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Quando il governo senza pluralismo attacca la libertà religiosa

 

Quattro notizie apparentemente slegate tra loro hanno contraddistinto la fine del 2015. Subito prima di Natale, il Parlamento greco ha approvato la proposta Tsipras per estendere la regolamentazione della convivenza anche tra persone dello stesso sesso, nonostante la forte opposizione della Chiesa Ortodossa. Appena pochi giorni addietro, in Slovenia gli elettori hanno bocciato, con quasi i due terzi dei voti validi, la legge nazionale in materia di unioni tra persone dello stesso sesso e adozione da parte degli omosessuali. Ancora nei discorsi di auguri, tra Natale e la fine dell’anno, il Premier inglese Cameron aveva ribadito un concetto che ha spesso espresso, anche in modo più diretto, da almeno un anno e mezzo a questa parte: l’inscindibile legame tra l’identità britannica e la tradizione cristiana. Per quanto riguarda gli scenari al di fuori del Vecchio Continente, grosso risalto ha avuto, nella medesima settimana, il rinvenimento di una fatwa che autorizzerebbe il traffico d’organi (degli infedeli) a fini di finanziamento dello Stato islamico e delle sue azioni rivendicative dentro e fuori i confini medio-orientali. C’è di che rabbrividire. Per tutte e quattro le notizie che potremmo e dovremmo ascrivere all’ambito tematico “diritto e religioni”. E che, tutte e quattro, potrebbero benissimo figurare alla voce “malintesi su libertà politiche e religioni”. In Grecia, la crisi sociale è ancora molto forte. Come, con acuti meno gravi, lo è in Italia, nonostante la debole ripresa. Il risultato è persino ovvio: dopo anni di recessione, di contrazione della spesa sociale in Stati tradizionalmente assistenziali, non è un lieve sblocco dei dati macroeconomici a ridipingere tutto di rosa. Perciò, mentre suscita un qualche apprezzamento che la proposta di Tsipras sia proceduta indipendentemente dalle pressioni esterne alle aule parlamentari, non è senza significato che molto elettorato di Sinistra (anche ben al di là del vecchio ed esangue PASOK) cominci a chiedersi dell’utilità della riforma. Quando altri temi -lavoro, previdenza sociale, processo civile e penale, questione sanitaria – richiederebbero ben maggiori sforzi di quelli di un governo, obtorto collo, votatosi all’attuazione “umana” dei memorandum finanziari europei. Tsipras si è imposto come rappresentante di una nuova Sinistra, molto più evoluta della tradizionale socialdemocrazia, ma per molti profili ne rappresenta la continuazione con altri mezzi. L’elettorato giovanile di Tsipras ha certo in mente il tema dei diritti civili ben più di tanti vecchi militanti del Partito Comunista Ellenico: era perciò inevitabile che la legittimazione sociale di Tsipras passasse anche per il riformismo sui temi civili. I quali, del resto, possono ridistribuire benessere sociale, almeno dal punto di vista delle aspettative dei cittadini (meno, nell’immediato, sulle concrete condizioni di vita). Bisognerà vedere bene questa riforma in quale disegno si inserisca. Se in un piano di riassetto del diritto di famiglia, al di fuori dei tradizionali rapporti tra lo Stato greco e la Chiesa ortodossa, o se da “distrattore” rispetto a temi sui quali la convergenza parlamentare sarebbe molto più difficile. In altre parole: in Grecia in questo periodo è molto più semplice varare norme promozionali a favore delle unioni omosessuali che non piani di riorganizzazione dei livelli amministrativi decentrati. E questo in parte svilisce anche il buono che c’era nella proposta Tsipras, dandole il timbro di provvedimento (apparentemente) a costo zero, (ma) in attesa di tempi migliori. Sono ragioni intrinseche non troppo dissimili da quelle che hanno reso largamente prevedibile il voto sloveno. Anche qui le responsabilità dei “vecchi” partiti socialdemocratici, e non solo, sono purtroppo visibili. L’Europa dell’Est è sospesa tra secolarizzazione e riscoperta religiosa, tra istanze comunitarie ed innesti favorevoli a concezioni “spinte” dell’economia di mercato. Lo è da almeno due decenni. Il ruolo dei partiti socialdemocratici doveva consistere nell’apertura alla laicità (contro il modello ateistico e contro le tentazioni confessionali particolaristiche) e all’economia sociale di mercato (contro il capitalismo di Stato e il facile asservimento ai grandi interessi economici zonali). Obiettivi sin qui falliti, se si guardano le legislazioni nazionali di molti Stati della medesima area. Ci sono riforme che nessun politico può pensare di introdurre senza essersi misurato col complessivo cambiamento delle agenzie di formazione e rappresentanza politica. Nessuna coalizione politica oggi attiva in Slovenia avrebbe mai la stessa maggioranza dei contrari alla legge sull’adozione e sulle unioni omosessuali. È un dato che fa riflettere. Se si voleva riformare, si è corso troppo o si è corso “male”. In un territorio piccolo e con ancora percepibili discriminazioni sociali, la tutela dei diritti di libertà non può essere percepita come prioritaria rispetto alla difesa delle forme tradizionali dell’appartenenza. Procedendo come ha fatto il legislatore sloveno, resta invece la sensazione di una scissione innaturale: tra una società evoluta, progressiva, aperta (circa il 40% degli elettori ha votato a favore della legge), e comunque minoritaria, e le afflizioni materiali che sono trasversali alle appartenenze tradizionali, ma che in esse si sentono meglio rappresentate. Questo meccanismo è ben noto a Cameron, che sta dimostrando di saperlo applicare con machiavellico pragmatismo. Lo ricordiamo al tempo della sua prima campagna elettorale. Era il volto trash dei Tories: velatamente favorevole all’abbandono delle posizioni proibizioniste dei conservatori, sostenitore di politiche di libero mercato più aggressive di quelle di Brown (e in parte di Blair). In cinque anni la sua comunicazione ha cambiato pelle. Non doveva stravolgere, doveva stravolgere gli altri, quando ad esempio ha coinvolto i liberaldemocratici, determinandone l’esilio dall’immaginario collettivo, nella discussa riforma sulla tassazione universitaria. Cameron ha abbandonato anche l’idea della “big society”: ha sottratto pluralismo, ha aggiunto sussidiarietà. Scambio di livelli tra pubblico e privato, ma un privato sociale fortemente custode del galateo istituzionale (compresa la tradizione religiosa cristiana e le istituzioni giuridiche che essa ha portato anche in una società secolare come quella inglese). Il successo politico è evidente, meno le prospettive di durata. Come si riarticolerà, qui e ora, la presenza di immigrati di fedi e culture diverse in un Paese che ha pur sempre un tessuto normativo di tradizionali, ampie, garanzie, ma che a parole sembra sempre meno ospitale, sempre sul punto di restringere più che di allargare? Davanti ai diritti civili adoperati come scorciatoia dubbia a riforme radicali (Grecia e Slovenia) e all’identità tradizionale – anche religiosa – collettiva usata come perimetro dell’azione politica (Gran Bretagna), sta da perfetto antagonista cinematografico il cruento e truce ghigno del fondamentalismo armato. Elargendo dottrine che il Corano non sembrerebbe ammettere in alcuna misura. Trafficare le interiora degli apostati, però, non costituisce un aggiornamento delle peggiori (o migliori) dottrine belliciste. È, purtroppo, pure peggio: è mero calcolo. È certezza di avere individuato e, perciò, consentito un settore di elevata e immediata lucratività. Tutto quello che ci aiuta è autorizzato a distruggere gli altri. In tutta evidenza, perciò, il problema non è quello della (ri)conduzione della religione a mero fatto privato, ma di pluralismo (negato) del discorso politico. In questo senso, il 2015 è buon candidato al ruolo di annus horribilis.

V. Chiti, Tra terra e cielo. Credenti e non credenti nella società globale, Giunti 2014

 

Vannino Chiti

Tra terra e cielo. Credenti e non credenti nella società globale

Giunti Editore, Firenze 2014, pp. 192, € 14,00.

 

 

 

 

 

Vannino Chiti dedica il terzo volume della sua produzione editoriale al dialogo tra le istanze del mondo laico e i valori di quello confessionale, dopo la proposta programmatica veicolata in Laici & Cattolici (Giunti, 2008) e il contributo, già approfonditamente arricchito di spunti internazionalistici e ricostruttivi, emerso in Religioni e politica nel mondo globale. Le ragioni di un dialogo (Giunti, 2011). Ben oltre la ripartizione redazionale del volume, in cinque saggi, intimamente coesi, che rende il testo più accessibile e coinvolgente anche nei passaggi logici più complessi e articolati, sono essenzialmente tre le direttrici attraverso le quali si sviluppa il ragionamento di Chiti: il rinnovamento ecclesiastico che la Chiesa è spinta ad abbracciare dallo stesso Magistero di Papa Francesco, la pluralità di opzioni dialogiche che vanno emergendo nella cultura e nella politica islamica, a dispetto di una rappresentazione massmediologica ancora troppo ferma al mero resoconto cronachistico degli episodi più gravi e luttuosi, il ruolo dell’Europa nel contesto globale e le difficoltà in cui è costretto a muoversi l’ancora incompiuto processo costituente europeo. Quanto al primo aspetto, Vannino Chiti prende le mosse dall’oggettiva epocalità della rinuncia di Benedetto XVI: più che volerne fornire quella lettura persino di taglio escatologico, ad esempio accolta da Giorgio Agamben (Il mistero del male. Benedetto XVI e la fine dei tempi, Laterza, Roma-Bari, 2013), Chiti evita la capziosa invocazione di continuità o, piuttosto, di cesura tra i due Pontefici e, facendo ciò, riesce a dar conto con lucidità dei punti più genuinamente innovativi che stanno emergendo nella prassi di Francesco. La costante attenzione al social divide che spacca in due anche quelle parti di mondo globale che erano abituate a minime forme di omogeneità reddituale, la scelta di procedere ad un prudente riformismo legislativo ecclesiastico, basato sull’adozione di pratiche consultive larghe (ma, negli esiti, sin qui, di segno progressivo), la rivendicazione dello spirito del Concilio Vaticano II e la necessità di riprenderne i profili attuativi laddove essi erano stati interrotti e mai finalizzati. Nel far ciò, si apprezza particolarmente che Chiti non voglia cedere a rappresentazioni “sentimentali” del post-concilio, preferendo piuttosto concentrarsi su quelle testimonianze, solo apparentemente marginali, che hanno garantito la sopravvivenza della novità conciliare nell’ordinamento e nella pastorale ecclesiale. In proposito, sono rare, rispetto alla pubblicistica recente, e, perciò, da rilevare le pagine del testo dedicate a Don Enrico Chiavacci e a Don Ferrero Battani (pp. 63-68). In special modo, la riflessione di Chiavacci, nata essenzialmente nel campo della teologia morale, si proponeva come una paziente elaborazione alternativa alla tradizione dottrinale, soprattutto in quell’insieme di questioni chiamate, censurabilmente, “eticamente sensibili”. La quarta di copertina del volume, stringata e di cristallina significatività, sembra un evidente tributo all’insegnamento di Chiavacci, del resto: credenti e non credenti hanno un riferimento comune: il primato della coscienza. Questo primato fonda la qualità dell’agire, sia per chi crede in Dio, sia per chi non ha e non cerca la fede. E non è un caso che di Chiavacci si ricordino, ancorché spesso de relato e, invece, ben più analiticamente nella ricostruzione di Chiti, le posizioni in tema di aborto (essenzialmente finalizzate a una legislazione rigorosa e di garanzia, volta ad assistere i diritti della donna e la tutela sociale della maternità, come pure si intestava la legge n. 194 del 1978) e di celibato ecclesiastico, dove il profilo dell’A. considerato non era, forse, quello dell’esplicita rottura, ma certo di un ripensamento che avrebbe potuto e dovuto essere condiviso e incoraggiato. In una Chiesa che voglia recuperare prospettive del genere, Papa Francesco è guida preziosa, anche quando le posizioni in concreto veicolate paiono sostenere un orizzonte teorico non del tutto inedito. Ad esempio, non ad una visione positivistica del dialogo interreligioso, punta Francesco, sebbene a uno spirito di concordia e di cooperazione che si sostanzi precipuamente nel riconoscimento degli interlocutori altri, della loro rilevanza esistenziale e spirituale per i rispettivi seguaci, nell’individuazione delle opzioni di reciproca collaborazione sui tanti scenari di guerra (innanzitutto, la Siria), dove il movente religioso è spesso il travisamento opportunistico di un conflitto eminentemente politico-economico. E bene fa Chiti (pp. 103-113) a ripercorrere le tappe più significative, anche sotto il profilo, ahinoi, militare delle cd. primavere arabe: agitazioni popolari che sin qui non sono riuscite a produrre una classe dirigente in grado di governare la trasformazione con quello spirito di liberazione (altri direbbero: costituente) che l’intero popolo medio-orientale da decenni esige, a prescindere da quale fazione sia, volta per volta, alla guida del tutto. Da osservatore della politica internazionale, oltre che da cultore della geopolitica, Chiti non può non osservare come in Egitto e in Tunisia (pp. 105-106) il ruolo svolto dai Fratelli Musulmani sia ancora lontano da potersi valutare serenamente. La presa del potere, se interpretata come supremazia (nemmeno “egemonia”, in senso gramsciano, nell’immaginario popolare o, per dirla con Chomsky, nei meccanismi di produzione del consenso sociale), è stata, sin qui, anche e prevalentemente l’esclusione delle forze, nient’affatto minoritarie, che all’interno dell’Islam ben conoscono quali siano le sfide in atto. Ad esempio, il rifiuto della tradizionale querelle tra l’interpretazione letterale e l’interpretazione sistematica ed evolutiva del Corano (una diatriba che sarà per la cultura mediterranea e medio-orientale ben più significativa di quanto lo fu quella tra sinistra e destra hegeliana per la genesi del costituzionalismo continentale) e l’apertura al tema dei diritti umani, non più tarati sulla pedissequa riproposizione delle categorie elaborate nelle Carte internazionali, successive alla conclusione della seconda guerra mondiale, ma nell’ottica di apprezzare specificamente le realtà territoriali più coinvolte nella sfida della modernizzazione di un’immensa area socio-geografica. E Chiti non cerca equilibrismi, anzi prende posizione, fornendo una lettura pacata eppure incisiva: chiama sul banco degli imputati la politica occidentale (in Libia, ad esempio, dove le macerie sono state fonte di appetiti interni agli stessi rapporti di forza nella governance europea tra Francia, Inghilterra e Germania) e invoca quello splendido, ricchissimo, multiforme, filone di studi che è chiamato, non senza qualche forzatura occidentalistica, “Islam della Liberazione” (pp. 131-137 e, in questo stesso contesto, con l’ambizione di una riflessione di massa dell’Islamismo sui diritti della donna, pp. 138 e ss.). Non si può prescindere, per Chiti, dall’insegnamento di Gharbi Kacem, di Hassan Hanafi, di Mohammed Taha e, per capire le dinamiche del subcontinente indiano, sospeso tra modernizzazione, sopravvivenza del sistema delle caste e radicalismi di marca tanto hinduista quanto islamista, di A’la Mawdudi. Ed è così nelle pagine conclusive del volume (pp. 180 e ss.) che si rinvengono le più evidenti proposte pratiche, dopo essersi volti al cielo e al modo tutto terrestre con cui l’interpretazione del cielo è strumento per governare la terra. Per Chiti, l’attuale empasse nella politica europea (non solo economica) è una ferita aperta, che può essere sanata solo e soltanto in modo netto, chiaro. Innanzitutto, deponendo le pretese degli Stati nazionali nella guida della governance: nessuno dei cinque maggiori Stati membri della UE avrà nei prossimi 30 anni la stessa collocazione nella gerarchia economica planetaria. O si esce dalla crisi con un progetto culturale e integralmente politico comune, e l’Unione diviene il terminale sicuro e affidabile per le istanze locali, anche quelle micro-regionali (altrimenti abbandonate alla propaganda bieca di separatismi xenofobi e improvvisati, solo raramente fondati sul piano sociale e spesso basso tema di -inutile- rivendicazione politica), o lo smembramento è destinato ad avvenire in ordine sparso: ordine sparso in cui l’Italia rischia di essere capofila del patibolo e non economia civile in grado di resistere, alla pari, con gli altri attuali membri non europei del G20. Europa Federale, allora! La delocalizzazione del meccanismo decisionale proposta da Chiti è ben diversa da quella del dumping sociale in economia, ove si ricercano le materie prime, anche umane, al minor costo più che al miglior prezzo, perché si pone il problema dell’individuazione delle linee di indirizzo in modo chiaro, durevole, non contingente. Terra e cielo, le economie in sofferenza e le religioni reciprocamente sospettose l’una dell’altra, possono e devono unirsi in un progetto federalista europeo: meno barriere all’immigrazione e diretto coinvolgimento istituzionale dei Paesi extracomunitari più interessati ai fenomeni di emigrazione, modalità di coinvolgimento popolare ampie e meditate (quelle procedure consultive che, col rigore tecnico del caso, suggeriva già David Held nel celebrato Modelli di Democrazia), adesione a un progetto di pacificazione che dal semplice perimetro continentale, dove pure è stato tendenzialmente attuato, sappia arrivare all’ordine globale. A patto che questa Europa federale, laica e plurale, sostenitrice delle libertà religiose, non sia un perenne altrove. Siamo, al contrario, in presenza di un doveroso e indefettibile oggi.

Domenico Bilotti

Il futuro della libertà religiosa

La libertà religiosa, prima ancora che come “diritto”, rappresenta quello spazio di massima espressione della personalità umana che va oltre il perimetro ascrivibile alla dimensione del “giuridico” per ricomprendere istanze di natura lato sensu culturali. Si intende con ciò dire che la forza culturale della religione, il suo agire dinamicamente in latenza, possiede una matrice che genera specificazioni antropologiche in grado di incrementare lo spazio della quotidianità ridefinendo la sintassi dei comportamenti (anche giuridicamente determinati) a prescindere che si sia realmente fedeli oppure atei.

Quando invece la libertà religiosa dispiega le sue dinamiche innervando le pieghe del “potere”, offrendo la sua spinta propulsiva all’azione che le organizzazioni (religiose) svolgono nello spazio pubblico, ebbene, in quel caso, si tratta di spostare l’attenzione su un altro piano, quello degli strumenti di natura giuridica (oltre che delle premesse politiche che giustificano un determinato prodotto normativo) che il diritto, nelle sue complesse articolazioni, appresta per garantire a tutti i soggetti, singoli e collettivi, la giusta quota di rappresentatività.

Questo essere della libertà religiosa un po’ come “Giano bifronte”, con lo sguardo rivolto verso l’alto e verso il basso (interessi, bisogni, conflitti, etc.), si offre meglio di qualsiasi altro fatto sociale a fungere da misuratore del grado di democraticità di un ogni contesto pubblico.

Con lo sguardo del giurista, è possibile analizzare il fenomeno in questione muovendo dal punto di vista dello stato (dunque in chiave “interna”) e delle realtà sovranazionali.

1. Sul primo fronte (quello statuale), l’analisi della libertà religiosa risulta fortemente condizionata dal complesso sistema di eventi storico-politici che hanno caratterizzato l’affermazione di questo particolare paradigma politico, almeno a partire dalla prima metà dell’Ottocento. In Italia, in particolare, la presenza del Vaticano, il “peso” politico e giuridico dei Patti lateranensi durante la fase della dittatura fascista e a seguire con l’entrata in vigore della Costituzione e le trasformazioni sociali in senso sempre più multiculturali legate al presente, esigono (a nostro avviso) una rivisitazione complessiva della disciplina giuridica del fenomeno religioso. Ma le resistenze sono diverse e variamente articolate, cagionate dall’assenza di un modello oggettivo di laicità in massima parte condiviso. Il “buon senso” però ci invita quanto meno e valutare l’opportunità di (provare a) ricondurre sotto il segno della legge la definizione, in via generale, delle disposizioni di garanzia a beneficio dei singoli e dei gruppi, e alla legislazione c.d. “negoziata” (Concordato, intese), l’individuazione delle norme di “promozione”, necessitate dalla diversità e dalla specificità delle numerose chiese, associazioni, comunità religiose, ma anche organizzazioni filosofiche e non confessionali.

2. Sul fronte esterno, quello europeo e internazionale, la storia della libertà religiosa ha seguito altri percorsi. Certamente i singoli ordinamenti nazionali hanno “esportato”, sulla scia dell’adesione alle diverse organizzazioni sorte a protezione dei diritti fondamentali, materiali utili a definire il perimetro di una forma di costituzionalismo funzionale alla massima protezione della libertà religiosa. Ma questa attenzione si è concentrata più sulla persona che sui gruppi. L’approccio è stato, cioè, di matrice liberale, indirizzato a creare spazi di libera competizione tra organizzazioni, senza corsie preferenziali per alcuna di esse.

Nell’Unione europea, soprattutto dopo l’adozione della Carta dei diritti fondamentali (2000) la persona umana, con la sua dignità e con le sue libertà, è diventata il fulcro attorno a cui è stato costruito il “diritto comune” dei diritti fondamentali. Questo ha ridotto “a zero” l’eventualità di qualunque ipotesi di “relazione strutturata” tra gli apparati istituzionali di vertice dell’UE e le comunità religiose. Non che la spinta a procedere in tal senso sia mancata, ma il fronte “laico” ha saputo contenere le spinte lobbistiche avanzate da alcuni stati (come l’Italia) e da alcune organizzazioni religiose (Chiesa cattolica in testa) affinché si addivenisse a modelli di rapporti molti simili ai concordati.

Allargando ancora di più l’orizzonte, e osservando cosa è accaduto oltre oceano, in particolare negli Stati Uniti, qui la libertà religiosa ha assunto storicamente una posizione peculiare. Sotto il segno della Costituzione del 1789 e lungo il corso dei secoli fino al presente, questo diritto ha assunto una connotazione privilegiaria sconosciuta altrove. Ad essere circondata di maggiore attenzione è stata di più la galassia delle credenze di matrice cristiana, ma nello stesso tempo l’impianto ideologico di matrice separatista caro a Madison e Jefferson, ha prodotto un “modello statunitense” fondato sul diritto comune e sull’azione contenitiva verso qualsiasi opzione confessionista. Quest’approccio ha fortemente condizionato la leadership politica americana, influendo sulle azioni di politica interna e soprattutto estera finalizzate al mantenimento della pace in diverse aree del mondo, alla messa in protezione delle minoranze religiose in alcuni contesti politici “controllati” dall’azione di gruppi fondamentalisti e al dialogo tra organizzazioni religiose.

La libertà religiosa, rappresenta perciò il prisma ideale per continuare a interrogarsi sulle trasformazioni della democrazia in Occidente (e non solo), sulle dinamiche tra politica e religione all’interno di molti paesi di cultura islamica e sul ruolo di alcune grandi potenze, come la Cina, l’India, la Russia, in rapporto col resto del mondo.

Laicità e diritti civili intende proporre una riflessione ampia e articolata sul ruolo delle religioni nello spazio pubblico e sulla dimensione dinamica del diritto di libertà religiosa sia a livello nazionale che internazionale. Partendo da recenti pubblicazioni sull’argomento, ma anche ritornando a riflettere sui “classici” in materia, come pure prendendo spunto dalle tanti “questioni pratiche” legate a questo fondamentale diritto nel presente multiculturale, questa è l’occasione per cimentarsi in ricerche e lavori di scrittura finalizzate ad arricchire il ventaglio delle opzioni interpretative.

M. Ventura, Creduli e credenti. Il declino di Stato e Chiesa come questione di fede, Torino, Einaudi, 2014.

 

Marco Ventura

Creduli e credenti. Il declino di Stato e Chiesa come questione di fede

Einaudi, Torino 2014, pp. 233, € 18.

 

 

 

L’Italia è un paese dove la concettualizzazione, prima ancora che la trattazione, della questione religiosa come problema politico (che và ben oltre, dunque, lo specifico dei rapporti tra Stato e organizzazioni religiose) riveste maggiore complessità che altrove (USA e diversi paesi europei) stante la perdurante incapacità a livello istituzionale e normativo di declinare la libertà religiosa come libertà giuridica in un contesto “politico” ispirato al pluralismo culturale, dunque come «fine» costituzionale (la Costituzione come «strumento teleologico»). Sul piano generale delle libertà, e della libertà religiosa in particolare, il nostro apparato politico-ordinamentale ha sempre “faticato”, tranne qualche parentesi virtuosa e limitata, a considerare gli individui dal punto di vista delle loro “domande” libertarie – ponendo attenzione al «ripetersi delle ingiustizie» [ref]A. Dershowitz, Una teoria laica dell’origine dei diritti, Torino, 2005, p. 11[/ref] preferendo, piuttosto, concentrarsi su una “gestione” dei processi di integrazione democratica fortemente influenzata in chiave “verticistica” per meglio assecondare gli interessi organizzati più forti, i soli capaci di inserirsi nel circuito ristretto della mediazione più «alta e complessa». La causa di tutto ciò è da ricercare, in buona parte, nella crisi dello Stato legislativo-parlamentare e nel progressivo ampliamento del ruolo del Governo [ref]R. Di Maria, Rappresentanza politica e lobbying: teoria e normativa. Tipicità ed interferenze del modello statunitense, Milano, 2013, pp. 28 ss.; G. Di Cosimo, Chi comanda in Italia. Governo e Parlamento negli ultimi venti anni, Milano, 2014, pp. 93 ss.[/ref]. Sul fronte, invece, specialistico delle dinamiche tra poteri pubblici e confessioni religiose, questa ri-configurazione dei rapporti interni alla forma di governo “riflette” analoghe declinazioni di ordine sia politico che giuridico, nel senso che la materia c.d. “pattizia” (artt. 7, comma 2 e 8, comma 3 Cost.) ha progressivamente “assorbito” nel circuito della trattativa (di vertice) sia la disciplina di materie un tempo riservate alla normazione unilaterale statale, sia quella relativa ai diritti fonda­mentali di libertà, comprimendo la portata di altrettanti importanti principi costi­tuzionali. La questione, perciò, è di metodo, il cui attuale alto tasso di rigidità politico-normativa appare non idoneo a raccogliere l’«inesauribile quantità di significati della libertà religiosa» [ref]M. Ricca, Art. 19, in R. Bifulco, A. Celotto, M. Olivetti, Commentario alla Costituzione, Torino, 2006, Vol. I, pp. 420-440[/ref], sia a livello statale (nelle sue diverse articolazioni) che sovranazionale (EU e CEDU).

Questa premessa serve, nelle intenzioni dello scrivente, ad “apparecchiare” il complesso e affascinante ragionamento che Marco Ventura svolge nel suo Creduli e credenti. Il declino di Stato e Chiesa come questione di fede (Einaudi, 2014). Un libro, scritto sì da un giurista pubblicista, ma destinato anche a una platea di lettori che va ben oltre la cerchia ristretta dei cultori del diritto pubblico e dello stesso diritto canonico (materia che l’Autore insegna, insieme a diritto e religione, nelle università di Lovanio e Siena), in quanto la trama che attraversa sottilmente l’opera esprime una sensibilità culturale parecchio elastica, espressiva di un bagaglio di conoscenze proprie di chi ha saputo affinare nel tempo l’osservazione della realtà senza farsi sedurre da finzioni precostituite e alla ricerca di “alternative” integratrici del discorso sulla libertà e sulle sue istituzioni: lo Stato, il mercato, la democrazia, la scienza, etc.

Si resta immediatamente colpiti già dal titolo del libro, dove la parola “fede” (a mò di chiosa finale) serve a invitare il lettore a prendere sul serio i “presupposti” non solo verso quel «qualcosa in più della realtà», cioè la trascendenza nelle sue diverse e complesse implicazioni soggettive e relazionali [ref]P.L. Berger, Questione di fede. Una professione scettica del cristianesimo, Bologna, 2004, pp. 11-13[/ref] ma anche verso la costruzione dello spazio politico all’interno del quale laici e religiosi devono stare sullo stesso piano [ref]G.E. Rusconi, Come se Dio non ci fosse. I laici, i cattolici e la democrazia, Torino, 2000[/ref].

Secondo l’Autore, la storia italiana vede dal 1984 ad oggi due categorie di soggetti (di cittadini-fedeli) affrontarsi in una logorante sfida a braccio di ferro. La posta in gioco è il destino dello Stato – nelle sue multiformi declinazioni sia verticali che orizzontali – e delle formazioni sociali a carattere religioso – delle chiese storicamente presenti sul territorio italiano e delle nuove forme di religiosità – nella società plurale. Da un lato ci sono i creduli, che «sfruttano la storia» e se ne servono per «controllare il presente», dall’altro i credenti, che, al contrario, «si mettono al servizio della storia» e responsabilmente cercano di spezzare il ciclo della diffidenza. Su campi segnati da steccati spesso insormontabili, «il declino di Stato e Chiesa [diventa perciò] questione di fede» (p- 14), e tra il credulo e il credente la lotta si fa «decisiva» (15).

Quella religiosa, in Italia, è “questione” datata, come in qualsiasi altro paese occidentale, fatta oggetto di politiche da parte del potere civile non sempre coerenti con quelle «premesse sostanziali» funzionali (parafrasando Böckenförde) all’affermazione di uno spazio pubblico liberale e secolarizzato. Ed è questione (quella religiosa) che poggia interamente sul significato e sul valore della libertà. Ebbene, proprio dall’amore per la libertà, Ventura fa discendere la sua analisi, prendendo a prestito alcuni passaggi della dissertazione del protestante svizzero Vinet sulla libertà dei culti (1826) il quale sosteneva che «è migliore la società in cui il libero concorso di una pluralità di fedi e di Chiese scongiura opportunismo e moralismi a beneficio del credo più vero e dei credenti più seri» (p. 30). Una libertà, dunque – quella voluta dai pensatori e politici liberali – «non privilegiaria, cioè potere a favore dell[e] Chies[e]» [ref]G. Zagrebelsky, Scambiarsi la veste. Stato e Chiesa al governo dell’uomo, Roma-Bari, 2010, p. 34[/ref] quanto, piuttosto, affare interindividuale, che diventa metodo, e che aspira a farsi procedura, sotto l’ombrello della Costituzione, al fine di ricomporre le domande in campo, i problemi pratici nascenti dal rapporto tra sfera religiosa e sfera pubblica. Ma si tratta solo di un progetto, di una idea geniale che resta – nel dibattito politico italiano che dal Fascismo porta alla Costituente (e oltre) – completamente ai margini; confinato quanto un’eresia, che interessa sparute minoranze di studiosi e attivisti politici (prima i liberali contrari al Concordato del 1929, poi quelli apertamente ostili al richiamo nella Costituzione del 1947 ai Patti Lateranensi), fortemente arroccato su binari consolidati, su opzioni e strategie messe in campo al di qua e al di là del Tevere al solo fine di “conservare”: la memoria dello Stato cattolico fondato sul Concordato (così come voluto, nel 1929, dalla Chiesa di Pio XI e dal Regime di Mussolini, entrambi “presi in ostaggio” dai rispettivi interessi “ideologici” di parte), e di scongiurare la rottura della “pace religiosa” minacciata dal Vaticano (come accettato da Togliatti e altri che votarono l’art. 7 Cost.). Non a caso l’Autore rinvia alle parole pronunciate nel 1947 dal giudice della Corte Suprema americana Hugo Black, a proposito delle «generazioni fuggite in America dall’Europa per sottrarsi all’oppressione di Chiese favorite dal governo e determinate a mantenere la propria assoluta supremazia politica e religiosa» [ref]pp. 22-23; mio il corsivo riferito al virgolettato citato nel libro[/ref]. Anche qui, siamo di fronte a una “professione di fede”, nei confronti però di un modo di concepire la libertà (in senso giuridico-costituzionale) che non ha nulla a che vedere con la  libertas Ecclesiae – «potere a favore, radice permanente di conflitti, incomprensioni ed equivoci» [ref]G. Zagrebelsky, op. cit., pp. 33-34[/ref] – quanto, invece, con una dimensione politico-normativa rispondente alle esigenze di una società democratica, laica, pluralista, che affonda e rinnova l’esperienza e l’apporto di un filone culturale rappresentato da Cavour, Ruffini, Jemolo, Basso, protagonisti sì di stagioni politiche diverse, ma che l’Autore rievoca per delimitare una scansione ideale e argomentativa (nonché “specialistica” dei rapporti tra poteri dello Stato e fattore religioso organizzato) a cavallo della quale il nostro Paese preferisce “dribblare” una serie di conquiste (separatismo, uguaglianza, libertà, laicità) anziché porle quale “nucleo duro” di un nuovo diritto pubblico del fenomeno religioso. Si tratta, perciò, di un percorso “a metà” lungo il sentiero dei fondamenti dello Stato costituzionale, di “promesse non mantenute” a causa di molteplici resistenze agenti in ambiti diversi ma pur sempre cooperanti (gli ordini distinti della Chiesa e dello Stato, con le loro ricadute sul sistema dei rapporti con le confessione c.d. “diverse” dalla cattolica), di processi interrotti per l’affermazione di modelli di matrice lobbistica finalizzati a mantenere inalterato lo status quo – per non allargare la sfera della partecipazione, facendo finta di cambiare ma senza alterare sostanzialmente sistemi di relazione e prassi consolidate, anzi, stravolgendo il senso e la portata giuridica di categorie di nuovo conio costituzionale (es. la sussidiarietà, «risucchiata», secondo Ventura, «nella centrifuga degli interessi»; p. 89) – di riforme parziali, incapaci di leggere e interpretare il “nuovo” (migrazioni, globalizzazione, sicurezza, convivenze, integrazione, multiculturalismo, etc.), di una “eclissi dello Stato” che immagina di risolvere il problema del Risorgimento, «svincolare l’Italia e la Santa Sede» [ref]S. Cassese, Governare gli italiani. Storia dello Stato, Bologna, 2014, pp. 324-326[/ref], ingessando la società italiana e le istituzioni politiche nella camicia di forza del «monopolio cattolico» (p. 67) e non garantendo i «diritti delle coscienze e degli individui», come chiaramente sanzionato dalla Corte Europea dei diritti dell’Uomo nel caso Pellegrini c. Italia (20 luglio 2001) che pone in luce, secondo Ventura, incongruenze sostanziali e procedurali gravi dell’ordinamento italiano e del suo cotè concordatario.

Le questioni poste sotto osservazione dall’Autore sono diverse e tutte meritevoli di approfondimento: l’insegnamento della religione cattolica nelle scuole pubbliche; l’8 per mille; le agevolazioni tributarie e le esenzioni in materia fiscale riservate agli enti ecclesiastici; la tardiva attuazione delle intese ex art. 8 comma 3 Cost.; la pugnace “difesa della fede” che, sulla scorta delle dichiarazioni di Ratzinger, significa: «opposizione alla maggioranza relativistica»; il divieto di «votare sulla verità», come dichiarò, ancora Ratzinger in una nota intervista concessa a Messori nel 1984; la laicità “sempre in questione”, ovviamente «sana» solo se intesa ex parte Ecclesiae, e non secondo le chiare parole della Corte costituzionale nel 1989; la difesa delle “radici cristiane” nella nuova Europa politica; il ruolo in-politico svolto dalla CEI in diverse materie sottratte de facto alla governance del diritto comune, oppure messe “a bagnomaria” in attesa del supporto politico utile a soddisfare interessi di parte e non il bene comune (es. la campagna massiccia a favore del “non voto” in occasione del referendum del 2005 sulla legge 40/2004); la vessata questione in materia di simboli religiosi (su tutte, quella relativa alla presenza del crocifisso nelle scuole pubbliche, con il ribaltamento di pronunce da parte della Corte di Strasburgo a cavallo tra il 2009 e il 2011, dove prima si stabilisce che la croce è il simbolo di una «particolare religione», dunque, da rimuovere, poi che la croce è un «simbolo passivo», “inoffensivo”, e che quindi può restare dov’è); la dura contestazione, portata fin dentro alle stanze della politica, della laicità quale fondamento di una legge generale sulla libertà religiosa (mai varata “anche” per le pressioni cattoliche), strumento utile, a parere di chi scrive e in linea con le tesi dell’Autore, non solo per abrogare la legge fascista sui culti ammessi (n. 1159/1929) ma anche e soprattutto per ricondurre lo strumento della bilateralità alla funzione regolatoria «degli aspetti che si collegano alle specificità delle singole confessioni o che richiedono deroghe al diritto comune» (Corte cost. 346/2002). E poi la questione islamica, che l’Autore ripercorre facendo risaltare l’approccio bicefalo, da un lato, della Chiesa di Benedetto XVI – il primato della ragione, esaltato nella conferenza di Regensburg del 2006, da contrapporre alla “assolutezza” dell’elemento trascendentale secondo la visione musulmana – dall’altro, dello Stato, a partire dal riconoscimento nel 1974 della personalità giuridica quale ente di culto del Centro islamico culturale d’Italia fino al sostanziale fallimento del Comitato per l’islam italiano (2010).

C’è bisogno, allora, di novità, di azioni coraggiose, di disponibilità ad apprendere da parte di entrambi gli interlocutori: istituzioni pubbliche da un lato e forme della religiosità organizzata, Chiesa cattolica inclusa, dall’altra. L’elemento destabilizzante resta la “confusione”, lo “scambiarsi la veste”. Ventura, nel suo Creduli e credenti, offre importanti elementi di riflessione e utili proposte di soluzione per una rinnovata primavera delle libertà.

Gianfranco Macrì

L’Oltre e il suo contenuto. Note su Pietro Ingrao e il diritto

Davvero prezioso il lavoro di curatela con cui Maria Luisa Boccia e Alberto Olivetti hanno ordinato gli scritti di Pietro Ingrao, Coniugare al presente: l’Ottantanove e la fine del PCI. Scritti (1989-1993), per i tipi di Ediesse (Roma, 2015).

E le ragioni che confermano questo giudizio sono numerose. Innanzitutto, il personaggio politico di Pietro Ingrao: leader della sinistra interna di un partito che ufficialmente non accettava la formazione di correnti, esponente di primo piano del più grande partito comunista occidentale, spesso all’opposizione delle sue linee ufficiali, eppure (o proprio per questo) personalità stimata anche dalle altre forze politiche. Soprattutto, nei bei tempi della Prima Repubblica, dove la Presidenza delle Camere indicava l’apprezzabile tentativo di dar tribuna a figure autorevoli che pur non rientravano nella compagine di governo. Un sistema elettorale appesantito da un proporzionale naturalmente consociativo e naturalmente presidiato dalla maggioranza relativa della Democrazia Cristiana (e, ovviamente, dall’esclusione del Partito Comunista dalle maggioranze di governo).

Interessante anche che i curatori scelgano come periodo di osservazione quello della transizione mancata, o, comunque sia, riuscita solo a metà. Il Partito Comunista Italiano, ben prima che il fallimento dell’Unione Sovietica venisse certificato dalla storia, aveva abbandonato le sirene terzinternazionaliste: tutto era tranne che marxista-leninista nella proposta politica rappresentata al corpo elettorale e alla società italiana. La caduta del Muro rende palese che questa differenza debba essere ormai accompagnata da un progetto politico sostanzialmente e formalmente diverso. Superate dagli eventi le proposte eurocomuniste mediterranee dell’ultimo Berlinguer, superato dai decenni il compromesso storico (che chissà che altre forme avrebbe assunto, ad esempio, senza il controverso caso del rapimento e dell’uccisione del democristiano Aldo Moro), superata anche la questione morale. Non come metodo del governo – che sarebbe attualissimo anche oggi, se solo qualcuno lo applicasse -, certamente come immagine riassuntiva di una proposta di società.

Tra il 1989 e il 1993, in definitiva, alla sinistra italiana e al Paese tutto serviva seriamente un “oltre possibile”. La governance avrebbe identificato quest’oltre nella legislazione vincolistica a favore dell’integrazione europea. Una carta, purtroppo, mal giocata. E dalla politica italiana e, più di recente e peggio, dalle stesse istituzioni continentali. La sinistra traballò. Difatti, perse clamorosamente le elezioni del 1994 e riuscì finalmente a vincere due anni dopo, ma solo perché aveva riavvicinato a sé tutti quelli che non si riconoscevano a destra (spezzoni della sinistra democristiana, ambientalisti, ortodossi dello stalinismo e liberal privi di rappresentanza politica). La sconfitta del 1994 non è figlia dei meriti di Berlusconi (appeal comunicativo, forza di rottura, massiccia propaganda). Ne è al più parente alla lontana: la sconfitta del 1994 è tutta nella mancata individuazione di questo “oltre possibile”, l’Araba Fenice del riformismo italiano, dal 1989 al 1993.

Pietro Ingrao dimostra innegabile vivacità intellettuale: la fine del socialismo scientifico deve essergli sembrata cosa buona e giusta. V’è, infatti, in Ingrao l’intuizione sull’inestricabile vincolo di solidarietà che sussiste tra i diritti di libertà. Che l’URSS ignorasse tale vincolo, anzi che si sorreggesse sulla sua consapevole rimozione dalla pratica del governo e dalla formazione delle leggi, è concausa del suo smembramento.

Pietro Ingrao ha alle spalle una storia di rapporti con quanto a sinistra si muoveva fuori dal canale istituzionale del partito. Negli anni Cinquanta e Sessanta, dimostrò di conoscere le molte facce della questione sociale in Italia. C’era “Africa in casa”, un Mezzogiorno che aveva garantito forza lavoro a basso costo al capitalismo settentrionale. Per nemesi storica, proprio quella massa di meridionali non specializzati arrivata nella fabbrica provò, contro il PCI, ad afferrare il fulmine a mani nude, alla fine degli anni Settanta. Per contronemesi storica, quella storia dell’operaismo italiano finì tristemente sconfitta, proprio quando il PCI sulla Scala Mobile tentò l’ultimo colpo di reni per riavvicinarsi ad essa.

Non solo: Ingrao cerca un’interlocuzione con la contestazione sessantottina, ma non è con la (esigua) minoranza garantista al tempo della legislazione emergenziale contro il terrorismo – meno di un decennio dopo. Fu il primo un merito e il secondo un errore? O il PCI preferì non avere dalla propria la contestazione che germinava, in primo luogo, a suo danno? Quale che sia il nostro giudizio, il PCI sta dentro e fuori un decennio di seria, buona, legislazione sociale: in materia di locazioni, sussidi e diritto del lavoro. Lo fa dentro e fuori il progetto del governo dei moderati. Lo Statuto dei Lavoratori passa ed è un meritorio provvedimento legislativo: il PCI non lo vuole. Alla ricerca di quel suo “oltre possibile”, con cui liberarsi dall’utopia realizzata del soviet violento e legittimarsi contro quella nascente generazione “diciannovista” che nell’Autonomia Operaia trovò la linfa di uno scontro permanente col “partitone rosso”.

L’Ingrao degli anni Ottanta, in buona fede come quello del decennio precedente, diviene ancora più lucido come interlocutore dei movimenti civili. La soggettività sociale si è scompaginata, se ne creano tanti frammenti di pari dignità. L’ambientalismo, i diritti civili, la stagione referendaria – e l’inflazione dell’istituto nei due decenni successivi è una vera mannaia per la partecipazione politica, nonché prateria sconfinata per i teorici delle campagne astensionistiche (più facili, più sicure, delle battaglie politiche per il “si” o per il “no”).

Nel taccuino della sua proposta per un “oltre possibile”, Ingrao mette a valore tutto quello che ha visto: il perdurare, in forme nuove e solo all’apparenza meno gravi, delle sperequazioni sociali; il declino della teoria dei “ceti di riferimento”; la sensibilità ecologica; la questione di genere in Italia e il corredo di diritti la cui attivazione in Italia è stata più sofferta e carente che altrove in Europa. Il PCI di fine anni Sessanta/inizio anni Settanta non è uno dei protagonisti dell’espansione dei diritti civili: lo è – su aborto, divorzio, obiezione di coscienza – la sua base, lo sono spesso suoi singoli e benemeriti esponenti (il calabrese Gullo tra questi). Ingrao capisce che sarebbe buono se lo diventasse negli anni Duemila il suo erede politico.

Quello che colpisce nelle pagine della raccolta è un retrogusto di smarrimento postumo per quello che non sono riusciti ad essere sul piano della trasformazione sociale né il Partito Democratico della Sinistra, né, all’alba degli anni Duemila, i Democratici di Sinistra. Ingrao, ad esempio, non è tra i favorevoli alla svolta eurosocialista (meglio sarebbe dire: social-democratica). Ma è anche giustificabile che molti ex-ingraiani, all’atto di nascita del PD, preghino e si sbraccino per l’ancoraggio dell’ennesimo nuovo partito al Partito Socialista Europeo. Lo vedono come unica garanzia contro l’interclassismo apologetico del partito della nazione, contro lo scivolamento a destra e al centro. Un treno aspettato dieci anni dopo il suo ultimo passaggio in stazione.

È istruttivo rileggere Ingrao. Perché tutto il libro racconta idee che non ebbero la forza (e, più probabilmente, la consapevolezza) di divenire policies. A ben vedere, a questo “oltre possibile” è mancata soprattutto una cosa: la relazione qualificata col diritto. Non esiste istanza di riforma che possa divenire diritto vivente e pratica quotidiana in assenza di un robusto radicamento nel metodo della legislazione. Quella che si vuole cambiare e quella che si vuole preservare. Dal calderone post-1989 non è emerso alcun partito in grado di essere il Principe cui pensava Gramsci – sempre che fosse la strada giusta. “Coniugare al presente”, per riprendere il titolo del libro, è capire il proprio tempo. Non limitarsi a viverlo.

Recensione al volume di L.Ventura, “Il diritto di resistenza”

 

Un disco di successo del musicista Sonny Curtis, pubblicato nel 1960, si intitolava “I Fought the Law”. Nelle traduzioni che circolavano all’alba della controcultura studentesca in Italia, nei primi Sessanta, si sarebbe potuto indifferentemente leggere “ho combattuto lo Stato”, “ho combattuto il potere”, “ho combattuto la legge” e a poco c’entra la dottrina anglofona, da Dworkin in poi, che ha specificamente lavorato sull’analitica distinzione tra i concetti richiamati. Il volume di Luigi Ventura, “Il diritto di resistenza” (pubblicato per i tipi di Rubbettino, Soveria Mannelli, nel 2014), è sostanzialmente percorso da una domanda che sorge spontanea leggendo le diverse traduzioni del testo di Curtis: cosa può fare il cittadino quando il potere agisce contro la stessa legge di uno Stato di diritto? Come può combattere?

Il saggio costituisce, per altro verso, la ripubblicazione di un estratto significativo di un lavoro più lungo, del medesimo A., risalente al 1981: sarà sorprendente, alla fine della lettura, riscontrare che ben poche rughe si inseguono tra le pagine del testo e, invece, molta, molta, sorpresa e sorprendente attualità. Ancor prima dei contenuti, preme del resto sottolineare l’intrinseca unitarietà stilistica del volume, messa in mostra dalle notazioni bibliografiche a piè di pagina. Molto dettagliate, e però sempre accessibili (rari entrambi i fenomeni nelle pagine di uno stesso volume, nella letteratura scientifica), quasi che, in effetti, il lettore possa volgere lo sguardo a due facce della stessa medaglia, più che a due libri diversi. Per Ventura il nutrito apparato bibliografico è usato o come esplicazione teorica puntuale e minuziosa delle intuizioni del volume o in quanto efficace aggiunta di particolari, rispetto allo svolgimento testuale della ricerca.

Nella prima parte del volume ci si occupa della genesi concettuale del diritto di resistenza, nell’alveo giusnaturalistico, anche nelle sue componenti più radicali (il tirannicidio). Un giusnaturalismo che, almeno per ovvie ragioni storico-culturali, ha avuto a propria volta origini cristiane. Prova ne sia che l’A., tra le molte, passa al setaccio le posizioni di Calvino – che propone l’istituzione di magistrature per la tutela del popolo – della Scolastica  (filtrate da un’interpretazione di Tommaso che l’A. giustamente non ritiene sempre e del tutto soddisfacente), fino alla vitalità del diritto borghese rivoluzionario del XVII e del XVIII secolo. Interessante che questa parte della trattazione si concluda con l’analisi delle scelte costituzionali compiutesi in Germania e in Francia. Casi di studio che più facilmente vengono di solito utilizzati come metro di comparazione per l’ordinamento italiano, ma anche ordinamenti che di quel diritto rivoluzionario declinarono, per ragioni e in forme e tempi diversi, soprattutto lo strumento della codificazione. Persino in merito a quest’ultimo, può notare, ad esempio, Grossi, è palese l’influenza delle dottrine giusnaturalistiche, benché spogliate dalle connotazioni etico-politiche più apprezzabili. Una spoliazione che non riguarda, invece, la natura radical-collettivistica del diritto di resistenza e il cui mancato depotenziamento ideologico è verosimilmente causa dell’eclissarsi di riferimenti ad esso nella Costituzione francese del 1946 e dello sbrigativo dibattito (nota l’A., p. 56) che lo riguardò in Italia. Il senso etico non appartiene al governante iniquo.

Proprio il capitolo del volume dedicato alla trattazione in sede di Assemblea costituente della problematica in oggetto si rivela tra i più interessanti per saggiare l’effettiva contemporaneità della questione. Inizialmente, la costituzionalizzazione del diritto di resistenza veniva caldeggiata dalla sinistra democristiana (Dossetti), ma altre correnti del medesimo partito finirono per retrocedere dall’attuazione di quel principio teorico cui pure la vicenda storica del Cattolicesimo aveva dato un contributo non irrilevante. Come avverrà in Portogallo e in Spagna nei tre decenni successivi, la difesa del diritto di resistenza, nel novero dei diritti fondanti lo Stato democratico, diverrà principalmente istanza della sinistra marxista. E, stando al dibattito italiano, con maggiore incisività nella sinistra socialista, che non nel Partito Comunista, al quale (dati i tempi e i contesti in cui si consumava la discussione sul diritto di resistenza) la questione doveva sembrare l’ingenua legalizzazione di un momento rivoluzionario – l’illusoria clausola di continuità tra l’ordine costituito e l’ordine costituente. 

È nei capitoli successivi che i richiami a temi dell’oggi si fanno, però, ancora più pressanti. Innanzitutto, l’A. ammette esplicitamente di guardare al contenuto del diritto di resistenza senza ritenerlo l’ipotesi manualistica e residuale che corrisponde a fatti particolarmente eclatanti (un colpo di Stato). La prospettiva percorsa sembra assai più equilibrata e concepisce la configurabilità di uno strumento siffatto anche nel caso di reiterata inattuazione del disegno politico-costituzionale. L’A., nel 1981, aveva ben chiaro che il volto morbido del dispotismo sarebbe stata la quotidiana svalutazione del dettato costituzionale – o, come sempre più e sempre peggio avviene, un utilizzo abusivo e non paradossalmente incostituzionale della medesima revisione costituzionale. In secondo luogo, è appena il caso di notare che l’elaborazione dell’A. si riferisce all’inizio degli anni Ottanta. Calate nel loro contesto genetico, queste pagine svelano dei tratti evidentemente coraggiosi. Nel decennio precedente, infatti, si era coltivata, forse, illusoriamente la possibilità di un momento rivoluzionario in Italia (stavolta, da parte della sinistra extraparlamentare, e non di quella parlamentare). Ed è sorprendente che la legislazione di quegli anni, riconosciuta reiteratamente incostituzionale da parte della Corte nei decenni successivi, si incaricasse di soffocare le tumultuosità dell’epoca, senza prendere in considerazione che proprio una più coerente legislazione attuativa del disegno costituzionale avrebbe disinnescato molte delle questioni sociali che avevano legittimato sul piano dell’opinione pubblica l’insorgenza dei movimenti extralegali. Il diritto di resistenza cui guarda l’A., forse anche per trovare sbocco costituzionalmente coerente alle istanze sociali che Egli pur riconosce (senza ovviamente avallarne gli incendiari di turno), non è cospirazione estemporanea, né archeologia giuridica dell’alba del costituzionalismo. È presa di coscienza della resistenza a sovrani illegittimi. Non sbocchi cruenti, prefigura tale impostazione giuridico-teorica, ma riscoperta ragionata e coerente delle più intime nervature della Carta.

Colpisce che l’A. affronti espressamente, nella verifica di ipotesi di resistenza per come poc’anzi chiarite e senza suggerire sovrapposizioni affrettate, il caso dell’obiezione di coscienza (più rapidamente) e dello sciopero politico (dedicandovi la parte più corposa della trattazione). Il primo, del resto, poteva sembrare avere trovato una prima, accettabile, soluzione con la legge n. 772 del 1972 (e, in misura diversa, con l’art. 9 della legge n. 194 del 1978, che non aveva ancora messo in luce le applicazioni abusive, in tema di obiezione, oggi osservabili). Ma è emblematico che l’A. dedichi grande attenzione allo sciopero politico. Ciò, al lettore di oggi, pare indicativo di almeno due istanze parimenti significative. Ex tunc (per “ieri”, quando l’A. scriveva di quei temi per la prima volta), avere intuito che stava per andare in scena nel Paese una complessiva trasformazione delle politiche salariali, sindacali e di gestione della spesa pubblica. La politica economica del governo Craxi di lì a poco avrebbe messo nero su bianco lo smantellamento della forza rivendicativa del movimento operaio e, d’altra parte, l’indebitamento come leva espansiva. Ex nunc (da “oggi” e per il futuro) l’A. nota pure il rilievo, nient’affatto consolatorio o astrattamente declamativo, dei diritti sociali nel novero della Carta costituzionale. Come a dire che solo una politica legislativa orientata compiutamente alla loro attuazione sarebbe conforme a Costituzione, non ponendosi al di fuori di quell’accezione di legalità, per cui è opportuna la difesa della resistenza. La Costituzione deve orientare le leggi. Le leggi vanno interpretate secondo Costituzione, non dev’essere l’interpretazione della Costituzione a venire strappata o tirata qua e là, per assecondare la pessima qualità della produzione legislativa,  come letture sconcludentemente funzionalistiche vorrebbero imporre di fare.

Riprendendo, allora, le battute iniziali dell’opera c’è da chiedersi non già che ruolo abbia la resistenza nell’ordinamento (acclarato che essa vale ad assicurare istanze di giustizia sostanziale e principi fondamentali, questi si, non negoziabili), ma che mutevoli forme saprà prendere l’usurpazione del tiranno. Quali diavolerie ha in serbo nella sua raffinatissima borsa di coccodrillo.

La “rivoluzione dell’Islam” inizia dalle donne

di
Gianfranco Macrì

Parlare della situazione femminile nei paesi di cultura islamica significa scoperchiare un vaso all’interno del quale è possibile trovare tutto e il suo contrario. Nel senso che, al di là di molte riforme costituzionali, e non solo (alcune delle quali pure significative dal punto di vista della predisposizione di cataloghi di diritti e dei necessari strumenti per renderli giustiziabili) – non ultimo quelle introdotte a cavallo della c.d. “Primavera araba” – la condizione delle donne presenta ancora molte ombre. La stessa nascita del Califfato (2014), che si prefigge di ridisegnare la geografia e gli assetti politici in tutto il Medio Oriente, non “trascura” affatto il ruolo delle donne (che siano le ragazze della minoranza yazidi, oppure quelle appartenenti ad altre minoranze, cristiana o ebraica, ma pure le stesse donne sunnite, poco importa), tant’è che l’ONU ha fin’ora documentato il sequestro da parte dell’Isis di migliaia di donne “assaltate e violentate”, oppure costrette a prostituirsi nei bordelli gestiti dalla brigata femminile al-Khansa, un reparto formato “soprattutto da donne di nazionalità francese e britannica” [ref]M. Molinari, Il Califfato del terrore. Perché lo Stato islamico minaccia l’Occidente, Milano, 2015, pp. 110 ss.[/ref].

Di recente, ha fatto discutere la vicenda accaduta alla poetessa e giornalista libanese Joumana Haddad, notoriamente atea e laica, la quale, invitata in Bahrein a leggere le sue poesie, è stata presa di mira da parte di alcuni gruppi islamisti al grido di: “Nel Bahrein non sono benvenuti gli atei”, e dallo Sciecco Jalal al-Sharki che, durante un sermone del venerdì, la avrebbe minacciata di morte. Da qui l’impedimento ad entrare nel Paese, ordinato dal primo ministro Khalifa bin Salman Al Khalifa [ref]http://27esimaora.corriere.it/author/joumana-haddad/[/ref].

Quella delle donne che in diversi paesi musulmani si battono, come appunto Joumana Haddad, per l’uguaglianza tra uomo e donna, per la libertà sessuale, di parola, contro le discriminazioni di genere, l’omofobia etc., costituisce una questione non adeguatamente approfondita in occidente – attento più che altro a discutere di islam e democrazia, di equilibri geopolitici, di politiche per il contenimento delle migrazioni clandestine, di luoghi di culto (e poco di libertà religiosa) – e che invece, in alcuni paesi come Marocco, Tunisia, Algeria, risulta centrale nel dibattito pubblico animato da tante organizzazioni femminili (o femministe), grazie pure al ruolo di spicco di molte scrittrici, poetesse, giornaliste, agitatrici politiche. Appare allora utile svolgere alcune considerazioni su questo argomento, prediligendo gli aspetti giuridici (e le sue ricadute sociali) che la materia riveste.

Iniziamo col dire che la questione femminile interna all’Islam e ai paesi di cultura islamica, rappresenta da tempo un sistema complesso di materiali la cui narrazione – nella sua trasformazione temporale e tenuto conto delle variegate e complesse rappresentazioni e interpretazioni offerte dalle donne musulmane – occupa uno spazio meritevole della massima attenzione.

A chi studia i rapporti tra diritto, politica e fattore religioso, sono ben note le tante figure femminili da tempo impegnate su questo “fronte”, intendo dire: della puntuale urgenza a svelare una realtà complessa, come quella islamica, troppo sbrigativamente (e, a volte, colpevolmente) data per immobile, sia sotto il profilo “normativo” [ref]tenuto conto della “centralità” che il «teo-diritto» occupa all’interno di questa; cfr. S. Ferrari, Tra geo-diritti e teo-diritti. Riflessioni sulle religioni come centri transnazionali di identità , in «Quaderni di diritto e politica ecclesiastica», 1, 2007, pp. 2-14[/ref] sia della collocazione e del ruolo, appunto, che la donna vi occupa [ref]utile risulta la lettura del saggio di R. Pepicelli, Femminismo islamico. Corano, diritti, riforme, Carocci, Roma, 2010, che aiuta a dipanare le ombre che sul discorso ancora si addensano[/ref].

Si tratta di una tematica ricca di fascino, interessante per i suoi risvolti ermeneutici, e che consente di cogliere – e dunque “mettere in forma” – l’intera procedura discorsiva che l’attivismo di molte e variegate organizzazioni femminili hanno dispiegato e continuano a dispiegare nei diversi contesti pubblici, al fine di persuadere (soprattutto) quella ampia fetta di opinione pubblica occidentale (studiosi, gente comune, politici, etc.) incredula circa la capacità di giungere ad sovvertimento delle «narrazioni patriarcali sul ruolo della donna nell’Islam».

Ha preso così corpo una sensibilità, ancora tutta da consolidare e “orientare” all’interno di un discorso «interculturale» – basato sulla capacità-forza della tradizione dei diritti fondamentali di integrare le identità culturali come tali e vocato al bene comune della società pluralistica [ref]M. Ricca, Oltre Babele. Codici per una democrazia interculturale, Dedalo, Bari, 2008[/ref] – in grado di far comprendere (sia in ambito islamico che non islamico) che la donna può essere vista come il guardiano di una identità musulmana “profanata” da una ermeneutica coranica misogina e arcaica, divenuta dominante nel corso dei secoli e che invece i tanti movimenti femminili sono impegnati a proporre come aperta al negoziato, dialogante a livello sociale e, soprattutto, diretta a riprodurre nuove interpretazioni dei testi sacri.

L’azione intrapresa parte dal profondo del Corano e fa leva sulle “ammorsature” polisemiche presenti in esso, in grado di tenere ancorato, appunto, il “Testo al contesto”, la Tradizione, come «riappropriazione della memoria» (secondo l’approccio di Fatema Mernissi), alla realtà sociale vigente, in funzione della necessaria conciliabilità tra istanze di uguaglianza e religione.

Il tramite discorsivo possono essere una serie di casi oggetto di interpretazioni diverse: la questione del velo, il problema della separazione delle donne dagli uomini nei luoghi di preghiera (la moschea), la vexata questio della poligamia, la semplice recita di poesie in un qualsiasi spazio pubblico (come nel caso della nostra poetessa), etc. Ebbene, la re-interpretazione di questi ambiti importanti del diritto islamico (e non solo) ha rappresentato – a partire da quando l’azione dei movimenti femminili si è diffusa «sempre più capillarmente a livello geografico, culturale e politico», riaprendo la c.d. “porta dell’ijtihad” – uno dei contributi più significativi delle battaglie finalizzate al cambiamento, all’educazione e all’affermazione di una nuova «giustizia di genere». Si tratta, concretamente, di una lotta intrapresa da molte femministe islamiche contro leggi e istituti assolutamente patriarcali, da cui deriverebbe l’affermazione di una “Tradizione ufficiale”, valida per tutti e derivante da un’esegesi prodotta da una ristretta èlite di interpreti autolegittimatasi a parlare in nome dell’Islam contro l’affermazione dei diritti delle donne in chiave islamica.

Una lotta, dunque, intrapresa in nome di un’«altra Tradizione», di una nuova ermeneutica coranica, impegnata a leggere alla luce della realtà del XXI secolo il messaggio di liberazione insito nell’Islam delle origini, un messaggio [è stato scritto] «che è già nel Corano e nella storia della prima comunità di musulmani» [ref]Renata Pepicelli, Femminismo islamico, op. cit.[/ref].

Questo riferirsi, da parte delle donne musulmane, al Corano per sostenere i loro diritti, non deve assolutamente stupire l’osservatore occidentale, in quanto ci troviamo all’interno di contesti (quelli di cultura islamica) dove non si è venuta affermando una filosofia dei diritti umani che considera Dio “indifferente” all’organizzazione politica della società; al contrario, dove più dove meno, si registra il carattere irrecusabile e indiscutibile della trascendenza divina.

Ciò non ha tuttavia impedito a questa complessa e variegata «militanza femminista» di produrre in alcuni ambienti statuali riforme molto interessanti e significative nell’ordine dell’emancipazione femminile all’interno di società fortemente condizionate dalle scelte degli uomini. Un esempio paradigmatico è rappresentato dalla riforma, introdotta nel 2004 in Marocco, della Mudawwana, il Codice della famiglia, che, grazie all’attivismo di base e alla produzione esegetica di studiose come Mernissi e Lamrabet, ha profondamente innovato la disciplina della metà del 1957-1958, innovando in materia di uguaglianza e corresponsabilità tra coniugi, di limiti alla poligamia, in tema di divorzio. Il Codice è stato considerato a livello nazionale e internazionale un grande successo, tant’è che molte femministe di altri paesi lo stanno studiando per trovare spunti su come riformare le proprie leggi nel rispetto della religione.

Ci troviamo, allora, di fronte ad un «processo di transizione», che attraversa e va oltre la stessa “Primavera araba” [ref]C. Sbailò, Diritto pubblico dell’Islam mediterraneo. Linee evolutive degli ordinamenti nordafricani contemporanei: marocco, Algeria, Tunisia, Libia, Egitto, Padova, 2015[/ref]. Tra mille contrasti, violenze, disperazione, si intravedono, in diversi contesti islamici, i segni dell’erosione di «ordini antichi» che però non sia sa quando soccomberanno e, soprattutto, “come” e cosa andrà ad instaurarsi al loro posto. Certamente tutto ciò avrà delle ricadute importanti sull’elemento giuridico che, pur non avendo nel mondo islamico una specificità propria, resta la posta in gioco principale nelle politiche sociali e culturali, mantenendo, innegabilmente, un ruolo privilegiato per la sua capacità di plasmare e ordinare la realtà.

VIDEO LIBRO – Creduli e credenti

Marco Ventura nel libro “Creduli e credenti” (Einaudi, 2014) ci descrive una società divisa tra credulità e fede, tra istinto di conservazione e volontà di rinnovamento. Invece di accompagnare il cambiamento sociale e religioso, governi e parlamenti si sono aggrappati al passato, con la complicità di una gerarchia cattolica impaurita. I rapporti tra Stato, Chiese, islam e nuove religioni si sono impantanati nella retorica della «tradizione cristiana» e negli equivoci sulla laicità. L’autore ripercorre le tappe che hanno portato al declino della Chiesa e del paese, entrambi ostaggio dei «creduli», i dogmatici e i manipolatori, i cinici e i faccendieri. Ci si trova dinanzi ad un bivio: se i credenti prevarranno sui creduli, se chi prende sul serio la propria fede politica o religiosa caccerà i mercanti dal tempio, è ancora possibile una primavera per l’Italia e per la Chiesa.

Elio Toaff (1915 – 2015)

È arrivato sino alla soglia dei cento anni il rabbino Elio Toaff, metà dei quali (1951-2001) vissuti da rabbino capo di Roma. Un dato che, pur nella cultura rabbinica, così legata alla continuità della tradizione e così propensa al riconoscimento simbolico della longevità personale nella vita dei maestri, è destinato a trovare pochi eguali. Elio Toaff si è formato all’ombra di quell’Ebraismo livornese che, nei secoli, ha saputo coniugare il rigore metodologico, un prudente riconoscimento della cultura giuridica liberale e la ricchezza, non solo aneddotica, del cabalismo, delle sue origini e dei suoi significati. Una formazione del genere, anche al di fuori dei confini della comunità ebraica, era a dir poco inusuale per chi si fosse preparato agli studi negli anni Trenta e Quaranta del XX secolo. In più, Toaff scelse di combattere in prima persona, nella Resistenza, contro il nazifascismo. In quella lotta, che molto deve in Italia a comunità pur minoritarie che furono determinanti nell’esito della sollevazione (valdesi ed azionisti in Piemonte; al Centro, i primi nuclei comunisti organizzati; al Sud non pochi socialisti che collaborarono con gli Alleati), fu tra quanti provarono a sconfiggere i miasmi di due decenni di totalitarismo. Guardando al bene della collettività nel suo complesso, e non solo al grave genocidio del popolo ebraico, disperso per l’Europa, e, in Italia, marginalizzato già con la legislazione unilaterale sulle comunità israelitiche e, neanche un decennio a seguire, massacrato dalle leggi razziali. Toaff conservò, nella sua lunghissima attività da uomo di cultura, delle istituzioni religiose e anche del dialogo civile, la propensione a ricercare la pace a partire da ordinamenti equi. Con viva partecipazione, salutò il tardivo superamento da parte della Repubblica italiana della regolamentazione statuale sulle comunità israelitiche e fu nel movimento d’opinione, interno alla cultura ebraica, che guardò con diretta attenzione e proprio impegno personale al conseguimento dell’intesa, recepita nella legge n. 101 del 1989. Non solo: sostenne con argomentazioni di rara profondità l’imperativo del disarmo internazionale, incontrò in sinagoga nel 1986 Giovanni Paolo II, dando voce al rinnovato impegno per il dialogo interreligioso. Un incontro la cui valenza simbolica è tutta nella tenuissima distanza geografica tra la sede di Pietro e la sinagoga ebraica, a Roma. Soltanto ai grandi uomini è dato di riuscire a fare piccoli passi. Senza assumere pose da personaggio pubblico, segnalò i rischi di un rinnovato antisemitismo, in Europa e in Oriente, ed ebbe la forza di lasciare il ruolo ricoperto, quand’era ancora nel pieno delle sue facoltà e circondato dalla massima stima e fiducia di tutta la comunità. Quando venne proposto per la carica di senatore a vita (inizialmente da Marco Pannella e fino ai primi anni Duemila da un numero crescente di sostenitori), finì per difendere il principio della distinzione degli ordini e quello della separazione dei poteri: la sua funzione non era quella della rappresentanza politica parlamentare, ma schierandosi al di fuori di essa non riteneva di dover imporre ad altri le proprie gerarchie. Eppure non meno di altri nominati al seggio avrebbe meritato lo scranno. In tempi ancora recentissimi, quando il figlio Ariel pubblicò un controverso volume sui rituali tradizionali della Pasqua ebraica, e veniva interpellato tanto come guida spirituale quanto e soprattutto in veste di uomo di cultura e persona di grandi competenze storiografiche, riuscì a non farsi prendere né dalle conflittuali interpretazioni maturate dagli studiosi ebraici (spesso inclini a vedere in posizioni di dissenso interno l’agio di nuovi attacchi alla comunità nel suo complesso), né dal paternalismo che molti sarebbero stati pronti a rinfacciargli. Scelse la via del paziente ammonimento: la libertà di parola non può essere negata, solo lo studio può però davvero fortificarla e le istigazioni alla violenza sono comunque e sempre da bandire.

Talvolta si è rimproverato al Toaff degli ultimi anni di aver rinunciato ad esprimere posizioni ferme sulla situazione medio-orientale e, in particolar modo, di non aver criticato i governi israeliani succedutisi, mentre si realizzava il timore presagito da tempo dai più fini cultori del diritto internazionale: la dissoluzione della continuità territoriale della regione palestinese. Su tali vicende, è opportuno e sperabile che resti buon arbitro l’istanza del confronto e della pace che tante volte Toaff perorò in vita. Essa non per tutti, del resto, coincide con l’assunzione di una precisa posizione politica e civile, ma quando è animata dalla buona fede il seme del dialogo può dirsi già gettato e sperabilmente pronto a portar pianta, e da lì il frutto.

Shalom Elio Toaff. 

Antonino Mantineo (professore ordinario Diritto Ecclesiastico e Canonico; Università Magna Graecia, Catanzaro) Felice Scalia (teologo gesuita) Giuseppe Silvestre (professore Istituto Teologico “San Pio X”, Catanzaro) Giuseppe Placanica (docente Scuola di Specializzazione Professioni Legali; Università Magna Graecia, Catanzaro) Domenico Bilotti Luigi Guzzo Stefano Montesano Maria Teresa Niutta

Doveri e fedeltà nell’Italia di oggi: miraggi, farse e prospettive

 di

Domenico Bilotti

Recensione al libro di Alessandro Morelli, I paradossi della fedeltà alla Repubblica, Giuffrè, Milano, 2013, pp. XIV-303 (Collana del Dipartimento di Scienze Giuridiche, Storiche, Economiche e Sociali, Università degli Studi “Magna Graecia” di Catanzaro)

Una considerazione preliminare: sono poche (troppo poche) le ricerche giuridiche in Italia che giustificano la propria tesi di fondo attraverso il ricorso ad un’immagine letteraria e, ancor meno, logico-linguistica. Da lettori, siamo abituati a questa strategia argomentativa dagli scritti di Alvaro de Oliveira o di James Boyd White (meritoriamente portati in traduzione al nostro pubblico dall’impegno dell’editore Giuffré). Tra le eccezioni, per quanto riguarda la dottrina italiana, segnaliamo, un po’ in ritardo rispetto all’effettiva uscita del volume, “I Paradossi della fedeltà alla Repubblica” di Alessandro Morelli. Ancor più, trattare dei doveri, in questo periodo, quando la dimensione pubblica è sottoposta a sempre più palesi arbitri e la sfera privata è inevitabilmente messa sotto stress da un fortissimo arretramento sociale, sembra un’operazione fuori moda, fuori contesto, destinata a non raccontar nulla sull’equilibrio reale dei poteri e, più preoccupantemente, sullo stato dell’effettivo esercizio dei diritti.

Il testo di Morelli, da questo punto di vista, riesce a superare ogni perplessità, anche perché, pur specificamente collocandosi nel solco della ricerca costituzionale, dimostra non occasionale attenzione al dato “etico”, pre-giuridico, che continua ad appartenere all’ordinamento positivo e che è attutito, privato del suo potenziale e pericoloso paternalismo, proprio dal riconoscimento e, meglio, dalla difesa del pluralismo. Adoperare il testo costituzionale come parametro di una ricerca, del resto, potrebbe apparire azzardato e scarsamente rappresentativo della coscienza comune, esattamente come parlare dei doveri: lo scontro nel Paese, o meglio: le parole d’ordine che abbiamo più spesso imparato a mandare a memoria, è tra un elogio della deresponsabilizzazione assoluta (la svalutazione del dovere, attraverso cui nascondere la sottrazione dei diritti) e un difensivismo oltranzista su categorie inservibili e statiche, come una sorta di primato intellettuale e morale, prima che giuridico, dell’interpretazione letterale della Costituzione, e dell’intangibilità dell’alto compromesso che la sostenne e rese possibile. Anche stavolta, Morelli si dimostra lucidamente non collocabile in nessuno dei due estremi: sfugge alle sirene della totale deresponsabilizzazione sociale, non si abbandona nemmeno alla pratica elogiativa del passato che fu contro il presente che è. E gli riesce bene, proprio perché, da conoscitore delle dinamiche costituzionali in Italia, sa perfettamente che anche nel chimerico “tempo andato” l’attuazione del disposto costituzionale tutto fu fuorché sempre attenta, adeguata, lungimirante.

Segnaliamo, tra le parti più interessanti del volume, al secondo capitolo un rapido e incisivo inquadramento concettuale sulla nascita del sistema repubblicano (pp. 37-65): se ne ammettono, sul piano strettamente giuridico, talune ascendenze romanistiche, come se ne recupera, almeno in parte, l’impalcatura mazziniana. Spesso abbandonata alla retorica del trionfalismo risorgimentale (o antirisorgimentale) e, in verità, non troppo studiata sui suoi presupposti storico-teorici, invece in qualche misura utili anche alla lettura della contemporaneità e della “postmodernità”. Piace alla stessa maniera, nei capitoli III e IV (pp. 71-184), l’influenza di una certa dottrina liberal-democratica nord-americana, laddove si parla di original intent e original public meaning dell’articolo 54 della Costituzione (il dovere di fedeltà, appunto) e si propone, subito a seguire, una critica alla concezione kelseniana che svuota la giuridicità del dovere di fedeltà, proprio perché restringe il suo sguardo a un positivismo convenzionale, dove più che il contenuto della singola norma è sotto la lente del giurista il rapporto tra le diverse norme all’interno del sistema giuridico.

Non mancano, ovviamente (e sono tra quelli che si consigliano), i lati dell’opera che più riguardano vicende realmente vicine allo sguardo del lettore. Innanzitutto, traspare una appassionata difesa della garanzia dei diritti sociali, inquadrando l’Autore il dovere di fedeltà proprio a fondamento di una solidarietà politica. Qui, Morelli immagina tale dovere anche nei confronti delle generazioni future, una solidarietà non meramente anagrafica, molto diversa dal “patto tra generazioni” troppo spesso sbandierato dalla nostra classe politica: quel patto è già avvenuto ed è proprio l’istituto familiare (si spera: un po’ più largo di come si presterebbero a vederlo le letture di comodo dell’articolo 29 della Costituzione) a tenerlo in piedi. E piace pure che il volume ripercorra, con la rapidità funzionale a non togliere carne all’impianto del libro, alcuni temi molto dibattuti – dall’obiezione di coscienza alla configurabilità di alcuni trattamenti sanitari obbligatori, dall’inservibilità del diritto di cittadinanza jure sanguinis ai delitti contro la personalità dello Stato. E se non è infondato provare addirittura a ricercare soluzioni altre, rispetto a quelle suggerite dal Morelli, in via interpretativa, certamente “I Paradossi della fedeltà alla Repubblica” ha il merito di sondare e tenere unite tante piste, di grande e avvertita attenzione.