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Riposta alla risposta di Giorgio Cesarale al mio Illuminismo su «Astérisque»

Può darsi che nel mio scritto sull’Illuminismo vi sia qualche frettolosità e qualche semplificazione circa il punto che Giorgio Cesarale – nel Commento al mio articolo Illuminismo, «Astérisque», I 1, pp. 27-38, 39-46 – più mi rimprovera: la mia polemica contro l’idea di totalità, dell’intero e le sue conseguenze. Intanto sgombererei il campo dalla previa connessione della totalità con il misticismo. Non che il nesso non vi sia, ma il mistico si dice in molti modi, alcuni dei quali sembrano persino inseparabili dal filosofare e dalla comune esperienza. Se affermo che sono e mi sento parte di un più vasto organismo, al limite dell’intero genere umano, che condiziona il mio modo di pensare e a cui interamente mi rimetto, non si vede perché questa posizione dovrebbe essere censurata. Semmai il problema nasce qui dall’interno, quando hegelianamente comincia a presentarsi nella storia un’individualità che, al modo di Antigone, esorbiti, mettendola in crisi, da una comunità fino ad allora «totalitaria». Ma questo apre, come si vede, un altro problema: dove mai lo holon sociale potrebbe essere detto senza l’interna determinazione delle soggettività? La totalità dovrebbe essere allora costituita dall’insieme, dai singoli e dalle loro relazioni. Solo che in questo modo ci incamminiamo lungo una totalità composta di parti che nell’atto stesso nega ciò che qui c’interessa: un insieme che riduca a sé tutte le interne determinazioni e differenze, dove le soggettività e le «cose» non oppongano nessuna resistenza al loro assorbimento nel tutto, nessun ostacolo all’immane potenza unificante dell’intero. Parmenide esplicitamente esclude che l’intero dello sfero possa mai esser composto di parti, ciò che implicherebbe anzitutto la discontinuità di spazio e di tempo, la presenza di determinazioni. Ma, di contro, ogni volta che una determinazione e una differenza trovano posto, che il pensare-dire sia agito dal tronco aristotelico, nominando alcunchè è negata la forza esclusiva dell’intero, la totalità come reale dominio della conoscenza. Possiamo per queste ragioni tralasciare ora una piena presa d’atto del problema del misticismo, che o è un altro modo di dire la totalità o si risolve in vario modo nell’esperienza comune del gioco tra un intero e le sue parti.

         Ma venendo ora propriamente alla «totalità», si può dire tanto che è una costante tensione, in certo modo ineliminabile dal pensiero, tanto che è un «luogo» dove il pensiero rischia di perdersi interamente, trovando un’annihilatio proprio al termine delle sue più alte prestazioni, una riconduzione a quell’oscurità da cui ci si è faticosamente distaccati. Ora, perché l’intero è legato a quelle determinazioni che pur fondano l’essenza del pensare? Un primo motivo, vien fatto di dire, è che le stesse determinazioni, nonché imporre la loro presenza, vengono, in una prospettiva dualistica, «costruite» o guadagnate, separate dalla (costruita) «totalità» che in qualche modo pur ci costituisce, attraverso le relazioni e le scissioni che affettano, a cominciare dalla corporeità e dall’affettività, la nostra soggettività. Il puro pensare deve, fino a un certo punto, liberarsi da questo peso dell’intero, non al punto però da non ritrovare nel suo cammino l’esigenza e la periodica verifica, anzitutto, di quell’insieme di mente-corpo, di cui si può fare epochè ai fini del pensare (fino a un certo punto, ripetiamo), ma che non si può mai presumere di vanificare del tutto. Anche le più trite e discutibili definizioni dell’uomo come zoon politicon, animal sociale et politicum esprimono a loro modo un «insieme», la cui traccia non si può mai lasciar cadere. Per questo aspetto dunque si deve dire che «l’intero» ci abita e che con esso, dentro di esso, lavoriamo, depurandolo e isolandolo per raggiungere la distinta chiarezza (quasi un innesto di Freud in Cartesio) delle determinazioni. Ci sono infinite cose nell’uomo e nell’atto del pensare che, oscuramente giacenti sempre al fondo dei nostri pensieri, possono talvolta ricomparire con forza all’interno e dentro la semplice e netta riflessione, una «totalità» che va ogni volta controllata e dominata, e semmai fatta giocare con la parzialità e la finitezza.

      Dal lato della conoscenza, a parte obiecti, la totalità si presenta per il fatto che la determinazione, come pensare-agire, sposta sempre in avanti il suo limite, quasi un orizzonte che appena raggiunto presenta subito, in un mondo sferico, un’ulteriore meta. Il senso dell’oltre, la dimensione umana che è al tempo stesso, come in Ulisse, segnata dalla fondamentale finitezza, ma anche dall’apertura all’infinita «totalità», fa sì che la tensione all’intero, mai del tutto debellabile, e anzi essendo anche produttiva, deve essere ricondotta e ricomposta ogni volta dalle ragioni del finito, dall’imprescindibile orizzonte di ogni conoscenza. Se  mai l’idea della totalità si attuasse per intero, prendendo corpo e dominio, risolverebbe in sé, dissolvendola, ogni soggettività, ogni pensiero e ogni teoria critica; ma al tempo stesso una «totalità» parziale, ristretta (e capricciosa), per servirsi di questi ossimori, sembra sempre aggirarsi, certo per essere fondamentalmente dominata, nelle nostre esperienze, ma anche talvolta per far da lievito, una volta ricondotta alla dimensione del finito, alle nostre più alte e significative pratiche. Lo sforzo della determinazione comporta anche costi, persino alti, di introspettiva autolimitazione, di sacrificio, sebbene ineliminabile perché si dia la sua produttività.

      Diverso è il caso di quanti problemi una determinazione abbracci, e nel tempo, o fin dove s’estenda la sua rete. Qui vi è certo differenza tra le determinazioni, a volte circoscritte e a volta di larga portata, intensive ed extensive. Non si vorrà negare questa differenza, né l’invito a non abbandonare il terreno dei grandi problemi o, come si dice con qualche sdegno delle grandi «narrazioni», per affidarsi solo a quei piccoli interventi che popperianamente si dicevano «a spizzico», o   alla «metafisica del potere», alle lotte sempre «circoscritte e locali» di Foucault, dopo l’abbandono, stimato necessario, dei «progetti globali e radicali». Ché altrimenti – come giustamente osserva Giorgio Cesarale – rinunciando a ogni più ambiziosa tensione critica, ci lasceremmo «determinare da strutture più generali di cui rischiamo di non avere né la consapevolezza, né la padronanza». Ma allora il caso consiste veramente nell’affrontare e riformulare la problematica drammaticamente difficile della totalità». proprio in questo caso si deve badare, come più facile deviazione, che i problemi più larghi e comprensivi slittino, proprio per questo, in un non ammissibile esito di «totalità».

S’innesta proprio qui, intorno alla discussione sul «difficile problema della totalità» la recensione-discussione di Giorgio Cesarale al mio articolo, fatto di apprezzamenti e critiche. Di ciò dirò solo poche parole, sia perché ognuno può leggerlo e giudicarlo da sé, sia perché la discussione sarebbe piuttosto tecnica e complessa, sia infine perché dovrebbe avvenire in absentia di Giorgio. In breve, la parte in cui siamo discordanti, come si legge nella conclusione dell’intervento di Giorgio, riguarda l’inizio del nostro filosofare, il «cominciamento» della stessa filosofia o scienza, come accade in apertura della grande Logica di Hegel. Giorgio ritiene che la filosofia giunga a verità e forza critica solo quando cominci e si mantenga nell’orizzonte dell’assoluto. Questo vuol dire che dalla filosofia debba essere esclusa ogni considerazione empirica o pragmatica, come sarebbe la dualità di essere e pensare, di io e mondo; e ciò potrebbe avvenire, come nel radicale idealismo della filosofia classica tedesca, solo se è il pensiero che pone a sé il suo stesso oggetto, scoprendosi non si sa come «essere» o anche «creatore del mondo», in concorrenza col Dio specificamente cristiano, non demiurgo ma creator ex nihilo. Questa identità parmenidea tra pensare ed essere, noein kai einai, dovrebbe ritrovare al suo interno (dedurre/causare) determinazioni e differenze, l’intera ricchezza del mondo, pur in una totalità priva di condizioni e con risultati che appaiono sempre «posti». Da parte mia ritengo invece che la filosofia può e debba nascere, più o meno in senso kantiano, solo dall’empirico e dal finito, da un dualismo originario, seppur subito rinvenibile nelle attività stesse del soggetto. Il risultato di questo così diverso inizio del filosofare è sconcertante, perché entrambi ci rimproveriamo, da due angoli diversi, la stessa cosa. Io dico che una prospettiva come quella di Giorgio che muova da una totalità che attraverso la totalità pervenga alla totalità non riuscirà mai a incontrare ed elaborare determinazioni e vita «reale»; Giorgio a sua volta mi rimprovera che sono io a non incontrare mai reali determinazioni, perché, essendo la mia prospettiva interamente empirica, le pretese determinazioni, innovazioni e differenze ripeterebbero – ma allora facendo intervenire il non congruente uso del trascendentale – senza alcuna consistenza, sempre e all’infinito, una sostanziale identità. Ora questa «bizzaria» non è suscettibile di ulteriori svolgimenti: monismo ontologico e dualismo sono entrambi presupposti infondati e infondabili, privi di dimostrazione. Forse – è la mia convinzione – è meglio abbandonare del tutto questo terreno di «filosofia prima», occupandoci di illuminismo militante e della mondana «filosofia» che esso di volta in volta genera.

Servirsi di un kantiano «pensare largo», ma al tempo stesso non rinunciando alla forza che proprio le determinazioni conferiscono alla nostra azione teorica e pratica, è il grande compito che la riflessione (in senso kantiano) deve oggi affrontare, cercando di ricondurre a ciò anche imponenti filosofie che abbiano passato questo segno. E poiché sono stato contrapposto al più forte pensiero di Foucault – un autore verso cui nutro qualche diffidenza, ma di cui si dovrebbe tornare a discutere, non fosse altro per la profluvie di scritti e discorsi che gli archivi continuano a sfornare ma anche per la sua complessa (e riduttiva) posizione verso la «filosofia politica», magari riprendendo quel confronto con Hanna Arendt cui da tempo è stato spesso associato, per similitudine o pur solo per differentiam – vorrei finire questa breve analisi con una citazione foucaultiana, con cui sono interamente d’accordo, tratta dalla conclusione di Il coraggio della verità:

«ma ciò su cui vorrei insistere, per finire, è questo: non vi è instaurazione della verità senza una posizione essenziale dell’alterità; la verità non è mai il medesimo; non può esserci verità che nella forma dell’altro mondo e della vita altra».

2)  Su dualismo e assolutismo della totalità come posizioni ultime, non fondabili

La mia discussione con Giorgio potrebbe esser detta ‘Filosofia e illuminismo’. L’I ha bisogno della filosofia? Sì, anzitutto come determinazione di un ambito, sia pur impegnativo, di storicizzazione e concettualizzazione delle singole posizioni illuministiche nell’ambito dell’I stesso, nella vicenda più  larga dell’intero I, ma senza trascendere i confini dei prodotti culturali dei fenomeni detti illuministici. Esempio insuperato di ciò resta forse la Filosofia dell’illuminismo di E. Cassirer, che si occupa di due secoli quasi pieni, il ‘600 e il ‘700, come sfondo dei temi illuministici. Chiamerò ciò Illuminismo-Filosofia (IF), che riguarda la sola filosofia richiesta dall’I. C’è poi un più vasto regno della filosofia, che potrebbe, in ipotesi, mettere a tema e smentire, al di là della storia, gli stessi risultati dell’IF. Non si può dunque abbandonare questo piano più largo sui fondamenti e le intere pretese suscitate da ciò che dirò Filosofia-Illuminismo (FI). Il problema è qui allora di capire quale filosofia possa essere omogenea alla FI e quale invece finisce per negare la stessa IF.

Qui, propriamente, nasce il dissidio tra me e GC. Se io cerco di tracciare alcuni punti di questo retroterra filosofico della FI, GC. mi sembra volto subito a far riferimento a una filosofia molto forte, qual è quella che riguarda l’assoluta totalità, che ha l’illuminismo come un sottoprodotto di cui si può parlare solo in quanto la FI ha trovato posto nell’ambito dell’intero, dell’hegeliano «ganz». Una deduzione e un compito che, mi pare di capire, ancora non hanno avuto adeguato sviluppo filosofico perché sembra che l’I possa rinascere solo quando i problemi come quello della totalità siano avviati a soluzione.

    Ho detto sopra che a parer mio iniziare (e sviluppare) la filosofia dal punto di vista dell’assoluta totalità o dalla finitezza «dualistica» non è di per sé produttivo, in quanto questi due cominciamenti sono altresì la colonne d’Ercole del filosofare, ossia che essi sono né fondati, né fondabili. Tuttavia è anche necessario che – prima di abbandonare il campo per passare, eventualmente, all’I militante – si tenga conto di un’ultima considerazione, riguardante non tanto la cosa in sé quanto piuttosto i suoi fruitori. Se la discussione si articola intorno al concetto di totalità, abbiamo a che fare con un concetto così forte da ridurre a sé ogni altra questione.

Mi preme qui richiamare come l’orizzonte della totalità attiri a sé anche a parte subiecti, vale a dire che la stessa argomentazione è ricondotta al suo tema, essendo anch’essa composta di «proposizioni assolute». Anche saltando qui il problema del pensare-dire, non evitabile nemmeno aristotelicamente, resta che il discorso sulla totalità deve essere sorretto dal concetto di assolutezza, e ciò suppone che, non essendoci più totalità, unica sia la forma e il contenuto della sussunzione, esibizione (anche qui non dimostrazione) e della sua argomentazione, sorrette da una sorta di «pensiero unico».

Dalla mia prospettiva di pensiero finito e «dualistico» le cose stanno diversamente, nel senso che si danno (e si mantengono) reali possibilità di lavorare quelle che ho chiamate «determinazioni» e «differenze», senza divieti da parte della filosofia.  Per quello che ora ci riguarda, vi sarà in questa prospettiva una pluralità di possibili opzioni filosofiche, una diversità ad esempio delle concezioni circa il bene, senza quella sorta di «ricatto» che il pensiero della totalità fatalmente esercita verso gli interlocutori, forzati ad accettare tutti lo stesso pensiero ché la totalità conoscerebbe solo se stessa. C’è per la verità la tradizionale risposta a ciò della filosofia, quando distingue episteme e doxa; ma il problema è qui come possono stare insieme queste due forme, dallo statuto così diverso, con difficoltà che riguardano lo stesso tentativo di pensare anche una recta ratio (orthos logos).  Le colonne d’Ercole s’incontrano solo quando il pensare finito e «dualistico», tenta di trasporre in termini «fondanti», ontologici e metafisici, questo stesso orizzonte finito e duale, quando si ponga la durezza della «cosa in sé». Non traggo ora la necessaria conseguenza per cui come la posizione della «totalità» è incompatibile con ogni forma di empirico illuminismo, così, parimenti, la democrazia che almeno abbia qualche consistenza e consapevolezza di sé non è pensabile in questa tensione all’assoluto.  Ma prima di ciò, la posizione che parte dal finito lascia a tutti la liberale e goethiana facoltà di pensare i condizionati e i plurali modi dell’illuminismo.

 

 

La fede nella ragione critica ed emancipativa nel lavoro di Stefano Petrucciani (SP).

Una riflessione di Mario Reale sul pensiero e la ricerca di Stefano Petrucciani in questi anni di attività accademica. Discorso tenuto presso il dipartimento di Filosofia della “Sapienza” in Roma il 14 novembre 2023. Il presidente di Filosofia in Movimento traccia un profilo intellettuale del filosofo e studioso romano.

 

Il primo libro di SP dal titolo Ragione e Dominio. Autocritica della razionalità occidentale in Adorno e Horkheimer, Salerno Editrice, 1984, meriterebbe senz’altro, a quarant’anni esatti dalla sua uscita, una seconda edizione. Anzitutto perché, con padronanza dei testi e della letteratura critica, vi si esamina, in una sorta di amplissimo commento a Dialettica dell’illuminismo, la prima opera a quattro mani dei due fondatori della «scuola di Francoforte», e quindi perché vi sono chiamati in causa e discussi con acutezza, molti e impegnativi autori rilevanti per il tema prescelto: da Hegel e Marx, a Schopenhauer, Nietzsche e, con particolare cura, Lukàcs. Ma, più ancora, il testo si raccomanda per la maturità e novità dell’interpretazione che, per illustrare un’originale tesi circa la critica all’illuminismo dei due autori, si serve di tutte le possibili risorse della «razionalità occidentale», nella convinzione che mai dalla ragione – né sembri una cosa ovvia – si possa uscire, e che per «ragione» debba intendersi uno strumento  critico e d’intrinseca ricchezza, come già in nuce nel pensare-dire di Aristotele in Metafisica IV, 4, quasi alle origini della tradizione del pensiero nato in occidente e che Kant riconosceva ancora necessariamente nostro. Da ogni immersione critica la ragione sembra riemergere quasi chiedendo una nuova definizione, poiché esce rafforzata ogni volta che, conoscendo il mondo, allarga altresì la sua forza e la consapevolezza di sé.

La ragione è una realtà che si mantiene, per quanto forti siano le critiche che possano esserle rivolte, e che debbono essere di necessità risolte per SP in auto-obiezione, in un movimento che va entro di sé, per uscirne più avvertito e vigoroso. Sembra ovvio e persino banale, ma non lo è. Tutti cerchiamo in un certo modo la ragione, la perenne ragione occidentale – quella stessa di Hegel, nonostante tutto, e di Marx – ma nel duro lavoro perché essa si affermi, aprendosi alle più pressanti novità (perciò nella tradizione «occidentale»), estendendosi e acuendosi, rischiamo spesso, ora più ora meno, di lasciarci travolgere da questo bisogno di critica, dalla specificità e autonomia di taluni problemi o campi del sapere, fino a smarrire la forza unitaria dello stesso soggetto di queste operazioni, o, in altri casi, fino a dichiararlo persino sistematicamente diverso e contrastante con la ragione. Al contrario, SP è, nei riguardi della ragione, come un chierico cha abbia già pronunciato da tempo i suoi voti solenni, attenendovisi poi rigorosamente e à jamais; o come il cristiano consapevole che i dubbi e l’ateismo sono ciò da cui sempre la fede deve riemergere. Semplicemente, ma in modi nient’affatto semplicistici, quasi fosse una raison illuministica vista come modesto e già segnato approdo, nella selbst-Darstellung di un suo libro, SP dice in modo piano – ed è la cifra propria di tutto il suo lavoro – di aver svolto la sua ricerca «senza nulla concedere all’irrazionalismo». Della ragionevolezza, per così dire, della ragione è ineliminabile compagna, in uno scavo che, come s’è detto, non termina mai, la sua «autocritica», che già la specificazione di «occidentale», nel suo aspro e contrastato cammino, lascia intravedere.

Questa fiducia – ma direi proprio anche fede – nella ragione, nel parler raison, è così forte, costitutiva in SP che non teme di affrontare, senza paura di perdersi, le sfide più ardue e perigliose, quando altri abbandonano il campo o lo circondano di numerosi schermi gergali e fumosi. La cosa è evidente già in questo stesso libro a proposito di Adorno. Molti direbbero che il sospettoso critico della ragione, sia il meno adatto a comprovare l’assunto di cui parliamo; ma SP è un «credente» che non si lascia smuovere né commuovere, ché anzi è disposto a iscrivere impavidamente nelle fila dell’universale ragione anche Adorno e il suo sodale Horkheimer di Dialettica dell’illuminismo, del resto molto amati, quando si tratti di ricondurre a ragione il nero, sfuggente e quotidiano campo, del «dominio». La sfida forse maggiore è consistita nel salvare Adorno dalle dure critiche che Habermas gli riservò nel Discorso filosofico della modernità, un testo d’altra parte fondamentale tra i points de repère di SP: esemplare è il modo in cui SP si pone contro l’attacco di Habermas ad Adorno, finemente riconoscendogli ragioni e un sostanziale torto.

L’altro termine del titolo, Dominio, non mi risulta essere un termine del lessico marxiano e marxista, nemmeno come Herrschaft del capitalista sull’operaio (ma con l’eccezione, almeno, di Gramsci, per il quale «dominio» è termine chiave come apparato coercitivo dello Stato novecentesco, in coppia con il diverso momento di direzione, consenso ed egemonia); con i francofortesi sta qui a significare, le forme di oppressione sugli altri uomini e su se stessi al di là, non fosse che per il trascorrere del tempo con le sue novità, delle distorsioni ormai canoniche, diagnosticate e combattute da Marx, e poste a base, da Adorno e Horkeimer, di ogni teoria critica ai fini di un’emancipazione sociale e politica: dalla famiglia e dalla riproduzione della vita, dall’«autorità» in generale, fino insomma a ciò cha accade prima e dopo la stretta sfera economica, persino del tempo libero e del divertimento. La ragione, d’altra parte, come s’é detto, se vuol essere pari a se stessa, deve poter mostrare un incessante volto critico, abbracciando e valutando ogni aspetto delle ferite e dei danni che gravano sulla nostra vita, mettendo sempre in campo, appunto, un’«autocritica». Ma con questa più vasta opera la ragione, qualificata subito come «occidentale»,  si muove entro l’unico modo di ragionare che, da Aristotele a Kant e fino a noi, si conosca; e, infatti, con movenza hegeliana, il pensiero torna indietro nello scavo intensive per andare avanti,  giungendo al suo risultato attraverso un’autocritica della ragione stessa, che mentre conosce allarga altresì la sua capacità di comprendere, riemergendo ancor più forte da ogni esercizio critico.

Cercherò ora, a partire dall’ultimo libro appena uscito di SP – La Scuola di Francoforte, Carocci 2023 – di andar dietro geneticamente, fino appunto al capostipite Ragione e Dominio, avanzando in breve qualche motivo che è caratteristico dell’intera produzione scientifica di SP. Con l’avvertenza tuttavia che si tratta di note sparse, che avrebbero bisogno di ben altro impianto e spazio, poiché così come si presentano non sono sufficienti né intensive né estensive a dar conto dell’imponente ricerca di SP in più di 40 anni di intenso lavoro. E, Francoforte essendo non un luogo fisico il cui cuore, pur avendo dato i natali a Goethe, batte al ritmo delle quotazioni in borsa, ma una sorta di categoria dello spirito, una Geistige Heimat per SP, bisogna presupporre la presenza della sua ‘Scuola’, per lode o per qualche biasimo critico, in tutto ciò che verrò dicendo, anche quando non sia apertamente nominata.

La mia prima nota riguarda, come premessa, lo stile o il bello scrivere di SP, subito in qualche tacita opposizione alla prosa di Adorno. Benedetto Croce ha scritto che solo chi pensa bene scrive bene. Forse l’affermazione è troppo perentoria, gravata da un numero eccessivo di eccezioni, ma certo è che la prosa detta in senso largo «scientifica» (ossia non d’arte) ha molti scrittori «ben pensanti» al suo attivo, in una tradizione cui esemplarmene appartiene (o ne è per altri iniziatore), secondo una storia molte volte tracciata, Galilei e in cui si iscrive lo stesso Croce in quanto, è stato scritto, costituisce il «più grande prosatore italiano dopo Manzoni» (Benjamin Crémieux). Non voglio farla lunga, ma SP s’iscrive, a suo modo certo, in questa corrente le cui caratteristiche sono la chiarezza, la concretezza, la precisione e la vicinanza il più possibile al linguaggio comune, come voleva lo stesso Galilei. La notazione non è affatto irrilevante se si pensa che nei pensatori di cui SP si occupa c’è non di rado gergo o vertigine dell’oscurità e che è suo point d’honneur sciogliere ogni pesante ostacolo linguistico nella più limpida forma possibile, tanto ch’è un vero piacere leggerlo.      Anche per questa tersità di scrittura, SP è divulgatore e mediatore tra culture di alta classe, come per esempio nella curatela della difficile Dialettica negativa adorniana, o nella laterziana Introduzione ad Adorno, che volge in buon italiano un pensiero originariamente espresso in prosa avvoltolata, capricciosa e sincopata. Adorno ha scritto un saggio per aiutare i lettori a leggere la difficile prosa hegeliana, posta sulle orme dell’antico Eraclito: ’Scoteinos, ovvero come si debba leggere uno scrittore oscuro come Hegel’ (in Tre studi su Hegel, ed. or. 1963, tr. it il Mulino 1971); ma Adorno stesso ha bisogno, per essere compreso ed esplicato, di traduttori e commentatori come SP, che assumono su di sé il difficile compito di tradurre il «traduttor d’Omero», il caliginoso Adorno. La chiarezza infine è pensata da SP quasi come un compito civile e morale verso i suoi lettori, che perciò gli dovrebbero essere riconoscenti.

La prima cosa di merito su cui ora mi soffermerò è la fedeltà di SP ai suoi temi, e dunque anche a se stesso. Questo può essere anche un limite, quando si continui a lavorare per anni un ristretto campicello; ma non c’è affatto pericolo che questo sia il caso di SP, la cui vastità d’autori e d’interessi è notevole. Ciò vorrà dire allora che non vi sono nel suo lavoro né retractationes di ciò che è stato fatto fin lì, né – refrattario SP a ogni moda, anche quando si occupi di autori alla moda come Marcuse – interruzione della continuità d’interessi in cui irrompano prospettive diverse e di segno al tutto contrario. Le vie sono classicamente segnate da SP fin da da quando era giovane, e il suo lavoro di ricerca consiste principalmente perciò in un lavoro di scavo e approfondimento, di un hegeliano tornare indietro per andare avanti. Già i due libri che abbiamo ricordati, il primo e finora l’ultimo, si occupano di una costellazione vasta di autori e problemi. E SP sa bene come allargare in mille modi questo dominio già non modesto. Penso ad esempio alle tre sillogi tematiche einaudiane che SP ha dedicato a: Modelli di filosofia politica (2003), il capostipite che io amo di più, Democrazia (2014), Politica (2020). In questi brillanti, acuti e del tutto attendibili exploits, non c’è affatto ripetizione del già noto, ma fili di domande originali che danno riperimetrazione e profondità al campo di lavoro. Ed è come fare ogni volta i conti con un intero sapere, che certo è costituito, per SP anzitutto dalla filosofia politica, in senso largo, con i suoi temi e autori, con la sua storia che giunge fino alle realtà che cominciano ad affiorare o si sono appena aperte – ma all’insegna di «novità» di cui vorrei segnalarne almeno due, riguardanti la storia e la filosofia, le due fondamentali conoscenze che Croce diceva geminae ortae.

La prima è la consapevolezza che la filosofia politica, come gli antichi fino Machiavelli ci hanno insegnato, riposa sulla storia tout court, storia come accadere di eventi in cui la politica è saldamente iscritta – attraverso i molti «accidenti» di Machiavelli o, attraverso la sua fonte polibiana, le molte lotte e fatti e peripezie (dia polllon agonon kai pragmaton) – potendo solo di qui trascorrere in idealizzazioni e persino in utopie. Per esempio, ricchi e poveri sono in Aristotele materia direttamente politica, quel che non saranno più in età moderna, quando la stessa complessità dei problemi e l’irrompere sulla scena politica di grandi masse renderanno necessario l’uso dell’astrazione con tutte le sue possibili mistificazioni, donde il limite di immediatezza in taluni dei pur notevolissimi scritti giovanili di Marx, come la Judenfrage. Il senso storico di SP è così vivo da trapassare talora, nelle sillogi di cui ho detto, direttamente nella storia generale cui a volte sono dedicate specifiche rubriche a riscontro di temi e figure filosofico-politiche; ricordo qui solo la Parte prima di Democrazia, con rubriche dedicate tutte e solo alla storia generale (v. per es. pp. 64-79).

 L’altra novità sta nel modo d’intendere il rapporto di filosofia e politica nell’endiadi o sintagma «filosofia politica». C’è qui un pericolo che troppo spesso mi pare non venir scansato, quello cioè di intendere che la filosofia in quest’ambito sia solo quella che serve ai fini di un sapere politico: non di più, e trattato allora nelle convenienti e modeste maniere. Ma non è così, non esistono filosofie solo «locali» e la filosofia è sempre una. Non so, forse era meglio la dizione di Croce, che diceva «filosofia della politica», quasi un intero che si volga ad esaminare particolarmente un ambito della realtà, non una filosofia ricavabile volta a volta dal proprio oggetto. Fatto è che SP è innanzitutto un filosofo tout court, un filosofo «puro», non a caso formato alla scuola di Gennaro Sasso, che si occupa spesso o prevalentemente di politica, mantenendo tuttavia integra e piena la sua capacità di filosofare, a qualunque oggetto si volga. La filosofia nella sua interezza non è affatto un orpello o una belluria per il pensare politico e persino per la «Scienza politica»; tutt’al contrario fornisce non solo rigore logico, ma anche criteri ermeneutici, la capacità di proporre nuove tesi e suggestioni al pensare politico.

Quel che dico riuscirebbe alquanto astruso se non indicassi subito un esempio di ciò che intendo, ricordando uno dei libri più belli di SP, anche se forse non tra i più noti, che s’intitola Etica dell’argomentazione. Ragione, scienza e prassi nel pensiero di Karl-Otto Apel, Marietti 1988 (di cui, come per Ragione e Dominio, mi sembrerebbe molto utile una seconda edizione). Come Apel non è un filosofo politico, se non indirettamente per la congiuntura che lo accostò in un certo tempo ad Habermas, egli stesso non proprio filosofo politico, così del pari SP si tiene qui a questioni squisitamente filosofiche quali la «Fondazione della razionalità e l’idea di semiotica trascendentale», o «Spiegare e comprendere», e così via. Forse è evidente già di qui, inoltre, che questo non è un libro di storia della filosofia, ma di puro esercizio di filosofia in atto. E siccome neanche questa distinzione è del tutto ovvia nel senso che vi sono esimi cultori della storia della filosofia, che non hanno alcun senso e orecchio e gusto di quel che sia veramente filosofare, mi piacerebbe, se avessi tempo, soffermarmi su qualche problema determinato per mostrare cos’è questo filosofare nel libro di SP, seguendolo in esempio circa la domanda sull’«argomento migliore», se c’è e in che consista, un tema dibattuto nella prospettiva dialogica e deliberativa.

Nel denso Prologo a Modelli di filosofia politica, la silloge che m’è più cara SP s’interroga proprio intorno a questo problema, al fatto cioè che la filosofia politica «prima che essere politica è filosofia». Con Leo Strauss si osserva che ogni domanda su ‘cos’è la filosofia politica’ ne presupponga un’altra su ‘cos’è la filosofia’, domanda necessaria per un sapere non codificato, non avente un suo indiscutibile statuto. E’ sconsigliabile ora, ché mi porterebbe via molto tempo, soffermarmi su quale sia il concetto che SP ha della filosofia – che rinvia in generale a un metodo di «argomentazione pubblica, critica e aperta», in una sorta di «ininterrotto dialogo argomentativo», in un «continuo scambio di ragioni e critiche», nella ricerca di «argomenti persuasivi». Gli «strumenti del dialogo razionale» vengono impiegati per dirimere e innanzitutto impostare i grandi problemi della filosofia.

Ma qual è ora l’indirizzo metodico generale nello studio di questi problemi? SP si occupa spesso della classica distinzione tra approccio «normativo», che lui predilige, o approccio «realistico» alla filosofia politica – me ne occupo qui a partire dalla densa e bella ‘Parte prima’ di Politica. Una introduzione filosofica, Einaudi 2020. Il quadro generale entro cui SP si iscrive (e che ha irrobustito anche un mio personale convincimento) è che in ogni seria considerazione di filosofia politica, o della sua storia, non possa mancare né il momento normativo né quello realistico. Pare un asserto ovvio, ma non lo è affatto. Le resistenze maggiori a questa  pacificazione, e dunque la permanenza in una guerra, vengono forse dai «realisti», attaccati platonicamente alle rocce, e sospettosi di ogni posizione che esuli dai cosiddetti «fatti» e dalla loro inaggirabile durezza. Ciò che soprattutto disturba questi austeri esprits forts, che, a partire dal Trasimaco e dal Gorgia di Platone, sempre affermano solo il diritto del più forte, è la presenza di un’antropologia comprensiva della capacità umana di morale e giustizia politica, in un vacuo discorso aperto, come si rimprovera loro, alle sirene dell’ideologia. Ma certo è, d’altra parte, che, sia pur non sempre sottraendosi esso stesso a configurazioni ideologiche, il realismo smaschera pigre abitudini, fa pulizia di ciò che Hegel  chiamava la «pappamolla del cuore», ed è essenziale a ogni seria considerazione della realtà.  I grandi scrittori realistici si leggono volentieri e c’è sempre da imparare da essi: da Tucidite a Machiavelli a Hobbes agli stessi Hegel e a Marx. In conclusione, SP mostra una buona dose di realismo e di critica profonda, che fanno così parte del suo bagaglio culturale, tanto da indurlo a scrivere in questa vena uno dei suoi saggi più belli dal titolo: «Democratizzare la Democrazia. E’ ancora possibile?».

Ma la sfera della morale costituisce, a sua volta, essa stessa un «fatto», una realtà dell’umano che, senza bisogno di alcun fondamento né ora di più complessi ragionamenti, si dà – es gibt, o es geht so – è qualcosa di cui nessuna teoria critica, benché sofisticata, potrebbe fare a meno, e che da parte mia risolverei, con Hobbes, nelle forme della socialità, distinte dai precetti religiosi. Del resto credo che, tra i due campioni moderni del realismo, Machiavelli e Hobbes, così come per certi versi anche in Hegel e in Marx, le cose siano più complesse. Machiavelli non può essere iscritto tout court all’ordine di un radicale e totale realismo, perché non può esser privato della volontà controfattuale di mutare il mondo e mutare se stessi (un centrale passaggio come si vede nella rigidezza dell’esser o impetuosi o rispettivi). Machiavelli fa in realtà ricorso – oltre che a realistici strumenti, come la volontà di un Principe o la ferma costruttività delle leggi repubblicane capaci di creare una seconda natura dell’uomo posta politicamente – alla risorsa morale, etica e persino profetica, dell’ultimo capitolo del Principe, o della «società bene ordinata» dei Discorsi. L’ardita costruzione di Hobbes d’altra parte, l’Hobbes’s argument, non potrebbe mantenersi senza la decisiva risorsa morale della legge di natura ai fini dell’ingresso nella politica.

Se moralità e realismo vanno sempre insieme, sospetta è allora la scelta di un criterio contro l’altro. SP, che pur potrebbe falsamente apparire, richiamandosi apertamente a questa impostazione, un deciso ed esclusivo normativista, non manca affatto di un chiara esigenza realistica, che lo distingue anche da tutti gli ingenui seguaci del solo dover-essere. Il realismo è decisivo come condizione di possibilità e al tempo stesso esito dell’intero discorso argomentativo e deliberativo. In generale a me sembra che SP ascolti con passione e interesse lo svolgersi nel mondo delle cose politiche. Solo che – oltre a considerare il piano della filosofia politica posto in un piano più alto delle mutevoli contingenze – non ama critiche che cerchino di mettere in crisi, nella loro puntualità, il suo intero apparato categoriale di riferimento, per esempio riguardo alla democrazia considerata a muovere, realisticamente, da quella  che conosciamo oggi. Per SP la democrazia, a partire dal così  come la sperimentiamo oggi, costituisce un obiettivo che, nonostante le esuberanti difficoltà del caso, si deve mantenere sempre sullo sfondo, contro le repubbliche «democratiche» solo «immaginate», come diceva Machiavelli, che mai si sono «viste né conosciute in vero essere» (Principe XV); o contro le forme antiche o di spericolate e irraggiungibili o persino sconsigliabili proposte di democrazia: una realtà che per SP si legge essenzialmente nel mondo moderno, tra liberalismo e (eventuale) socialismo (o altrimenti come consapevole e diretto prodotto «engelsiano» del movimento operaio con il modello da altri imitato del suo grande partito socialdemocratico di massa). Le grandi famiglie che costituiscono l’ossatura del pensiero politico moderno sono altresì il masterplan degli studi di SP.

Ci potremmo chiedere da ultimo come la personalità di SP si trasmette nel suo lavoro di grande e infaticabile studioso. Io direi così, che c’è in SP sia un’anima profondamente liberale che un senso forte della comunità. Il tratto liberale, continuerò a chiamarlo così, consiste, nel liberalismo quale veniva definito da Adolfo Omodeo in quanto cioè formazione e natura dell’uomo moderno, critico, laico, curioso, aperto agli altri e al futuro, disposto alla parità tra gli uomini, contrario a ogni forma di retriva chiusura; un liberalismo che deriva in SP da una naturale disposizione oltre che, come suppongo, anche da educazione familiare, e che si mostra ad ogni passo della sua vita e dei suoi studi (così mi apparve quando, ormai poco meno di 50 anni fa, lo conobbi). Ma, proprio perché questo liberalismo è radicale, l’attenzione di SP è rivolta, forse di preferenza, ai limiti e alle insufficienze della democrazia liberale, a ciò che essa ha trascurato, alle molte forme di dominio che non ha combattuto. Ciò apre per SP il grande interesse per il socialismo, la forza capace di colmare questi vuoti, in cui coerentemente Marx è inteso come grande storico e critico della società, pensatore della libertà, la cui intera lezione è insostituibile e inesauribile (cfr. di SP, Marx in dieci parole, Carocci 2020). In una simile lettura, che si è intensificata negli ultimi anni, sono scansate sia le secche delle anguste e minute analisi circa il «vero Marx», con esclusione di altri volti, come ad esempio il «giovane Marx», nonché, meno che mai, le critiche che ne fanno un «cane morto» perché i suoi quarti di scientificità (secondo un rinsecchito concetto di scienza) non sono puri, o infine i tentativi di farne un autore compiuto e magari disposto a esser messo in un insegnamento dogmatico.

L’altro tema, quello della comunità, è forse già in parte mostrato dai lavori di cui parliamo. La «scuola di Francoforte» rappresenta per SP una societas, un collettivo di cui egli è studioso e custode: si veda con quanta cura ne esamina via via le sue figure, per ora fino a Jaeggi e Rosa; e soprattutto con quanta vigilanza ne difenda, al di là delle naturali diversità, una sostanziale e ancor leggibile continuità. La Scuola di Francoforte e il suo lascito sono stati da SP in ogni modo salvaguardati e seguiti attentamente con grande considerazione, ad essi dedicando, come a una grande comunità, non poca fatica e molto tempo. Ma diligenza, solerte riflessione e vigilanza di SP si rivolgono sempre, secondo la sua vocazione, alle comunità di ricerca, non ai gruppi decisamente politici o di partito. La cosa forse più evidente è il caso del Manifesto: un insieme di lavoro culturale e politico, di cui SP ha fatto parte in modo continuo, impegnato e fedele, senza però esser mai coinvolto, mi pare, sul piano strettamente politico e nei tentativi di farsi partito. Nonostante la disposizione alla communitas SP non ha mai sentito il bisogno di aderire a una comunità di partito. Credo che ci sia qui, al fondo, una difficoltà del pensiero a primaria inclinazione liberale, anche nelle persone più aperte, intelligenti e disposte a una strategia di cambiamento politico come Norberto Bobbio – di cui SP fa gran conto, cominciando dall’apprezzamento della sua civile prosa – a comprendere il partito politico, dal punto in cui la volontà generale va oltre il volere dei singoli, dando appunto vita, non potendo il tutto risolversi nel semplice gioco di maggioranza e minoranza, a una speciale comunità (donde la frequente sopravvalutazione, a parer mio, dell’opera di Robert Michels). Ma è un tema difficile e qui solo enunciabile, del quale ho avuto modo di discutere con lo stesso Bobbio nella corrispondenza che per molti anni ho intrattenuto con lui. Mi è accaduto di pensare che SP somigliasse un po’ a Frank Cunnigham, il nostro compianto e comune amico, che, come il suo maestro C.B.Macpherson, cercava di pensare gli sviluppi avanzati della democrazia, a partire dalla situazione canadese e nordamericana, prescindendo cioè quasi del tutto dai partiti politici. Ma oggi che accade, quando la realtà di un partito politico come quelli che abbiamo conosciuto fino agli anni ‘90 costituisce un’esperienza a parer mio qusi interamente consumata, in una situazione che Pietro Scoppola definì come quella del passaggio dalla «democrazia dei partiti» alla «democrazia dei (singoli) cittadini»? Oggi francamente non so se, pur con la perdita di talune esperienze, SP non abbia visto anche prima e meglio di altri quel che si doveva fare e quali ne erano i punti di riferimento.

II  Proposta sui consumi

 Quando si pensa a quel che SP ha fatto è necessario, e comunque non se ne può fare a meno, considerare anche quel che potrebbe fare nel futuro. Mi permetto qui di avanzare alla fine una modesta proposta, che mi darà l’occasione, prima, di parlare ancora dei lavori di SP già eseguiti. Il punto più nuovo e originale di La scuola di Francoforte, il testo appena uscito, sono i tre saggi su Marcuse: non solo perché, vi si affronta con ampiezza e profondità un autore che nel primo libro aveva rilievo molto modesto, né perché si riscopra un filosofo di solito superficialmente ricordato per un solo libro, unius libri, per pochi slogan o per la generica vicinanza al movimento del’68. La ragione principale è che in queste, che sono tra le pagine più belle del libro, c’è una riflessione maggiormente autonoma, libera e originale di SP che si può vedere per esempio nel capitolo sesto, e già nelle sue pagine introduttive, dove si legge cosa SP intenda per capitalismo, crescita economica, rapporto mezzi e fini, neutralità della tecnica, totalità sociale, e così via. Il testo su Marcuse non è privo di un’interessante vena biografica collettiva e forse anche autobiografica, dedicata al «complicato rapporto», pratico o ideale tra i francofortesi e il movimento del ‘68. SP ha un vero talento nell’infilarsi in argomenti scomodi, al qual proposito molti tacciono e per cui occorre libertà e coraggio, come quando fu tra i pochi che affrontarono il tema del crollo dell’URSS. Qui non era affatto facile dire felicemente in breve cosa fu il magmatico e per certi versi anche sfuggente Movimento del’68, un tema di cui bisognerà ancora occuparsi.

Tra le molte altre cose notabili in questa sezione del libro su Marcuse mi soffermerò ora su un tema in apparenza marginale e curioso, che non so fino a che punto sia tutto frutto di Adorno e Horkheimer o se non appartenga anche alla sapienza ricostruttiva di SP, che sa pensare con e oltre i suoi autori, nella direzione da essi indicata. La questione potrebbe esser posta così: nessuna generale forma di vita può dipendere dalla settecentesca imposizione di un tiranno, del soldato o del prete, dal «mero arbitrio dei gruppi dominanti», da una sorta di «follia o insensatezza collettiva». Ci interessiamo molto all’emancipazione dei «servi», ma cosa ha consentito che questa situazione di oppressione durasse secoli o millenni? Qui si parla del capitalismo che da un lato incorpora in sé l’elemento «dell’assurdo o della contraddizione» e non riesce «a superare la scarsità e la penuria se non riproducendola sempre a livelli diversi e più alti» – un’acuta osservazione  di SP circa la «società opulenta», su cui ricordo il contributo de La Rivista Trimestrale – cui si collegano tutte le altre distorsioni generate dal capitale. Ma dall’altro lato il capitalismo è pure una complessa struttura economico-sociale che riesce – si dice – oggi «imbattibile» sul piano dell’allocazione delle risorse produttive, riuscendo a «innescare l’uscita di intere aree del mondo dal cono d’ombra della scarsità e della penuria, di assicurare la soddisfazione di bisogni veri e non solo di quelli falsi e «indotti».

E’ quest’ultima capacità del capitalismo, come vediamo bene intorno a noi, che assicura sempre (se non proprio «occupazione» e «benessere» come voleva Adam Smith) beni che vanno ben oltre la proverbiale ciotola di riso al giorno per tutti i cinesi e che tengono in piedi il capitalismo opulento.  Questa opportunità di lunga vita pone in realtà problemi acutissimi a ogni tentativo di pensare il socialismo, che dovrebbe in primo luogo e necessariamente sapere ciò da cui si discosta, ciò che supera. Ad Axel Honneth mi pare che in sostanza SP dica che, pur con molti pregi, il suo ripensamento del socialismo manca di «storicità» (non tocco il punto dell’eventuale tramonto del capitalismo che somiglia alla seconda venuta del Cristo nel cristianesimo: attesa dapprima come imminente, ma quando, rinviando rinviando, non viene, costringe a ripensare interamente e faticosamente l’essere della Chiesa e dei fedeli).

Questo problema – su che si regga una società di oppressi con pochi «signori» dominanti o perché  un complesso sociale «tiene»anche quando vi sono innumerevoli «servi» – è valido, nel discorso di Horkheimer e Adorno ricostruito da SP non per il solo capitalismo, ma per un tempo sterminato, assicurando continuità alla storia per interi millenni, (v. di SP, Marx al tramonto del secolo, manifestolibri 1995, ‘L’autocritica della modernità nel pensiero di Adorno e Horkheimer’, pp. 95-114). In simili società precapitalistiche i rapporti di dominio hanno sempre avuto una duplice natura: la garanzia del privilegio, certo, ma anche la sopravvivenza e la giustificazione della riproduzione dell’intera totalità sociale. Quest’ultimo elemento, dice SP, può esser configurato come il momento di «universalità», congiunto indistricabilmente con quello della «particolarità» nel dominio. Com’è potuto accadere, si chiede Horkheimer, che «per interi periodi la subordinazione coincidesse con l’interesse dei dominati»? La prima e forse principale risposta degli autori francofortesi riposa sull’originaria penuria dei mezzi di sussistenza e sulle necessità da essa imposta: dalla formazione di un un piano preordinato, più o meno consapevole e manifesto, formulato con una qualche collaborazione dei subordinati (si può fare qui un confronto, dice SP, con il dominio e il consenso di Gramsci), cui tutti devono conformarsi per instaurare, tra l’altro, una stabile gerarchia sociale, a partire dalla distinzione tra lavoro intellettuale e manuale. E a questa risposta si devono aggiungere gli altri campi di dominio «umani e artificiali» di cui abbiamo detto. Né devono sfuggire le innovative ricerche di chi ha configurato il signore come la sola possibile umanità del servo.

Ma che tipo di rapporto c’è allora tra privilegiati e soggetti, tra dominio e consenso? Come si articola un simile problema? Anzitutto la lotta per fare autonoma la civiltà dalla mera natura, come dice bene SP, si deve ampliare nel contrasto all’artefatta instaurazione della coazione e della repressione non solo sociale ma delle più forti pulsioni individuali. Ciò è conforme alla tesi forte di SP per cui l’Illuminismo è criticato nei primi francofortesi non per troppo ma per manco di una più sviluppata teoria critica che abbracci, oltre all’arcaico dominio tecnico e scientifico sulla natura – exeundum e statu naturae, come dicevano Spinoza ed Hegel – anche le forme emancipative che si dicevano un tempo «morali»: l’oppressione degli uomini sugli altri uomini (e su se stessi), a cominciare dalla ricchezza astratta, in quanto illimitato fine a se stessa. Non è sufficiente, dice conclusivamente SP a proposito dei limiti di Marcuse, stabilire con «ingenuità» quali sono «i veri bisogni e i veri fini umani per aver risolto alla radice ogni problema di irrazionalità sociale», né meno che mai, aggiungiamo, per cominciare a risolvere praticamente il problema.

A questo proposito mi pare che ci sia uno iato o un vuoto tra la discussione delle migliori forme di vita e l’inizio della lotta per recarle praticamente, come già teoricamente, in atto, specie se si dice, non a torto a parer mio, che la formazione capitalistica è oggi, dal lato della produzione, «imbattibile» (che non vuol dire in tutto accettabile). Ma se non dalla produzione, si potrebbe forse partire dai bisogni e dal consumo – sostenuto da una forte domanda aggregata e collettiva, non affidata alla dispersione delle singole famiglie, quasi «fini» posti al capitalismo – per provare ad allentare e in parte correggere i difetti del capitalismo, in favore di una società più razionale, sociale, più giusta e, aggiungerei, anche più «bella»? Com’ è noto l’economia politica classica, Marx compreso, negano che il consumo possa mai essere reso nemmeno in parte autonomo dalla produzione. Ma sull’indipendenza dalla produzione stanno alcuni esiti irrisolti dell’economia politica classica, numerosi tentativi fatti dagli scrittori che sono stati detti «utopistici» dell’800, e anche da qualche teoria critica novecentesca. Le domande che in conclusione pongo a SP, volendo guardare avanti, e non solo ripercorrere il già fatto, sono le seguenti. Nella teoria critica francofortese c’è qualche cenno positivo al tema del consumo o i consumi sono solo tenacemente criticati nella forma attuale (consumi indotti, ecc.)? E SP, con la sua esperienza e autorevolezza, che pensa di questa via? e sennò, quali strade ritiene percorribili per cominciare a ovviare al problema che ho detto della riforma, almeno teorica, del capitalismo?

 

 

Foto di Antonio Cecere: Mario Reale e Stefano Petrucciani impegnati in una riunione del comitato scientifico di Filosofia in Movimento nel 2019. 

 

 

 

 

 

Politica- una introduzione filosofica

L’obiettivo che questo volume si prefigge è quello di presentare in modo sintetico le questioni principali della filosofia politica, con particolare attenzione alle teorie e ai problemi del tempo presente. La trattazione è articolata in tre parti.
Nella prima parte («La politica tra realismo e valori») si presentano le grandi questioni di fondo che stanno alla base della riflessione teorica sulla politica: per un verso la politica non può fare a meno di un riferimento etico e valoriale, per altro verso rimane comunque una dimensione caratterizzata dal conflitto e dalla lotta per il potere. Si tratta dunque di pensare insieme queste due dimensioni, cosa che molto spesso le filosofie politiche non sono riuscite a fare. I temi affrontati nella prima parte sono dunque: la definizione della politica, il «realismo politico», i rapporti della politica con il potere e la violenza, da un lato, con l’etica e la giu- stizia dall’altro.
Nella seconda parte («I principî della giustizia politica») vengono delineate le coordinate essenziali del patto politico moderno e sviluppati i concetti fondamentali della politica nella modernità (liberalismo, democrazia e socialismo) e la loro articolazione concreta nelle contemporanee democrazie costituzionali.
Anche in questa parte si ragiona su un duplice registro. In primo luogo si presentano i punti principali della democrazia costituzionale: diritti fondamentali, rappresentanza politica, divisione dei poteri, giustizia sociale. In secondo luogo si mostra come la promessa democratica del potere condiviso sia ampiamente ridimensionata dalle cristallizzazioni di potere non democratico che permangono ben salde anche nelle democrazie avanzate (poteri economici, mediatici, tecnocratici). Si perviene quindi a una visione dinamico- conflittuale della democrazia e della giustizia sociale, come posta in gioco delle tensioni e degli antagonismi che attraversano la società.
Nella terza parte («Cosmopolitica: la politica oltre lo Stato») si mostra come gli approdi conseguiti a livello di politica statale vengano rimessi in discussione dalla centralità che acquistano, nell’età globale, le questioni che riguardano la politica oltre lo Stato. Il pensiero moderno ha visto gli Stati come entità che sono tra loro in un rapporto simile a quello dello «stato di natura» e si è posto innanzitutto il problema di superare questa condizione e di porre le basi per la pace tra i popoli. Ma oggi sono venuti in primo piano molti altri problemi sui quali non disponiamo ancora di visioni consolidate. Come possiamo pensare, realisticamente, la costruzione di un ordinamento cosmopolitico, nel contesto del quale gli Stati e i popoli cooperino in modo responsabile per farsi carico dei problemi comuni, dalle guerre locali al terrorismo, dal cambiamento climatico ai rischi sanitari globali? Gli Stati e i popoli sono legati da obblighi di assistenza reciproca, o è giusto che ognuno pensi per sé? Condividono responsabilità comuni di fronte a fenomeni come la fame, la povertà estrema, la negazione dei diritti umani da parte di regimi tirannici? E fino a che punto è legittimo che ogni Paese si chiuda dentro i propri confini? Sono queste, a parere di chi scrive, le nuove frontiere con le quali la filosofia politica si dovrà misurare oggi e domani.

Si ringraziano l’editore e l’autore per aver concesso la pubblicazione della premessa al testo.

DEMOCRAZIA IN AFFANNO- Ripartire dai fondamentali

Da anni (da molti ormai) è divenuta palese la difficoltà dei nostri moderni sistemi “liberal-democratici” di conservare la fiducia sulla quale si è costruito il largo consenso che ne ha accompagnato l’esperienza negli anni del secondo dopo-guerra.
Quel che più colpisce è il fatto che questa caduta di consenso non è stata conseguenza del contrasto ideologico che essi hanno dovuto a lungo affrontare. Prima e dopo la fine della “guerra fredda”. Né il duro confronto con il “blocco comunista”, né le insidie del terrorismo (sia di matrice “interna”, che “internazionale”) avevano messo in dubbio (nelle popolazioni dei Paesi che li adottavano) la (imperfetta, ma sicura) superiorità del modello “liberal-democratico” su ogni altra “forma” storica di governo. Anzi. La coscienza di tale sua (ritenuta al tempo) evidente preferibilità era stata una delle più forti ragioni del suo consolidamento (oltre le insidie). Fino a non troppo tempo addietro la “democrazia” sembrava in Occidente un destino irreversibile.

Laicità e società multiculturale. Brevi considerazioni sul libro di Cinzia Sciuto, Non c’è fede che tenga. Manifesto laico contro il multiculturalismo (Feltrinelli, 2018)

Il libro si struttura all’interno di un percorso argomentativo che lascia pochi dubbi su cosa conti veramente per l’Autrice, su qual è il messaggio “politico” che lei intende lanciare: per esprimere la sua soggettività la persona umana ha bisogno di uno spazio pubblico improntato ai canoni della laicità e di una narrazione progressiva e libertaria dei diritti. Questo è il ticket attorno al quale Cinzia Sciuto costruisce il suo lavoro.

Il fondamento etico

(Pubblicato per “Mondoperaio”)

Da un estratto del diario di Lev Tolstoj, recante la data 31 luglio 1905, si ricava la pungente considerazione secondo cui «il socialismo è un’applicazione parziale del cristianesimo, inesatta perché incompleta». La rappresentazione del progetto socialista come “scisma” o eresia nell’ampio solco della tradizione cristiana è una pista non poco battuta, ma la citazione tolstojana, specie se considerata in riferimento al tempo e al contesto che le dà origine, segnala una chiave importante, nonché attuale, per accedere alla relazione, non facile, tra filosofia e socialismo. Non esiste un’idea di cambiamento sociale che non abbia provato a esplicitare la propria – talvolta completamente implicita – struttura categoriale. L’ideologia politica non è solo il risultato di un’analisi dei rapporti sociali, generato da ponderate letture storiche ed economiche. La teoria politica che accompagna l’azione riposa su una visione dell’uomo, della natura e del senso dell’essere, più o meno emersa. L’ideale socialista, più d’ogni altra visione/azione nel teatro politico mondiale, ha cercato e cerca, in maniera tormentata, un quadro sistematico (sia esso materialistico o provvidenzialistico) in grado di irrobustire le ragioni dell’azione politica. Ma come la citazione tolstojana bene evidenzia, nella storia del socialismo il problema fondazionale, su cui tornerò in seguito, si intreccia in modo non sempre coerente con la ricerca di un orizzonte etico-sociale, ereditato in parte dalla tradizione culturale cristiana. Alcune idee fondanti del socialismo, come l’abolizione o attenuazione dello sfruttamento dell’uomo sull’uomo, l’emancipazione dalle sue servitù storiche e naturali, tradottasi nell’idea di trasferire su un piano antropologicamente più dignitoso le classi subalterne, stabiliscono un contatto importante con l’etica cristiana. Vi si può riconoscere il profondo valore egalitario, tradotto in una costante attenzione agli ultimi, ma integrato con un elemento evolutivo del tutto estraneo al messaggio evangelico, perché connesso direttamente alla percezione sociale dell’industrializzazione e dei suoi effetti, e una relativa storicizzazione della relazione tra le classi. Senza indugiare oltre nella comparazione, occorre sgombrare il campo dall’equivoco di una lettura pseudo-religiosa del socialismo. Non si tratta di incastonare la tradizione progressista nella struttura concettuale, simbolica e storica della religione cristiana. Dio non c’entra. L’obiettivo è invece quello di lasciar emergere il peso della dimensione assiologica nella stessa nozione di socialismo, onde valorizzarne la forza e la prospettiva di “eudemonismo sociale”.
Guardiamo all’oggi. Mentre nella discussione teorico-politica interna alla sinistra contemporanea si fanno spazio le insinuanti ambiguità della filosofia biopolitica, i movimenti sociali colgono appieno il portato di un’istanza che non è più comprensibile sul terreno dell’aspirazione scientificamente fondata a uno stato di diritto sociale, perché foriero di una potente riscossa etica condotta in nome di una maggiore giustizia, intesa in senso forte. Si osservino due fenomeni italiani e una tendenza internazionale: non è possibile occultare un dato storico, e cioè che la prima e nuova grande manifestazione delle donne, esprimente un’istanza emancipatrice dal tratto sociale ed economico insieme, si sia sollevata nell’ultimo anno e mezzo sulla spinta di un’esigenza di riconquista morale di un giusto riequilibrio delle relazioni di genere. Analogamente, i movimenti dei lavoratori di tutte le sigle sindacali, proprio in queste settimane, chiamano a raccolta i propri iscritti rivendicando non un protagonismo annunciato da una scienza della maturazione di epoche produttive e dei sistemi di governo, bensì – in prima battuta – evocando il valore dell’equità, declinato evidentemente in senso etico, perché semanticamente ancorato a richiami espliciti al “buon esempio”, alla condanna dei privilegi, al rispetto della dignità umana. Ma allargando l’orizzonte al quadro sovranazionale, la reazione popolare alla più grande crisi finanziaria del dopoguerra ricorre all’eloquente parola d’ordine dell’indignazione, senza dubbio carica di una valenza morale. La sensazione è che i movimenti progressisti e portatori di istanze emancipatrici abbiano intuito prima e meglio di marxisti e post-marxisti il legame esistente, ma necessitante di ulteriori iniezioni di forza, tra socialismo ed etica sociale. Questo legame, per la verità, è già sufficientemente stretto nella filosofia di Marx, forse anche più di quanto lo stesso autore del Capitale fosse consapevole. Nonostante gli sforzi di Marx nel sottolineare la linearità comportamentale del capitalista che paga la forza-lavoro come una qualsiasi altra merce, estraendo un surplus di valore e cioè escludendo un’implicazione moralistica nel concetto di sfruttamento, si capisce bene – e Benedetto Croce aveva evidenziato questo problema – che il processo di generazione di plusvalore è l’effettivo rovesciamento della terza formula dell’etica kantiana. L’imperativo categorico (specificatamente nella forma del divieto di considerare l’umanità come mezzo), come Hermann Cohen aveva intuito e segnalato, è la vera fondazione teorica del socialismo.
Ora, i riferimenti al cristianesimo o al kantismo possono valere solo a titolo persuasivo, onde identificare l’importanza della questione etica nella storia del socialismo, ma sono del tutto insufficienti in una delineazione possibile di quella che potremmo chiamare “gerarchia dei valori”, propria di quella tradizione politica. Per quanto stridente possa apparire l’operazione, provo a enunciare l’idea secondo cui il socialismo debba portare con sé, in modo implicito, un’etica liberale. La posizione di apertura morale che tratteggia la prospettiva liberale in particolar modo sui temi eticamente sensibili, impropriamente detta “laicità”, costituisce di fatto un’opzione assiologica, che colloca il valore della libertà individuale, e in generale il valore di “personalità” in una posizione riguardevole nella propria gerarchia. Ma si tratta di un valore che è comprensibile soltanto alla luce di un universalismo di tipo cristiano, che rompe definitivamente la lunga tradizione dello schiavismo del mondo antico, definendo l’eguale dignità di ogni singola persona. L’egualitarismo è in realtà un’idea fondativa rispetto all’ideale liberale. Il socialismo, in qualche modo, ricostruisce il nesso tra libertà personale e parità sociale. Secondo il motto di Bernstein, «non esiste idea liberale che non appartenga anche al patrimonio ideale del socialismo», che è anzi un liberalismo più radicale e coerente rispetto alla tradizione liberale borghese. Il socialismo chiede alla democrazia di essere più democratica, e auspica un liberalismo che diventi autenticamente liberale. Al di là delle singole spigolature storiche dei movimenti, dei partiti e dalle esperienze di governo di ispirazione socialista, il filo rosso dell’istanza emancipatrice sta tutto nel tendenziale riallineamento di eguaglianza politica ed economica, superando le divisioni sociali e produttive che impediscono tale processo. Il fatto che i socialisti si siano storicamente differenziati dai partiti liberali dipende dall’assimilazione assiologica di un modello politico su un piano etico. Il liberalismo costruisce storicamente la sua teoria dell’equilibrio dei poteri e delle garanzie individuali, mentre il socialismo radicalizza tali istanze trascinandole nell’orizzonte del dovere morale (per cui lo stato deve perdere più o meno gradualmente forza oppressiva e occasioni di “abuso”), e al tempo stesso disegna all’orizzonte della propria etica sociale un ideale di umanità dove ciascuno si riappropria della dignità umana. Va da sé che questo slittamento dal pragmatismo politico all’ideale etico-sociale significa, e così è stato nella storia del movimento operaio, il sacrificio della piena libertà economica individuale, considerata elemento generatore di sudditanza e sfruttamento. Pertanto, il socialismo si costituisce nell’adesione a un’etica al tempo stesso formale e sostanziale (dove cioè la dignità umana è criterio formale dell’imperativo categorico ma a anche valore di riferimento della programmazione e dell’azione), innervata – per la fondamentale eredità del marxismo – dalla critica dell’economia politica, ragion per cui, ben lo si intende, a differenza del pensiero liberale classico, il socialismo non può trovare alcuna seria compatibilità con il sistema di produzione capitalistico.
Tuttavia la relazione tra filosofia e socialismo, nella sua complessità, non si può risolvere nella sola rivisitazione della sfera assiologica, che accomuna o distingue il socialismo di ieri da quello di domani. La questione si rende intrigante quando richiede la problematizzazione vera e propria dei concetti chiave di quella prospettiva valoriale. A cominciare dall’identificazione dei protagonisti di questa storia: l’uomo e la dignità umana. Nei Manoscritti del 1844 Marx interpretava il comunismo come movimento orientato alla restituzione all’uomo di una sua “umana essenza”, concetto che vale in senso lato per il socialismo d’ogni tempo, come chiave d’interpretazione dell’istanza di emancipazione sociale. Ma per avere un umanismo occorre una teoria dell’uomo, che Marx inclinava a organizzare in senso materialista, e che tuttavia non è l’unico senso possibile. Ciò significa che alla potenza assiologica dell’etica cristiana e kantiana vengono ancorate una concezione metafisica del rapporto natura-uomo e una filosofia della storia che presentano, nell’arco di due secoli di idee socialiste, numerose varianti, tutte apparentate nella comune necessità di una definizione solida del proprio sguardo. Il che non è un male, anzi, si tratta di un’esigenza che va assecondata. La stessa questione dei valori necessiterebbe di una teoria generale dell’azione e della realizzazione più ampia e complessa, e sicuramente non riduzionista. La recente discussione tra neo-realisti e teorici del pensiero debole, in cui matura una vicendevole accusa di incompatibilità filosofica con le istanze storiche della sinistra politica, indica in qualche modo l’esigenza, nel processo di auto-comprensione identitaria dell’istanza progressista, di chiarire le proprie categorie ontologiche ed ermeneutiche. Ma ciò di cui l’umanesimo socialista ha bisogno non è un’inossidabile impalcatura categoriale in grado di descrivere puntualmente e definitivamente il mondo reale, né di un pensiero gioiosamente aleatorio e autoreferenziale, bensì un di sistema aperto (un interessante percorso, in questa direzione, è stato tracciato da Gyorgy Lukács nel suo recupero di un importante pensatore tedesco, oggi semisconosciuto, come Nicolai Hartmann, e della sua ontologia critica). Soltanto per questa via il socialismo potrà sciogliere il nodo strutturale che irrigidisce la fluidità concettuale della relazione tra opzione etico-politica e sistema categoriale di riferimento. Mi spiego: il socialismo presuppone una filosofia della storia, in cui si renda possibile la spiegazione del succedersi di avvenimenti, epoche, sistemi politici o produttivi, in base a una legalità metafisica (sia essa di natura dialettica o deterministica). Ma una qualsivoglia teoria della storia diventa – di fatto – teoria della necessità storica, dunque escludente la possibilità stessa dell’azione libera individuale, dell’iniziativa soggettiva (e poco importa qui se si preferisca un riferimento al soggetto personale o collettivo). Eppure, non solo non posso fare a meno di pensarmi come essere libero, ma costruisco l’ideale dell’azione politica orientandolo principalmente ai valori di libertà e personalità. L’orizzonte della storia collettiva impedisce di vedere la capacità teleologica del soggetto all’interno del proprio nesso sociale (anche il partito, per essere soggetto storico, deve poter agire delle decisioni, e non essere agito da forze storiche incontrollate), sebbene ne residui il sentimento etico che pretende di dar voce all’istanza della responsabilità, dunque della libertà. Allora il socialismo come idea politica in sé portatrice di una posizione assiologica chiara, deve forzare questo reciproco scarto tra teoria e prassi, e svolgere in un sistema aperto una chiarificazione categoriale dell’essere reale e assiologico, per poi scommettere – ché diversamente non è possibile neanche prender sul serio la propria stessa esistenza – sulla libertà dell’essere personale, e dunque su un processo di liberazione sociale dallo sfruttamento, come termini di una reciproca implicazione.

Carlo Scognamiglio

J. Kristeva, Simone de Beauvoir. La rivoluzione del femminile, Donzelli 2018.

Julia Kristeva

Simone de Beauvoir La rivoluzione del femminile. 

Donzelli, Roma 2018, pp. 140, € 16,15.

 

 

 

 

Continua a produrre pensiero la scrittrice francese di origine bulgara, Julia Kristeva. Un pensiero solido, autorevole, anticonvenzionale. Laddove il dibattito sul femminismo, nel diritto e nella cultura, sembra oggi sradicato dalla carne delle sue lotte reali nella storia del continente, ecco la Kristeva regalare una riflessione di brevi pennellate e saggi veloci, confluiti in Italia, per i tipi di Donzelli (Roma, 2018), in “Simone de Beauvoir. La rivoluzione del femminile”. Il rischio metodologico della cultura accademica – e di quella militante – in materia di femminismo è esattamente quello di confinarne genesi e sviluppo nella riflessione nord-americana e anglosassone, come se i codici di quel femminismo critico fossero gli unici oggi servibili nel ricomprendere e abbattere il patriarcato. Nulla di più falso, ci porta a dire l’agile volume della Kristeva: il femminismo ha una storia politica e di lotta piena, vera, reale, battagliera, non eterea o alchemica o algida; le sue radici non sono appannaggio dei Paesi del liberalismo anglofono. Il mondo è ricco di riflessione declinata al femminile, di pari o talvolta maggiore qualità e intensità: intestare alla sola critica liberal la radice del femminismo è errore metodologico, giuridico e politologico, non solo ideologico.

La Kristeva racconta il volto attuale e palpitante del femminismo: quello che si affanna a togliere retaggi superati nella cultura black, quello che in Cina e in Russia difende la causa delle donne dovendo cimentarsi in una lotta contropotere sia sui diritti civili che su quelli politici e sociali, quello che nell’Islam è diviso tra sconfessare la fede e l’esigenza di ricondurla al Corano e di liberarla da clericalismi patriarcali. Julia Kristeva sceglie il solo canale possibile: tornare con argomenti nuovi a Simone de Beauvoir (1908-1986), alla sua opera tutta, e alla sua biografia. La narratrice e filosofa francese, del resto, è testimone di decenni dell’impegno nel sociale che, con malamente deprecata e in realtà felice frenesia, mescolavano il teatro e il saggio, il romanzo e l’accademia, l’esibita testimonianza di vita e la riflessione collettiva e antigerarchica. È probabile che questa versatilità tematica e questa indiscutibile varietà di contenuti e di stili rendano difficile l’approdo a una sistemica filosofica organica e fortemente unitaria. La Kristeva, però, non si scoraggia e il suo iter ermeneutico, abbeverandosi a una visione fortemente antiautoritaria della psicologia, cerca costantemente di riannodare i fili, di cucire i punti, di squadernare tutte le possibili, intrinseche, connessioni. Il risultato deve essere considerato molto positivamente, perché garantisce a un volumetto antologico pur molto breve di non disperdere mai una traccia comune, un anelito ricostruttivo apprezzabile, anche sotto il profilo esegetico.

 

Certo, il ruolo privilegiato, nella trattazione, se lo aggiudicano facilmente, per il ciclo dei romanzi “I mandarini”, per l’autobiografia “Le memorie d’una ragazza perbene” e “La cerimonia degli addii”, per la saggistica culta “Il secondo sesso”: tale è stata la fortuna delle opere ricordate che prescinderne sarebbe stato impossibile per qualunque serio lavoro monografico sull’Autrice parigina. L’utilità dell’indagine comparatistica sul classico è in fondo pure quella di non tradire mai una tassonomia minima dell’approccio all’autore, ritornando alle fonti senza pretese di eccessiva semplificazione, anzi arricchendo quei profili che troppe volte si danno per acquisiti. Eppure, la Kristeva, anche a percorrere i binari già tracciati, smobilita l’aneddotica con cui la fine della storia e la sua retorica avevano cercato di seppellire l’esistenzialismo, declassandolo a progenitore piagnone del Maggio francese. Il rapporto con Sartre, ad esempio, è ricondotto alla sua franchezza, senza la coltre posticcia del pettegolezzo: ci sono i tradimenti reciproci, certo, c’è la reciproca influenza-ingerenza nella percezione pubblica del personaggio, ma c’è pure e finalmente l’inesausta entropia di una ricerca comune che segna almeno tre decenni della cultura francese (e occidentale tutta). Sarebbe interessante concepire un lavoro monografico su Sartre che abbia le medesime caratteristiche dell’agevole raccolta che la Kristeva dedica alla riscoperta della sua compagna: un’accessibile opera di rivitalizzazione di nodi tematici. Dopo gli anni della grande fortuna editoriale e del grande consenso esegetico, la discussione collettiva di impegno ha forse riposto con eccessiva fugacità il contributo sartriano, deponendone lo strumentario e bollandolo con la sufficienza che ormai si riserva a quegli anni di intenso vissuto generazionale e di spesso dissacrante posa intellettuale. Spogliato dagli orpelli delle letture convenzionali, anche Sartre avrebbe molto da (tornare a) dire, persino sulle relazioni uomo-donna, che sostanzialmente non possono dirsi costituire capo autonomo della sua proposta politico-interpretativa.

Simone de Beauvoir è per la Kristeva, d’altra parte, l’eroina di un pensiero genuinamente anticonvenzionale: non cade nelle sirene del comunismo totalitarista; anzi, mette a verbale l’inadeguatezza dei tanti parrucconi che vogliono fare del marxismo-leninismo modello di intervento socioculturale sic et simpliciter. Non cede nemmeno alle semplificazioni del coniugio liberal-borghese, la cui libertà non sfugge invero al retaggio del conformismo sociale: il matrimonio dell’opera e della dottrina di Rousseau è tutto fuorché scevro, ad avviso della Kristeva, dall’invadenza di una visione politica e politicamente onnicomprensiva dell’agire sociale. Questi due passaggi avrebbero verosimilmente meritato ulteriore approfondimento; in fondo, la carica contropotere e contro-egemonica del modello socialista aveva seguito perché si poneva come unica alternativa storicamente vittoriosa alla razionalizzazione della legalità capitalistica. E, con pari sincerità, va pur ammesso come il modello rousseauiano non intendesse dotarsi di profili autoritari persino nelle relazioni intersoggettive: in ciò, se mai scivolava, probabilmente finiva perché ancora non era stata depotenziata analiticamente la carica di restrittività che in varie forme poteva rimanere impressa persino nelle istituzioni giuridiche post-illuministiche. Le necessarie spigolature qui proposte non tolgono ovviamente meriti all’opera in commento…

Conviene soprattutto agli uomini rileggere la Kristeva e Simone de Beauvoir: l’insistenza a descriverne il sesso nella sua infantile parvenza di “altro dito”, forse inconsapevole rimando freudiano alla seduzione ordinatrice di quel dito, smantella con pari efficacia ogni illusione sulla pretesa razionalistica del patriarcato. Quest’ultimo non è gestione e ragione della cosa pubblica, contrapposta alla presunta umoralità femminile. È indice alzato, è pretesa attribuzione e avocazione di competenze, che ha strappato lo stemma della deliberazione alla donna. Il femminismo, come tutti i movimenti libertari che hanno saputo tracciare una visione complessiva delle relazioni sociali, ha concorso, insieme agli altri, a reindirizzare quello stemma: dalle mani dell’assolutismo e del convenzionalismo (mani, in fondo, speculari) a quelle della jacquerie, della sua costruzione politica di rivolta.

                                                                                                                                                                                                               Domenico Bilotti

F. Postorino, Croce e l’ansia di un’altra città, Mimesis 2017.

 

Francesco Postorino

Croce e l’ansia di un’altra città 

Mimesis, Milano 2017, pp. 212, € 17.

 

 

 

 

 

Il presente volume Croce e l’ansia di un’altra città, di Francesco Postorino, risponde al tentativo di ricostruire il pensiero politico crociano, in considerazione dell’«incoerenza» che ne caratterizza le diverse fasi dello sviluppo. Tale punto di vista è comprensibile soltanto a condizione che si rinunci ad una visione unitaria dello stesso, a vantaggio di una lettura maggiormente onnicomprensiva del suo pensiero. A partire dall’attenta ricostruzione delle fonti e della struttura del pensiero politico crociano compiuta da Postorino, diviene possibile ricostruire il terreno storico e politico su cui si è innestato un ampio dibattito teso a ridiscutere i presupposti e le contraddizioni interne al pensiero liberal italiano. L’autore precisa come il Croce maturo, impegnato nella lotta contro il Fascismo, non possa essere in alcun modo confuso con il filosofo Croce alle prime armi, ma nemmeno con il Croce che, alla fine dell’Ottocento, introdotto da Antonio Labriola al Marxismo ne ricercava pregi e difetti. Egli non elaborò immediatamente la sua visione religiosa della libertà sin dalle prime fasi della propria riflessione, anzi Postorino addirittura ci ricorda come Croce, nell’opera Riduzione della filosofia del diritto a filosofia dell’economia, si definisse addirittura un anti-storicista. Un’importante svolta nel pensiero crociano si ebbe nel 1930, e nella fondamentale opera La storia come pensiero e azione (1938) in cui è possibile rintracciare la famosa affermazione: la vita e la realtà è la storia e nient’altro che storia. Tale momento segna il definitivo passaggio a una compiuta affermazione dello “storicismo assoluto”. Nella prima parte del volume, Postorino ci offre un ampio sguardo preliminare sul pensiero politico crociano, e in particolar modo sulla sua concezione religiosa della libertà che, come osserveremo in seguito, costituisce un importante assunto ai fini della comprensione della struttura dialettica del suo pensiero. L’autore sottolinea come tutti i differenti momenti che animano il meccanismo dialettico di Croce debbano essere intesi entro un orizzonte aprioristico, poiché essi scaturiscono da un atto di fede che costituisce l’inizio assoluto del suo dispositivo dialettico, il momento religioso. Tutto ciò si gioca lungo il filo sottile che separa la religione dalla filosofia. All’inizio v’è appunto un sentimento religioso, così come Croce lo definisce: «una libertà senz’altra determinazione», che deve essere necessariamente superato dalla filosofia: «la prospettiva religiosa è uno stadio da sconfiggere in nome della filosofia reale». Ed è questo punto che segna l’inestricabile contraddizione tutta interna alla dialettica crociana, tra il suo Sollen (atto di fede) e la libertà come determinazione, che rappresenta in quanto tale il progredire dello spirito della storia (p. 26). Se nelle intenzioni di Croce v’era il tentativo di leggere l’intera realtà, così come la storia, come una storia di libertà, ricomprendendo in sé tutti gli estremismi (marxismo, fascismo, giacobinismo etc.) in quanto considerati elementi imprescindibili alla determinazione di quella stessa libertà, non si può tuttavia non denotare un punto di rottura all’interno di questa visione. Ogni tentativo compiuto dal filosofo napoletano di eliminare qualunque impulso trascendentale, ogni residuo metafisico, pone in essere la propria incompiutezza. Cosicché, l’atto di fede (Sollen) non viene a essere eliminato dalla sua filosofia neoidealistica, rendendo in tal modo impossibile il passaggio a una più perfetta determinazione dello spirito della libertà. Ciò che permane, in quanto momento religioso, è un sentire privo di ogni altra determinazione. Una libertà senz’altra determinazione, scrive Postorino, trionfa in partenza e svilisce ogni altro genere di coinvolgimento religioso. La storia crociana, secondo l’autore, finisce dunque per determinare sempre il medesimo esito: il trionfo della libertà. L’autore chiarisce che nonostante Croce, attraverso il suo circolo dei distinti, abbia trasformato l’iniziale immanentismo in chiave gnoseologica, deve fare pur sempre i conti con un’ulteriore determinazione aprioristica; ciò poiché le componenti negative non hanno alcuna cittadinanza all’interno del suo sistema sintetico degli opposti. Nella dialettica crociana, così come per il sentimento religioso, il brutto viene ad essere immediatamente vinto e superato; in questo senso, si può dire che non vi sia alcuno spazio per l’informe, per il male, per le opere anti-spirituali della storia. V’è un’unica storia, la quale non può che fare riferimento ai quattro elementi categoriali: il bello, il vero, l’utile e il bene. Anche se il filosofo sembra riconoscere il negativo, il cattivo, all’interno della sua dialettica degli opposti, in realtà Postorino spiega, il vincitore è già deciso in partenza: è la tesi, l’essere, quindi il valore positivo della storia. Dall’analisi di Postorino emerge dunque uno scoglio aprioristico incapace di afferrare l’accadimento imprevedibile della storia. L’eccessiva aurea metafisica del pensiero crociano ci restituisce un sistema di pensiero ingessato, interamente ripiegato su sè stesso. Esso oscilla tra un momento religioso, che ripropone l’accadimento storico nel suo reale compiersi, e un altro filosofico che, nel fare i conti con il procedimento logico del sistema dei distinti, rinnega gli eventi imprevedibili della storia mediante la realizzazione di opere sempre belle, vere, utili e morali (p. 36). È importante mostrare anche la critica, riportata dall’autore nel presente volume, di Croce verso la prospettiva positivistica della storia, la quale è rea di relegare l’estetica, la poesia e il sentimento al di fuori del tracciato della storia; ma soprattutto, egli rivela quanto la storia non aneli all’assoluta generalità e astrattezza tipica dell’oggettività delle scienze fisiche. La storia non è un racconto di eventi generici e astratti, ma sempre di questo evento o di quella persona. In tal senso, Croce avverte l’esigenza di separare l’empiria dal valore speculativo, cioè di rivendicare la filosofia contro gli abusi del metodo classificatorio degli empiristi; se la prima s’indentifica con il concetto puro e le quattro dimensioni fondamentali dello spirito, invece il concetto delle scienze naturali è un finto concetto, e in quanto tale inadatto a sincretizzarsi con il particolare della storia; sulla base della presente distinzione è qui definito lo “pseudoconcetto”, proprio delle risultanze positiviste. Ossia un concetto inteso come un involucro astratto, vuoto e inutile. (p.50). Il concetto puro crociano, in parte mutuato dal pensiero hegeliano è, per certi versi, immobile nella sua dimensione ideale ma, nel medesimo tempo, in grado di divenire concreto e storico, pertanto mutevole: «la sfera categoriale è un universale che si rinnova grazie alle infinite realizzazioni delle opere storiche inscritte nel suo scenario». Il concetto deve, quindi, determinarsi come un universale che deve intrecciarsi in termini sintetici con la dimensione particolaristica della storia, affinché possa distinguersi dal guscio vuoto dello pseudoconcetto. La seconda parte del volume illustra la complessa concezione crociana della democrazia, nella fattispecie lo scontro sul piano religioso tra due fedi opposte: la fede della libertà e la fede della democrazia. La specifica adesione del filosofo alla democrazia diviene comprensibile a partire da due assunti: da una parte, il rifiuto ideologico nei confronti di una certa eredità democratica illuministica e dall’altra il tentativo di introdurre una separazione della “libertà da” dalla “libertà di”. L’autore ci aiuta a comprendere la prospettiva crociana: se il liberalismo classico promuoveva “un’eguaglianza legale” , riconosciuta all’interno di un determinato ordinamento giuridico, la quale garantiva pari dignità legale a tutti, al contrario Croce si arresta dinanzi a un’idea della comune umanità. La sua idea di democrazia viene a definirsi a partire da una coscienza della comune umanità che si sposa ad una fede di tipo liberale; tale idea non coincide con prospettive cosmopolite dal vago accento kantiano, bensì si determina a partire da una rivalorizzazione del valore umano (p. 70). Il filosofo si oppone a un certo tipo di democrazia livellatrice di chiara derivazione illuministica, che finisce per sottrarre alla libertà il suo primato per collocarla accanto ad altri principi ritenuti di pari importanza: la famosa triade liberté, egalitè, fraternitè. Postorino chiarisce come Croce non rifiuti l’ideale democratico, chiaramente a patto che questo sia incorniciato all’interno di una struttura di carattere liberale. Dell’individuo, inteso come un soggetto finito e pensato all’interno di un popolo concepito come somma algebrica entro cui smarrisce la propria soggettività, la concezione religiosa della democrazia presenta un’idea di personalità estremamente determinata e eguale alle altre, sulla base di ciò che Croce definisce un’idea minima di umanità. Ciò che Croce abborrisce è certamente il livellamento indifferenziato degli individui, dunque l’impossibilità di considerarli individualmente all’interno della forza collettiva complessiva. Per tale motivo, la libertà si rivela assolutamente incompatibile con l’ideale di democrazia: «nel silenziare i bisogni della qualità e allargare le illusioni del volgo mediante un’onda livellatrice diretta a colpire il cuore della libertà». Egli introduce una fondamentale distinzione tra la “democrazia degli ingenui” e il “liberalismo degli adulti”, tale passaggio storico si rinviene nel travaglio morale di ogni uomo, il quale prima crede di poter aggiustare il mondo (Sollen), per poi proporsi finalmente di comprenderlo e di indirizzarlo (liberalismo). In tal misura, è possibile giungere a una coscienza etica soltanto coll’irrompere della realtà e dell’universale concreto che non ammette alcun scarto differenziale tra il Sollen e lo Sein (di chiaro stampo illuminista). Il passaggio dall’ingenuità a quello del compimento del pensiero individuale segna la vittoria hegeliana di un ”reale razionalizzato”, dunque di un Sein di chi sostiene che il legno storto di derivazione kantiana non può essere raddrizzato e che il mondo va migliorato attraverso le opere di libertà. (p. 74).

Successivamente l’autore analizza la natura dello pseudoconcetto in relazione all’ideale democratico, così come è rappresentata del pensiero di Croce. L’eguaglianza non è nulla più che una finzione: l’eguaglianza serve, non è. Essa non deve essere nulla più che un finto scenario di sostegno alle opere dello spirito, quindi essa non possiede alcun valore e ne costituisce alcuna filosofia. Ciò che Postorino intende far comprendere è che, se in ambito religioso l’eguaglianza era assolutamente respinta, al contrario, in sede filosofica diviene il riscontro sintetico dell’ ”io voglio”, dell’accettazione del reale così com’è e dell’affermazione delle opere dello spirito, giacché solo in questa dimensione astratta tale concetto diviene fondamentale. La democrazia è, pertanto, tutt’uno con lo pseudoconcetto; e, in questa misura, essa contribuisce indirettamente alla legge della storia. La libertà nella sua concretezza (sintetica) non potrebbe in alcun modo sorgere sul terreno dello pseudoconcetto, tuttavia essa è sempre “auto-teleologica”, ossia ritrova il suo fine nella sua stessa libertà. Persino l’eguaglianza è soltanto un’utile astrazione e una finta molla al raggiungimento di ideali eudamonistici, tra i quali troviamo in primo luogo la democrazia (p. 77).

La democrazia, in tal senso, non è, cioè “è” soltanto in quanto produce degli effetti, tuttavia non è reale. La realtà, secondo Croce se si tiene fede al suo circolo dei distinti, è caratterizzata da quattro libertà spirituali nelle quali non v’è alcuno spazio per la finzione concettuale (lo pseudoconcetto); laddove l’opera del politico si realizza nel trovare un punto di congiungimento tra l’ideale e la realtà. In definitiva, quando Croce definisce la democrazia, non pensa affatto alla giustizia pura e né tenta di farla rientrare nel suo circolo dei distinti, ma fa riferimento alla scienza e al nodo problematico dello pseudoconcetto. Il pensatore napoletano non esclude tout court la giustizia ma intende, in altro modo, separarla dall’ideale egualitario. A dispetto dell’istanza fortemente egualitaria diffusasi nell’Ottocento, nel tentativo di istituire condizioni eguali di natura economica ed eliminare qualsiasi genere di gerarchia sociale, Croce invita a considerare il rapporto tra giustizia e egualitarismo alla luce dello pseudoconcetto. Egli crede che la giustizia non dovrebbe in alcun modo ridursi ad un’esigenza di eguaglianza materiale, perché vorrebbe dire sottoporre la realtà a uno schematismo di tipo matematico, nondimeno avrebbe l’effetto di distruggere l’individualità e la vita. La giustizia, in quanto espressione del reale, deve pertanto essere separata dall’egualità appartenente ad uno schema aritmetico e finto. Ma Croce non si limita a separare la giustizia dall’eguaglianza, bensì opera tale discernimento anche tra questa e la democrazia: essere giusti non vuol dire essere democratici. La democrazia egualitaria è definita all’interno di una prospettiva utopica, della quale gli azionisti hanno abbracciato deliberatamente la finzione. Essa, nella sua finzione, è relegata alla dimensione dello pseudoconcetto nel connotare la sua estraneità a ciò che appartiene alla vita, a ciò che è vitale. Se l’eguaglianza appartiene all’ufficio scientifico degli pseudoconcetti, al contrario la giustizia può coincidere con la categoria dell’Etica, alla libertà nella sua determinazione morale, cioè l’essere moralmente giusti vuol dire riferire un “Sì incondizionato” al progressivo “farsi” dello spirito nella storia. Da un punto di vista meramente politico, Croce non palesa alcuna ostilità nei confronti della democrazia, ma solo nei confronti di coloro che la praticano per professione. Mentre il liberalismo è un ideale morale meramente regolativo, la democrazia finisce per divenire un ideale pratico e una realtà empirica (p. 81); ed è questo che egli rimprovera alla sinistra e agli azionisti, nonché il tentativo di equiparare la libertà a una nozione di giustizia illuministica. Resta il nodo centrale della questione che riguarda la proposizione di una “democrazia liberale”, cioè il tentativo di stabilire i modi e procedure ipoteticamente utili al coniugarsi di liberalismo e democrazia.

Francesco Postorino rileva come il liberalismo di Croce sia portatore di alcune anomalie, soprattutto sul versante politico, in confronto ai risultati teorici del liberalismo classico e della tradizione liberale italiana, seppur nelle sue molteplici configurazioni. Ciò partendo dall’analisi che vede in Croce soltanto un critico del pensiero illuminista, tesi che viene smentita successivamente dimostrando quanto Croce, pur condannando l’ideologia illuminista, ne approvasse comunque i risultati storici (p. 84). Il filosofo italiano è in accordo con una certa declinazione del sapere illuministico, tuttavia ritiene che non si possa fare a meno dell’attività logica (un chiaro riferimento alla dialettica di matrice hegeliana): non è tuttavia sufficiente purificare la ragione in nome del Sollen. Occorre storicizzarla. Ciò costituisce un evidente affermazione del valore che il filosofo napoletano assegna alla ragione, a patto che sia collocata all’interno della storia; in virtù di essa lo storicismo viene a rappresentare il perfezionamento di quella stessa ragione illuministica tanto da porsi come la sua affermazione più autentica. Del resto, le parole di ammirazione che Croce dedica all’illuminismo della Repubblica partenopea e ai suoi creatori, che definisce creatori eroici di una prima coscienza civile e patriottica in Italia, dimostra quanto egli sia in parte debitore di una certa tradizione illuministica. La sua profonda adesione alla “libertà della storia” mette in risalto, su un altro versante, la tensione crociana tra lo spirito illuministico giovanile e quello romantico, nel quale è possibile collocare il pensiero liberale di Croce. Osservando le variegate posizioni sorte in seno alla filosofia azionista, si può notare come esse non siano strettamente identificabili con il cosiddetto pensiero liberal, soprattutto se si fa riferimento alla cultura del liberalsocialismo o del socialismo liberale. Il filosofo napoletano si oppone in particolar modo alla sintesi dottrinale tra liberalismo e socialismo inaugurata da Guido Calogero, che viene denunciata come un inutile tentativo progressista di aggiustare il mondo; in questo incontro tra liberalismo e socialismo, Croce oppone un netto rifiuto ad una politica egualitaria, che egli assimila all’interno di uno schema giusnaturalistico e illuministico, persino riconducendo le formazioni democratiche a questi stessi fondamenti. (p. 87). D’altra parte, Croce si muove nel tentativo di operare una netta distinzione tra la sua concezione liberale e quella egualitaria, ma anche da un liberalismo ritenuto più tecnico, in cui si rintraccia un impianto razionalistico e settecentesco orientato a coniugare i propri elementi empirici con un’ipotetica formazione democratica. Va sottolineato anche come Croce cerchi di evitare a tutti i costi una possibile identificazione tra il suo sistema politico-storicistico e quello hegeliano; l’autore evidenzia, a tal proposito, la mancata compatibilità dello stato etico e divino hegeliano con lo stato “attività” di Croce. Postorino ci spiega come molti critici abbiano mosso al pensiero liberale crociano l’accusa di essere poco utile, e quindi di essere un sistema chiuso, così costituito come un insieme di astrazioni e metafisiche che nulla hanno a che vedere con la lotta per le libertà personali e politiche. Alla luce del confronto tra lo storicismo assoluto di Croce e i maggiori interpreti del partito d’azione, è necessario procedere con cautela nel riunire sotto una medesima voce tutti i protagonisti dell’azionismo, ad esempio tra l’area azionista di sinistra guidata da Emilio Lussu e l’ala amendoliana di Ugo La Malfa e Ferruccio Parri, laddove la prima auspicava a creare un terzo partito socialista e l’altra ne prendeva rigorosamente le distanze (p. 90) Oltretutto, Croce nutriva una certa simpatia per il socialismo liberale di Carlo Rosselli, dal momento che ne osservava un certo grado di concretezza e storicità che lo riconduceva, per l’appunto, all’interno di una nuova formazione liberale, mentre d’altra parte sembrava opporsi al liberalsocialismo di Calogero e Capitini. Ciò che il volume in oggetto vuole dimostrare è quanto sia indebita l’assoluta assimilazione della democrazia ad un quadro di riferimento giusnaturalistico: la figura intellettuale di Piero Gobetti ne fornisce una buona giustificazione. Dal momento che, così come Postorino scrive, il giovane Gobetti respingeva qualsiasi affermazione giusnaturalistica per aderire ad una logica del conflitto, che egli sembrava aver pienamente attinto dalla formulazione politica marxiana, al fine della riaffermazione di un ideale della libertà avente carattere morale. Egli non soltanto prendeva le distanze dal liberalismo classico, ma intendeva salvaguardare il proprio ideale etico di libertà, ricorrendo ad uno spirito storicista che sembra allusivamente richiamarsi a quello crociano. Gobetti riconosceva nella classe proletaria un nuovo soggetto storico liberale, dato che la classe borghese aveva ormai perduto la propria vitalità. Il giovane torinese sostiene, dunque, che la vera natura del liberalismo debba essere ricercata in un azione volta al riscatto morale, ossia in un impulso conflittuale volto alla liberazione della classe partigiana. Entrambi, sia Gobetti che Croce, ripudiano qualunque ideale egualitario, tuttavia Gobetti non divinizza la storia, non accetta la realtà storica cosi com’è, questa deve altresì necessariamente esplicitarsi mediante il conflitto (p. 93) . L’autore del volume sottolinea la dura polemica innescata da Croce in direzione del Partito d’Azione, reo di celare ambizioni socialistiche attraverso procedimenti rivoluzionari. Il loro disegno liberal-progressista è, secondo Croce, destinato a fallire nel suo obiettivo riformista a causa della sua incapacità di conciliarsi con il programma socialista. Ciò nonostante, la critica mossa da Croce all’intero partito azionista appare essere priva di fondamento, sebbene la sua concezione religiosa del liberalismo e il suo disegno immanentista siano molto distanti dal liberalsocialismo promosso dagli azionisti (p. 101).

La terza e ultima parte del volume è volta ad approfondire il pensiero politico di alcuni dei maggiori esponenti intellettuali dell’azionismo. Chiaramente non li affronteremo tutti, ma piuttosto ci confronteremo in particolar modo con due concezioni, da una parte il pensiero liberal-socialista di Guido Calogero e dall’altra il pensiero liberalista di Noberto Bobbio. Nella sua opera, La conclusione della filosofia del conoscere (1938), Calogero lascia immediatamente trasparire la sua volontà di prendere le distanze dal pensiero crociano, in virtù della sua radicale riproposizione dell’attualismo di Gentile, motivo per cui l’autore lo inscrive interamente nell’orizzonte dell’idealismo italiano. Egli pone al centro del suo pensiero «ciò che per il filosofo laico costituisce la suprema necessità»: l’io, giacché non v’è alcuna realtà che sia al di fuori di esso che si possa definire nella sua specificità ontologica. L’io, secondo tale misura, sfugge a qualunque identificazione o processo dialettico. Esso si costituisce di due momenti, uno determinato in base al quale possiamo dire che una cosa sia come sia e che non sia un’altra cosa e un altro indeterminato che corrisponde a un’alterità, a ciò che non si riconosce nel tutto, «in quanto ha un limite oltre il quale c’è altro», e tutto ciò è reso possibile attraverso il pensiero che li riconosce. La libertà dell’io calogeriana non è affatto dissimile dalla struttura circolare dello spirito di Croce, a eccezione del fatto che per Calogero la libertà non costituisce un valore assoluto. In altri termini, la libertà calogeriana si estrinseca nell’incontro con la morale; v’è infatti un perenne dualismo che attraversa il concetto di libertà, tra una liberta in sé che funge soltanto da presupposto per la realizzazione di un’altra libertà ideale. La base dialettica di tale sistema morale vede l’io in quanto soggetto morale. L’io, in quanto soggetto morale, non si rinchiude nella sua dimensione egoistica bensì è proprio il desiderio di proiettarsi verso l’altro che gli permette di strutturare la base del proprio io. Affinché un’azione possa definirsi morale, è necessario che vi si presenti un richiamo all’altro. Tuttavia, tale dialettica non si limita ad uno scambio tra l’Io e il Tu, piuttosto l’Io deve educare il Tu all’importanza del Lui (p. 110). L’importanza del lui è data esattamente dal suo costituirsi come espressione di un’alterità, nonché dalla necessità del Tu, dalla configurazione determinata, a confronto con un Lui totalmente indeterminato e che attende di essere riconosciuto eticamente. Calogero, spiega Postorino, rimprovera a Croce l’indefinitezza della sua azione morale, pur simpatizzando con la sua visione storicista. La morale universale calogeriana vive in uno stato di sospensione, tra il conosciuto e lo sconosciuto, ossia in quello spazio tra il tu e quel lui che deve diventare tu (p. 111). Mentre l’infinito di Croce si divinizza e si esplica nel provvidenzialismo della storia, quello di Calogero resta sospeso nei ritmi particolaristici dell’umanità. Calogero intende recuperare dal pensiero dialettico crociano soltanto lo strumento materiale e operativo, traducendolo in altro modo, sotto una prospettiva etica. Il pensiero calogeriano, inserendosi all’interno del proprio orizzonte storico-culturale, risponde alla minaccia fascista mediante i principi del rispetto e della fratellanza. Tutto il suo sistema morale si fonda sul dialogo, concepito come la volontà di intendere l’altro, che costituisce alla maniera kantiana l’a-priori trascendentale di qualunque atto reciproco di comunicazione tra l’Io e il Tu; tale volontà d’intendere è, pertanto, un principio etico che si nutre della mia volontà: «la volontà d’intendere è una verità assoluta che neppure il diretto interlocutore potrebbe smentire». A partire da questo punto si dipana la critica calogeriana allo storicismo assoluto crociano, o ancor più specificamente, la critica che egli indirizza al logos storicista di Croce, ovvero alla possibilità che lo storicismo possa impadronirsi anche dell’aspetto etico, del momento decisivo dell’ascolto. Inversamente, il logos calogeriano deve sempre esplicarsi all’interno di una pratica dialogica, data dalla capacità comune d’intendimento dell’altro. Infine, effettuando un parallelo tra Croce e Calogero, si può dire che secondo quest’ultimo persino la comprensione della storia si può tradurre soltanto nel desiderio di comprendere gli altri. Tale struttura morale deve essere collocata dentro la cornice politica del liberalsocialismo, in riferimento alla capacità morale di intendere il “tu” calogeriano nello spazio democratico del linguaggio, esso costituisce lo scopo morale a cui ogni azione politica dovrebbe mirare. È proprio il riferimento morale al “lui”, quindi all’altro, totalmente ignorato dal liberalismo di Croce, a definire l’intero orizzonte storico-politico di Calogero: «il liberalismo è sempre dell’altro, mai di se stesso, e si deve tradurre nella giusta libertà che bisogna attribuire, con i mezzi politici opportuni all’altro.» (p. 118). L’azione politica progressista calogeriana è improntata decisamente su politiche egualitarie in favore dei bisognosi (ad esempio provvedimenti legislativi intenti a distribuire in modo più equo il reddito sociale). Se per Croce tali politiche, in considerazione del proprio contenuto economico, devono essere necessariamente sancite dalle leggi provvidenzialistiche della storia, al contrario per Calogero esse costituiscono nient’altro che un atto di riconoscimento nei riguardi del “tu”. Postorino sostiene che il realismo politico calogeriano non debba essere confuso con l’immanentismo crociano. Calogero afferma, infatti, che un partito non possa riduttivamente rifarsi a un principio pragmatico in quanto tale limitato alla contingenza dei fatti, ma che piuttosto debba ricavarsi una “terza via” di composizione dell’eterna assenza di convergenza di libertà e giustizia.                                                                                                            Osserviamo poi come, tra le file degli azionisti, Noberto Bobbio rivesta una funzione centrale, poiché egli ha il merito di aver operato un vero e proprio capovolgimento della dialettica storica crociana, sostituendo alle opere “buone” della storia il ruolo centrale della persona, in quanto centro assoluto di valori.

Pur avendo compiuto i suoi primi studi sul terreno della fenomenologia husserliana, Bobbio abbraccia presto il filone culturale del personnalisme, che lo condurrà in direzione di una concezione liberal-democratica dagli ampi accenti sociali. Egli mostrò immediatamente la sua ritrosia nei confronti del filone esistenzialista, pur giungendo, tuttavia, ad accettare un distinguo tra un esistenzialismo passivo ed un altro positivo. E quest’ultimo vuol far riferimento a una corrente filosofica nata in Italia, il cui iniziatore è Nicola Abbagnano, la quale è sì alla ricerca del limite umano esistenziale, ossia della finitudine dell’uomo, ma senza precipitare nelle tele del nulla e del nichilismo. In una prospettiva più generale, l’esistenzialismo scompagina lo storicismo assoluto crociano, mettendo al centro l’uomo, ovvero un soggetto determinato (con il suo nome e cognome e la sua fisicità), che costituirebbe il vero punto di partenza ai fini della comprensione del reale (p. 147). Ciò nonostante, Bobbio teme quella deriva “decadentistica” dell’esistenzialismo, quella di un uomo che ormai con sguardo disincantato ha annunciato la morte di dio, che ripiegato su stesso non intende più interloquire con le sofferenze dell’altro. Quindi l’uomo esistenzialista è, per Bobbio, un uomo che ha smarrito ogni ragione sociale. Ora non v’è più il “tu” calogeriano, ma un uomo nichilista, posto in difesa di sè stesso e immerso nel proprio nulla. Diversamente, l’uomo dei personalisti è chiaro, empatico e vicino al tema della solidarietà sociale, dunque pensare la persona vuol dire porre l’accento sulla questione della giustizia sociale. Sebbene Bobbio sia propugnatore di ideali neo-illuministici, egli sostiene comunque che non si possa completamente voltare le spalle all’esperienza storicista ottocentesca: il suo è, però, uno storicismo relativo, cioè liberato dalla gabbia metafisica di Croce. La persona, secondo Bobbio, deve infatti muoversi in una sfera di tensione tra il concreto e l’astratto, allorché l’astratto è quel di più, quella peculiare eccedenza custodita in ogni individuo innalzato a valore. Il neo-illuminismo di Bobbio è sorretto dalla storia, ma tuttavia senza ridursi a un’accettazione dei meri fatti della storia. Persino Croce si oppone alle teorie nichiliste, ma ciò che accomuna neoidealismo crociano ed esistenzialismo, è la medesima svalutazione dell’individuo; da una parte v’è un individuo esistenzialistico totalmente proiettato verso il nulla, dall’altra un individuo totalmente assimilato, e ridotto in pezzi, in una realtà-spirito che trova il proprio compimento nelle singole e perfette opere immanenti della storia. Ciò che emerge dall’impegno personalistico di Bobbio è l’affermarsi del Sollen, del fascino speculativo del dover essere, secondo cui la persona deve essere il centro assoluto dei valori (p. 150): «una filosofia dei valori (Sollen) che scavalca le ragioni, pur apprezzate, della storia effettuale (sein)».

È necessario notare il fondamentale passaggio di Bobbio dall’idea di una filosofia prescrittiva a un approccio di tipo metodologico, che lo avvicina all’impegno avalutativo della scienza. Ciò sembrerebbe contrapporre l’atteggiamento speculativo che caratterizza la scuola neoidealista e il metodo analitico bobbiano, nel quale sembra prevalere la componente empirica; in realtà, Bobbio non intende in alcun modo estirpare la radice del suo Sollen in nome dell’osservazione empirica e della sperimentazione positivista. La sua eterna tensione tra l’ideale e il reale dimostra quanto il suo Sollen sia inestirpabile. Egli sostiene sia necessario «essere un po’ utopisti e un po’ realisti», ossia quanto sia necessario adottare un approccio di tipo scientifico nel metodo, per poi riflettere con un approccio tendenzialmente ontologico, giacché non è possibile eliminare la tendenza naturale a crescere insita nel destino di ogni persona. In tal modo Bobbio, pur non essendo per definizione un naturaliste, giustifica sul piano storico la prospettiva del diritto naturale come uno degli elementi fondativi della costruzione di uno Stato liberale moderno. Così, se da una parte egli accoglie parzialmente il giusnaturalismo, da un’altra parte aderisce alle prospettive classiche del positivismo (l’istituto della certezza del diritto, il principio della legalità etc).

In conclusione, volendo fornire un quadro sinottico parziale del saggio, si può evidenziare come l’analisi elaborata da Postorino porti alla luce la posizione fondamentale rivestita dalla legge del Sollen, che Croce tenta inutilmente di assorbire, e di superare, all’interno del suo storicismo assoluto; poiché è proprio la dimensione trascendentale, il momento religioso, a condizionare l’operato politico del suo Partito Liberale. Nell’immanentismo crociano è presente il tentativo di oscurare qualunque prospettiva trascendentale; e mi riferisco alla critica che egli muove all’azionismo e alla sua tensione continua verso il reale che nasce dal rifiuto di un storicismo assoluto considerato privo di sostanza pratica. Il messaggio azionista nasce, infatti, dal riscontro effettuale con la realtà e con l’esperienza. Il tu devi (Sollen) calogeriano e bobbiano, e degli altri azionisti, nasce e si erge nell’agone della lotta politica e culturale contro le molteplici manifestazioni del male, dunque contro il Fascismo e il razzismo. Mentre la libertà religiosa di Croce rifugge la funzione livellatrice dell’uguaglianza, d’altro canto gli azionisti inseguono l’ideale di una libertà autentica interamente rivolta all’altro, al “tu” calogeriano, nel sentiero dialogico di un’infinita comprensione (p. 203). Sebbene gli azionisti si muovano all’interno di prospettive appartenenti alla tradizione esistenzialistica, essi non riabilitano l’immagine dell’ “uomo decadente” che, disancorato dall’impalcatura divina che ne reggeva l’esistenza e posto in una condizione di gettatezza al di fuori di ogni orizzonte di senso, va incontro fatalmente al proprio nulla. Ma sulla scorta di un esistenzialismo di segno diverso, viene posta in primo piano la persona come centro assoluto di valori. Ciò che viene a determinarsi è una visione politica, filosofica e culturale posta al confine tra lo storicismo assoluto e il pensiero nichilista, ad intrecciare l’onnicorrelativo rapporto tra socialismo e liberalismo. Infine, se il pensiero crociano nel segnare la parabola idealistica del suo liberalismo ha finito per confinare il problema sociale nell’alveare dello pseudoconcetto, gli azionisti invece si muovono nel tentativo di risvegliare la coscienza italiana dal proprio torpore, e come dal titolo del volume, da “l’ansia di un’altra città”.

                                                                                       Luigi Somma