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Rivoluzione (una recensione)

di Ivana Rinaldi

 

Scorrendo il volume Rivoluzione curato da Domenico Bilotti e edito da Castelvecchi ci si aspetterebbe una trattazione delle rivoluzioni “storiche” dell’età moderna, da quella francese a quella sovietica. A sorpresa, invece, gli scritti, che vedono, oltre l’ampio saggio di Bilotti, i contributi di Giuseppe Carbone, Francesco Cecere, Ola Cuzba, Guido Liguori, Laura Paulizzi, Maria Reale, Rosaria Zuccarello, sono un viaggio stimolante sulle molte e possibili declinazioni che il termine assume, dalla scienza all’arte, dalla poesia alla letteratura. Pur conservando il taglio del giurista con uno sguardo rivolto alla storia e ai mutamenti sociali politici culturali che hanno attraversato i secoli e la contemporaneità – non a caso, Antonio Coratti e Ivana Zuccarello nell’introduzione citano la raccolta di poesie di Bilotti Le lenti del giurista – l’autore ci offre uno sguardo originale e per nulla convenzionale su eventi, periodi, figure, capaci di interpretare “l’essere rivoluzionario” nelle sue molteplici pieghe e significati.

Lo fa a partire dalla scienza, ripercorrendo le intuizioni di Galileo che sovvertono il metodo scientifico e scardinano certezze. Galileo ha il merito di “aborrire incrostazioni, retaggi e creduloneria”: è una rivoluzione, la sua, del linguaggio, dei significati, degli usi e delle pratiche che si attribuiscono alle parole. E per questo politica. In Vita di Galileo, Bertold Brecht, seppure lavorando di fantasia, come si addice al teatro, ci restituisce un credibile quadro storico in cui il grande scienziato agisce in verità, ma con prudenza, da uomo libero. Allo stesso modo, Albert Einstein, andando oltre il suo lavoro di fisico e matematico ateo che mette in crisi o in soffitta -dipende dai punti di vista – ogni credo che non sia assertore della libertà altrui, propone un pensiero fortemente antiautoritario e contro ogni forma di violenza: “La non violenza è un metodo che contiene un dispositivo, è un mezzo dell’azione, che contiene il suo fine, la pace”. Il fisico e filosofo statunitense Thomas Khun (19922-1996) conferma ne La struttura della rivoluzione scientifica il principio di relatività, secondo il quale la scienza non dovrebbe mai prestarsi ad assoluti. La domanda che sorge è se sia possibile applicare i principi della rivoluzione scientifica alle rivoluzioni politiche. Quando possiamo parlare di contenuti rivoluzionari o riformisti di un dato sistema? Qui si ricorre all’idea di conflitto, che può rovesciare un sistema attraverso l’esercizio della violenza, o essere “inglobato” e permettere mutamenti, come nel caso di una nuova carta costituzionale. Certo, se viene a mancare l’atto “liberatorio”, espressamente aggressivo, non potremmo affermare si tratti di vera rivoluzione. Allo stesso tempo, tuttavia, è pur vero che un colpo di stato può lasciare inalterata la Costituzione presistente. Pensiamo al fascismo che lasciò in vigore lo Statuto Albertino pur avendolo svuotato dei suoi contenuti. Rivoluzione è dunque un “oggetto” in divenire e in continuo mutamento, di cui è difficile stabilirne i confini semantici e di contenuti.

Un passaggio fondamentale del volume è lo spazio dedicato a uno dei più grandi teorici italiani del potere, Machiavelli, su cui si forma il pensiero delle classi colte e rivoluzionarie nel corso della modernità. Al di là di letture folcloristiche, Il Principe fornisce indicazioni su come gestire il conflitto ricorrendo, se necessario, all’atto militare: pur non avendo introiettato il linguaggio moderno della rivoluzione politica, né quello della libertà individuale, né una soggettività universale, nel Principe è presente una acuta critica non solo al popolo, ma, più spesso, ai suoi governanti.

A proposito dell’identità culturale che caratterizza l’Italia divisa, abbiamo due esempi di letterati e poeti che non hanno mai disgiunto la creatività dall’impegno politico: Ugo Foscolo, in particolare nelle Ultime lettere di Jacopo Ortis, e il Giacomo Leopardi dello Zibaldone. Non manca dunque in questo trattato uno sguardo profondo all’arte e alla poesia, nelle figure dirompenti di Van Gogh, Munch, Majakovskij, Hikmet. Artisti e poeti che hanno saputo interpretare il malessere della propria epoca e trasferirlo in maniera sublime nella loro opera. In particolare il grande poeta russo, cantore della Rivoluzione e morto suicida, ha la statura di un grande intellettuale. Profondamente critico verso il nuovo potere sovietico e che con “grazia, profondità, ed efficacia” esprime le urgenze di una rivoluzione permanente, tradita. Lo stesso Hikmet avverte la menzogna del potere dispotico che si è sporcato le mani, tra il 1915 e il 1916, del genocidio, negato, degli armeni. Nel poeta turco vi è una domanda di umano che si esprime nella vita e nella poesia, e che gli costò anni di carcere e di esilio. Nel Pantèon dei grandi intellettuali non possono mancare Gramsci, Simone Weil, Pasolini, ognuno critico in maniera diversa del proprio tempo. Figure che non smetteranno mai di interrogarci. Di Gramsci si coglie la sua attenzione alla cultura e al paradigma di “egemonia”, criticato da una certa sinistra che vede nell’egemonia culturale un argomento raffinato per eledure il tema di un’organizzazione militare della rivoluzione. Mancanza che secondo alcuni critici costerà al più grande partito comunista dell’occidente, il Pci, un senso di doppiezza tra istituzione e conflitto, tra morale e prassi, tra riformismo nazionale e vocazione internazionale, tra socialismo e socialdemocrazia. Di Simone Weil si sottolinea la distinzione tra “rivoluzione” e “guerra rivoluzionaria”, quest’ultima tomba della prima poiché costringe le aspirazioni rivoluzionarie al diritto di guerra. Una premessa ontologica all’elaborazione della non-violenza, come quella di Gandhi, e del pacifismo antimilitarista della seconda metà del XX secolo. In Pasolini troviamo il critico più feroce dell’omologazione ai valori delle classi dominanti che si esplicita in particolare nel consumismo che accomuna tutti, nello pseudorivoluzionarismo di molta gioventù dell’epoca, immolata invece, secondo lo scrittore corsaro, ai valori del capitalismo, nel sentire, nei consumi, nei modelli di vita.

Nel lungo sguardo che caratterizza il volume non mancano spunti di riflessione sulle rivoluzioni che hanno segnato il secolo scorso: la rivoluzione culturale cinese voluta da Mao, la recente rivoluzione islamica in Iran, tornata tristemente alla ribalta negli ultimi mesi per le proteste delle donne e dei giovani che rivendicano vita e libertà, repressa in modo spesso feroce, confermando quanto le aspettative riposte in essa anche da intellettuali europei, come Foucault, fossero illusorie. Tanti gli spunti di riflessione contenuti nel volume, ogni capitolo meriterebbe un approfondimento. In realtà, ci troviamo di fronte a temi fluttuanti, come fluttuante è la natura dell’essere umano, dice Domenico Bilotti, citando Tolstoj: “La natura fluttuante dell’uomo precede e determina la pari natura fluttuante della rivoluzione: la rivoluzione è fatta di persone, non di automatismi impersonali”. Se è per sua natura instabile, e può favorire il suo insorgere, come la sua morte, ha sempre e comunque come denominatore comune la speranza e il futuro.

Tra i pregi del volume, oltre alla ricca antologia di scritti critici in chiusura, l’attenzione a figure femminili che hanno aperto la strada dell’emancipazione, come Olympe De Gauges, di cui Laura Paulizzi commenta lo scritto Une pièce contre l’esclavage. Originale Il gesto rivoluzionario nell’arte contemporanea a cura di Ola Cuzba, che rompe con i linguaggi precedenti, sperimenta parole, suoni, animali, aria, neve, cibo, rifiuti. Tra gli artisti interpreti di questo nuovo sentire, Cuzba cita Lucio Fontana, Jackson Pollock, Yves Klein, John Cage, l’Arte povera di Kounellis.

Rivoluzione è insomma un libro da leggere e di cui discutere.

 

Virus e Rivoluzione: pensare globalmente e agire localmente

Stato di guerra e situazione pandemica si distinguano in un punto affatto significativo: laddove la guerra implica conservazione, la pandemia necessita di una rivoluzione. Con le parole di Annamaria Testa per Internazionale : «Non è una guerra perché le guerre si combattono con lo scopo di difendere e preservare il proprio stile di vita. L’emergenza ci chiede, invece, non solo di progettare cambiamenti sostanziali, ma di ridiscutere interamente la nostra gerarchia dei valori e il nostro modo di pensare».

TRA IL DIRITTO SECOLARE E LA FILOSOFIA POLITICA LAICA: COSTITUZIONALISMO E CULTURA NELLA TUNISIA ODIERNA

La Tunisia sembra destinata a rimanere per gli atlanti non molto più che una virgola di interludio tra l’Algeria e la Libia. Eppure, la sua vitalità culturale, le sue transizioni costituzionali e i suoi moti popolari, accesi e vivaci, quanto spesso sofferti e testimoniali, certificano un’importanza anche di natura geo-strategica assai superiore alle apparenze. Questa indubitabile rilevanza si traduce in una facile suggestione emotiva per l’Italia insulare: la Tunisia è più vicina alla Sardegna e alla Sicilia che alle regioni libiche e algerine non mediterranee. Terra composita, quella tunisina, politicamente portata a un’innovazione perseguita con fierezza e originalità, a far data, almeno, dai moti repubblicani del 1954-1957. E anche terra dove la tradizione, l’uso, la consuetudine e il retaggio – elementi etnologici ed elementi giuridici, elementi letterari ed elementi politico-istituzionali – non si sradicano mai con l’accetta, ma resistono, progrediscono, talvolta si incistano, più spesso si evolvono. Lo conferma il diritto di famiglia repubblicano: la Tunisia è, o perlomeno è stata, emblema di una regolamentazione non esclusivamente coranica delle relazioni inter-privatistiche, non riconducibile, però, nemmeno all’intransigenza legalista del diritto francese statuale.

In Tunisia, sin dagli anni Cinquanta, istituti di civiltà avvicinano la donna e l’uomo, innaturalmente separati da vincoli attribuiti alla religione, ma di fatto imposti dalle interpretazioni teocratiche della spiritualità collettiva. Esiste un’età minima per contrarre matrimonio, la poligamia da mettere al bando è una spinta centrifuga, e non centripeta, rispetto alla familiarità tradizionale, la sposa deve poter acconsentire (non obbedire!).

Il diritto civile tunisino, in molti campi (dalla prospettiva laburista a quella commerciale, dalla famiglia alle successioni), è stato capofila della transizione maghrebina ed è patrimonio di conquiste sociali che non meritano di concedersi ad arretramenti e ad aggressioni.

Nel 2015, il “quartetto per il dialogo nazionale tunisino” (organo composto dalle associazioni degli imprenditori, sindacalisti, attivisti e avvocati) ha conquistato il Nobel per la Pace. Lo spirito di quella concertazione ampia, improntata a un pluralismo prudente, resta nella Costituzione, ma (e ce lo segnalano i complicati lavori preparatori) la Costituzione è anche necessità di compromesso e rappresentanza di forze sociali che furono meno propense alla repubblica democratica. E di agenzie che quel cambiamento avrebbero voluto orientare a proprio uso e consumo. La rivoluzione del gelsomino, insomma, proficua infiorescenza delle primavere arabe, anche di quelle che si sono chiuse con “l’inverno del nostro scontento”, è da difendere nella sua scaturigine primigenia di presidio e difesa della libertà e della dignità umane. Valga, però, un ammonimento biblico, qui assunto nella sua furente carica figurativa e non nella sua accezione giuridico-confessionale. Anche lupi vestiti da agnelli ordiscono insidie al futuro del popolo tunisino: bisogna guardarsene.

La lezione più importante che viene dalla recente storia tunisina non ne fa, d’altra parte, capofila per il solo mondo arabo: nella storia nazionale, l’elogio della dialettica e quello della riflessione, il vissuto dell’introspezione e quello della politicità, convivono fino ad animare un preciso cotè letterario. È tunisino, Rafik Darragi, di un Paese a lungo sottoposto al giogo francese eppure in costante comunicazione con l’intellettualità del circuito accademico parigino. Darragi è sovente ritenuto il più insigne studioso di Shakespeare, il massimo poeta inglese, emblema della Gran Bretagna (non della Francia!) quanto e più della Corona in quanto tale. Un mite accademico al cospetto del Bardo inglese. Un’altra contraddizione: lo schivo studioso davanti al poeta che ha fornito l’insuperata lettura pubblica del teatro, come unità di misura del potere e luogo di lotta a quello stesso potere.

Tunisino è pure Sadri Khiari, il maggior oppositore del discusso intellettuale di riferimento del mondo arabo in Occidente, Tariq Ramadan.

Il seme della dialettica e della tensione che si unisce al dono della riflessività è espresso nella vicenda poetica e biografica dello scrittore nazionale per antonomasia, Abu l-Qasim al-Shabbi: erudito illuminato, morto a venticinque anni, precoce cantore del bisogno di una riforma antiautoritaria, sin dal periodo del protettorato francese. Ora emblema di orgoglio patrio, ieri lirico che stigmatizzava il suo popolo: additarne i vizi, incitarlo alla lotta. Parole attualissime nel loro incedere lacerante, poco meno di cent’anni dopo, nella Tunisia che freme contro il carovita e l’austerità, ma che prova a difendere il pluralismo costituzionale senza frantumare il fragile equilibrio raggiunto con controparti anche dichiaratamente ostili alla repubblica laica. Una sfida che riguarda noi tutti, non solo i poeti che passeggia

La volontà generale

Un saggio che analizza la volontà generale nella sua genesi, fornendo analisi e prospettive accurate partendo da una ricca letteratura aggiornata. Un ricerca sul fondamento teorico del Contratto sociale di Jean Jacques Rousseau.