scegliere un punto di partenza del discorso intorno all’universo. Comporre un discorso su una realtà eternamente diveniente, che riproduca tale realtà nel suo eterno divenire, poiché il divenire eterno non può essere narrato se non da un impossibile discorso a sua volta eterno e diveniente, implica che si scelgano fittiziamente un punto di partenza e un punto di arrivo: ma tale scelta proietta sul contenuto di un simile discorso, altrettanto fittiziamente, un’origine e una fine. Ora, che non vi sia un termine dell’universo, una sua fine, è esplicitamente detto nel Timeo (32c), sicché la scelta del termine del discorso di Timeo sull’universo è evidentemente arbitraria ed è fatta coincidere con il completamento dell’universo come lo conosciamo, ossia con la descrizione delle specie viventi che lo popolano (90e-92c); credo si possa perciò ipotizzare che un’analoga condizione valga per l’inizio dell’universo, che non sussiste realmente come tale, ma dipende dall’esigenza di fissare un punto di partenza per il discorso che lo riguarda: per cominciare il discorso intorno al cosmo, si deve scegliere, nell’ambito della vicenda del suo eterno divenire, un inizio; ma questa scelta fa sì che l’inizio scelto per il discorso, l’arche tou logou, si traduca fittiziamente in un’arche tou kosmou, cioè in un inizio della vicenda, che è invece di per sé eterna, del mondo stesso in divenire. Ciò troverebbe corrispondenza nelle frequenti affermazioni di Timeo (cfr. 29c, 34c, 51c-d e passim), secondo cui il discorso che egli conduce è in parte partecipe del caso, come tutti i discorsi umani, e dunque non del tutto esatto e consequenziale, rispetto al suo ordine e alla sua disposizione; vale a dire che, plausibilmente, proprio l’ordine e la disposizione del discorso dipendono da questa strutturale deficienza.

Se dunque quella dell’origine del mondo nel tempo è una metafora costruita a fini espositivi, per illustrare la struttura e la composizione dell’universo in base all’imitazione dei modelli eterni nei limiti di un discorso umano, resta da considerare la sua concreta attuazione seguendo la rappresentazione, essa pure metaforica, dell’attività della produzione demiurgica. Il demiurgo procede infatti alla costituzione del corpo del mondo (31b-34a) servendosi dei quattro elementi fondamentali, fuoco, aria, acqua e terra: poiché l’universo è una realtà generata, e perciò corporea e sensibile, che esaurisce in sé la totalità degli enti sensibili, in esso devono trovarsi gli elementi componenti di tutte le cose. Ma quella operata dal demiurgo non è una composizione casuale, giacché egli procede mescolando i quattro elementi in base a una proporzione ben determinata e conferendo così al corpo del mondo una precisa e armonica struttura matematica. Inoltre, come Timeo spiega più avanti (53b-56c), i quattro elementi si riducono a quattro tipi di particelle elementari infinitamente piccole, dunque invisibili, indivisibili e indistruttibili, associate, rispettivamente, a quattro poliedri regolari: il tetraedro, l’esaedro, l’ottaedro e l’icosaedro; avanzando ulteriormente in questa progressiva riduzione geometrica, i primi tre dei quattro poliedri regolari hanno come base un triangolo equilatero, a sua volta composto da sei triangoli rettangoli scaleni, mentre il quarto ha come base un quadrato. Senza entrare nei dettagli tecnici di questo complesso schema geometrico-matematico, se ne possono tuttavia mettere in luce le ragioni e le finalità: la struttura corporea di tutte le cose acquista, in virtù della sua natura geometrico-matematica, una certa regolarità e un’evidente semplicità, che, a loro volta, garantiscono la bellezza e, nei limiti del possibile, l’ordine perfetto dell’universo, che, è bene ricordarlo, deve rispecchiare, secondo le intenzioni del demiurgo, l’assoluta bellezza e perfezione del modello intellegibile in base al quale esso è costituito. Per questo stesso motivo, il demiurgo attribuisce al corpo del mondo una forma sferica, completamente liscia all’esterno e priva di qualunque organo: non avendo bisogno di nulla, infatti, ed essendo pienamente autonomo, l’universo comprende in sé tutte le cose generate, nessuna di esse rimanendo al di fuori di lui, si nutre di se stesso, in virtù dei continui processi di generazione e di corruzione che coinvolgono le realtà che contiene al suo interno, e non ammette nessun vuoto, all’interno o all’esterno di sé, in quanto, per definizione, è tutte le cose. Tuttavia, per essere davvero perfetto, l’universo non può sussistere soltanto come un corpo, ma deve possedere anche un’anima che lo renda davvero un “vivente” completo. Ciò pone immediatamente, come i commentatori non hanno mancato di segnalare, il problema di capire perché l’universo debba essere concepito come un essere vivente dotato di anima e corpo, secondo uno stretto parallelismo con gli esseri umani e con i viventi individuali in genere. In prima battuta, si può pensare che, seguendo un ragionamento analogico che prende le mosse dall’esame del microcosmo che ogni essere vivente individuale dotato di anima e corpo costituisce, il Timeo sia portato a estendere un identico modello sul piano del macrocosmo che l’universo rappresenta. Su entrambi i piani, infatti, emergono una serie di caratteristiche ricorrenti (rispetto allo svolgimento di un ciclo vitale, rispetto all’insieme di mutamenti e di movimenti regolari che è possibile osservare e prevedere e così via) che sembrano presupporre l’intervento di un principio intelligente e ordinatore: se tale principio, nei viventi individuali, coincide con l’anima, sarà verosimile ammettere che, proiettando l’identico schema su ampia scala e applicandolo perciò all’intero universo, anche l’intero universo possieda un’anima e sia perciò un vivente, diverso dai viventi individuali solo rispetto alle sue dimensioni e alla sua complessità. D’altro canto, però, si può forse suggerire un’ipotesi più specifica, che dipende direttamente dalla stessa definizione delle funzioni proprie dell’anima del mondo, che, come vedremo fra breve, consistono essenzialmente nella produzione di movimento e di conoscenza. Ora, per quanto riguarda la conoscenza, è certo difficile pensare di attribuire all’universo, almeno a prima vista, una qualche capacità conoscitiva; ma che, invece, l’universo si muova, e che i suoi movimenti manifestino regolarità e ordine, appare a chiunque come un’indubitabile evidenza. E se non sussiste nessuna realtà ulteriore al di là dell’universo, che, ricordiamolo ancora, esaurisce la totalità di ciò che esiste sul piano sensibile, occorrerà credere che esso abbia in sé il principio del proprio movimento. Ma ciò che si muove di un movimento regolare e ha in sé il principio del proprio movimento deve necessariamente possedere, come principio del proprio movimento, un’anima ed essere dunque, in senso stretto, un “vivente”. Credo si possa insomma sostenere che la relazione fra movimento, vita e anima, termini che, non a caso, sono fra loro frequentemente accostati nei dialoghi platonici, appare talmente forte ed essenziale, da indurre Platone (e il pensiero greco in generale) a stabilire questa equivalenza: ciò che si muove vive, ma ciò che vive è dotato per necessità di un’anima; dunque, ciò che si muove possiede senza dubbio un’anima. E ancora, capovolgendo il ragionamento, ciò che è dotato di un’anima vive e la manifestazione prima della vita di ciò che è vivente consiste nel suo movimento. Volendo insistere su questa equivalenza, si può notare pure che alla triade “movimento-vita-anima” viene associata anche, come sua immediata implicazione, l’intelligenza, il che spiega probabilmente perché ciò che possiede un’anima, in questo caso l’universo, non solo viva e si muova, ma sia anche intelligente e dotato di una capacità conoscitiva.

Passiamo quindi a considerare la composizione, da parte del demiurgo, dell’anima del mondo. L’anima del mondo è costituita a partire da una mescolanza di essere, identico e diverso, le tre categorie fondamentali che devono necessariamente appartenere a ogni cosa esistente: ogni cosa esistente, infatti, per essere tale, deve “essere”, deve essere “identica” a se stessa e “diversa” da tutto ciò che è altro da essa. Non si tratta tuttavia delle idee dell’essere, dell’identico e del diverso, perché l’anima del mondo, pur non essendo certamente una realtà sensibile e corporea, non è neanche un’idea né si colloca interamente nell’intellegibile: essa adempie a una funzione intermedia, che è quella di mantenere nei limiti del possibile l’ordine che il demiurgo attribuisce al sensibile sulla base del modello intellegibile, e si situa perciò, costitutivamente, a metà strada fra l’intellegibile e il sensibile. Ecco perché l’essere, l’identico e il diverso di cui il demiurgo compone l’anima del mondo non sono elementi ideali né materiali, ma misti di entrambe le caratteristiche: in questo modo, solo negativamente, Timeo illustra la natura “intermedia” dell’anima del mondo e la sua collocazione “mediana” nella gerarchia del reale. Ma ancora una volta, come nel caso precedentemente esaminato del corpo del mondo, l’unione di essere, identico e diverso che il demiurgo mette in atto per dare forma all’anima del mondo non è affatto casuale, giacché segue una precisa disposizione matematica, stabilendo rigorose proporzioni numeriche per la combinazione dei tre elementi. Una volta realizzata così questa mescolanza, il demiurgo divide il materiale ottenuto in due strisce uguali, che prima sovrappone in forma di X, poi curva per far coincidere le estremità delle due strisce, ottenendo quindi due cerchi concentrici, l’uno inclinato rispetto all’altro come l’equatore rispetto all’eclittica, che si intersecano in due punti opposti: il primo, il cerchio dell’identico, ruota esternamente all’altro, il cerchio del diverso (34a-36b). Ciò introduce la questione ulteriore delle funzioni che competono all’anima del mondo così costituita: il demiurgo le attribuisce infatti, innanzitutto, una funzione motrice, da cui discende inoltre una funzione conoscitiva (36e-40d). Non è il caso di tornare nuovamente sullo statuto di essere “vivente” riconosciuto all’universo: si tenga presente, però, che è soltanto in una simile prospettiva che diviene in qualche modo comprensibile l’idea di dotare l’universo, o piuttosto la sua anima, di una capacità intellettuale e conoscitiva. Allo stesso modo, dunque, una singola ipotesi, quella dell’esistenza dell’anima del mondo, permette di spiegare due ordini di fenomeni: per un verso, in virtù dei movimenti circolari dei cerchi che la compongono, l’anima del mondo imprime e conserva il movimento regolare dei corpi celesti, ma anche il movimento dei corpi terrestri, che è un movimento irregolare che si può tuttavia, secondo il Timeo, ricondurre ai movimenti dell’anima del mondo, nella misura in cui, in gradi via via discendenti, la struttura geometrico-matematica che caratterizza l’anima del mondo corrisponde a quella che appartiene a tutte le entità, celesti e terrestri, dotate di anima e corpo; per altro verso, poiché la triade “anima-vita-movimento” finisce per implicare pure, come abbiamo visto sopra, l’intelletto e la conoscenza, alla capacità motrice dell’anima del mondo dovrà corrispondere una capacità conoscitiva: quando la sua conoscenza si realizza attraverso il movimento del cerchio dell’identico, l’anima del mondo conosce davvero gli oggetti intellegibili cui il cerchio dell’identico sempre si rivolge e con cui si trova in stretta relazione; quando, invece, si realizza attraverso il movimento del cerchio del diverso, l’anima del mondo opina soltanto, e percepisce, gli oggetti sensibili cui il cerchio del diverso sempre si rivolge e con cui si trova in stretta relazione. Controllando, in virtù di queste due sue funzioni fondamentali, l’ordine, il movimento e l’intelligenza del tutto, l’anima del mondo può realmente eseguire il suo compito fondamentale, cosmologico, etico e teleologico a un tempo, che è quello di assicurare la persistenza della bellezza e del buon funzionamento del tutto, assicurando al cosmo la perfetta condizione di un vivente eternamente felice.

Dall’esposizione del Timeo emerge infine un’immagine del cosmo concepito come un organismo vivente, perché dotato di anima e corpo, e assolutamente compiuto, in quanto esaurisce la totalità del reale comprendendo in sé tutte le specie viventi, animali e vegetali, e tutte le cose esistenti e riproducendo così, nella dimensione sensibile e vitale che gli è propria, l’assetto eterno e immutabile dei modelli intellegibili di cui è un’imitazione. Tale imitazione del modello assume inoltre i tratti di una disposizione geometrico-matematica, che conferisce all’universo un ordine, pur inferiore a quello intellegibile, almeno parzialmente stabile e comunque superiore al caos di un divenire perenne e inarrestabile. Così costruito, questo mondo, il nostro mondo unico e onnicomprensivo, appare pienamente autonomo e auto-referenziale ed è destinato a permanere per l’eternità, senza nessun intervento esterno, di carattere propriamente creativo o anche soltanto conservativo, senza chiamare in causa un disegno intelligente o provvidenziale che non sia semplicemente quello, oggettivamente ed eternamente dato, che dipende dai modelli eterni di cui esso appunto riproduce pur imperfettamente la disposizione. Si vede bene come, in relazione a ciascuna di queste pur generali conclusioni, che certo non ne restituiscono interamente la complessità, l’ampiezza e la ricchezza, il Timeo inauguri altrettante problematiche, tanto fondamentali quanto controverse, che attraversano la posteriore storia della filosofia e della scienza e fino all’età moderna.

 

Bibliografia essenziale

Edizioni
Platonis Opera, recognovit brevique adnotatione critica instruxit Ioannes Burnet, t. IV, Oxford Univ. Press, Oxford 1902.

Traduzioni italiane
F. Fronterotta, Platone, Timeo, a cura F. Fronterotta, Milano, Rizzoli 20113.

Studi
A.E. Taylor, A commentary on Plato’s Timaeus, Clarendon Press, Oxford 1928.
M. Cornford, Plato’s cosmology. The Timaeus of Plato translated with a running commentary, Routledge & Kegan Paul, London 1937.
L. Brisson, Le même et l’autre dans la structure ontologique du Timée de Platon. Un commentaire systématique du Timée de Platon, Academia Verlag, Sankt Augustin 19942.
T. Calvo & L. Brisson (a cura di), Interpreting the Timaeus-Critias. Proceedings of the IV Symposium Platonicum, selected papers, Academia Verlag, Sankt Augustin 1997.

Il Sofista di Platone

Il Sofista di Platone

di Francesco Fronterotta

[drop_cap style=”2″ bgcolor=”#dddddd” color=”#787882″]F[/drop_cap]ra i dialoghi platonici più celebri e filosoficamente più impegnativi, il Sofista, che appartiene all’avanzata maturità o alla vecchiaia del filosofo (circa 370-355 a.C,), è forse quello che ha a tal punto permeato la riflessione antica e tardo-antica da risultare quasi onnipresente e come affiorante, in forma esplicita o implicita, nei più diversi contesti teorici. Se infatti dialoghi come il Fedone, la Repubblica, il Parmenide o il Timeo hanno conosciuto grande fortuna in determinate epoche e correnti di pensiero e nell’ambito di certe specifiche aree problematiche, il Sofista, in virtù della profondità e della varietà dei suoi contenuti, risulta a diverso titolo e in diversi contesti fondativo: che si tratti della ricerca della definizione di qualcosa o dell’esigenza di un metodo, di una riflessione sulla natura della dialettica o dell’elaborazione di un’ontologia, del problema del criterio della verità o della falsità del discorso, della reciproca distinzione dell’identità e della diversità delle cose che sono, il Sofista presenta il primo tentativo articolato di una coerente sistemazione categoriale nella storia della filosofia. Diogene Laerzio dà forse voce a un’opinione antica quando considera il dialogo peri tou ontos (III 58), de ente, come traduce Marsilio Ficino. Ma questa delimitazione tematica è indubbiamente riduttiva: Aristotele, per esempio, ora vi si riferisce, forse, come peri ousias (Metafisica VII 1, 1028b2-7), ora lo qualifica peri tou me ontos (Metafisica XIV 2, 1089a1-6); ora sottolinea la sua indagine de divisione (Analitici Primi I 31 e Parti degli animali I 2-3), ora ricorda la sua analisi dello statuto del falso (Metafisica V 29).

Questo intreccio di valutazioni riflette obiettivamente la complessità argomentativa e tematica dello svolgimento di un’opera in cui è la stessa linea di ricerca programmaticamente introdotta da Socrate con la sua richiesta di un chiarimento relativamente alla tecnica sofistica a sollevare inizialmente – e a ribadire fino all’effettiva cattura del sofista, costantemente inseguito con il timore e il sospetto dovuti a un insidioso avversario della filosofia e di ogni sano e adeguato percorso formativo ed educativo – l’esigenza di una metodologia dialettica che, servendosi di procedure ben codificate, consenta di collocare l’indagine in un contesto teorico più ampio, entro il quale sciogliere attraverso una più generale ricomposizione concettuale alcune serie difficoltà sorte sul piano della delucidazione delle competenze proprie del sofista. È precisamente per tali motivazioni, e senza dover ricorrere a ulteriori artificiose giustificazioni, che la struttura e lo svolgimento del dialogo prendono la forma in certo senso “piramidale” che gli è caratteristica, muovendo agilmente dall’esame puntuale della natura e delle caratteristiche di una certa nozione o realtà, la “sofistica”, alla scansione della gerarchia delle cose che sono, al cui vertice si pone lo stesso essere, così tracciando una mappa di tutto ciò che è e ricostruendone esaustivamente la rete di relazioni, per tornare infine, su questa base, a ripercorrere a ritroso tale “piramide” dialettica fino alla determinazione delle condizioni di verità dell’indagine di partenza.

La discussione condotta nel Sofista è guidata da uno straniero di Elea, la città di Parmenide, il che suppone senza dubbio un esplicito riconoscimento, da parte di Platone, del debito intellettuale nei confronti del grande pensatore presocratico che lo induce a porre in ombra, come anche in altri dialoghi coevi, la figura di Socrate, che nella gran parte delle sue opere ha invece il ruolo di personaggio principale. L’esame prende avvio dalla richiesta di Socrate di apprendere dallo straniero come giudicare il sofista, il politico e il filosofo, se vadano considerati come un’unica figura, come due oppure tre diverse, in modo da distinguere tante figure quanti sono i nomi loro attribuiti (216d-217a). Ciò che dunque Socrate chiede allo straniero è, almeno in senso generale, una definizione del sofista, del politico e del filosofo, con l’illustrazione delle loro rispettive competenze: egli vuole che gli sia reso esplicito il significato dell’oggetto cui i tre nomi si riferiscono. Si può discutere naturalmente sul genere di definizione in questione e sul suo tasso di specializzazione o di tecnicismo, ma la natura e il senso della domanda formulata da Socrate non suscitano né dubbi né esitazioni nello straniero che ne intende perfettamente il significato. Riconosciuta l’esigenza di mettere alla prova il “metodo di caccia” su un oggetto di ricerca facile e privo di importanza, lo straniero si produce in una definizione del pescatore con la lenza (218d-221c). Proprio con l’introduzione di tale “metodo di caccia” ci troviamo di fronte alla prima, straordinaria, acquisizione teorica che il Sofista ci presenta, perché Platone prospetta una raffinata metodologia di ricerca, che più avanti verrà identificata con la dialettica, la scienza più alta che appartiene ai filosofi e li conduce alla verità intorno a ogni cosa esistente, che appare strutturata come segue: se si vuole definire un qualunque oggetto “X”, bisogna ricondurlo o ricollegarlo (sunagein) a un oggetto “A” di cui evidentemente partecipa; in seguito, è necessario tracciare una divisione (diairein) a partire da “A” distinguendo due oggetti “B” e “C”, che, pur partecipando entrambi di “A”, si differenziano tuttavia reciprocamente perché “C” possiede certe caratteristiche “c”, proprie di “X”, di cui invece “B” è privo. Lasciando da parte “B”, si procede allora da “C” secondo lo stesso criterio, finché non si giunga a un tracciato che conduce esclusivamente a “X”, perché mette in luce caratteristiche che “X” non condivide con altri oggetti e che costituiscono pertanto la sua definizione. Schematicamente:

Schema Sofista Platone

In base al procedimento messo in atto, la pesca con la lenza si rivela una tecnica di cattura di esseri animati che nuotano nell’acqua, che si realizza sferrando colpi con l’amo dal basso verso l’alto; infatti, una volta stabilita la generale appartenenza di questa pratica all’ambito delle tecniche, ossia la sua sicura partecipazione alla techne che permette di ricondurla a essa, diviene possibile distinguere, via via con maggiore precisione, la natura e le caratteristiche della particolare tecnica ricercata – appunto quella della pesca con la lenza – fino a ottenere per esclusione, cioè espungendo tutte le caratteristiche che qualificano le tecniche di cui essa non partecipa, un logos che la descrive esattamente in quanto, coincidendo propriamente con essa, la delimita e dunque la definisce. È quindi attenendosi a questo modello metodologico che lo straniero si dedicherà alla caccia del sofista. Ora, lasciando da parte lo sterminato dibattito critico che l’esame del metodo delle “divisioni” ha suscitato, come pure la sua applicazione concreta, nel dialogo, alla ricerca del sofista, conviene piuttosto tentare di stabilire quale sia l’obiettivo che a esso è assegnato. Non sembra plausibile ammettere, nonostante le indicazioni di Aristotele (nelle Parti degli animali I 2-4 e negli Analitici Primi I 31), che Platone affidi alla dialettica il compito di realizzare una classificazione dei viventi né tantomeno che la concepisca come un metodo dimostrativo dell’essenza delle cose, se non altro perché l’essenza di qualcosa può essere forse oggetto di intuizione da parte di qualcuno, o di ostensione a qualcuno, mentre, nel contesto logico-discorsivo che è proprio della diairesis, sarà possibile cogliere l’essenza di qualcosa soltanto nel senso di formulare il logos a esso relativo, che risulta dalla ricostruzione delle relazioni che intrattiene con le altre cose; né pare lecito intendere il carattere della dialettica come in qualche senso “dimostrativo”, se si conferisce a questa espressione il significato abituale di “assiomatico” o “deduttivo”. Ci si deve forse rassegnare a riconoscere la complessità irriducibile del metodo e l’assenza di un obiettivo univoco e ben definito, perché, se la dialettica fornisce nella sua applicazione (1) la mappa, parziale o totale, delle relazioni fra le cose che sono, con il fine di far emergere quali cose siano in relazione e quali non siano in relazione con quali altre, disegnando così (2) la rete di significati di cui sono intessuti il pensiero e il discorso, e perciò in generale il sapere e il giudizio, potremo anche ricavare per questa via (3) il logos definitorio relativo a ciascuna cosa e l’insieme di tali logoi avrà anche (4) un tratto indubbiamente classificatorio.

Nel corso della caccia al sofista, lo straniero si imbatte nella difficoltà seguente (236c-237a): la sofistica si rivela a un tratto come una semplice e fittizia apparenza di sapere, ma ciò introduce una nozione ambigua, quella di un “apparire” o “sembrare” senza “essere”, che corrisponde a un “dire” qualcosa senza però “dire il vero”, ciò che suscita un’impasse che accompagna da sempre la riflessione filosofica nella sua storia. In effetti, se un’apparenza, in quanto tale, non è un essere reale e se, di conseguenza, essa rinvia a qualcosa che non è però vero, l’ambiguità dell’“apparire” e del “sembrare” darà immediatamente luogo a una nuova difficoltà, relativa alla possibilità e alla legittimità di dire o giudicare il falso, giacché il falso, conclude lo straniero, può venire all’essere solo a condizione che il non essere sia. È evidente che questo argomento implica e a un tempo dipende dalla stretta connessione fra il falso nel logos e il non essere, cioè dalla presunzione che, sfidando l’esplicito divieto di Parmenide, pronunciare il falso consista nel dire ciò che non è affatto: ma una semplice ricognizione delle ragioni di Parmenide mostra immediatamente che il non essere non può essere riferito a nessuna delle cose che sono, né a un “qualcosa”, comunque concepito, di qualunque numero o genere, sicché, paradossalmente, chi dice (o, piuttosto, presume di dire) “non essere” è come se, pur emettendo suoni, realmente non dicesse nulla o non esprimesse nulla di sensato, il che è formalmente impossibile (dire non dicendo alcunché) o semplicemente contraddittorio (esprimere senza significare alcunché). Ne segue inoltre che al non essere non potrà neanche essere congiunta nessuna delle cose che sono, per esempio il numero, in modo che non sarà né uno né molti né potrà essere altrimenti qualificato: il non essere risulterà perciò “impensabile, indicibile, impronunciabile e inesprimibile”, al punto che perfino chi tenti di respingerlo ne rimarrà prigioniero, se, anche soltanto per negarlo, lo porrà come “un” qualcosa che sia numericamente uno. È al termine di questo passaggio che viene evocato nuovamente il divieto opposto da Parmenide al non essere e annunciata l’esigenza di un parricidio: bisogna infatti costringere il non essere a essere, almeno in qualche misura eludendo il divieto parmenideo, per poter formulare un discorso falso (241c-d). L’impasse relativa al discorso falso che la ricerca ha incontrato nella caccia al sofista rinvia insomma al problema del non essere; attribuire alla sofistica una produzione di apparenze finisce per associare in essa i due ordini di difficoltà, il falso e il non essere, rispettivamente accostati e contrapposti al vero e all’essere, in un intreccio malsano che garantisce la vittoria del sofista, che, nascosto all’ombra del falso e del non essere, non potrà essere raggiunto e catturato. Per capovolgere questo esito negativo dell’indagine, occorre mostrare, contro Parmenide, che il non essere in qualche misura è e che, di conseguenza, si lascia congiungere in qualche misura all’essere, il che permetterà finalmente di ammettere come possibile, e dunque indagabile, il falso nel logos e il suo eventuale intreccio con il vero, così smascherando il sofista nel suo rifugio.

La delucidazione della nozione di “non essere” costituisce senza dubbio un altro nodo cruciale del dialogo. A questo fine, lo straniero rivolge la sua analisi alla natura dell’essere e ai più grandi fra i generi ideali (249d-253e): l’essere stesso, la quiete e il movimento, che sono tali nella misura in cui tutte le cose che sono si trovano necessariamente in quiete o in movimento, senza che, pertanto, l’essere coincida in modo esclusivo con l’uno o con l’altra. Pare dunque necessario supporre che vi sia fra i termini in questione una forma di comunicazione (koinonia), che consenta di stabilire che, «alcuni sì e altri no», comunicano reciprocamente. Se infatti «nulla possiede nessuna capacità di comunicare con nulla in nessun caso», non sarà possibile affermare neanche che il movimento o la quiete o qualunque altra cosa “siano”, perché, non comunicando con l’essere, appunto non “saranno”. In questa prospettiva, risulterà impossibile pensare stabilendo connessioni fra termini diversi e si dovranno utilizzare parole come “essere”, “separatamente”, “in sé” e così via sempre indipendentemente le une dalle altre, giacché la stessa possibilità dell’attribuzione di qualcosa all’altro da sé sarà contraddittoria. Viceversa, «se tutte le cose hanno la capacità di comunicare reciprocamente le une con le altre», si realizzerà l’assurda condizione di una generale e contemporanea comunicazione, con la paradossale conseguenza che «il movimento stesso starebbe assolutamente fermo, mentre la quiete a sua volta si muoverebbe». Resta allora esclusivamente l’opzione prospettata in partenza, cioè che le cose che sono comunichino e si accordino fra loro solo in parte e secondo certi criteri, come anche le lettere dell’alfabeto e le note musicali, che generano parole significative o melodie, soltanto se combinate in un ordine determinato. È in questa direzione che lo straniero avvia l’analisi, volgendosi direttamente alla ricostruzione della koinonia ton genon per stabilirne i criteri e fissarne i tracciati, un compito che appartiene alla dialettica. Sappiamo già che l’essere come tale non si identifica con la quiete né con il movimento, ma è tuttavia in comunicazione con entrambi, giacché entrambi “sono”. Ciascuno dei tre generi è inoltre identico a se stesso e diverso dagli altri due; “identico” e “diverso” si pongono dunque come due generi supplementari accanto ai primi tre, dal momento che non è possibile che si identifichino con nessuno di essi. Infatti, se movimento e quiete sono identici a se stessi ma ciascuno diverso dall’altro, in quanto comunicano con l’identico e con il diverso, affermando, per esempio, che il movimento si identifica con l’identico, avremmo che la quiete, che, essendo contraria del movimento, certo non ne partecipa, ne parteciperebbe tuttavia necessariamente per via della comunicazione con l’identico (con il quale, invece, senza dubbio comunica), che è stato assunto nel caso presente come identico al movimento. Ma l’identico e il diverso non si identificano neanche con l’essere: in primis, se l’essere e l’identico fossero la stessa cosa, movimento e quiete, in quanto entrambi “sono”, sarebbero pure “identici”, il che è per definizione impossibile. Più complessa l’argomentazione nel caso del diverso: premessa una generale distinzione, nell’ambito delle cose che sono, fra gli enti che sono “in sé” (auta kath’hauta) e quelli che sono “in relazione ad altro” (pros alla), bisogna riconoscere che alcuni generi, come l’essere, si dicono tanto in sé, quanto in relazione ad altro (ciascun genere “è” in sé, come pure “sono” più generi, gli uni rispetto agli altri e con le loro reciproche relazioni), altri, come il diverso, si dicono sempre ed esclusivamente in relazione ad altro (ciascun genere è “diverso da” tutti gli altri, ma di nessuno si può dire che sia diverso “in sé”). Ora, se il diverso si identificasse con l’essere, occorrerebbe perciò collocarlo non solo fra i pros alla, come appunto gli compete, ma anche, come l’essere con cui coincide, fra gli auta kath’hauta, e si verificherebbe dunque il caso di un genere, appunto il diverso, diverso non solo “in relazione ad altro”, ma anche “in sé” e pertanto “da sé”. Questa possibilità è però esclusa a priori se, per definizione, i generi sono identici a sé e non, come si dovrebbe concludere qui, diversi da sé. Anche il diverso, riconosciuto come genere indipendente, va collocato accanto all’essere, al movimento, alla quiete e all’identico, completando così la configurazione dei generi che lo straniero qualifica come “più grandi” (254d4-5).

Distinti l’uno dall’altro, ciascuno di cinque generi più grandi è identico solo a se stesso: il movimento, per esempio, è diverso dalla quiete e dall’identico e, tuttavia, “è” ed è identico (a sé), in quanto comunica con l’essere e con l’identico. Se ne deduce allora che «il movimento è identico e non identico», e ciò è possibile per il differente significato che si attribuisce alle due affermazioni contraddittorie: dicendolo “identico”, ci si riferisce alla partecipazione del movimento all’identico, che ne pone l’identità con sé; dicendolo “non identico”, ci si riferisce alla partecipazione del movimento al diverso, che ne pone l’alterità dall’identico. Allo stesso modo, il movimento sarà diverso, oltre che dall’identico e dalla quiete, anche dal genere del diverso, e perciò, analogamente a prima, lo si dovrà dire “diverso”, in virtù della partecipazione al diverso che lo rende diverso dagli altri generi, e “non diverso”, in virtù della partecipazione all’identico che lo rende identico a sé soltanto e a nessuno degli altri generi, quindi neanche al diverso. Ma il medesimo ragionamento sul rapporto del movimento con la quiete, l’identico e il diverso, va esteso anche all’essere (256d-257c). Ora, se il movimento è diverso dall’essere, ne segue che, in quanto partecipe dell’essere, esso “è”, mentre, in relazione alla sua diversità dall’essere, è realmente non essere. In tal caso, se un genere che “è” risulta davvero affetto dal non essere, sarà allora necessario che il non essere “sia” effettivamente; e del resto ciò che accade al movimento si applica all’intera realtà dell’essere, perché tutti i generi, in quanto partecipi dell’essere, “sono”, mentre invece, partecipando del diverso, si rivelano diversi dall’essere e, sotto questo rispetto, a giusto titolo “non sono”: il genere del diverso, producendo, come gli compete, la diversità fra i generi, suscita in ciascuno il non essere. Ma anche l’essere, giacché è diverso dagli altri generi, non è gli altri generi, sicché, mentre in sé è uno, rispetto a tutti gli altri generi che non è, che sono a loro volta «di numero senza limite», è affetto dal non essere «altrettante volte». Peraltro, precisa subito lo straniero, il non essere così introdotto non va inteso come il contrario dell’essere, bensì come, appunto, soltanto diverso (heteron) dall’essere. Come il sintagma “non grande” significa indifferentemente il “piccolo” e l’“uguale”, cioè il contrario e il diverso dal grande, così la negazione “non” non indica necessariamente la contrarietà, ma «una cosa diversa dalle parole che le seguono o piuttosto dalle cose alle quali si riferiscono le parole che seguono la negazione». La natura del diverso presenta infatti una certa somiglianza con la scienza (257c-258c): entrambe appaiono come frammentate o ridotte in parti, pur ponendosi certamente, l’una e l’altra, come un’unità. Come la scienza che, anche se solo in una certa misura, è unica, ma allo stesso tempo possiede delle parti con una denominazione specifica, così pure il diverso, pur essendo una realtà unica, pare trovarsi nella stessa condizione di molteplicità rispetto alle sue parti: ecco perché si può dire che, come le tecniche e le scienze sono molte, esistono molte parti raccolte sotto l’unico genere del diverso. Tali molteplici parti del diverso sono di numero uguale a quello degli altri generi, cui esse si oppongono e da cui esprimono così la propria diversità: avremo pertanto, per esempio, il non bello, il non giusto e il non grande, parti del diverso opposte al bello, al giusto e al grande e perciò da questi diverse, di cui devono necessariamente partecipare quei generi che si rivelano diversi dal bello, dal giusto e dal grande, giacché solo in virtù di tale partecipazione alle corrispondenti parti del diverso questi generi acquistano la propria diversità dal bello, dal giusto e dal grande. Ora, nell’ambito di questa «opposizione di essere a essere» che si pone fra realtà esistenti, ossia fra uno qualunque dei generi e una parte di un genere, emerge evidentemente il “non essere”, nel momento in cui tale opposizione viene stabilità fra l’essere stesso e la parte del diverso che gli si contrappone, una parte di cui necessariamente partecipano quei generi, cioè tutti gli altri, che, pur comunicando con l’essere, ne sono però diversi in quanto, semplicemente, “non sono” l’essere. Come già in precedenza, lo straniero si sofferma a segnalare che questo “non essere” non manifesta contrarietà all’essere, ma solo diversità da esso, sicché diviene lecito affermare che è realmente; e su tale conclusione egli insiste ancora (258d-259b), ribadendo nuovamente, con identiche parole, che il “non essere” di cui si parla non è in alcun modo il contrario dell’essere, l’assoluto nulla o la completa negazione di esistenza che la discussione ha da tempo abbandonato, giacché, in virtù della koinonia di essere e diverso, con tutti gli altri generi e reciprocamente, l’esame ha finalmente raggiunto il suo esito: la fondazione ontologica del genere del diverso, la differenza qua talis, e la sua rigorosa elaborazione hanno svelato fra gli esseri «la forma del non essere», dotata di una natura sua propria. Ciò non consente naturalmente di sostenere sic et simpliciter che il diverso è “non essere” o che, viceversa, il non essere coincide con la diversità; piuttosto, l’articolazione della differenza rende pensabile il non essere e la sua attribuzione ai generi che “sono”, perché, in virtù della distinzione delle parti del diverso, risulta che, rispetto a se stesso nel suo complesso, il diverso non è altro che “diverso”, mentre, rispetto a ciascuna delle sue parti, che sono differenti da ciascuno degli altri generi e, effettivamente, “non sono” gli altri generi, il diverso introduce, appunto nella relazione delle sue parti con i generi ai quali queste si oppongono, il non essere. Abbiamo visto insomma come la soluzione dell’aporia del non essere emerga nella relazione fra essere e diverso nell’ambito della koinonia dei generi; ma la koinonia esige, per essere stabilita, che i generi comunicanti siano tutti allo stesso titolo essenti e tutti l’uno dall’altro diversi, riconducendo nuovamente il ragionamento al presupposto di un’assoluta compenetrazione di essere e diverso.

Sciolta l’aporia del non essere, lo straniero torna al paradosso sorto nell’ambito della caccia al sofista, per valutare se l’analisi compiuta consenta di dissolvere anche la difficoltà relativa alla possibilità del falso nei logoi. La sezione del dialogo che si apre così contiene alcuni dei presupposti fondamentali di quella che a pieno titolo si configura come la filosofia del linguaggio di Platone (259e-264b). In primo luogo, lo straniero dichiara che il logos dipende dalla combinazione (sumploke) delle forme ideali, in quanto appunto la riproduce; infatti, un’assoluta separazione di tutte le cose sarebbe esiziale per la costruzione del pensiero e del discorso e perciò contraria alla filosofia, ma anche la combinazione dei nomi nel logos, che appunto riproduce l’intreccio delle forme, deve seguire determinati criteri, perché, come subito si precisa, solo alcuni nomi ammettono di collegarsi gli uni con gli altri, in modo da produrre logoi che significano qualcosa; altrimenti, in assenza di un reale collegamento, la successione dei nomi non significa nulla. Ma in base a quali criteri si realizza tale collegamento fra nomi in cui consiste il discorso significante – o, in modo più esatto e più esplicito, in cosa consiste effettivamente tale discorso? La risposta a questa domanda introduce il secondo assunto fondamentale che regola la filosofia del linguaggio di Platone. Fra i nomi, intesi in generale come elementi componenti del logos, potremmo dire come “termini linguistici”, vi sono due generi di “rivelatori vocali” (delomata), ossia due tipi di emissioni sonore che indicano qualcosa rispetto all’essere di un certo oggetto: si tratta dei “nomi”, questa volta intesi nel significato specifico di agenti o soggetti di un’azione, e dei “verbi”, che invece significano le “azioni” compiute da un soggetto o agente. Il logos, quindi, (1) collega un nome a un verbo, così connettendo un agente a un’azione, mentre le sequenze di nomi o di verbi soltanto, che lascino gli uni separati dagli altri, non producono nessuna connessione significativa; (2) parla necessariamente di qualcosa o, più precisamente, è “di” qualcosa (tinos einai) o “su” qualcosa, nel senso che si riferisce senza eccezioni a qualcosa che è, cioè a “esseri” collocati in posizione di nome o di verbo, di agente o di azione, insomma, in altre parole, di soggetto e predicato. Il quadro si completa, una volta chiarite le relazioni fra linguaggio e realtà e definiti i criteri di significatività del linguaggio, enunciando le condizioni della verità e della falsità dei logoi. Innanzitutto, poiché il logos è “di” o “su” qualcosa, in quanto si compone di nomi e verbi che sono appunto “rivelatori di essere” e la cui combinazione riflette la combinazione delle cose che sono, esso non può in nessun caso riguardare il non essere assoluto, l’impraticabile nulla che rimane infatti impensabile e indicibile. Se realmente “significa”, il discorso parla “di” qualcosa dicendo cose che sono, vale a dire che dice cose che sono “di” o “su” qualcosa che, anch’esso, è. Se ciò è vero, e se l’orizzonte del logos è necessariamente esaurito dalle cose che sono, sia il logos vero sia il logos falso dicono cose che sono, “di” o “su” qualcosa che, anch’esso, è; ma se, allora, non differiscono quanto alla natura dei termini di cui stabiliscono la connessione che, tutti indifferentemente, “sono”, né rispetto all’oggetto di cui parlano che, esso pure, “è”, il logos vero e il logos falso non potranno infine differire che rispetto alla struttura della connessione che stabiliscono fra i termini che li compongono: vero sarà dunque il logos che “dice le cose che sono come sono intorno a qualcosa”, dunque stabilendo una connessione fra i suoi componenti che riproduce correttamente l’effettiva sumploke delle cose che sono, falso invece il logos che “dice cose diverse da quelle che sono”, ossia “le cose che non sono, come se fossero, intorno a qualcosa”, quindi stabilendo una connessione fra i suoi componenti che, pur collegando termini che si riferiscono a cose che sono, tuttavia è diversa dall’effettiva sumploke delle cose che sono e pertanto non è l’effettiva sumploke delle cose che sono. Il logos, vero o falso, dice sempre e per necessità l’essere, ma, quando è vero, lo dice come è, mentre, quando è falso, lo dice diversamente da come è, cioè come non è, introducendo così un “non essere” che, senza nessuna contraddizione, “è”, in quanto consiste semplicemente in un “essere diverso” da ciò che “è”.

Se davvero il non essere assoluto è congedato e tolto come oggetto di analisi, in favore di una concezione relativa del non essere come “opposizione di essere a essere” in virtù della reciproca diversità fra gli esseri, se davvero il falso risulta svincolato dal non essere e collocato legittimamente nella connessione predicativa dei logoi, lo straniero potrà riprendere l’iniziativa e concludere vittoriosamente la sua caccia al sofista.

 

Bibliografia essenziale

Edizioni
Platonis Opera, recognoverunt brevique adnotatione critica instruxerunt E.A. Duke, W.F. Hicken, W.S.M. Nicoll, D.B. Robinson e J.C.G. Strachan, t. I, Oxford Univ. Press, Oxford 1995.

Traduzioni italiane
F. Fronterotta, Platone, Sofista, a cura F. Fronterotta, Milano, Rizzoli 2007.

Studi
G. Movia, Apparenze, essere e verità. Commentario storico-filosofico al Sofista di Platone, Vita e Pensiero, Milano 1991.
G. Sasso, L’essere e le differenze. Sul Sofista di Platone, Il Mulino, Bologna 1991.
D. O’Brien, Le non-être. Deux études sur le Sophiste de Platon, Accademia Verlag, Sankt Augustin 1995.
P. Crivelli, Plato’s Account of Falsehood. A Study of the Sophist, Cambridge Univ. Press, Cambridge 2012.

Aristotele, Etica Nicomachea

Aristotele, Etica Nicomachea

di Francesco Fronterotta

Lo statuto dell’etica, nella concezione aristotelica delle scienze, è ben preciso. Al di sotto delle scienze teoretiche (matematica, fisica e filosofia prima) si collocano infatti rispettivamente le scienze pratiche e le scienze poietiche, queste ultime dedicate espressamente a finalità produttive. Fra le scienze pratiche, che, in quanto “scienze”, possiedono una struttura dimostrativa e mirano, secondo la caratteristica concezione aristotelica, alla conoscenza delle cause delle cose, ma si indirizzano alla realizzazione di fini “pratici”, si collocano appunto l’etica e la politica, che assumono come fine le “cose degli uomini”, la prima in quanto individui, la seconda in quanto cittadini.

Dei tre trattati etici di Aristotele, l’Etica Nicomachea, l’Etica Eudemia e i Magna Moralia (su parti dei quali, specie nel caso dei Magna Moralia, pesano seri dubbi di autenticità), l’Etica Nicomachea è certamente il più importante. Anche per questa opera, che raccoglie materiali non destinati alla pubblicazione, ma all’indagine e alla discussione interna alla scuola di Aristotele, si pongono i consueti problemi relativi alla sua composizione, alla sua genesi, alla sua cronologia e alla sua unità, benché il suo svolgimento tematico sia, nell’insieme, sostanzialmente coerente. Prendiamo dunque in esame almeno alcune delle principali linee argomentative che caratterizzano i dieci libri di cui essa si compone.

Il problema centrale da cui l’analisi di Aristotele prende avvio nel primo capitolo del I libro dell’opera è quello della ricerca e della realizzazione della felicità. Ogni individuo tende infatti naturalmente al perseguimento e alla realizzazione di certi fini che sono, per chi li persegue, altrettanti beni: alcuni di essi, spiega Aristotele, sono fini, o beni, perseguiti in vista di altri fini e si presentano perciò come relativi e sostanzialmente strumentali, ossia piuttosto come mezzi che non come autentici fini. Ma l’intera gerarchia dei fini, o dei beni, va posta in relazione con un fine ultimo o con un bene supremo, che consisterà necessariamente nella felicità (eudaimonia). Questa posizione eudaimonistica non è nuova, naturalmente, nella storia dell’etica antica e non mancano fra i predecessori di Aristotele sostenitori della tesi secondo cui l’obiettivo di ogni vivente, e in primo luogo dell’uomo, risulta coincidente con la felicità: sarebbe anzi ben strano proporre un fine della vita diverso da questo. Ma al di là di una considerazione di carattere alquanto generale come questa, Aristotele è certamente il primo ad aver affermato con assoluta radicalità e nettezza l’esigenza di una piena realizzazione individuale come scopo di una disciplina etica e dello studio dei comportamenti e delle azioni degli uomini.

Che la felicità sia il fine ultimo di ogni ente e di ogni vivente, secondo Aristotele, è questione sulla quale tutti concordano; ma quale sia la sua natura è invece oggetto di controversia e dissenso. È a questo punto che viene introdotto, come di consueto, l’esame degli endoxa, delle opinioni comuni più diffuse o comunque delle più autorevoli, particolarmente dei predecessori: vi è infatti chi pone la felicità nel piacere, e si tratta dei più, ma Aristotele giudica questa forma di soddisfazione immediata degna delle bestie e degli schiavi, non certo degli uomini liberi; altri individuano piuttosto l’onore come fine ultimo, e si tratta in tal caso di un’opinione più evoluta e raffinata, che fa presa soprattutto fra coloro i quali si dedicano all’attività politica, ma Aristotele rileva ancora come l’onore non sia davvero perseguito di per sé, bensì per il riconoscimento che ne deriva a chi lo ottiene e in quanto è dunque segno di virtù: ciò implica allora che l’onore risulta subordinato alla virtù e soltanto strumentale rispetto a essa; a maggior ragione da respingere come fine della vita umana e come bene sommo è l’accumulazione delle ricchezze, che Aristotele considera senza mezzi termini come contro natura, perché le ricchezze possono fungere al più come mezzi che ampliano possibilità e potenzialità di chi le possiede, e non certo come fini in sé, neanche per chi è preso dalla brama di accumularne senza sosta né termine.

In questo contesto si inserisce la celebre critica che Aristotele rivolge alla concezione platonica del bene sommo, tratteggiata specialmente nei libri centrali della Repubblica, secondo la quale il bene si colloca in una dimensione radicalmente trascendente e oltremondana, come idea o forma intellegibile del bene, modello eterno, universale e separato, e perciò stesso paradigmaticamente valido in ogni possibile circostanza, di ogni valutazione, azione o comportamento. A una simile prospettiva Aristotele obietta intanto che una nozione così astratta e trascendente finisce per essere non solo praticamente irraggiungibile, ma anche in ultima analisi indesiderabile per gli uomini; inoltre, la concezione di Platone suppone evidentemente un significato univoco di “bene”, da intendere cioè come un concetto unico capace di definire allo stesso titolo il fine di ogni ente e di ogni vivente, ciò che Aristotele contesta vivacemente in favore di una nozione plurivoca del bene, al quale si deve riconoscere che possiede, per ogni ente e per ogni vivente, un significato proprio e specifico per quell’ente e per quel vivente.

Il bene sommo o il fine ultimo per l’uomo deve consistere allora nella realizzazione dell’opera che gli è propria, della sua attività naturale specifica. Ma qual è tale “opera” o “attività”? Anche su questo punto le opinioni divergono: non può trattarsi però del semplice “fatto” di vivere, che è comune anche alle piante; né del “percepire” o “sentire”, che è comune anche agli animali; dovrà trattarsi quindi dell’unica attività propria esclusivamente dell’anima umana, vale a dire del pensiero e dell’attività razionale. Ecco in cosa consiste la “virtù” (arete) dell’uomo, più esattamente quell’“eccellenza” piena che ne realizza la felicità. Occorre preliminarmente precisare che una simile concezione che fa coincidere la felicità con l’esercizio della facoltà razionale e del pensiero non presenta agli occhi di Aristotele nessun tratto ascetico né tantomeno astratto: egli sottolinea infatti che, per poter essere compiutamente dispiegata, l’attività razionale deve essere accompagnata da sufficienti beni materiali, la cui assenza ne comprometterebbe invece la realizzazione. A ciò bisogna aggiungere che tale attività, con la felicità che a essa è associata, non è neanche esente da piacere, giacché il piacere ne rappresenta anzi un’implicazione e un coronamento. Ciò suppone, pur se a determinate condizioni, un parziale accostamento di Aristotele alle concezioni edonistiche della felicità e un netto distacco dalle tesi anti-edonistiche più o meno radicali che dovevano avere un significativo sostegno all’interno dell’Accademia, anche se, forse, non necessariamente da parte di Platone.

Se dunque la felicità dell’uomo consiste nell’attività della sua anima secondo “virtù” o “eccellenza” (arete), ciò consente di transitare verso un secondo tema cruciale dell’Etica Nicomachea, appunto quello della natura e della classificazione delle virtù. Quali sono infatti le virtù propriamente e specificamente umane? Non quelle che appartengono all’anima vegetativa, comune a tutti i viventi; piuttosto all’anima sensitiva che, pur essendo propria di tutti gli animali, si pone in certa misura in rapporto con la facoltà razionale; e soprattutto, come era facile attendersi, all’anima razionale, la sola esclusivamente umana. Aristotele parla, nel caso della funzione sensitiva dell’anima, di virtù “etiche”; mentre, al livello dell’anima razionale, parla di virtù “dianoetiche”. Per quanto riguarda le virtù etiche, ne vanno stabiliti caratteri e natura. Nel libro II, Aristotele fa derivare le virtù etiche dall’abitudine o habitus, dall’esercizio del controllo degli impulsi immediati: compiendo atti giusti, si diviene giusti, cioè si acquisisce un habitus peculiare, quello della giustizia; agendo moderatamente , si apprende il modus operandi o l’habitus della moderazione, e così via. Tali comportamenti, ciascuno con il relativo habitus, in cui consistono le virtù etiche, si trovano in qualche modo unificati dalla comune definizione del loro statuto. La virtù etica consiste infatti in generale nella giusta proporzione, o via mediana, fra due estremi. La definizione è celebre: per ogni habitus comportamentale, o etico, la virtù si situa nella posizione intermedia fra eccesso e difetto, in un esercizio di controllo e moderazione dell’impulso sensibile corrispondente, purché si intenda tale posizione intermedia non come una sintesi immediata fra eccesso e difetto, ma come una posizione che supera eccesso e difetto e ne neutralizza gli aspetti negativi e irrazionali.

Nell’esame fitto e dettagliato delle virtù etiche, dal II al V libro, spicca il caso della giustizia, che Aristotele considera come la principale, e a cui dedica l’intero libro V, definendola come in qualche modo capace di ricapitolare tutte le virtù etiche: essa consiste in senso proprio nella giusta e proporzionata ripartizione tanto dei beni quanto dei mali, mentre l’ingiustizia si colloca in relazione a entrambi gli estremi, quando cioè prevale una ripartizione squilibrata dei beni e dei mali.

Alle virtù dianoetiche, proprie della sola anima umana e della sua facoltà razionale, è dedicato l’intero libro VI dell’opera. Anche qui Aristotele distingue fra due funzioni dell’anima razionale, una con competenze pratiche, che presiede alla conoscenza delle cose contingenti e mutevoli, come i comportamenti umani, e una con competenze teoretiche, che si rivolge alla conoscenza delle cose necessarie e immutabili, cioè dei principi delle scienze e delle scienze stesse. A entrambe queste funzioni, seguendo la logica già nota dell’indagine di Aristotele, corrisponde una “virtù” o “eccellenza” (arete) specifica, rispettivamente la phronesis, o saggezza, e la sophia, o sapienza.

La phronesis è la disposizione virtuosa che permette di dirigere la condotta umana, discriminando fra bene e male e adottando i comportamenti che consentono di realizzare i fini ultimi, ossia il bene, dell’uomo. Ciò che la phronesis indica sono dunque criteri e fine dell’agire umano, ma tale fine si persegue concretamente attraverso l’esercizio delle virtù etiche. Queste ultime, a loro volta, sarebbero come “cieche” senza la phronesis che ne fornisce l’indirizzo. Al culmine della gerarchia delle virtù si pone la sophia, che deve il suo statuto supremo al fatto che suo oggetto non sono l’uomo e i suoi comportamenti e fini, ma le cose “più divine”, cioè i principi di tutte le cose. Senza addentrarci nell’esame complesso e articolato che Aristotele dedica alla sophia e alle sue forme, possiamo comprendere come egli giunga così a stabilire, parallelamente alla gerarchia delle virtù, un’analoga gerarchia dei gradi di felicità realizzabile per l’uomo – ciò che costituiva l’obiettivo fissato all’inizio dell’Etica Nicomachea.

Il terzo e ultimo fondamentale asse teorico dell’opera da me evocato qui, che è oggetto dell’analisi condotta nei capp. 7-9 del libro X, è dunque rappresentato dall’indicazione della vita “contemplativa”, cioè dedita all’esercizio della ragione nella conoscenza dei principi delle scienze, come condizione suprema e massimamente desiderabile, quella cui presiede appunto la virtù della sophia. Solo in via secondaria si potrà considerare felice la vita “pratica”, regolata dalla phronesis e dalle virtù etiche. La contemplazione avvicina l’uomo alla condizione divina, quella della contemplazione permanente ed eterna cui l’uomo, o alcuni fra gli uomini, accedono a tratti.

Questa celebre prospettiva della felicità umana, cui Aristotele assegna, come già detto, un indubbio quoziente di piacere, è destinata ad assumere un ruolo fondamentale nella storia della filosofia posteriore, classica e non solo.

 

Bibliografia essenziale

Edizioni
Aristotelis Ethica Nicomachea, recognovit F. Susemihl, editio tertia curavit O. Apelt, Teubner, Leipzig 1912.

Traduzioni italiane
Aristotele, Etica Nicomachea, traduzione, introduzione e note di C. Natali, Laterza, Roma 201410.

Studi
C. Natali, La saggezza di Aristotele, Bibliopolis, Napoli 1989.
M. Nussbaum, The Fragility of Goodness, Cambridge Univ. Press, Cambridge 1986.
M. Vegetti, L’etica degli antichi, Laterza, Roma 200611.
E. Berti (a cura di), Guida ad Aristotele, Laterza, Roma 20125.

Aristotele, De anima

Aristotele, De anima

di Francesco Fronterotta

[drop_cap style=”2″ bgcolor=”#dddddd” color=”#787882″]A[/drop_cap]nche per il De anima vale in generale quanto detto per la Metafisica rispetto ai noti problemi che riguardano il titolo dell’opera, la sua struttura, la sua composizione e la sua cronologia. Basti ricordare però, a mo’ di premessa, che il titolo peri psuches è usato da Aristotele per riferirsi a questa opera in altri suoi scritti; che, rispetto alla Metafisica, il De anima appare dotato di un’assai maggiore compattezza e continuità; e che, anche in questo caso, si è creduto di poter rinvenire un mix di spunti teorici di matrice platonica, che spingerebbero a una datazione giovanile dell’opera, e di spunti più decisamente anti-platonici, che invece suggerirebbero una datazione più tarda. Ma tutto ciò, come già ricordato in relazione alla Metafisica, rimane molto controverso ed è impossibile discuterne a fondo in questa sede.

Il De anima si compone di tre libri. Il libro I esamina innanzitutto le teoria psicologiche dei predecessori. Se Aristotele condivide la tesi generale dei presocratici e di Platone, che fa dell’anima un principio di movimento, sensazione e conoscenza, egli rivendica però per sé il merito di aver introdotto uno studio e una disciplina dell’anima “nuovi” e “originali”. L’anima va considerata infatti phusikos, da un punto di vista “fisico”, cioè esaminando scientificamente, tramite l’osservazione e la dimostrazione, cosa e come essa “operi” e “funzioni”. Attraverso una rassegna delle principali aporie intorno all’anima e delle opinioni dei predecessori, Aristotele giunge a definire l’anima, nei primi due capitoli del libro II, come «forma e atto primo di un corpo naturale che sia strumentalmente disposto alla vita», cioè come il principio vitale che realizza e attua le funzioni potenziali di un corpo. Con un esempio: non basta possedere gli occhi per “vedere”: gli occhi di per sé sono soltanto strumenti della vista, mentre occorre, per “vedere”, un principio che realizzi e attui la vista. E così pure per tutte le funzioni vitali e biologiche, primarie e secondarie, semplici e complesse. Ne segue che, in quanto tale, nella sua dimensione funzionale di forma del corpo materiale, l’anima non è separabile dal corpo e non sussiste indipendentemente dal corpo. Si tratta del celebre “ilemorfismo” aristotelico, per cui l’anima è appunto la morphe, la forma, della hule, della materia, corporea. Nessun dualismo di sostanze è quindi possibile nella psicologia di Aristotele né dell’anima si può dare una descrizione “materiale” o “sostanziale” autonoma, cioè come qualcosa che si generi o sussista di per sé, ossia autonomamente dal corpo.

Queste, per dirle semplicemente, sono le principali critiche rivolte ai predecessori e a Platone soprattutto: l’anima non è una realtà composta di elementi fisici o naturali (come vogliono i presocratici) né una realtà dotata di statuto e capacità psichiche distinti, capaci di tradursi in azioni fisiche nel corpo (come vuole Platone), perché il vivente è un’unità indissolubile di cui anima e corpo manifestano l’aspetto funzionale, cioè formale, e strumentale, cioè materiale. Si noterà per quale motivo, ed entro quali limiti, il filosofo della mente Hilary Putnam abbia potuto vedere in Aristotele il lontano progenitore della sua spiegazione “funzionalista” del rapporto anima-corpo.

Il libro II prosegue con l’esame delle facoltà dell’anima, che coincidono con altrettante funzioni biologiche, muovendo dalle prime due. L’anima esercita infatti, in primo luogo, una funzione nutritiva o vegetativa, che è propria di tutti i viventi, comprese le piante, e che presiede alla nutrizione e alla riproduzione; quindi una funzione sensitiva, che appartiene a tutti gli animali, e che ha a che fare con la percezione sensibile, ma anche con gli appetiti e con gli impulsi al movimento e all’azione. Nel contesto dell’indagine sulla facoltà sensitiva, Aristotele passa in rassegna natura e modi dei cinque sensi, giungendo ad alcune importanti acquisizioni. Innanzitutto, viene negato il carattere “passivo” della sensazione, perché il percepire implica l’attività dell’organo di senso nella percezione: non si tratta pertanto esclusivamente di subire il contatto con un oggetto esterno, perché tale contatto “attiva” l’organo di senso che, solo quando è in atto, “sente” propriamente e percepisce. Un altro esito importante di questa sezione dell’opera consiste nella distinzione fra sensibili “ propri”, cioè quelli percepibili solo da un senso specifico (come il colore è il “sensibile” proprio soltanto della vista), e sensibili “comuni”, ossia quelli che possono essere percepiti da più sensi (come il movimento, che può essere percepito sia dalla vista sia dal tatto). Sui primi, secondo Aristotele, non è possibile nessun errore percettivo; sui secondi, invece, l’errore è certamente possibile.

Il libro III del De anima esamina infine la facoltà più alta dell’anima, che appartiene solo agli uomini, quella intellettuale. Aristotele prende le mosse dalla transizione dalla sensibilità all’intelletto, considerandone i diversi passaggi. Egli si interroga dapprima sulla possibilità che esista un “sesto” senso oltre i cinque, un senso “comune”, capace di “unificare” l’esito della percezione dei primi cinque. Ma la risposta è negativa: non esiste nessun “sesto” senso, ma ognuno dei cinque sensi percepisce e ha coscienza della percezione compiuta, sicché non occorre un “senso” superiore che raccolga e unifichi le percezioni. L’unità delle percezioni deriva dal fatto che essa riguarda i già citati sensibili “comuni”, ossia quelli percepiti da più sensi contemporaneamente: è da questa percezione integrata, o appunto “comune”, che dipende la possibilità di acquisire una prospettiva unificata e plurale dell’atto percettivo.

Ma il passaggio dalla sensazione al pensiero e all’intelletto è ancora mediato dalla presenza di una facoltà intermedia, la phantasia. Normalmente resa con “immaginazione”, la phantasia adempie alla funzione di produrre phantasmata, cioè immagini derivate da una precedente sensazione in atto che a loro volta costituiscono l’insieme di materiali su cui si esercita l’azione dell’intelletto. Siamo giunti così al nous, all’intelletto o facoltà intellettuale. Si tratta di un questione assai complessa e sostanzialmente concentrata nei capp. 4-5 del libro III. Aristotele formula una premessa per questa parte della sua trattazione: come nell’intera natura, anche nell’anima e rispetto alle sue facoltà, conviene distinguere una dimensione formale e una materiale. Vi sarà perciò un intelletto analogo alla materia e un intelletto analogo alla forma. O meglio: vi saranno una dimensione o uno stato dell’intelletto analogo alla materia e uno analogo alla forma. L’intelletto analogo alla materia è concepito come pura potenza ricettiva degli intellegibili, vale a dire dei contenuti della conoscenza intellettuale – degli oggetti dell’intelletto –, e non potrà coincidere con nessuno di essi prima di pensarli effettivamente. Su questo piano vi è una certa analogia fra il “pensare” e il “percepire”, in entrambi i casi avendo luogo un “subire” l’azione dell’oggetto pensato o percepito da parte della corrispondente funzione dell’anima. Ma questa analogia ha naturalmente un limite, perché, mentre la facoltà sensitiva è connessa ai sensi, cioè a organi corporei, la facoltà intellettiva non è “mescolata” al corpo né dispone di un organo fisico specifico. Ciò giustifica il dubbio che Aristotele esprime, se cioè l’indagine di questa facoltà spetti alla psicologia oppure alla disciplina più alta, la filosofia prima, che si occupa degli enti immateriali.

Ma questo intelletto analogo alla materia, questo intelletto in potenza, che è in potenza, prima di pensarli, tutti i suoi oggetti, cioè gli intelligibili, come giunge a pensare? In altre parole, come passa dalla sua condizione potenziale alla conoscenza in atto, al pensiero degli intellegibili, al loro effettivo possesso? Siamo qui di fronte, nel cap. 5 del libro III, alla principale e più nota difficoltà dell’opera, su cui sono stati versati fiumi di inchiostro e suggerite le interpretazioni più divergenti. L’intelletto “agente” o “attivo” è paragonato a una sorta di luce che rende i colori in potenza colori in atto e permette perciò di coglierli, come pure a una causa efficiente che “produce” i propri effetti; esso è tuttavia “nell’anima”, come suo stato o condizione. E’ importante precisare questo punto perché, notoriamente, alcune importanti interpretazioni antiche hanno voluto concepire l’intelletto agente come un principio esterno, un intelletto divino, perfino coincidente con il primo motore immobile di cui parla il libro XII della Metafisica, che sarebbe responsabile della produzione delle forme intellegibili e della loro trasmissione all’intelletto umano solo passivo o in potenza.

Per quanto ingegnosa, questa interpretazione non trova chiaro fondamento nel testo aristotelico, se la conclusione del cap. 5 insiste sul carattere divino dell’intelletto agente e sulla sua separabilità dal corpo prevalentemente nel senso che si tratta di un’attività intellettuale “pura”, che non si esercita tramite il corpo, e che, come tale, attinge in qualche modo all’immortalità. Ma “quale” immortalità? Anche questo punto è controverso: mi limiterei personalmente a constatare, concludendo su tale aspetto, che Aristotele ripete qui che la conoscenza in atto, cioè il pensiero che pensa, cioè ancora l’attività intellettuale realizzata, è identica al suo oggetto, il che implica necessariamente che consiste nell’identificarsi con il proprio oggetto. L’intelletto in atto, l’intelletto che pensa, è dunque forse soltanto da intendersi come quella funzione intellettuale che, pensando gli intellegibili, si rende identica a essi, differenziandosi così dalla sua condizione solo potenziale, che consiste invece nella disposizione non ancora realizzata ad accogliere gli intellegibili.

Se le cose stessero in questi termini, la separazione, l’eternità e l’immortalità dell’intelletto agente o in atto si rivelerebbero semplicemente come tratti che appartengono agli oggetti intellegibili con cui del resto esso si identifica. In tale ottica sarebbe allora legittimo sostenere che «esso soltanto è ciò che è veramente», anche se, come Aristotele aggiunge, «noi non ricordiamo», appunto nella misura in cui non vi sarebbe nessun “noi” al livello di questo intelletto che è in atto i suoi oggetti, di questa attività intellettuale considerata di per sé, che è ricondotta, senza residui, alla dimensione oggettiva dei suoi contenuti.

 

Bibliografia essenziale

Edizioni
Aristotle De anima, edited with introduction and commentary by W.D. Ross, Clarendon Press, Oxford 1961.

Traduzioni italiane
Movia, Aristotele, L’anima, a cura di G. Movia, Loffredo, Napoli 19912.

Studi
M. Nussbaum e A.M. Rorty (a cura di), Essays on Aristotle’s De anima, Clarendon Press, Oxford 1992.
G. Cambiano e L. Repici (a cura di), Aristotele e la conoscenza, LED, Milano 1993.
E. Berti (a cura di), Guida ad Aristotele, Laterza, Roma 20125.