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Riposta alla risposta di Giorgio Cesarale al mio Illuminismo su «Astérisque»

Può darsi che nel mio scritto sull’Illuminismo vi sia qualche frettolosità e qualche semplificazione circa il punto che Giorgio Cesarale – nel Commento al mio articolo Illuminismo, «Astérisque», I 1, pp. 27-38, 39-46 – più mi rimprovera: la mia polemica contro l’idea di totalità, dell’intero e le sue conseguenze. Intanto sgombererei il campo dalla previa connessione della totalità con il misticismo. Non che il nesso non vi sia, ma il mistico si dice in molti modi, alcuni dei quali sembrano persino inseparabili dal filosofare e dalla comune esperienza. Se affermo che sono e mi sento parte di un più vasto organismo, al limite dell’intero genere umano, che condiziona il mio modo di pensare e a cui interamente mi rimetto, non si vede perché questa posizione dovrebbe essere censurata. Semmai il problema nasce qui dall’interno, quando hegelianamente comincia a presentarsi nella storia un’individualità che, al modo di Antigone, esorbiti, mettendola in crisi, da una comunità fino ad allora «totalitaria». Ma questo apre, come si vede, un altro problema: dove mai lo holon sociale potrebbe essere detto senza l’interna determinazione delle soggettività? La totalità dovrebbe essere allora costituita dall’insieme, dai singoli e dalle loro relazioni. Solo che in questo modo ci incamminiamo lungo una totalità composta di parti che nell’atto stesso nega ciò che qui c’interessa: un insieme che riduca a sé tutte le interne determinazioni e differenze, dove le soggettività e le «cose» non oppongano nessuna resistenza al loro assorbimento nel tutto, nessun ostacolo all’immane potenza unificante dell’intero. Parmenide esplicitamente esclude che l’intero dello sfero possa mai esser composto di parti, ciò che implicherebbe anzitutto la discontinuità di spazio e di tempo, la presenza di determinazioni. Ma, di contro, ogni volta che una determinazione e una differenza trovano posto, che il pensare-dire sia agito dal tronco aristotelico, nominando alcunchè è negata la forza esclusiva dell’intero, la totalità come reale dominio della conoscenza. Possiamo per queste ragioni tralasciare ora una piena presa d’atto del problema del misticismo, che o è un altro modo di dire la totalità o si risolve in vario modo nell’esperienza comune del gioco tra un intero e le sue parti.

         Ma venendo ora propriamente alla «totalità», si può dire tanto che è una costante tensione, in certo modo ineliminabile dal pensiero, tanto che è un «luogo» dove il pensiero rischia di perdersi interamente, trovando un’annihilatio proprio al termine delle sue più alte prestazioni, una riconduzione a quell’oscurità da cui ci si è faticosamente distaccati. Ora, perché l’intero è legato a quelle determinazioni che pur fondano l’essenza del pensare? Un primo motivo, vien fatto di dire, è che le stesse determinazioni, nonché imporre la loro presenza, vengono, in una prospettiva dualistica, «costruite» o guadagnate, separate dalla (costruita) «totalità» che in qualche modo pur ci costituisce, attraverso le relazioni e le scissioni che affettano, a cominciare dalla corporeità e dall’affettività, la nostra soggettività. Il puro pensare deve, fino a un certo punto, liberarsi da questo peso dell’intero, non al punto però da non ritrovare nel suo cammino l’esigenza e la periodica verifica, anzitutto, di quell’insieme di mente-corpo, di cui si può fare epochè ai fini del pensare (fino a un certo punto, ripetiamo), ma che non si può mai presumere di vanificare del tutto. Anche le più trite e discutibili definizioni dell’uomo come zoon politicon, animal sociale et politicum esprimono a loro modo un «insieme», la cui traccia non si può mai lasciar cadere. Per questo aspetto dunque si deve dire che «l’intero» ci abita e che con esso, dentro di esso, lavoriamo, depurandolo e isolandolo per raggiungere la distinta chiarezza (quasi un innesto di Freud in Cartesio) delle determinazioni. Ci sono infinite cose nell’uomo e nell’atto del pensare che, oscuramente giacenti sempre al fondo dei nostri pensieri, possono talvolta ricomparire con forza all’interno e dentro la semplice e netta riflessione, una «totalità» che va ogni volta controllata e dominata, e semmai fatta giocare con la parzialità e la finitezza.

      Dal lato della conoscenza, a parte obiecti, la totalità si presenta per il fatto che la determinazione, come pensare-agire, sposta sempre in avanti il suo limite, quasi un orizzonte che appena raggiunto presenta subito, in un mondo sferico, un’ulteriore meta. Il senso dell’oltre, la dimensione umana che è al tempo stesso, come in Ulisse, segnata dalla fondamentale finitezza, ma anche dall’apertura all’infinita «totalità», fa sì che la tensione all’intero, mai del tutto debellabile, e anzi essendo anche produttiva, deve essere ricondotta e ricomposta ogni volta dalle ragioni del finito, dall’imprescindibile orizzonte di ogni conoscenza. Se  mai l’idea della totalità si attuasse per intero, prendendo corpo e dominio, risolverebbe in sé, dissolvendola, ogni soggettività, ogni pensiero e ogni teoria critica; ma al tempo stesso una «totalità» parziale, ristretta (e capricciosa), per servirsi di questi ossimori, sembra sempre aggirarsi, certo per essere fondamentalmente dominata, nelle nostre esperienze, ma anche talvolta per far da lievito, una volta ricondotta alla dimensione del finito, alle nostre più alte e significative pratiche. Lo sforzo della determinazione comporta anche costi, persino alti, di introspettiva autolimitazione, di sacrificio, sebbene ineliminabile perché si dia la sua produttività.

      Diverso è il caso di quanti problemi una determinazione abbracci, e nel tempo, o fin dove s’estenda la sua rete. Qui vi è certo differenza tra le determinazioni, a volte circoscritte e a volta di larga portata, intensive ed extensive. Non si vorrà negare questa differenza, né l’invito a non abbandonare il terreno dei grandi problemi o, come si dice con qualche sdegno delle grandi «narrazioni», per affidarsi solo a quei piccoli interventi che popperianamente si dicevano «a spizzico», o   alla «metafisica del potere», alle lotte sempre «circoscritte e locali» di Foucault, dopo l’abbandono, stimato necessario, dei «progetti globali e radicali». Ché altrimenti – come giustamente osserva Giorgio Cesarale – rinunciando a ogni più ambiziosa tensione critica, ci lasceremmo «determinare da strutture più generali di cui rischiamo di non avere né la consapevolezza, né la padronanza». Ma allora il caso consiste veramente nell’affrontare e riformulare la problematica drammaticamente difficile della totalità». proprio in questo caso si deve badare, come più facile deviazione, che i problemi più larghi e comprensivi slittino, proprio per questo, in un non ammissibile esito di «totalità».

S’innesta proprio qui, intorno alla discussione sul «difficile problema della totalità» la recensione-discussione di Giorgio Cesarale al mio articolo, fatto di apprezzamenti e critiche. Di ciò dirò solo poche parole, sia perché ognuno può leggerlo e giudicarlo da sé, sia perché la discussione sarebbe piuttosto tecnica e complessa, sia infine perché dovrebbe avvenire in absentia di Giorgio. In breve, la parte in cui siamo discordanti, come si legge nella conclusione dell’intervento di Giorgio, riguarda l’inizio del nostro filosofare, il «cominciamento» della stessa filosofia o scienza, come accade in apertura della grande Logica di Hegel. Giorgio ritiene che la filosofia giunga a verità e forza critica solo quando cominci e si mantenga nell’orizzonte dell’assoluto. Questo vuol dire che dalla filosofia debba essere esclusa ogni considerazione empirica o pragmatica, come sarebbe la dualità di essere e pensare, di io e mondo; e ciò potrebbe avvenire, come nel radicale idealismo della filosofia classica tedesca, solo se è il pensiero che pone a sé il suo stesso oggetto, scoprendosi non si sa come «essere» o anche «creatore del mondo», in concorrenza col Dio specificamente cristiano, non demiurgo ma creator ex nihilo. Questa identità parmenidea tra pensare ed essere, noein kai einai, dovrebbe ritrovare al suo interno (dedurre/causare) determinazioni e differenze, l’intera ricchezza del mondo, pur in una totalità priva di condizioni e con risultati che appaiono sempre «posti». Da parte mia ritengo invece che la filosofia può e debba nascere, più o meno in senso kantiano, solo dall’empirico e dal finito, da un dualismo originario, seppur subito rinvenibile nelle attività stesse del soggetto. Il risultato di questo così diverso inizio del filosofare è sconcertante, perché entrambi ci rimproveriamo, da due angoli diversi, la stessa cosa. Io dico che una prospettiva come quella di Giorgio che muova da una totalità che attraverso la totalità pervenga alla totalità non riuscirà mai a incontrare ed elaborare determinazioni e vita «reale»; Giorgio a sua volta mi rimprovera che sono io a non incontrare mai reali determinazioni, perché, essendo la mia prospettiva interamente empirica, le pretese determinazioni, innovazioni e differenze ripeterebbero – ma allora facendo intervenire il non congruente uso del trascendentale – senza alcuna consistenza, sempre e all’infinito, una sostanziale identità. Ora questa «bizzaria» non è suscettibile di ulteriori svolgimenti: monismo ontologico e dualismo sono entrambi presupposti infondati e infondabili, privi di dimostrazione. Forse – è la mia convinzione – è meglio abbandonare del tutto questo terreno di «filosofia prima», occupandoci di illuminismo militante e della mondana «filosofia» che esso di volta in volta genera.

Servirsi di un kantiano «pensare largo», ma al tempo stesso non rinunciando alla forza che proprio le determinazioni conferiscono alla nostra azione teorica e pratica, è il grande compito che la riflessione (in senso kantiano) deve oggi affrontare, cercando di ricondurre a ciò anche imponenti filosofie che abbiano passato questo segno. E poiché sono stato contrapposto al più forte pensiero di Foucault – un autore verso cui nutro qualche diffidenza, ma di cui si dovrebbe tornare a discutere, non fosse altro per la profluvie di scritti e discorsi che gli archivi continuano a sfornare ma anche per la sua complessa (e riduttiva) posizione verso la «filosofia politica», magari riprendendo quel confronto con Hanna Arendt cui da tempo è stato spesso associato, per similitudine o pur solo per differentiam – vorrei finire questa breve analisi con una citazione foucaultiana, con cui sono interamente d’accordo, tratta dalla conclusione di Il coraggio della verità:

«ma ciò su cui vorrei insistere, per finire, è questo: non vi è instaurazione della verità senza una posizione essenziale dell’alterità; la verità non è mai il medesimo; non può esserci verità che nella forma dell’altro mondo e della vita altra».

2)  Su dualismo e assolutismo della totalità come posizioni ultime, non fondabili

La mia discussione con Giorgio potrebbe esser detta ‘Filosofia e illuminismo’. L’I ha bisogno della filosofia? Sì, anzitutto come determinazione di un ambito, sia pur impegnativo, di storicizzazione e concettualizzazione delle singole posizioni illuministiche nell’ambito dell’I stesso, nella vicenda più  larga dell’intero I, ma senza trascendere i confini dei prodotti culturali dei fenomeni detti illuministici. Esempio insuperato di ciò resta forse la Filosofia dell’illuminismo di E. Cassirer, che si occupa di due secoli quasi pieni, il ‘600 e il ‘700, come sfondo dei temi illuministici. Chiamerò ciò Illuminismo-Filosofia (IF), che riguarda la sola filosofia richiesta dall’I. C’è poi un più vasto regno della filosofia, che potrebbe, in ipotesi, mettere a tema e smentire, al di là della storia, gli stessi risultati dell’IF. Non si può dunque abbandonare questo piano più largo sui fondamenti e le intere pretese suscitate da ciò che dirò Filosofia-Illuminismo (FI). Il problema è qui allora di capire quale filosofia possa essere omogenea alla FI e quale invece finisce per negare la stessa IF.

Qui, propriamente, nasce il dissidio tra me e GC. Se io cerco di tracciare alcuni punti di questo retroterra filosofico della FI, GC. mi sembra volto subito a far riferimento a una filosofia molto forte, qual è quella che riguarda l’assoluta totalità, che ha l’illuminismo come un sottoprodotto di cui si può parlare solo in quanto la FI ha trovato posto nell’ambito dell’intero, dell’hegeliano «ganz». Una deduzione e un compito che, mi pare di capire, ancora non hanno avuto adeguato sviluppo filosofico perché sembra che l’I possa rinascere solo quando i problemi come quello della totalità siano avviati a soluzione.

    Ho detto sopra che a parer mio iniziare (e sviluppare) la filosofia dal punto di vista dell’assoluta totalità o dalla finitezza «dualistica» non è di per sé produttivo, in quanto questi due cominciamenti sono altresì la colonne d’Ercole del filosofare, ossia che essi sono né fondati, né fondabili. Tuttavia è anche necessario che – prima di abbandonare il campo per passare, eventualmente, all’I militante – si tenga conto di un’ultima considerazione, riguardante non tanto la cosa in sé quanto piuttosto i suoi fruitori. Se la discussione si articola intorno al concetto di totalità, abbiamo a che fare con un concetto così forte da ridurre a sé ogni altra questione.

Mi preme qui richiamare come l’orizzonte della totalità attiri a sé anche a parte subiecti, vale a dire che la stessa argomentazione è ricondotta al suo tema, essendo anch’essa composta di «proposizioni assolute». Anche saltando qui il problema del pensare-dire, non evitabile nemmeno aristotelicamente, resta che il discorso sulla totalità deve essere sorretto dal concetto di assolutezza, e ciò suppone che, non essendoci più totalità, unica sia la forma e il contenuto della sussunzione, esibizione (anche qui non dimostrazione) e della sua argomentazione, sorrette da una sorta di «pensiero unico».

Dalla mia prospettiva di pensiero finito e «dualistico» le cose stanno diversamente, nel senso che si danno (e si mantengono) reali possibilità di lavorare quelle che ho chiamate «determinazioni» e «differenze», senza divieti da parte della filosofia.  Per quello che ora ci riguarda, vi sarà in questa prospettiva una pluralità di possibili opzioni filosofiche, una diversità ad esempio delle concezioni circa il bene, senza quella sorta di «ricatto» che il pensiero della totalità fatalmente esercita verso gli interlocutori, forzati ad accettare tutti lo stesso pensiero ché la totalità conoscerebbe solo se stessa. C’è per la verità la tradizionale risposta a ciò della filosofia, quando distingue episteme e doxa; ma il problema è qui come possono stare insieme queste due forme, dallo statuto così diverso, con difficoltà che riguardano lo stesso tentativo di pensare anche una recta ratio (orthos logos).  Le colonne d’Ercole s’incontrano solo quando il pensare finito e «dualistico», tenta di trasporre in termini «fondanti», ontologici e metafisici, questo stesso orizzonte finito e duale, quando si ponga la durezza della «cosa in sé». Non traggo ora la necessaria conseguenza per cui come la posizione della «totalità» è incompatibile con ogni forma di empirico illuminismo, così, parimenti, la democrazia che almeno abbia qualche consistenza e consapevolezza di sé non è pensabile in questa tensione all’assoluto.  Ma prima di ciò, la posizione che parte dal finito lascia a tutti la liberale e goethiana facoltà di pensare i condizionati e i plurali modi dell’illuminismo.

 

 

L’Illuminismo fuori dell’Europa. Una lettura a partire dalla Filosofia della liberazione latinoamericana

Non c’è dubbio che i filosofi illuministici ritenevano di elaborare concetti e principi universali, cioè diretti e validi per l’intera umanità, trasformandoli in ideali da realizzare, principi regolativi[1] di ogni futura azione pratica che ad essi si ispirasse. Il modello di questa nuova forma del pensiero filosofico è rappresentato dal motto kantiano: “Agisci soltanto secondo quella massima che, al tempo stesso, puoi volere che divenga una legge universale”[2]. Si tratta, come è noto, di un imperativo categorico formale, ma è, allo stesso tempo, regolativo di ogni futura legge universale. Enrique Dussel utilizza i principi regolativi universali in maniera non formale, ma materiale, cioè ponendo come contenuto del principio di comportamento morale «il principio di produzione, riproduzione e sviluppo della vita umana di ciascun soggetto etico in comunità». Questo principio potrebbe essere non realizzabile in toto, ma rimane come la stella polare per i naviganti il punto di riferimento, irraggiungibile praticamente, ma indispensabile per orientare la propria direzione, o meglio la propria azione pratica. Questo nuovo orientamento del comportamento pratico, che tiene insieme la formalità dell’imperativo categorico con la materialità della vita umana, viene dall’esperienza esistenziale, divenuta filosofica, di chi pensa e agisce moralmente nell’esteriorità dell’attuale sistema dominante, cioè fuori dal Centro del Mondo (Stati Uniti, Europa, Giappone). L’esperienza e il pensiero di Dussel, che userò come strumento per questo saggio, vengono dall’America latina, la prima vittima del sistema coloniale europeo, anzi la vittima che ha permesso con il suo sfruttamento la fondazione della Modernità[3], cioè con il saccheggio delle sue ricchezze naturali (metalli preziosi) l’accumulazione originaria del capitale, che è avvenuta soprattutto con l’uso del lavoro di schiavi strappati con la violenza dall’Africa.

Dussel indica chiaramente quali siano i principi normativi della politica: «I principi normativi della politica, gli essenziali, sono tre. Il principio materiale obbliga a curare la vita dei cittadini; il principio formale democratico determina il dovere di agire sempre rispettando le procedure proprie della legittimità democratica; il principio della fattibilità limita egualmente ad operare soltanto per il possibile (al di qua della possibilità anarchica, e al di là della possibilità conservatrice)»[4]. Secondo me, i principi normativi della politica devono essere ispirati ai principi regolativi universali di origine illuministica, più precisamente principi normativi sussumono in loro i principi regolativi universali, fino al punto che essi assumono una eticità in se stessi: divengono principi etici del comportamento comune, cioè collettivo e poi passano ad essere principi morali del comportamento del singolo individuo.

La patria dell’Illuminismo fu la Francia, che era contemporaneamente una potenza coloniale schiavista. I politici illuministi agirono per rendere questi principi regolativi principi normativi, in modo tale che qualsiasi azione pratica potesse trovare il consenso universale. Così la “Dichiarazione dei diritti dell’uomo e del cittadino” (1789), basato su un testo di La Fayette, con la collaborazione di Jefferson, e ispirata al pensiero di Montesquieu[5], Rousseau e Voltaire, venne intesa come una legge universale e come tale è riconosciuta. I principi a fondamento di quella dichiarazione, Libertà, Fraternità e Uguaglianza, sono stati negli ultimi due secoli a fondamento di qualsiasi civile dichiarazione o costituzione statale. Anche la “Dichiarazione Universali dei diritti umani” (1945) dell’Organizzazione delle Nazioni Unite si ispira a quei principi regolativi, quindi quei principi sono stati a fondamento di una legislazione universale e di ogni azione di liberazione da qualsiasi forma di oppressione. Sono stati e, sicuramente, saranno per qualsiasi altra azione di liberazione, sia individuale che collettiva che sarà messa in pratica in futuro.

Anche la “Dichiarazione d’Indipendenza degli Stati Uniti d’America” (1776) si ispira a principi regolativi, ritenuti universali, che derivano dal pensiero di John Locke, il quale, per altro, riteneva legittima la schiavitù, in quanto riteneva la proprietà privata superiore alla stessa libertà. Alcuni di questi principi sono gli stessi della futura “Dichiarazione dei diritti dell’uomo e del cittadino”, come l’eguaglianza e la libertà, ma vi si aggiunsero il riconoscimento che ciascun essere umano ha diritti inalienabili, quali la vita e la felicità. Ma nel momento della stesura della “Costituzione degli Stati Uniti d’America” (1787) un evidente oblio fece dimenticare quei principi universali regolativi e la schiavitù non fu abolita, ma semplicemente regolamentata (vedi Artt. I, II e V). A questo punto è opportuno porsi qualche domanda: Perché la schiavitù non fu abolita? Forse gli schiavi non erano ritenuti uguali ai loro padroni bianchi? La risposta più ovvia è si, tant’è che anche dopo l’abolizione della schiavitù, nel 1865, la segregazione razziale non terminò e ancora oggi a più 250 anni dalla “Dichiarazione d’Indipendenza degli Stati Uniti d’America” e da più di 150 anni dall’abolizione della schiavitù la segregazione non è stata completamente superata, come insegna il movimento attuale Black Lives Matter. Buck-Morss avanza una propria interpretazione riguardo alla scarsa conoscenza delle vicende legate al mondo degli esclusi o degli oppressi: «Più le conoscenze sono specialistiche, più avanzato il livello della ricerca, più lunga e venerabile la tradizione accademica, più è facile che i fatti discordanti vengano ignorati. Va rilevato che la specializzazione e l’isolamento costituiscono un pericolo anche per nuove discipline come gli studi afro-americani»[6].

Ma è opportuno porsi un’altra domanda più radicale delle precedenti: In cosa consisteva l’ineguaglianza degli schiavi rispetto ai loro padroni? La risposta è ovvia ed evidente: erano neri, cioè non erano bianchi, o meglio non erano europei, perché soltanto gli europei si considerano veri bianchi, negando l’evidenza che anche gli asiatici (cinesi, coreani e giapponesi) sono bianchi. Pare che i principi regolativi universali valessero soltanto per gli europei e non per tutti gli esseri umani, quindi non erano universali, o meglio erano universali in teoria e non lo erano nella pratica, cioè nella società, nella politica e nell’economia. La stessa riproduzione della vita non era eguale tra i bianchi e i neri. La “Dichiarazione d’Indipendenza degli Stati Uniti d’America” era smentita dagli stessi cittadini che si erano dichiarati indipendenti dalla madrepatria inglese.

Una prima conclusione teorica si può trarre: nel momento in cui i principi regolativi universali dell’Illuminismo stavano per diventare principi normativi della politica non furono riconosciuti i tre principi normativi, come li ha indicati Dussel: il principio materiale fu fortemente ristretto alla semplice riproduzione della forza lavoro schiava, mentre totalmente negati furono il principio formale, in quanto gli schiavi non avevano dignità giuridica, se non come merci, e il principio di fattibilità, perché si realizzò l’unica possibilità esistente che era quella di considerare esseri umani come cose. Un’altra considerazione la ricavo dal bel libretto di Buck-Morss: la libertà come valore universale, si affermò nel momento di massimo sviluppo dello schiavismo[7], quindi un tale fenomeno, in piena espansione, ne condizionò la realizzazione pratica. Infatti la Buck-Morsse riporta un dato interessante: il 20% della borghesia francese viveva di economia schiavistica[8], quindi era liberale in patria e schiavista nelle colonie.

Data l’egemonia culturale degli Stati Uniti sulla cultura mondiale, questi avvenimenti sono molto noti e conosciuti. Molto meno conosciuta è la vicenda di chi realizzò effettivamente i principi regolativi universali della “Dichiarazione dei diritti dell’Uomo e del Cittadino”: gli haitiani. Della piccola isola di Hispaniola si sa molto poco nella cultura europea. Si sa, senza dubbio, che esistono due piccole nazioni caraibiche: Haiti e la Repubblica Dominicana. Ma non è molto noto che queste due piccole nazioni si dividono l’isola di Hispaniola. Ho scritto “nazioni”, perché nelle due parti dell’isola si parlano lingue diverse: francese ad Haiti[9] e spagnolo a Santo Domingo. È ovvio pensare che si parli francese ad Haiti, perché fu una colonia francese, ma Haiti ha una particolarità che la differisce da altre colonie francesi, insieme a Martinica e Guadalupe, era l’unica colonia francese dove era ammessa la schiavitù. È vero che il 28 marzo 1792 e il 4 febbraio 1794 la schiavitù fu abolita anche nelle colonie, in conseguenza della “Dichiarazione dei Diritti dell’Uomo e del Cittadino”, sebbene Robespierre si rifiutò di firmare di firmare il decreto di abolizione della schiavitù. Come negli Stati Uniti i principi regolativi universali rimasero tali nella teoria, nella pratica la segregazione schiavistica rimase inalterata fino al 1 gennaio 1804, quando i francesi abbandonarono l’isola per le pessime condizioni naturali dell’isola di Hispaniola, alle quali, invece, si erano adattati più facilmente gli schiavi africani, piuttosto che gli europei. I padroni bianchi erano riusciti, in nome dell’autonomia legislativa, a non far rispettare le decisioni della madrepatria francese del 1792 e del 1794, quindi la libertà e l’eguaglianza erano principi regolativi non universali, anzi subordinati all’autonomia legislativa delle colonie, così come era accaduto negli Stati Uniti, dove alcuni Stati della Federazione non avevano rispettato i principi regolativi di Libertà, Felicità e Vita. Quindi i principi regolativi universali avevano un limite nelle autonome decisioni di ciascun realtà politica: in pratica il loro carattere universale era negato. Naturalmente erano negati i principi normativi della politica come li intende Dussel. I principi regolativi universali erano negati dalla classe dei proprietari francesi di schiavi africani.

Ad Haiti, però, gli schiavi neri non accettarono pacificamente di rimanere schiavi, sapevano che in Francia la loro condizione di schiavitù era stata abolita e così desideravano che quei principi regolativi universali fossero messi in pratica nella loro terra. In realtà, erano le vittime della schiavitù che desideravano trasformare in pratica politica, economica e sociale, la teoria universalistica dell’Illuminismo francese. Questo movimento di liberazione dalla schiavitù trovò un leader nella figura di Toussant Louverture, ex-schiavo, che lottò contro la Francia rivoluzionaria e contro Napoleone, cercando di ottenere l’indipendenza di Haiti dalla Francia, perché l’indipendenza era l’unica condizione politica che avrebbe permesso la liberazione degli schiavi africani. La Francia illuministica, rivoluzionaria, giacobina e napoleonica represse sanguinosamente questo movimento di liberazione, finché la natura stessa dell’isola, le malattie, come la febbre gialla, e il clima tropicale decimarono le truppe francesi e costrinsero la madre patria dell’Illuminismo universalistico a lasciare l’isola e a permettere a Jean-Jacques Dessalines, successore di Toussant, che era morto in carcere in Francia, di trasformare i principi regolativi universali in principi normativi universali pratici. Nasceva così il primo vero territorio libero d’America, tenendo conto che negli Stati Uniti la schiavitù era rimasta in vigore. La rivolta delle vittime della schiavitù fece diventare i principi regolativi universali strumenti della lotta di classe. Iniziava realmente l’età delle lotte di classe in nome dei principi illuministici.

In verità la lotta di classe si fonda sull’esclusione dai principi regolativi universali di libertà, eguaglianza e fratellanza, come alcuni rivoluzionari francesi più radicali intuirono. La legge economica del mercato, invece, si fonda dall’esclusione dalla retribuzione per l’intero valore prodotto dal lavoratore. Marx si rese conto che il lavoratore escluso dalla proprietà dei mezzi di produzione era esterno al mercato, anzi il suo corpo era esterno, mentre la sua forza lavoro era elemento fondamentale della produzione della ricchezza. Quindi l’esteriorità è la categoria fondante l’esclusione e chi è più esterno dello schiavo africano? Egli vive lontano, fuori, dal mondo euro-centralizzato.

La legalità che i proprietari francesi di schiavi africani volevano imporre non era ispirata ai principi regolativi universali dell’Illuminismo, ma quella del mercato, che tende ad occultare uomini, relazioni e cose. In pratica si voleva legittimare l’esclusione, lo sfruttamento e la negazione della dignità umana. La critica di questa logica giuridica è, quindi, anche critica dell’economia politica sulla quale quella logica si fonda. Franz Hinkelhammert è molto chiaro su questo punto: «La legalità assoluta è l’ingiustizia assoluta. Questo non implica nessuna abolizione della legalità, bensì la necessità di intervenire, quando distrugge la stessa convivenza umana. Questa legalità nella sua logica è incompatibile con la vigenza dei diritti umani»[10]. Quindi la rivolta degli schiavi africani partiva dalle condizioni di vita in cui erano costretti dai proprietari francesi, i quali con la loro pratica economico-politica anti-illuministica stavano trasformando la razionalità dei principi regolativi universali in forme irrazionali di condizioni di vita inumana per gli schiavi africani. La giustificazione di una legislazione autonoma locale è proprio una forma di razionalizzazione dell’irrazionale. La rivolta degli schiavi africani, quindi, aveva come fine l’abolizione, anche violenta, di queste loro condizioni di vita inumana, in pratica gli schiavi africani si ribellarono alla propria condizione di cose, di merce, di reificazione della loro vita.

I principi regolativi universali avevano offerto, dapprima, agli schiavi africani una prospettiva di liberazione, ma la reintroduzione della legalità della condizione di schiavitù aveva negato e represso quella aspirazione universalistica alla liberazione dalla schiavitù e soltanto il loro atto violento di ribellione li aveva liberati da questa ricostituita legalità giuridica oppressiva e restituito la condizione di vita degna di essere vissuta, tenendo sempre presente che la loro abitudine di vita si confaceva alla natura tropicale dell’isola di Hispaniola.

Con le parole del sociologo Anibál Quijano scopriamo un altro aspetto della rivoluzione haitiana: «L’esperienza più radicale accade e non per caso ad Haiti. Laggiù, è la popolazione schiava e “negra”, la base stessa della dominazione coloniale antillana, quella che distrugge insieme con il colonialismo, la propria colonialità del potere tra “bianchi” e “negri” e la società schiavistica in quanto tale. Tre fenomeni nello stesso movimento della storia. Benché distrutto, più tardi con l’intervento neocoloniale degli Stati Uniti, quello di Haiti rappresenta anche il primo momento mondiale nel quale si uniscono l’indipendenza nazionale, la decolonizzazione del potere sociale e la rivoluzione sociale»[11]. Quijano, nel giocare nel contrasto tra “bianchi” e “negri” intende sottolineare che la liberazione degli haitiani fu anche la liberazione dal razzismo europeo, cioè dalla convinzione, elevata ad ideologia, che i “negri” fossero talmente inferiori da essere incapaci di ricevere un salario. Gli Stati Uniti d’America, paese fondato sui principi dell’Illuminismo, è intervenuto a restaurare il colonialismo ad Haiti, ma rimane l’esperienza vissuta (Erlebnis) di avere negato il colonialismo con la propria lotta di liberazione e di indipendenza, a conferma che la vera decolonizzazione si ha nella separazione dall’Europa liberale e illuminata.

Ma, come detto, il paradosso più grande consiste nel fatto che questa lotta di liberazione si ispira ai principi regolativi universali illuministici, che in sé sono così poco eurocentrici, che gli stessi europei li negano. Ma questi principi regolativi universali fanno sorgere anche nelle vittime l’esigenza di una pretesa di giustizia, che è sostanzialmente una pretesa politica di giustizia. Enrique Dussel così definisce la pretesa politica di giustizia: «La “pretesa politica di giustizia” è la posizione che adotta il soggetto politico (…) esercitando un atto umano che normativamente ha rispettato i principi che la politica ha sussunto dall’etica. Il soggetto politico ha coscienza normativa di praticare, dentro le limitazioni della condizione umana, un atto di “pretesa” di giustizia, onestà, in coerenza con i principi normativi che dice di difendere e praticare»[12]. Quindi usando la definizione di Dussel, possiamo considerare l’atto di ribellione degli haitiani una interpellazione, una richiesta di “pretesa politica di giustizia” proprio a partire dai principi regolativi universali, rivolta non solo ai proprietari francesi, ma a tutta l’umanità, perché un singolo atto di liberazione, cioè di passaggio dalla possibilità alla realtà fattuale libera ed eguale è un atto di comune e universale liberazione.

L’azione di liberazione degli schiavi africani ad Haiti dimostra che i principi regolativi universali e la pretesa che essi diventino principi normativi della politica sono strumenti critici nei confronti del sistema dominante. Le vittime dello schiavismo hanno chiesto la realizzazione della Libertà, dell’Eguaglianza e della Fratellanza, quindi a partire da questi principi regolativi universali hanno potuto criticare il sistema della schiavitù allora esistente. Il sapere da parte degli schiavi africani di Haiti, che quei principi sono stati dichiarati, ha armato la loro pretesa di giustizia. La liberazione dalla schiavitù è stata storicamente il primo passo per una pretesa di giustizia per l’intera umanità. Mi riferisco al movimento della liberazione femminile, che è nato dopo la liberazione dalla schiavitù. L’esperienza di liberazione dalla schiavitù è diventata l’arma dei movimenti femminili per la critica del sistema maschilista di esclusione. Anche in questo caso si è chiesto che i principi regolativi universali divenissero principi normativi della politica.

 

[1] Mi riferisco a quanto sostiene Enrique Dussel a proposito dei principi regolativi di matrice kantiana (cfr. E. Dussel, Ética de la liberación, Madrid, Trotta, 1998, p. 565). Dussel parla di “idea regolativa”, io preferisco usare il termine “principi regolativi”, perché sono momenti iniziali e fondamentali, mentre l’idea, soltanto nel senso platonico, può essere usata come principio e non voglio affatto rischiare di essere scambiato per un idealista di tipo platonico, che è un modo per banalizzare un discorso che banale non è di certo. Enrique Dussel (1934) è un filosofo argentino che, a causa della persecuzione della dittatura militare argentina, si è trasferito a Città del Messico. È professore emerito della UNAM, i suoi libri sono apparsi in inglese, francese, tedesco e in tantissime altre lingue. Castelvecchi ha pubblicato vari suoi saggi.

[2] I. Kant, Fondazione della metafisica dei costumi, tr. it. P. Chiodi, Roma-Bari, Laterza, 1980, p. 49.

[3] Cfr. la mia opera Apocalisse. L’inizio e la fine della modernità, Trieste Asterios, 2020.

[4] E. Dussel, Venti tesi di politica, tr. it. A. Infranca, Asterios, Trieste, 2009, p. 95.

[5] Ricordo che Montesquieu era favorevole alla schiavitù.

[6] Susan Buck-Morss, Hegel e Haiti. Schiavi, filosofi e piantagioni, tr. it. F. Francis, Verona, Ombre corte, 2023, p. 11.

[7] Ivi, pp. 9-10.

[8] Ivi, p. 22.

[9] In realtà il francese è parlato da un’esigua minoranza della popolazione, perché la lingua più diffusa è il creolo haitiano, una lingua nata dal francese e dalle lingue degli schiavi africani. La lingua francese è stata sempre considerata dai governanti francesi come uno strumento per la formazione della nazionalità francese. Oggi è considerata la lingua ufficiale in 32 Stati e parlata da circa 270 milioni di esseri umani, ma in realtà i nativi parlanti francese sono 80 milioni. Così che dalla quinta lingua più diffusa al mondo, scende al 17° posto tra le madrelingue. Per capire bene questa situazione confrontiamo il francese con lo spagnolo. La lingua spagnola è parlata da 560 milioni di esseri umani e questa cifra la fa diventare la seconda madrelingua del mondo, dopo il cinese, ma più dell’inglese (430 milioni).

[10] F. Hinkelhammert, La maldición que pesa sobre la ley: Las raíces del pensamiento crítico en Pablo de Tarso, Arlekín, San Josè de Costarica, 2010, p. 298.

[11] A. Quijano, “Raza, etnia y nación en Mariátegui: cuestiones abiertas”, in José Carlos Mariátegui y Europa. La otra cara del descubrimiento, a cura di R. Forgues, Lima, Amauta, 1991, p. 179.

[12] E. Dussel, “Pretensión crítico-política de justicia”, in Política de la liberación, vol. III, a cura di E. Dussel, Madrid, Trotta, 2022, pp. 707-708.

L’Illuminismo fuori dell’Europa La realizzazione effettiva dei valori universali dell’Illuminismo ad Haiti: una lettura a partire dalla Filosofia della liberazione latinoamericana

Non c’è dubbio che i filosofi illuministici ritenevano di elaborare concetti e principi universali, cioè diretti e validi per l’intera umanità, trasformandoli in ideali da realizzare, principi regolativi[1] di ogni futura azione pratica che ad essi si ispirasse. Il modello di questa nuova forma del pensiero filosofico è rappresentato dal motto kantiano: “Agisci soltanto secondo quella massima che, al tempo stesso, puoi volere che divenga una legge universale”[2]. Si tratta, come è noto, di un imperativo categorico formale, ma è, allo stesso tempo, regolativo di ogni futura legge universale. Enrique Dussel utilizza i principi regolativi universali in maniera non formale, ma materiale, cioè ponendo come contenuto del principio di comportamento morale «il principio di produzione, riproduzione e sviluppo della vita umana di ciascun soggetto etico in comunità». Questo principio potrebbe essere non realizzabile in toto, ma rimane come la stella polare per i naviganti il punto di riferimento, irraggiungibile praticamente, ma indispensabile per orientare la propria direzione, o meglio la propria azione pratica. Questo nuovo orientamento del comportamento pratico, che tiene insieme la formalità dell’imperativo categorico con la materialità della vita umana, viene dall’esperienza esistenziale, divenuta filosofica, di chi pensa e agisce moralmente nell’esteriorità dell’attuale sistema dominante, cioè fuori dal Centro del Mondo (Stati Uniti, Europa, Giappone). L’esperienza e il pensiero di Dussel, che userò come strumento per questo saggio, vengono dall’America latina, la prima vittima del sistema coloniale europeo, anzi la vittima che ha permesso con il suo sfruttamento la fondazione della Modernità[3], cioè con il saccheggio delle sue ricchezze naturali (metalli preziosi) l’accumulazione originaria del capitale, che è avvenuta soprattutto con l’uso del lavoro di schiavi strappati con la violenza dall’Africa.

Dussel indica chiaramente quali siano i principi normativi della politica: «I principi normativi della politica, gli essenziali, sono tre. Il principio materiale obbliga a curare la vita dei cittadini; il principio formale democratico determina il dovere di agire sempre rispettando le procedure proprie della legittimità democratica; il principio della fattibilità limita egualmente ad operare soltanto per il possibile (al di qua della possibilità anarchica, e al di là della possibilità conservatrice)»[4]. Secondo me, i principi normativi della politica devono essere ispirati ai principi regolativi universali di origine illuministica, più precisamente principi normativi sussumono in loro i principi regolativi universali, fino al punto che essi assumono una eticità in se stessi: divengono principi etici del comportamento comune, cioè collettivo e poi passano ad essere principi morali del comportamento del singolo individuo.

La patria dell’Illuminismo fu la Francia, che era contemporaneamente una potenza coloniale schiavista. I politici illuministi agirono per rendere questi principi regolativi principi normativi, in modo tale che qualsiasi azione pratica potesse trovare il consenso universale. Così la “Dichiarazione dei diritti dell’uomo e del cittadino” (1789), basato su un testo di La Fayette, con la collaborazione di Jefferson, e ispirata al pensiero di Montesquieu[5], Rousseau e Voltaire, venne intesa come una legge universale e come tale è riconosciuta. I principi a fondamento di quella dichiarazione, Libertà, Fraternità e Uguaglianza, sono stati negli ultimi due secoli a fondamento di qualsiasi civile dichiarazione o costituzione statale. Anche la “Dichiarazione Universali dei diritti umani” (1945) dell’Organizzazione delle Nazioni Unite si ispira a quei principi regolativi, quindi quei principi sono stati a fondamento di una legislazione universale e di ogni azione di liberazione da qualsiasi forma di oppressione. Sono stati e, sicuramente, saranno per qualsiasi altra azione di liberazione, sia individuale che collettiva che sarà messa in pratica in futuro.

Anche la “Dichiarazione d’Indipendenza degli Stati Uniti d’America” (1776) si ispira a principi regolativi, ritenuti universali, che derivano dal pensiero di John Locke, il quale, per altro, riteneva legittima la schiavitù, in quanto riteneva la proprietà privata superiore alla stessa libertà. Alcuni di questi principi sono gli stessi della futura “Dichiarazione dei diritti dell’uomo e del cittadino”, come l’eguaglianza e la libertà, ma vi si aggiunsero il riconoscimento che ciascun essere umano ha diritti inalienabili, quali la vita e la felicità. Ma nel momento della stesura della “Costituzione degli Stati Uniti d’America” (1787) un evidente oblio fece dimenticare quei principi universali regolativi e la schiavitù non fu abolita, ma semplicemente regolamentata (vedi Artt. I, II e V). A questo punto è opportuno porsi qualche domanda: Perché la schiavitù non fu abolita? Forse gli schiavi non erano ritenuti uguali ai loro padroni bianchi? La risposta più ovvia è si, tant’è che anche dopo l’abolizione della schiavitù, nel 1865, la segregazione razziale non terminò e ancora oggi a più 250 anni dalla “Dichiarazione d’Indipendenza degli Stati Uniti d’America” e da più di 150 anni dall’abolizione della schiavitù la segregazione non è stata completamente superata, come insegna il movimento attuale Black Lives Matter. Buck-Morss avanza una propria interpretazione riguardo alla scarsa conoscenza delle vicende legate al mondo degli esclusi o degli oppressi: «Più le conoscenze sono specialistiche, più avanzato il livello della ricerca, più lunga e venerabile la tradizione accademica, più è facile che i fatti discordanti vengano ignorati. Va rilevato che la specializzazione e l’isolamento costituiscono un pericolo anche per nuove discipline come gli studi afro-americani»[6].

Ma è opportuno porsi un’altra domanda più radicale delle precedenti: In cosa consisteva l’ineguaglianza degli schiavi rispetto ai loro padroni? La risposta è ovvia ed evidente: erano neri, cioè non erano bianchi, o meglio non erano europei, perché soltanto gli europei si considerano veri bianchi, negando l’evidenza che anche gli asiatici (cinesi, coreani e giapponesi) sono bianchi. Pare che i principi regolativi universali valessero soltanto per gli europei e non per tutti gli esseri umani, quindi non erano universali, o meglio erano universali in teoria e non lo erano nella pratica, cioè nella società, nella politica e nell’economia. La stessa riproduzione della vita non era eguale tra i bianchi e i neri. La “Dichiarazione d’Indipendenza degli Stati Uniti d’America” era smentita dagli stessi cittadini che si erano dichiarati indipendenti dalla madrepatria inglese.

Una prima conclusione teorica si può trarre: nel momento in cui i principi regolativi universali dell’Illuminismo stavano per diventare principi normativi della politica non furono riconosciuti i tre principi normativi, come li ha indicati Dussel: il principio materiale fu fortemente ristretto alla semplice riproduzione della forza lavoro schiava, mentre totalmente negati furono il principio formale, in quanto gli schiavi non avevano dignità giuridica, se non come merci, e il principio di fattibilità, perché si realizzò l’unica possibilità esistente che era quella di considerare esseri umani come cose. Un’altra considerazione la ricavo dal bel libretto di Buck-Morss: la libertà come valore universale, si affermò nel momento di massimo sviluppo dello schiavismo[7], quindi un tale fenomeno, in piena espansione, ne condizionò la realizzazione pratica. Infatti la Buck-Morsse riporta un dato interessante: il 20% della borghesia francese viveva di economia schiavistica[8], quindi era liberale in patria e schiavista nelle colonie.

Data l’egemonia culturale degli Stati Uniti sulla cultura mondiale, questi avvenimenti sono molto noti e conosciuti. Molto meno conosciuta è la vicenda di chi realizzò effettivamente i principi regolativi universali della “Dichiarazione dei diritti dell’Uomo e del Cittadino”: gli haitiani. Della piccola isola di Hispaniola si sa molto poco nella cultura europea. Si sa, senza dubbio, che esistono due piccole nazioni caraibiche: Haiti e la Repubblica Dominicana. Ma non è molto noto che queste due piccole nazioni si dividono l’isola di Hispaniola. Ho scritto “nazioni”, perché nelle due parti dell’isola si parlano lingue diverse: francese ad Haiti[9] e spagnolo a Santo Domingo. È ovvio pensare che si parli francese ad Haiti, perché fu una colonia francese, ma Haiti ha una particolarità che la differisce da altre colonie francesi, insieme a Martinica e Guadalupe, era l’unica colonia francese dove era ammessa la schiavitù. È vero che il 28 marzo 1792 e il 4 febbraio 1794 la schiavitù fu abolita anche nelle colonie, in conseguenza della “Dichiarazione dei Diritti dell’Uomo e del Cittadino”, sebbene Robespierre si rifiutò di firmare di firmare il decreto di abolizione della schiavitù. Come negli Stati Uniti i principi regolativi universali rimasero tali nella teoria, nella pratica la segregazione schiavistica rimase inalterata fino al 1 gennaio 1804, quando i francesi abbandonarono l’isola per le pessime condizioni naturali dell’isola di Hispaniola, alle quali, invece, si erano adattati più facilmente gli schiavi africani, piuttosto che gli europei. I padroni bianchi erano riusciti, in nome dell’autonomia legislativa, a non far rispettare le decisioni della madrepatria francese del 1792 e del 1794, quindi la libertà e l’eguaglianza erano principi regolativi non universali, anzi subordinati all’autonomia legislativa delle colonie, così come era accaduto negli Stati Uniti, dove alcuni Stati della Federazione non avevano rispettato i principi regolativi di Libertà, Felicità e Vita. Quindi i principi regolativi universali avevano un limite nelle autonome decisioni di ciascun realtà politica: in pratica il loro carattere universale era negato. Naturalmente erano negati i principi normativi della politica come li intende Dussel. I principi regolativi universali erano negati dalla classe dei proprietari francesi di schiavi africani.

Ad Haiti, però, gli schiavi neri non accettarono pacificamente di rimanere schiavi, sapevano che in Francia la loro condizione di schiavitù era stata abolita e così desideravano che quei principi regolativi universali fossero messi in pratica nella loro terra. In realtà, erano le vittime della schiavitù che desideravano trasformare in pratica politica, economica e sociale, la teoria universalistica dell’Illuminismo francese. Questo movimento di liberazione dalla schiavitù trovò un leader nella figura di Toussant Louverture, ex-schiavo, che lottò contro la Francia rivoluzionaria e contro Napoleone, cercando di ottenere l’indipendenza di Haiti dalla Francia, perché l’indipendenza era l’unica condizione politica che avrebbe permesso la liberazione degli schiavi africani. La Francia illuministica, rivoluzionaria, giacobina e napoleonica represse sanguinosamente questo movimento di liberazione, finché la natura stessa dell’isola, le malattie, come la febbre gialla, e il clima tropicale decimarono le truppe francesi e costrinsero la madre patria dell’Illuminismo universalistico a lasciare l’isola e a permettere a Jean-Jacques Dessalines, successore di Toussant, che era morto in carcere in Francia, di trasformare i principi regolativi universali in principi normativi universali pratici. Nasceva così il primo vero territorio libero d’America, tenendo conto che negli Stati Uniti la schiavitù era rimasta in vigore. La rivolta delle vittime della schiavitù fece diventare i principi regolativi universali strumenti della lotta di classe. Iniziava realmente l’età delle lotte di classe in nome dei principi illuministici.

In verità la lotta di classe si fonda sull’esclusione dai principi regolativi universali di libertà, eguaglianza e fratellanza, come alcuni rivoluzionari francesi più radicali intuirono. La legge economica del mercato, invece, si fonda dall’esclusione dalla retribuzione per l’intero valore prodotto dal lavoratore. Marx si rese conto che il lavoratore escluso dalla proprietà dei mezzi di produzione era esterno al mercato, anzi il suo corpo era esterno, mentre la sua forza lavoro era elemento fondamentale della produzione della ricchezza. Quindi l’esteriorità è la categoria fondante l’esclusione e chi è più esterno dello schiavo africano? Egli vive lontano, fuori, dal mondo euro-centralizzato.

La legalità che i proprietari francesi di schiavi africani volevano imporre non era ispirata ai principi regolativi universali dell’Illuminismo, ma quella del mercato, che tende ad occultare uomini, relazioni e cose. In pratica si voleva legittimare l’esclusione, lo sfruttamento e la negazione della dignità umana. La critica di questa logica giuridica è, quindi, anche critica dell’economia politica sulla quale quella logica si fonda. Franz Hinkelhammert è molto chiaro su questo punto: «La legalità assoluta è l’ingiustizia assoluta. Questo non implica nessuna abolizione della legalità, bensì la necessità di intervenire, quando distrugge la stessa convivenza umana. Questa legalità nella sua logica è incompatibile con la vigenza dei diritti umani»[10]. Quindi la rivolta degli schiavi africani partiva dalle condizioni di vita in cui erano costretti dai proprietari francesi, i quali con la loro pratica economico-politica anti-illuministica stavano trasformando la razionalità dei principi regolativi universali in forme irrazionali di condizioni di vita inumana per gli schiavi africani. La giustificazione di una legislazione autonoma locale è proprio una forma di razionalizzazione dell’irrazionale. La rivolta degli schiavi africani, quindi, aveva come fine l’abolizione, anche violenta, di queste loro condizioni di vita inumana, in pratica gli schiavi africani si ribellarono alla propria condizione di cose, di merce, di reificazione della loro vita.

I principi regolativi universali avevano offerto, dapprima, agli schiavi africani una prospettiva di liberazione, ma la reintroduzione della legalità della condizione di schiavitù aveva negato e represso quella aspirazione universalistica alla liberazione dalla schiavitù e soltanto il loro atto violento di ribellione li aveva liberati da questa ricostituita legalità giuridica oppressiva e restituito la condizione di vita degna di essere vissuta, tenendo sempre presente che la loro abitudine di vita si confaceva alla natura tropicale dell’isola di Hispaniola.

Con le parole del sociologo Anibál Quijano scopriamo un altro aspetto della rivoluzione haitiana: «L’esperienza più radicale accade e non per caso ad Haiti. Laggiù, è la popolazione schiava e “negra”, la base stessa della dominazione coloniale antillana, quella che distrugge insieme con il colonialismo, la propria colonialità del potere tra “bianchi” e “negri” e la società schiavistica in quanto tale. Tre fenomeni nello stesso movimento della storia. Benché distrutto, più tardi con l’intervento neocoloniale degli Stati Uniti, quello di Haiti rappresenta anche il primo momento mondiale nel quale si uniscono l’indipendenza nazionale, la decolonizzazione del potere sociale e la rivoluzione sociale»[11]. Quijano, nel giocare nel contrasto tra “bianchi” e “negri” intende sottolineare che la liberazione degli haitiani fu anche la liberazione dal razzismo europeo, cioè dalla convinzione, elevata ad ideologia, che i “negri” fossero talmente inferiori da essere incapaci di ricevere un salario. Gli Stati Uniti d’America, paese fondato sui principi dell’Illuminismo, è intervenuto a restaurare il colonialismo ad Haiti, ma rimane l’esperienza vissuta (Erlebnis) di avere negato il colonialismo con la propria lotta di liberazione e di indipendenza, a conferma che la vera decolonizzazione si ha nella separazione dall’Europa liberale e illuminata.

Ma, come detto, il paradosso più grande consiste nel fatto che questa lotta di liberazione si ispira ai principi regolativi universali illuministici, che in sé sono così poco eurocentrici, che gli stessi europei li negano. Ma questi principi regolativi universali fanno sorgere anche nelle vittime l’esigenza di una pretesa di giustizia, che è sostanzialmente una pretesa politica di giustizia. Enrique Dussel così definisce la pretesa politica di giustizia: «La “pretesa politica di giustizia” è la posizione che adotta il soggetto politico (…) esercitando un atto umano che normativamente ha rispettato i principi che la politica ha sussunto dall’etica. Il soggetto politico ha coscienza normativa di praticare, dentro le limitazioni della condizione umana, un atto di “pretesa” di giustizia, onestà, in coerenza con i principi normativi che dice di difendere e praticare»[12]. Quindi usando la definizione di Dussel, possiamo considerare l’atto di ribellione degli haitiani una interpellazione, una richiesta di “pretesa politica di giustizia” proprio a partire dai principi regolativi universali, rivolta non solo ai proprietari francesi, ma a tutta l’umanità, perché un singolo atto di liberazione, cioè di passaggio dalla possibilità alla realtà fattuale libera ed eguale è un atto di comune e universale liberazione.

L’azione di liberazione degli schiavi africani ad Haiti dimostra che i principi regolativi universali e la pretesa che essi diventino principi normativi della politica sono strumenti critici nei confronti del sistema dominante. Le vittime dello schiavismo hanno chiesto la realizzazione della Libertà, dell’Eguaglianza e della Fratellanza, quindi a partire da questi principi regolativi universali hanno potuto criticare il sistema della schiavitù allora esistente. Il sapere da parte degli schiavi africani di Haiti, che quei principi sono stati dichiarati, ha armato la loro pretesa di giustizia. La liberazione dalla schiavitù è stata storicamente il primo passo per una pretesa di giustizia per l’intera umanità. Mi riferisco al movimento della liberazione femminile, che è nato dopo la liberazione dalla schiavitù. L’esperienza di liberazione dalla schiavitù è diventata l’arma dei movimenti femminili per la critica del sistema maschilista di esclusione. Anche in questo caso si è chiesto che i principi regolativi universali divenissero principi normativi della politica.

 

[1] Mi riferisco a quanto sostiene Enrique Dussel a proposito dei principi regolativi di matrice kantiana (cfr. E. Dussel, Ética de la liberación, Madrid, Trotta, 1998, p. 565). Dussel parla di “idea regolativa”, io preferisco usare il termine “principi regolativi”, perché sono momenti iniziali e fondamentali, mentre l’idea, soltanto nel senso platonico, può essere usata come principio e non voglio affatto rischiare di essere scambiato per un idealista di tipo platonico, che è un modo per banalizzare un discorso che banale non è di certo. Enrique Dussel (1934) è un filosofo argentino che, a causa della persecuzione della dittatura militare argentina, si è trasferito a Città del Messico. È professore emerito della UNAM, i suoi libri sono apparsi in inglese, francese, tedesco e in tantissime altre lingue. Castelvecchi ha pubblicato vari suoi saggi.

[2] I. Kant, Fondazione della metafisica dei costumi, tr. it. P. Chiodi, Roma-Bari, Laterza, 1980, p. 49.

[3] Cfr. la mia opera Apocalisse. L’inizio e la fine della modernità, Trieste Asterios, 2020.

[4] E. Dussel, Venti tesi di politica, tr. it. A. Infranca, Asterios, Trieste, 2009, p. 95.

[5] Ricordo che Montesquieu era favorevole alla schiavitù.

[6] Susan Buck-Morss, Hegel e Haiti. Schiavi, filosofi e piantagioni, tr. it. F. Francis, Verona, Ombre corte, 2023, p. 11.

[7] Ivi, pp. 9-10.

[8] Ivi, p. 22.

[9] In realtà il francese è parlato da un’esigua minoranza della popolazione, perché la lingua più diffusa è il creolo haitiano, una lingua nata dal francese e dalle lingue degli schiavi africani. La lingua francese è stata sempre considerata dai governanti francesi come uno strumento per la formazione della nazionalità francese. Oggi è considerata la lingua ufficiale in 32 Stati e parlata da circa 270 milioni di esseri umani, ma in realtà i nativi parlanti francese sono 80 milioni. Così che dalla quinta lingua più diffusa al mondo, scende al 17° posto tra le madrelingue. Per capire bene questa situazione confrontiamo il francese con lo spagnolo. La lingua spagnola è parlata da 560 milioni di esseri umani e questa cifra la fa diventare la seconda madrelingua del mondo, dopo il cinese, ma più dell’inglese (430 milioni).

[10] F. Hinkelhammert, La maldición que pesa sobre la ley: Las raíces del pensamiento crítico en Pablo de Tarso, Arlekín, San Josè de Costarica, 2010, p. 298.

[11] A. Quijano, “Raza, etnia y nación en Mariátegui: cuestiones abiertas”, in José Carlos Mariátegui y Europa. La otra cara del descubrimiento, a cura di R. Forgues, Lima, Amauta, 1991, p. 179.

[12] E. Dussel, “Pretensión crítico-política de justicia”, in Política de la liberación, vol. III, a cura di E. Dussel, Madrid, Trotta, 2022, pp. 707-708.

Paolo Quintili, “Laicità, cittadinanza e nuovi processi di universalizzazione” (in “Lumi sul Mediterraneo, Mimesis, 2019)

La “qualità di cittadinopresuppone una società di cui ogni privato conosca le vicende, della quale si prenda cura, sentendo inoltre di poter raggiungere le “prime dignità”.

degli studenti di 4 A del Liceo Scientifico L. da Vinci di Terracina

 

 Nel suo saggio, “Laicità, cittadinanza e nuovi processi di universalizzazione”, Paolo Quintili evidenzia le difficoltà linguistiche e semantiche nell’utilizzo in lingua araba di concetti come “illuminismo” o “laicità”, che assumono una connotazione per lo più spregiativa. Per parlare di un concetto in maniera appropriata è infatti necessario tener conto di come quell’idea possa “migrare” da un contesto culturale ad uno diverso. Il termine “laicità”, ad esempio, è indicato in arabo con la parola “eilmania”, che letteralmente significa ateismo. Nella cultura occidentale, “ateismo” indica piuttosto la negazione esplicita e consapevole dell’esistenza di Dio, mentre la laicità riguarda semplicemente l’operazione di presa di distanza dai valori religiosi in rapporto alle norme dello Stato, ovvero la scissione tra la sfera politico-sociale e quella religiosa. Nell’articolo Quintili affronta anche il tema della cittadinanza, evidenziandone le radici storiche e filosofiche per chiarire come questo concetto si sia evoluto nel corso dei secoli. Per cittadinanza si intende il rapporto di appartenenza che si viene a stabilire tra individuo e Stato che ha assunto forme diverse in base alle differenti configurazioni dello Stato stesso. In particolare, all’inizio dell’articolo l’autore fa riferimento alle guerre di religione avvenute in Europa tra il Cinquecento e il Seicento, che evidenziano come l’appartenenza ad uno Stato fosse fortemente caratterizzata dalla confessione religiosa, che condizionava la libertà del cittadino. Tra gli esempi riportati c’è quello delle persecuzioni degli ugonotti in Francia e dei cattolici in Inghilterra. Per arrivare a compiere un passo avanti nella civiltà, verso uno Stato laico in cui l’appartenenza alla comunità non fosse condizionata in modo determinante dalla religione professata, sono servite lunghe guerre, seguite da dure persecuzioni, che si conclusero nel 1648 con la pace di Westfalia, con la quale si stabilisce la possibilità dei sudditi di scegliere la propria religione tra quella cattolica, luterana e calvinista e la libertà di culto in privato per le altre confessioni religiose. Nel mondo islamico questo passaggio non è invece avvenuto, generando difficoltà nell’interazione con le altre civiltà. Anche Rousseau viene citato all’interno dell’articolo in quanto non tollerava gli atei nel suo ideale di società, presentato nel “Contratto sociale”. Quest’opera è fondamentale per la creazione del concetto moderno di cittadinanza: cittadino è colui che cede parte dei suoi diritti e della propria libertà personale a favore di una “volontà generale” in grado di garantire il bene comune; questa detiene il potere legislativo e rappresenta a pieno titolo tutti i cittadini, mentre il governo diventa un semplice braccio esecutivo ed è per questo che l’autore è considerato il padre del principio moderno di “sovranità popolare”.

Quintili cita l’Encyclopedie di Diderot e D’Alambert per chiarire come i concetti di borghese, cittadino ed abitante venissero concepiti nell’ambito del pensiero illuminista: il borgheseè colui che ha residenza ordinaria in una città; il cittadinoè un borghese ma considerato relativamente alla società di cui è membro; l’abitante è un privato considerato relativamente alla residenza pura e semplice. Si è abitante della città, della provincia o della campagna: si è borghese di Parigi. Il borghese di Parigi che prende a cuore gli interessi della sua città contro gli attentati che la minacciano, ne diventa cittadino. «Le città pullulano di borghesi; ci sono pochi cittadini tra questi borghesi». La “qualità di cittadino” presupponeuna società di cui ogni privato conosca le vicende, della quale si prenda cura, sentendo inoltre di poter raggiungere le “prime dignità”. La distinzione tipicamente francese tra borghese e cittadino, introdotta da Bodin e condivisa da Rousseau e Diderot prima della Rivoluzione, poggiava sull’analisi della società in termini di ceti o stati. La dichiarazione del 1789 dell’Assemblea francese, per unificare aristocrazia, clero e terzo stato in una ‘nazione’ che desse diritti giuridici a tutti i citoyens (dal francese ‘’cittadini’’), rendeva irrilevante la distinzione ed in questo modo ci si avvicina alla concezione moderna di cittadino.  Quintili cita inoltre Molière perché fu uno dei primi ad anticipare il processo di laicizzazione con ironia nell’arte, ad avere un approccio razionalista nei confronti della realtà e critico verso le religioni. L’opera citata nell’articolo è Tartufo, messa in scena il 12 maggio 1664 che suscitò l’avversione del partito devoto di corte che faceva capo ad Anna d’Austria e aveva come personaggio di spicco l’arcivescovo di Parigi, ex precettore del re. Si unì al coro la Compagnia del Santo Sacramento, una confraternita segreta che si proponeva la difesa della religione e dei buoni costumi tanto da spingersi ad invocare per Molière il rogo, vista la sua natura diabolica. Inizialmente, la commedia di Molière non trovò il pieno plauso del pubblico: dopo la censura del testo teatrale originale, Molière fu costretto più volte a rielaborare la sua opera fino al 1669. Tuttavia, per il suo enorme potenziale scandaloso, agli occhi dello spettatore contemporaneo la censura della prima versione non risulta immotivata: il primo protagonista era un chierico ipocrita, un uomo religioso che sfruttava l’ingenuità di un onorevole cittadino per motivi egoistici. Nella seconda e la terza versione, invece, il personaggio misterioso dell’impostore Tartufo non è un ecclesiastico né un rappresentante istituzionale della Chiesa. Uomo apparentemente credente, Tartufo è laico impegnato come “direttore di coscienza” (una professione molto diffusa nel Seicento) nella casa dell’abbiente borghese Orgon.

Quintili cita inoltre la “Dichiarazione dei Diritti dell’Uomo” del 1948 per chiarire come i diritti debbano essere universalizzati e non limitati ad un gruppo ristretto di persone, perché si rischierebbe di arrivare ad una minaccia degli stessi dovuta alla presenza di forze aggressive all’interno della società. Alla fine del Settecento i diritti umani vengono affermati come universali, cioè propri di ogni uomo, nelle due grandi Dichiarazioni: la Dichiarazione d’indipendenza degli Stati Uniti d’America del 4 luglio 1776 e la Dichiarazione dei diritti dell’uomo e del cittadino approvata dall’Assemblea nazionale francese il 26 agosto 1789. Esse sanciscono l’affermazione della nuova cultura borghese e cominciano ad apparire, con Olympe de Gouges e Mary Wollstonecraft, le prime rivendicazioni dei diritti delle donne. 

Nonostante i continui progressi, sanciti anche dalla Dichiarazione Universale dei Diritti Umani emanata il 10 dicembre 1948, l’universalizzazione dei diritti rimane altalenante, sempre pronta a compiere passi indietro: come ribadisce lo stesso Quintili «a fine dell’ultimo secolo ha segnato una regressione comunitarista, nel senso non-universalistico, verso una direzione opposta a quella indicata da Marx nel 1843, che ha messo in discussione i processi di universalizzazione dei Diritti. […] Questo regresso antro-patologico è stato volutamente provocato (bisogna dirlo, senza mezzi termini), dai politici bellicisti e aggressivi dei paesi egemoni dell’Occidente, compresi la Francia e l’Italia».

Dinanzi alle sfide poste dalle nuove migrazioni degli uomini e delle cose, Quintili ritiene necessario che la linea ascendente borghese-cittadino-uomo (che era ancora quella di Marx) si modifichi in senso discendente: dignità umana-cittadinanza universale (che non è legata all’idea di nazione)-borghesia, implicando, così, l’inserimento nella società del lavoro che rappresenta la condizione necessaria per garantire ad ogni essere umano quella dignità affermata nella Dichiarazione universale dei diritti del 1948.  In questo modo, si arriverebbe ad un “illuminismo trans-storico”, applicabile a tutto il Mediterraneo, in grado di consentire il dialogo tra diverse culture. Quintili prende le mosse dal concetto di “terza sfera” di Todorov «che l’individuo gestisce autonomamente senza che nessuno possa avere niente da ridire». Tale dimensione si riferisce alla presenza (in ognuno di noi) di una sfera personale, circoscritta unicamente alla propria interiorità, che può coincidere o meno con quella spirituale, ma che non deve in alcun modo sentirsi condizionata o minacciata dal contesto politico,sociale,economico e culturale nel quale l’individuo è inserito. Essa permette di sviluppare dei valori, delle idee, un mondo interiore in cui credere, indipendentemente da tutto e tutti. Essere laico significa esercitare in un certo modo la propria libertà di coscienza, in base all’esperienza e alla sensibilità, che variano da individuo a individuo. Quindi risulta inutile l’imposizione di una determinata religione da parte dello Stato poiché ogni individuo ha una concezione propria di spiritualità. Un legame sociale non è basato sulla professione della medesima religione, né sull’appartenenza allo stesso Stato, bensì è qualcosa di più profondo, fondato sulla condivisione di valori in nome della quale, individui diversi per origine, cultura e mentalità (migranti o meno) potranno sentirsi tutti parte di una comunità civile in grado di evolversi, arricchirsi e trasformarsi.

Questa prospettiva illuministica in senso transtorico potrebbe condurre allo sviluppo di luoghi socio-culturali condivisi (non alternativi alla religione) in grado di divenire “luoghi di liberazione della terza sfera «ossia della coscienza collettiva degli uomini e delle donne del nostro continente euromediterraneo».

Cittadinanza e diritti umani

Il concetto di «cittadinanza», così come lo concepiamo ai giorni nostri, è il risultato di un lungo periplo storico razionale/irrazionale: la parola «cittadino» esisteva già da molto tempo, ma fino al termine del XVIII secolo non esisteva ancora la “qualità” della cosa, vale a dire l’universalità della cosa. Sinonimo comune di questo termine, nell’epoca in cui è stato coniato, nel XVIII secolo, è nazionalità.

L’arresto di Biram Dah Abeid e la lotta per i diritti umani in Mauritania

di Luigi Somma

 

Biram Dah Abeid, leader dell’Ira (Initiative de résurgence du mouvement abolitionniste), è stato prelevato nella propria abitazione privata nel sobborgo meridionale di Nouakchott e arrestato alle prime ore dell’alba di martedì 7 Agosto 2018. Il leader e il suo movimento hanno stretto un’alleanza con il partito arabo nazionalista Sawab per partecipare alle elezioni regionali e locali che si terranno il prossimo settembre. Abeid era stato arrestato più volte in passato per il suo attivismo. Nonostante il suo passato in condizione di schiavitù, è divenuto famoso a livello internazionale per le battaglie condotte contro la schiavitù in Mauritania, fino ad essere insignito, nel 2013, del prestigioso premio per i diritti umani delle Nazioni Unite. Secondo le stime del Global Slavery index, in Mauritania, un lembo di terra nell’Africa occidentale, circa 43 mila abitanti su 4 milioni vivrebbero in una condizione di schiavitù. La stima non è, però, esatta, «poiché le persone che nascono schiave non sono registrate all’anagrafe e non hanno diritto ai documenti» ha dichiarato Ivana Dama (vicepresidente della sezione italiana del movimento abolizionista IRA). Mohamed Ould Abdel Aziz, al governo dal 2008, ha messo in atto azioni repressive contro il movimento abolizionista. Ciò non sorprende, dal momento che l’istituto della schiavitù, in Mauritania, può contare su molteplici gruppi di interesse. Essa è sostenuta dagli studiosi di diritto islamico in quanto ritenuta aderente ai precetti religiosi delle scritture. Ma alla base del consenso intorno alla schiavitù v’è anche un’importante elemento di carattere sociale: avere uno schiavo è simbolo del proprio status sociale e costituisce un vantaggio economico per chi lo possiede. Biram Dah Abeid, bruciando nella piazza pubblica della capitale Nouakchott i testi apologetici della schiavitù, aveva voluto lanciare un chiaro messaggio politico: l’Islam non prevede in alcun modo la schiavitù. Il leader attivista, come tutti gli oppositori politici del Presidente della Mauritania, subisce soprusi e violenze solo perché portatore di dissenso. Da diversi anni gli avvocati di Biram Dah Abeid, William Bourdon e Georges-Henry Beauthier, denunciano la “persecuzione giudiziaria” (o almeno percepita tale dal movimento) delle autorità della Mauritania ai danni del loro assistito. Essi sostengono che «già in passato, Il Gruppo di Lavoro sulla Detenzione Arbitraria del Consiglio dei Diritti dell’uomo ha denunciato il carattere arbitrario delle misure di privazione di libertà, chiedendo alla Mauritania di conformarsi agli obblighi internazionali in materia di rispetto dei diritti dell’uomo». Secondo gli avvocati, inoltre, il Presidente Aziz ha strumentalizzato la lotta al terrorismo per ottenere o, meglio ancora, “comprare” dalla Comunità internazionale e soprattutto dalla Francia, una forma di compiacenza che si è trasformata, oggi, in un colpevole silenzio. Tutta la società civile internazionale considera Biram Dah Abeid un cittadino d’onore dell’Africa, instancabile militante contro lo schiavismo, che continua a essere tollerato per funeste ragioni politiche dal Regime del Presidente Aziz in Mauritania. Gli avvocati si appellano all’intera Comunità internazionale in Francia, in Belgio e altrove per ottenere dalle autorità della Mauritania, senza alcuna condizione, la liberazione di Biram Dah Abeid, permettendogli di riacquisire la totale di libertà d’azione, di andare e venire liberamente e, anche, di presentarsi alle prossime elezioni. In Mauritania la repressione contro il sostegno dei diritti umani è in costante aumento e coloro i quali tentano di segnalare tali abusi vanno incontro ad arresti arbitrari e severissime punizioni. Tali pratiche discriminatorie colpiscono soprattutto la comunità Haratin e le comunità afro-mauritane. Lo sviluppo e la difesa dei diritti umani sono un fenomeno assai articolato, la cui comprensione deve necessariamente essere filtrata da categorie filosofiche, storiche e giuridiche. Per tali ragioni, occorre rievocare il seme fondativo che ha segnato la nascita del concetto dei “diritti dell’uomo e del cittadino” e le tappe evolutive che ne hanno segnato il loro successivo svolgimento. Possiamo individuare un primo momento nel processo di definizione dei diritti umani: «quando essi vengono svincolati dal riferimento normativo alla credenza nella trascendenza di un Dio e nelle sue leggi»[1]. Tutto il periodo dell’Illuminismo è attraversato da questa tensione ideale, interamente tesa alla costruzione di un “pensiero utopistico”. Lo spostamento del terreno del conflitto dallo stato di natura hobbesiano – nel conflitto tra gli uomini sancito dallo Ius naturae – allo stato civile (ius civilis), il tentativo rousseuiano di conciliare libertà e eguaglianza (in direzione dell’eguaglianza dei diritti dei cittadini) rappresentano le tappe “ideali” di un cammino compiuto in direzione di una più ampia estensione dei diritti umani. «Le leggi servono, perciò, a rendere incruento il conflitto e a regolamentarlo. È un passo avanti enorme. Ogni cittadino è libero fin là dove inizia la libertà del suo simile, e le leggi stabiliscono appunto i confini di tale libertà nel diritto comune a ciascuno». [2] A guidare tale cammino di sviluppo vi sono diritti naturali dell’uomo, che Diderot aveva posto a fondamento della sua riflessione politica, quali il diritto all’esistenza, alla libertà e alla proprietà. Tali diritti si definiscono universali nella misura in cui non sono assoggettabili alle contingenze storiche. E proprio sulla base di tali diritti, Diderot condanna senza mezzi termini la pratica della schiavitù, in quanto tale attività arreca enorme danno alla libertà dell’uomo e deve, per tale motivo, essere eliminata dal consesso dell’umanità civile. Nell’edizione del “Contributo alla storia delle due Indie” dell’Abate Guillaume-Thomas Raynal (1774), Diderot traccia il profilo di una figura odiosa, ossia del negriero intento ai propri affari, rimarcando anche il rapporto di assoluta connivenza della religione (Cattolica): «Guardate quest’armatore che, curvo sul proprio scrittoio, regola, con la penna in mano, il numero di attentati che può far commettere sulle coste della Guinea; che esamina, a suo agio, di qual numero di fucili avrà bisogno per ottenere un negro, quante catene per tenerlo garrotato sul suo naviglio, quante fruste per farlo lavorare; che calcola, a sangue freddo, quanto gli varrà ogni goccia di sangue che questo schiavo verserà nella sua abitazione; che discute se la negra darà di più o di meno alle sue terre, con i lavori delle sue deboli mani, che con i pericoli del parto. Voi fremete… Eh! Se esistesse una religione che tollerasse, che autorizzasse, non foss’altro che con il suo silenzio, simili orrori; se occupata in questioni oziose o sediziose, non tuonasse senza posa contro gli autori o gli strumenti di questa tirannia; se essa facesse addirittura un crimine, per lo schiavo, spezzare le sue catene; se soffrisse di avere in seno a sé il giudice iniquo che condanna a morte il fuggitivo: se questa religione esistesse, non bisognerebbe strozzarne i ministri sotto le rovine dei loro altari?»[3]

Giungiamo, infine, alla Dichiarazione dei diritti dell’uomo e del cittadino e del decreto di abolizione della schiavitù senza indennizzo per i proprietari che fu stabilito dalla convenzione nazionale nel 4 Febbraio 1794 (il decreto 2262, del 16 Pluvioso, anno II), della Repubblica francese, “una e indivisibile”. A seguito di tale disposizione, tutti i “cittadini di colore” avrebbero goduto dei diritti di cittadinanza francesi e, ovviamente, di tutti i diritti della costituzione.

Non si può non menzionare il celebre “discorso sulle sussistenze”, che Maximilien Robespierre pronunciò nell’Assemblea nazionale a Parigi nel 1792, che fissava finalmente la priorità del “diritto d’esistenza” dei popoli su quello di proprietà. Tutto ciò per ribadire come l’età dell’Illuminismo abbia concretamente posto in luce, tramite la sua “Storia della ragione”, l’inequivocabile nesso tra illuminismo e rivoluzione politica dei diritti umani[4]. Alla base di una teoria dei diritti umani, come sostiene Vincenzo Ferrone, nella sua “Storia dei diritti dell’uomo: L’Illuminismo e la costruzione del linguaggio, v’è sempre il valore della dignità umana, anche qualora ciò non sia universalmente riconosciuto, e che i diritti vadano concepiti come una straordinaria idea morale a disposizione dell’umanità, affinché essi costituiscano il presupposto etico per la formazione di ordinamenti democratici e liberali.

L’associazione Filosofia in Movimento ringrazia l’avvocato Alessandro Gioia per il suo costante impegno nella difesa dei diritti umani

 

 

[1] P. Quintili, Il vero ottantanove- alle fonti dei «dei diritti dell’uomo» e della «laicità», in «Forum politico», «filosofiainmovimento.it», 31/05/2018.

 

[2] Ibidem

[3] Histoire des deux Indes, Genève, Pellet, 1781, vol 6, Livre XI, chap. XXIV, pp. 134-135

 

[4] P. Quintili, «Quale“Illuminismo”? Ragione, diritto d’esistenza e movimenti sociali», «Il rasoiodioccam-micromega.blogautore.espresso.repubblica.it», 19/12/2016.

 

VIDEO – I valori dell’illuminismo: colloquio tra Robert Louden e Paolo Quintili

Il presente dialogo tra Quintili e Louden, ponendosi nel solco del pensiero kantiano, tenta di offrire una risposta alla risorgenza della religione, o delle “fedi religiose” nelle sue componenti irrazionalistiche ed entusiastiche . Intorno ad esse, richiamandosi ai valori propri dell’illuminismo, si intende ricostruire le fondamenta di una “ragione illuminata” e secolarizzata ( “la ragione deve essere la nostra fede”) che possa fungere da principio guida alla comprensione dell’altro (soprattutto se appartenente a una differente cultura e tradizione linguistica). Aprire uno spazio di dialogo tra le differenti interpretazioni di fede vuol dire recuperare un messaggio universale di eguaglianza e di “fratellanza” che leghi insieme tutti gli uomini.

La volontà generale

Un saggio che analizza la volontà generale nella sua genesi, fornendo analisi e prospettive accurate partendo da una ricca letteratura aggiornata. Un ricerca sul fondamento teorico del Contratto sociale di Jean Jacques Rousseau.