Tag Archivio per: Speaker’s Corner

Nichilismo e insorgenza nell’analisi hegeliana del divenire

di
Rosario Gianino

Il testo che segue è il risultato di una lettura della Scienza della Logica di Hegel, ed in particolare delle analisi dedicate alla categoria del “divenire”, che si trovano nel libro, sezione e capitolo, primi dell’opera[ref]Scienza della logica, G.W.F.Hegel, trad. Moni, rev. Cesa, Laterza, Bari 1988, tomo primo, pp. 71-102.[/ref].

1.

Per cominciare richiamiamo l’attenzione del lettore di queste pagine sul doppio statuto che la negatività insita nella categoria del divenire viene ad assumere nella teoresi del nostro autore.  Questa lettura individua due negazioni attive nel divenire. Nel divenire abbiamo il nulla. Questa è la prima negazione. Ma abbiamo anche l’annullamento del nulla. Questa è la seconda negazione. La lettura cerca di mostrare come questa doppia scansione all’interno del testo del filosofo di Stoccarda permette di ordinare la direzione ed il senso del processo dimostrativo messo in opera nella trattazione del divenire.

2.

Nel divenire hegeliano abbiamo una negazione immediata: l’essere che insorge nega il nulla; l’essere che sparisce si nega. Così inteso, il divenire, in cui l’essere insorge “dal” nulla e sparisce “nel” nulla, si costituisce in forza di una negazione immediata dell’essere: il nulla da cui l’essere insorge e lo stesso nulla in cui l’essere sparisce. L’analisi del divenire hegeliano però non finisce qui. La negazione immediata dell’essere è contraddittoria. Essa implica l’unità contraddittoria di essere e nulla: implica che essere e nulla siano lo stesso. Implica quindi che questo rapporto tra essere e nulla, non sia un rapporto possibile e che ad iniziare e a finire siano l’essere ed il nulla insieme. Nel divenire, come insorgenza dell’essere dal nulla e sparizione dell’essere nel nulla, è lo stesso essere che è nulla che insorge per sparire. Dunque la negazione immediata dell’essere, si determina essa stessa come nulla che nega se stesso contraddittoriamente. Il divenire costituendosi attraverso la negazione immediata, allo stesso modo attraverso questa negazione immediata si determina come nulla, in forza della sua contraddizione annichilente. Se il divenire che insorge e sparisce si autosopprime, la sua determinazione, la sua destinazione, è quella di lasciar dischiudere l’esserci, il qualcosa che non è altro. Nel divenire c’è qualcosa che diviene. Ed il qualcosa che diviene, insorgendo e sparendo, non si annichila ma si altera. Provenienza e destinazione del divenire non sono più il nulla del moto insorgente e dissolvente, ma il qualcosa ed il qualcos’altro della mutazione.

A quale condizione si può fare del nulla, dell’indeterminato, un qualcosa, un determinato ? Non immediatamente per la relazione tra essere e nulla come si costituisce nel divenire nel senso del flusso (Fluss) fluente del movimento. Tanto è visibile la fluidità del movimento, quanto la contraddizione è invisibile. Solo a condizione che la relazione immediata del divenire possa venir rapportata a se stessa, possa rapportarsi a se stessa, si rivela la contraddizione dell’immediatezza. Allora la negazione immediata si rovescia in negazione determinata. E nella sua autorelazione la fluidità del movimento diventa il mutamento di qualcosa. Il Nulla è nulla, quindi sparisce esso stesso, solo se può esser riferito a se stesso da qualcosa d’altro che non è nulla ma che tuttavia vi si include (il qualcosa che diviene) includendolo (il divenire di qualcosa).

2.

Si è visto come la categoria del divenire contenga un rapporto differenziale immediato e indeterminato, quello che astrattamente viene fissato dalla contraddizione tra essere e nulla.

Se tale relazione è contraddittoria, allora impedisce lo stesso rapporto e la stessa differenza, la stessa relazione tra i due termini. Così la relazione differenziale tra essere e nulla, assume il carattere negativo della contraddizione (Widerspruch). Tuttavia per Hegel la stessa impossibilità contraddittoria di una relazione tra essere e niente, se pensata in rapporto a se stessa, cancella l’astratta fissazione dell’essere e del nulla come opposti e diversi. Quindi la contraddizione tra essere e nulla, nel suo risultato nullificante, come appare solo ad un divenire capace di autorelazione, in Hegel, non ostacola e rende impossibile il divenire, quanto piuttosto consente che accada qualcosa come un “transito/passaggio/oltrepassamento” (Übergang), un “movimento”(Bewegung).

Nel divenire, insorgenza e sparizione rendono possibile come un “attraversamento” del nulla, l’apertura di un “valico” verso il qualcosa e l’altro. La differenza, ad un tempo astratta, immediata e indeterminata, di essere e nulla, che risulta contraddittoria e quindi irresolubile e incomprensibile[ref]dieser Widerspruch, den man selbst setzt und dessen Auflösung unmöglich macht, heißt das Unbegreifliche. Per il testo tedesco: Wissenschaft der Logik, Erster Teil, G.W.F. Hegel (EBook #6729), The Project Gutenberg, Posting Date: November 9, 2012, Release Date: October, 2004 First Posted: January 20, 2003; Epub con immagini scaricabile qui: http://www.gutenberg.org/ebooks/6834 , p.156-167.[/ref], è da Hegel pensata, proprio nel rispetto delle regole logiche (logische Regeln),  nell’unità antinomica del risolversi reciproco dei termini contraddittori, unità in cui i diversi precipitano nello “stesso” (selbst) e vanno pensati in quel punto della loro coincidenza in cui la loro differenza indifferenziandosi,  si annulla e sparisce[ref]ein Punkt enthalten, worin Seyn und Nichts zusammentreffen, und ihre Unterschiedenheit verschwindet. Ibidem p. 117-118.[/ref]. La contraddizione distrugge i termini contraddittori, e distruggendo i termini annulla l’impossibilità stessa del loro rapportarsi reciproco. In forza della stessa contraddizione astratta l’immediato si determina come indeterminato e indifferenziato. Così l’immediatezza trova nell’astrazione il modo di rapportarsi alla propria indeterminatezza.

3.

In rapporto a tale duplicità del negativo contraddittorio, da una parte indifferenziante e indeterminante, dall’altro determinato e determinante, il divenire mostra il suo doppio volto, da un lato mutamento metamorfico e dall’altro moto insurrezionale. Nella consapevolezza della natura del divenire, lo stare in relazione al cambiamento, al volto progressivo del divenire, non può prescindere dallo stare in rapporto al lavoro catastrofico della distruzione. Questo sarebbe il doppio statuto che la negatività insita nella categoria del divenire viene ad assumere nella teoresi hegeliana. Hegel sempre sottolinea il momento essenziale, per la logica e il sapere, della contraddizione come negazione determinata, e quindi relativa ai termini che nullifica. Eppure la contraddizione è e rimane, basicamente, negazione immediata e astratta.

4.

Prima di svolgere ulteriormente la macchina della negazione nel suo doppio statuto di annientamento e autodeterminazione, all’interno della categoria del divenire, si vuole indicare il campo concettuale vasto e trasversale che una lettura delle nozioni di “immediatezza” e “astrazione” può far emergere in relazione ad una complessiva interpretazione della filosofia hegeliana.

5.

“Astratto”. Come dire il separato, l’isolato, l’estratto da un contesto e posto nella sua unilateralità in qualche modo prodotta e tenuta ferma, fissata nel risultato di un processo. Dunque “astratto” è termine di una elaborazione che è stata resa possibile da un movimento di separazione, di astrazione. L’astratto collocato nel suo contesto di astrazione, non sarebbe più tale, mentre laddove quel contesto sia stato dimenticato, sia precipitato nell’oblio, allora l’astratto manterrebbe di diritto questa sua denominazione che lo significa come separato dal processo stesso di separazione, che pure ha agito da forza propulsiva e insorgente per produrlo. L’astratto, l’intero mondo delle categorie intellettuali che nella logica egheliana vengono esaminate, si presenta come tale a motivo di una sorta di assenza di memoria, di un’incapacità di ricordare, che affetta la consapevolezza intellettuale, riducendone la dimensione cognitiva, che non saprebbe ricondurre le categorie al processo della loro insorgenza nel divenire.

5.

Aver coscienza dell’astrazione, (Abstraktion), si può solo dove sia altrettanto forte la memoria (Erinnerung). Che rapporto intrattengono la Scienza e la Logica con l’astrazione? Astrarre è una risorsa del soggetto, come lo sono sia la Scienza sia la Logica. Il soggetto, al di là di una sua decodifica meramente antropologica o psicologica, costituisce la sfera del proprio sulla base del potere che irradiando da un centro mantiene attiva la sfera di appropriazione, in equilibrio vantaggiosamente asimmetrico o unilaterale con l’esteriorità, con l’ alterità, e più radicalmente con la propria distruzione. Ora l’astrazione è un potere che esercita una vera attività, secondo il dettato hegeliano: il potere (Können) dell’astrazione sarebbe inteso come “attività del niente”[ref]das Thun des Nichts. Ibidem p. 149.[/ref],  come “l’unilaterale attività del negativo”[ref]das einseitige Thun des Negativen. Ibidem p. 149.[/ref].  Tale potere viene specificato da Hegel come capacità di ridurre all’indifferente (gleichgültig), che qualcosa sia o non sia, che l’essere o il nulla stessi sparisca (verschwindet) o sorga, (entsteht). Abbiamo dunque, in questa asserzione hegeliana, l’attestazione di quell’impostazione secondo cui astrarre e cioè rimaner indifferenti all’essere o al non essere, e quindi potere e sapere agire in modo da annullare l’essere e dare un essere al niente, sarebbero prerogative del costituirsi di un centro di potenza, o ancora prerogative e tratti dell’attiva soggettiva autocostituente. Agire per negare l’essere e per negate lo stesso nulla dell’essere, sarebbero condizione di possibilità di una capacità (Vermögen) autopoietica. Il soggetto, cioè ogni centro di potere e di attività assoggettanti, dominanti e unilaterali, si affermerebbe in base a processi di astrazione  progressiva dal contesto dinamico del suo divenire, in cui sconterebbe il nulla immediato del proprio essere insorgente e finito. Proprio agendo negativamente non solo sull’essere ma anche e soprattutto sul nulla dell’essere, il soggetto si edificherebbe come centro di riferimento di ulteriori relazioni e dinamiche possibili. Le categorie logiche astratte, in quanto risultato del processo di elaborazione esperienziale autocentrata e autoriferita, sarebbero le forme del agire soggettivante, insieme documento e strumento di autoaffermazione, quindi di lavoro. Ogni ordinamento formale logico astratto, sia esso finito, empirico o speculativamente assoluto, avrebbe a che fare con l’esercizio di un agire  negativo autoreferenziale, di un agire negante che nega l’immediata nullità del proprio essere. Dunque questo lavoro di soggettivizzazione si caratterizzerebbe nel suo fondamento come capacità riflessiva di rapportarsi negativamente alla negazione immediata che si è, in modo che grazie a questo agire riflessivo ci si possa insediare in quel punto d’indifferenza in cui il nulla si rovescia in positiva affermazione di qualcos’altro. Questa impostazione hegeliana è stata sottolineata ripetutamente dagli interpreti. Ciò che qui si vorrebbe intravedere e si cercherebbe di ribadire è che in tale autorapporto soggettivante, la negazione determinata e relazionale si rapporta sempre ad una negazione più basica e immediata, ad una cancellazione. Essere soggetti è poter astrarre, ossia agire il negativo, rapportarsi alla propria cancellazione, negandola. Esser soggetto di sé stessi: negare il proprio nulla.

6.

L’ “immediato”, come l’astratto, è l’isolato. Esso è l’irrelato, ciò che ancora non è preso in un rapporto determinante e unilaterale, e quindi non è collegato, connesso, dipendente o condizionato, complementare ad altro. L’immediato è ciò che ancora non funge da medio, che quindi non media, ed in cui non si media, che non elabora e non lavora, ed in cui non si elabora e non si lavora, che non documenta in alcun modo una capacità ed un potere soggettivanti. L’Immediato, lasciato in tale abbandono o anche pensato e oltrepassato in tale bando, è la pura indifferenza dell’essere dal nulla, il radicale annichilimento dell’essere nel nulla, l’equivalenza dell’insorgere e dello sparire nell’essere senza provenienza e senza destino.

7.

L’astratto domina l’immediato determinandolo. Si eccepisce in esso, vi si include escludendolo, si appropria, facendosi espropriare da esso. Lo pensa come contraddizione nuda e viva ma già risolta ed oltrepassata, lo presuppone come negazione che deve essere negata, negazione da destinare al suo nulla proprio e determinato. L’astrazione deve presupporre l’immediato come  quel negativo in cui il suo agire negante è incluso e circoscritto, pur eccependosi ed escludendosene. L’immediato è catturato dall’astratto e quindi usato, messo al lavoro,  rivolto a proprio unilaterale vantaggio. L’astratto è appunto il risultato di un processo e di una dinamica autoaffermativa e autorelazionale, di un lavoro, che presuppone il nulla radicale del proprio essere come qualcosa da negare proprio riconoscendovisi. Così la potenza dell’astrazione è potenza del ricordo che mentre vince l’oblio consegna all’oblio. L’immediatezza di ciò che fu, permutata in astratto ricordo, nega quel nulla a cui consegna l’esser stato di ciò che è trascorso, e che altera in qualcosa d’altro, di positivo in quanto attivamente posto e elaborato. Il ricordo è il mettersi in rapporto ad una cancellazione mediante qualcosa d’altro che il nulla immemorabile.

8.

Nell’analisi della categoria del divenire Hegel presuppone nell’astratto (l’essere ed il non essere) in forza della stessa potenza negativa di cui è espressione (l’essere non è il non essere e il non essere non è l’essere) che conduce sino alla contraddizione (l’essere è il non essere sono lo stesso), un certo fondo basico  primordinale, anzi primordiale (il nulla di essere e non essere nel divenire).

Nella categoria astratta e contraddittoria del divenire, Hegel allora cattura quell’immediatezza violenta dell’accadere, senza cui non vi sarebbe alcuna possibilità di agire poi in modo negativo. L’astrazione che permette di afferrare la struttura contraddittoria dell’immediatezza (giacché è solo per gli astratti essere e nulla che si dà nel divenire la loro unità contraddittoria), presuppone l’immediatezza di un divenire, senza provenienza e senza destinazione, che nega radicalmente l’essere, (giacché è solo perché il nulla è, irreparabilmente, nulla, nulla dell’essere e del niente, che qualcosa d’altro può costituirsi).

Tentando di ricapitolare quanto esplorato sino ad ora, si vorrebbe ribadire come nell’analisi del divenire Hegel decida di rinvenire, tramite l’astratto ricordo della struttura originariamente contraddittoria dell’immediatezza, il presupposto dell’esercizio di ogni appropriazione e dominio temporale, storico o logico.

9.   

Astratto e immediato non sono solo lemmi coordinati. Sono l’uno condizione dell’altro.

Se il potere dell’astrazione si misura nella capacità di insediarsi nel punto indifferente, (gleichgültig) tra essere e nulla, allora l’immediato è quel “transito” (Übergang) reciproco del nulla nell’essere (insorgenza) e dell’essere nel nulla (sparizione), in cui si presuppone accadere quella potenza dell’indifferenza. E’ l’indifferenza di tale “transito” ad essere condizione del potere dell’astrazione, e quindi persino apertura di un processo di avanzamento, e progresso. Il poter lasciare il nulla al suo nulla per qualcos’altro. Ora il transito nella sua dimensione strutturale originaria d’insorgenza e sparizione, è da Hegel inteso come violenza d’eruzione e d’irruzione. Il transito è tale in quanto in esso accade qualcosa che erompe (bricht hervor)[ref]Ibidem p.147[/ref] l’immediato ovvero l’immediato è tale in quanto sbarramento sempre rotto, spezzato, frantumato, spaccato, per una “fuoriuscita”[ref]L’ Ausgang kantiano di Che cosa è l’Illuminismo, ma anche la ripartenza dall’Esserci, del capitolo secondo della Logica di Hegel.[/ref]. E’ perché si da un’eruzione che spezza un velo sbarrato, che l’immediato si fa mezzo, strumento di mediazione. Per pensare l’ irr/eru-zione dobbiamo ritornare ancora ai due possibili sensi della negazione cui abbiamo già più volte fatto riferimento sopra. Da una parte c’è la negazione determinata, la negazione sempre relativa e specifica di un certo qualcosa, che prende la forma della contrapposizione e quindi del riferimento o della relazione[ref]Form der Entgegensetzung, zugleich der Beziehung. Ibidem p. 116.[/ref]. Essa separa e distingue, tiene insieme i differenti relati, tenendoli a distanza di sicurezza e garantendoli l’uno dall’altro. E come Hegel non si stanca di ripetere la Scienza e la Logica devono costantemente affinare lo sguardo rammemorante per saper cucire e connettere i pezzi dell’essente, ritrovandovi il filo del logos mediatore che li tiene insieme determinandoli reciprocamente nella loro distinzione, a preservarli dall’annullamento. Ma ciò presuppone proprio il più radicale e tragico confliggere annichilente ! Il mezzo della mediazione è proprio il nulla che si annienta ! E’ nel nulla che l’essere di questo e quello e il loro stesso niente, già da sempre e inizialmente, precipitano e spariscono, ed è sempre nello stesso nulla che insorge ed erompe, irrompe, un methodos , il varco di un passaggio. Nella via del nulla, senza provenienza e senza destinazione, sono disposti quel qualcosa che c’era, quel qualcosa da cui si proviene insieme a quell’altro qualcosa che è appena arrivato ed a cui si è destinati come al risultato del processo.  Ecco che appunto quel non essere relativo che consente il lavoro del discernimento sapiente dell’essente non sarebbe esso stesso aperto e manifesto se non fosse riconosciuto quel niente irrelativo della sparizione nella più radicale latenza, quel niente dell’insorgenza dall’occultamento radicale, quel nulla della dissoluzione, dell’annientamento o del più duro svuotamento. Per questo Hegel sottolinea che proprio a proposito della negazione non si deve dimenticare (non deve di essa darsi oblio, e quindi deve di essa proprio darsi rammemorazione) che vi è la negazione astratta e immediata[ref]die abstrakte, unmittelbare Negation. Ibidem p. 116.[/ref] : l’irrelativa “denegazione” (die beziehungslose Verneinung), espressa dal mero “non” isolato[ref]durch das bloße: Nicht ausdrücken. Ibidem p. 116.[/ref], il puro nulla in cui l’essere sparisce e da cui l’essere insorge, in cui irrompe e da cui erompe. Il nulla che sta tra un essente e l’altro e che sta dentro l’essere stesso, a romperne la compatta chiusura; quel nulla che segna la struttura aperta dell’essere stesso, la sua esposizione all’annientamento, la sua esposizione all’insorgenza e alla più radicale latenza. Questo “non” è posto e determinato come esito nullificante della contraddizione dall’astrazione ed insieme catturato come immediatezza iniziale del divenire: la contraddizione che dissolve l’astratto irrelato intellettualistico è infatti cifra di quel nulla in cui si spaziano i pezzi dell’immediato esposto al movimento del divenire.

10.

Hegel ha sempre e ripetutamente considerato la negazione determinata superiore alla negazione immediata. Hegel dice che fuori dal divenire del qualcosa in qualcos’altro, essere e nulla sono significati astratti[ref]abstrakt Bedeutung. Ibidem p.164.[/ref]. Il nulla (das Nichts), come è contenuto nel concetto del divenire, dovrebbe essere inteso piuttosto come il non-essente, (das Nichtseyn). Ossia sarebbe il non-essere altro contrapposto (Entgegengesetzt) e relativo dell’essere-qualcosa (Etwas), nella cui alterità è ancora contenuto e conservato il riferimento all’essere[ref]Beziehung auf das Seyn. Ibidem p.116[/ref]. Nella categoria del divenire il senso dell’essere dell’essente non precipiterebbe e sparirebbe nel nulla ma si trasformerebbe in qualche altro essente. Proprio per la sua capacità di contenere nell’astrazione l’immediatezza ricontestualizzandola e rielaborandola nel suo senso d’essere relativo all’essente, il divenire eracliteo è considerato da Hegel un concetto superiore[ref]den höheren totalen Begriff. Ibidem p.116.[/ref] rispetto all’astrazione indeterminata dell’essere parmenideo e del nulla orientale. E tuttavia quella stessa capacità superiore di mediazione concettuale che la categoria del divenire secondo Hegel esibisce non sarebbe possibile se non fosse stata fissata astrattamente quella nullificazione del senso dell’essere differente dal niente che costituisce la determinazione dell’immediatezza. Il divenire stesso nel seguito delle deduzioni categoriali viene come messo al lavoro nel processo che assoggetta l’immediatezza al dominio evolutivo o progressivo dell’essente. Ecco così che nel divenire viene pensata la produzione stessa dell’altro[ref]Hervorbringen eines Anderen. Ibidem p.119.[/ref], la generazione[ref]die Erzeugung. Ibidem p.140.[/ref], la nascita[ref]Geburt. Ibidem p.117.[/ref]. Questa concettualizzazione del divenire come produzione-generazione prelude alla possibile istituzione di un rapporto di fondazione, di causazione, comunque di ragione. Con tale interpretazione si istituisce la continuità graduale e determinata del filo logico di un metodo, come percorso, e di un discorso, come narrazione e dimostrazione tra gli essenti e da un essente all’altro. Risulta così pensabile un rapporto determinabile tra essenti reciprocamente negativi e determinati,  come sono Padre e Figlio, Causa ed effetto, Condizione e Condizionato. Se questo è l’impianto logico che deve mettere al lavoro il divenire, non bisogna dimenticare (anche se è proprio questo ciò che il ricordo non può rammemorare !) che esso cattura un basico <<passare oltre>> immediato, insorgente e dirompente: il divenire è lo stesso <<passare>>, Übergehen ist dasselbe als Werden[ref]Ibidem p. 135.[/ref].

11.

In Hegel il pensiero astratto del divenire cattura un’immediatezza primordiale. Così l’astrazione della contraddizione fa segno all’evento dello sparire[ref]Verschwinden. Ibidem p.114.[/ref], del dileguare, o del distruggersi[ref]zerstören sich. Ibidem p.160.[/ref]; l’evento della fine[ref]Vergehens. Ibidem p. 117[/ref] , della morte[ref]Tod. Ibidem p. 117[/ref]. Il nulla che rende possibile il divenire lascia che nella determinazione negativa si produca differenza come relazione e fondazione. Questo è il lato logicamente costruttivo e mediatore della negazione insita nel divenire. Si tratta qui di quel divenire che è metamorfosi, che rimanda dal qualcosa al qualcos’altro, che segnala sempre una provenienza ed una destinazione. Ma questo divenire come progresso ed avanzamento, processo e discorso, è reso possibile solo perché presuppone un divenire che è passaggio immemorabile, sparizione e distruzione, dissoluzione della differenza, indifferenziazione contraddittoria tra essere e non essere. Il mutamento, (Veränderung ) presuppone il moto (Bewegung). Il divenire stesso è presupposto come evento appropriabile, nell’agire unilaterale del nulla, che negandolo lascia spazio a qualcos’altro. Lo stesso qualcosa apre all’altro, solo sparendo nel nulla, passando via e lasciandosi passare oltre, lasciando aperto un transito. Così in Hegel il divenuto, o il risultato ha il carattere del non-essente (Nichtseyende) come altro essente, o altrimenti essente, essente determinato, ideale (Ideelle), sul presupposto, sul fondamento, di un esser soppresso, rimosso, rilevato (Aufgehobenes), che occorre pensare nella sua radicalità nichilistica di essere sparito (das Verschwundenseyn). Così il divenire egheliano non potrebbe produrre il divenuto senza l’azione unilaterale del nulla che fa sparire l’essere dell’essente sparito. Se l’immediato non precipitasse costantemente nel nulla, se l’essere non sparisse cancellato negli essenti diversi, non vi sarebbe apertura all’insorgenza.

Il fondamento basico (Grundlage), il campo fondamentale, del potere di astrazione, quindi ciò a cui ci si deve rapportare nell’astrazione e ciò che l’astrazione stessa è e produce nel suo rapportarsi, è quel moto in cui accade il far spazio per l’essente, come agire unilaterale del nulla. 

12.

Il risultato che qui come tesi si vorrebbe enunciare sarebbe dunque formulabile nella seguente asserzione: la macchina della negazione della negazione, dell’autoderminazione del negativo, è la potenza di un autorapporto che metta in relazione il cancellabile con la propria cancellazione definitiva e radicale.

Senza presupporre l’annientamento, la distruzione, cioè senza che si pensi dell’essere nulla, radicalmente niente di ciò che diviene, non si pensa l’esserci. Il passaggio nullificante, l’annientamento immediato, sta poi alla “base” del lavoro logico di relazione e riferimento mediatore che produce tutte le altre categorie intellettuali successive a quella dell’esserci. Questo annientamento autocontraddittorio di essere e nulla nel divenire è indicato da Hegel come “la prima verità fondamentale”[ref]erste Wahrheit ein für allemal zu Grunde liegt. Ibidem p.119[/ref] . Solo in rapporto all’autonegazione contraddittoria nel divenire dell’essere e del nulla si guadagna “l’Elemento in cui sono pensabili tutte le conseguenti determinazioni della logica”[ref]das Element von allem Folgenden…alle ferneren logischen Bestimmungen. Ibidem p.119[/ref]. Questo autoannullarsi della contraddizione è la verità immediata che si trova sempre innanzi a noi[ref]die allenthalben vor uns ist. Ibidem p. 120[/ref], e che ha persino una dimensione di manifestazione ed evidenza empiriche, quella del <<passare>> empirico che s’intende di per sé[ref]das empirische Übergehen versteht sich ohnehin von selbst. Ibidem p.145[/ref]. Nel “movimento” si vede, appare, si rivela come la contraddizione si risolva. Il risolversi della contraddizione è lo stesso venire a manifestazione del qualcos’altro.

La categoria del divenire è la prima delle forme categoriali e intellettuali in cui questo annientamento viene pensato, e nell’essere pensato viene catturato e afferrato come risorsa per il cambiamento possibile. Quindi il divenire non è il terzo tra essere e nulla, la medesimezza di essere e nulla, come se fosse la loro sintesi coordinante. E il terzo come la loro contraddizione distruttiva.

13.

La rammemorazione della negazione radicale dell’essere sparito, annientato, è per Hegel aprente. Anzi è l’aperto; caratteristica del nichilismo logico di Hegel sarebbe proprio questa intepretazione dell’annichilimento, della kenosis teologica e della catarsis tragica, come apertura dell’essere all’essente e per l’essente. Nell’annullarsi del nulla, l’essere si apre all’avvento dell’essente, alla sua irruzione  e insorgenza “nuova”, alla sua rivelazione piena, alla sua manifestazione compiuta. La rammemorazione dell’annientamento sarebbe aprente e aperta perché nulla più ostacolerebbe o chiuderebbe, sbarrerebbe. l’insorgenza dell’essente, neppure il nulla del suo stesso esser sparito come essere, il nulla della radicale latenza dell’essere. L’essere ora determinato tragicamente è per qualcosa d’altro.

Nell’esser sparito della sua sparizione è l’impotenza suprema del nulla, la sua ineffettualità, perché la sparizione sparisce essa stessa, la liquidazione si liquida[ref]das Verschwinden des Werdens, oder Verschwinden des Verschwindens selbst. Ibidem p. 160[/ref]. La sfrenata inquietudine negativa del divenire che si affatica nella propria mobilità a liquidare l’immediato, la sua forza immediatamente annientante, finisce mentre lavora, risolve mentre si muove, sparisce essa stessa, sprofondando nella pace, consumandosi nella quiete, nel silenzio, in un oblio[ref]Das Werden ist eine haltungslose Unruhe, die in ein ruhiges Resultat zusammensinkt. Ibidem p.160[/ref], immemorabile.

Che sia accaduto il divenire, che sia stato il nulla dell’essere e l’essere del nulla, ciò è l’immemorabile, che ancora è solo per il ricordo di qualcosa d’altro e di qualcun altro.

Il lavoro umano, il dominio e il potere di qualsiasi soggetto che ci sia come Esserci, Dasein (questo è termine hegeliano prima di essere heideggeriano), che faccia i conti col proprio mutamento possibile, con la mutabilità del proprio esistere, sta in rapporto memoriale e immemoriale, e quindi storico, ontologico ed esistenziale, con la struttura duplice del proprio divenire, così come la definisce Hegel. Ossia con il duplice volto del divenire come annientamento del senso dell’essere, fluidificazione impotente a cancellare quell’essente qui e ora che ricorda ma anche incapace nella trasformazione del ricordo a restituire al senso dell’essere immediato ciò che degli essenti è morto e finito, definitivamente sparito.

L’analisi hegeliana sonda la difficile e avvitata determinazione di tale rapporto memoriale e immemoriale col divenire, pensando insieme con l’annientamento dell’essere la sua insorgenza. Così nella macchina metafisica di Hegel l’annichilimento radicale del senso dell’essere, la cesura iniziale dal suo evento, l’irrevocabilità della cancellazione dell’essere, rimane complementare, logicamente vincolata e presupponente, rispetto ad una altrettanto radicale e decisa insorgenza storico-esistenziale. Il “nuovo” è tale proprio perché non potendo riscattare dalla radicale latenza ciò che è sparito, e dovendo confermare quel destino di fine e di morte che spetta ad ogni immediatezza, si appropria di una provenienza e di una destinazione storiche.

_________________________

Pubblicato in collaborazione con Critica Impura

https://criticaimpura.wordpress.com/

 

Hegel: un monologo

di
Sonia Caporossi

 

A Mario Reale

Il vero è l’intero. Ma l’intero è soltanto l’essenza
che si completa mediante il suo sviluppo.
Dell’Assoluto si deve dire che esso è essenzialmente Risultato,
che solo alla fine è ciò che è in verità;
e proprio in ciò consiste la sua natura, nell’essere effettualità,
soggetto a divenir – se – stesso.
G. W. F. Hegel

Chi ai giorni nostri voglia combattere la menzogna
e l’ignoranza e scrivere la verità, deve superare almeno cinque difficoltà.
Deve avere il coraggio di scrivere la verità,
benché essa ovunque venga soffocata;
l’accortezza di riconoscerla, benché ovunque venga travisata;
l’arte di renderla maneggevole come un’arma;
l’avvedutezza di saper scegliere coloro nelle cui mani essa diventa efficace;
l’astuzia di divulgarla fra questi ultimi …
B. Brecht

Oh secol superbo e un po’ tocco! Me ne hanno davvero dette di cotte e di crude per togliermi di torno. Io! Io non sarei fedele al mio programma dialettico? Io sfocerei in una sorta di sapere assoluto che comprometterebbe la mia stessa teoria del divenire? Io oserei fornire una definizione esaustiva, data una volta per tutte, del reale, dell’ideale, di che cos’è la filosofia?
All’Università, colleghi, amici e nemici hanno avuto un bel daffare ad accanirsi contro di me. Il compagno Jürgen, nella sua Etica del Discorso, se la prende con me e mica poco: dice che io sarei un assolutista, come Immanuel, mentre avrei per tutta la vita ferocemente criticato di quest’ultimo proprio l’assolutismo, e che questo mi serviva a giustificare lo Stato Autoritario del futuro baffetto acquarellista matto e lo Stato prussiano del mio tempo storico, assolutizzato anch’esso. Secondo Hans Georg, il Grande Veglio della filosofia occidentale, io sarei un filosofo (e già questo, oggigiorno, è dire tanto!) di un’esperienza che, in divenire, poi giunge alla fine nella sua interezza e autenticità. Per lui l’esperienza deve rimanere sempre aperta. Invece io, udite udite!, andrei oltre l’esperienza nel suo culmine, cioè vi sostituirei una forma di sapere non più esperienziale, bensì un quid che è divenuto un criterio per essa, un assunto definitorio e definitivo, astratto e astraente che le farebbe raggiungere la propria finitezza assoluta. Paul Ricoeur, polemizzando in Tempo e Racconto col mio Volkgeist, sostiene che non c’è un unico spirito, che lui evidentemente pensa io abbia definito come un’entità superiore ed immutabile, bensì ci sono vari svolgimenti (di esso? Marameo!); e siccome, per me, la storia non è una serie di contingenze, di casi, bensì è sottoposta alla ragione che la organizza su basi razionali, la mia visione sarebbe ottocentesca ed ottimistica, poiché non c’è per lui unità ma differenza soltanto. Io secondo voi che cosa dovrei rispondere? Differenza rispetto a che? Di nuovo marameo, ma chi vuoi prendere in giro? Il definiens prende forma solo a partire dal definiendum. Ma questo richiama quello, all’infinito, in una circolarità ermeneutica fondante. E allora? Da qualche parte, o cominciamento, bisognerà pur partire, altrimenti sarebbe come non avere detto nulla. Essere, nulla, differenza, divenire…
A me sembra che in molti filosofi della vostra sordida contemporaneità postmoderna, afflitta dalla soverchieria tumorale di un astio concettuale più o meno faceto, ci sia un diffuso timore antisacrale, che si appoggia ai puntelli della critica feroce contro l’autorità della ragione. Se la ragione è sovrana il singolo allora ha sempre torto. E siccome dopo di me il singolo è rimasto solo come un cane (mica per colpa mia, ma perché così alla fine è andato il mondo!); siccome voialtri disperati parete vivere orfani del senso delle cose, solitari nella folla, in una sorta di rinnovata età postalessandrina, in cui la polis ha rinnovato la fotografia sul proprio certificato di morte facendovi sentire dispersi sulla superficie nuda della crosta terrestre come formiche in colonna, o peggio, come vermi adamitici senza la foglia di fico a coprire le pudenda celenterate, che si contorcono nel caos della perdita di senso; allora il singolo, – tutto – sensi – senza – senso, ha il timore di essere sopraffatto da una ragione che pretende possa essere esclusivamente concepita come sovrana, come il logos imposto e prevaricante del Leviatano di Hobbes. Siccome non c’è una sola verità (e quando mai avrei detto il contrario!), allora non c’è verità da nessuna parte. Il che, sinceramente, come sillogismo, mi sembra quantomeno fallace.
Il camerata Martin, a sua volta, dice che la mia filosofia sarebbe un’ontologia, mentre invece la sua è meglio identificabile dalla categoria di ontocronia, cioè una filosofia del tempo, non dell’eterno, come a dire del finito, non dell’infinito. Ma se il linguaggio è la casa dell’essere i cui custodi sono i poeti e i filosofi, bisogna ancora capire chi è qui il poeta e chi il pensatore. Il problema, in effetti, è nel linguaggio: è un problema di linguaggio. Quando Jürgen discute la mia frase più famosa: “ciò che è reale è razionale, ciò che è razionale è reale”, afferma una cosa superficialmente condivisibile da un punto di vista logico: cioè che sembra proprio una formula che giudica in anticipo, un a priori definitorio, un postulato indimostrabile, un tì estìn metafisico, un assunto assoluto. Ma questa è l’essenza stessa del linguaggio! La sua natura tautologica, la sua radicale ritrosia ad indicare altro da sé! Con queste stesse armi ti batti e ti dibatti anche te, caro Martin, tu che affermi con la stessa identica struttura di linguaggio tautologico e ridondante: “la mia filosofia è un’ontocronia”. Il linguaggio è fatto così, questo abbiamo, con questo dobbiamo lavorare.
Attenzione ai pataccari, quando inventano a tavolino un neologismo categoriale ad hoc per fare gli originali. Ma siete proprio bravi, ragazzi. Proprio bravi. E quegli altri, poi, razza di cialtroni privi di pensiero, che nel dire “Hegel è apriorista metafisico perché dice che x è y” dove, badate bene, x e y non sono neologismi categoriali alla moda creati su misura ma forme pure mentali condivise e comunicabili, non fanno altro che svolgere una forma logica proposizionale che è la seguente: “x è y, quindi x è y”. Ancora mi fischiano gli orecchi per l’eco, la ridondanza, la fuliggine sonora nel terzo occhio. Vogliamo giocare alle matrioske? Reale (x¹) = razionale (y¹) > Hegel (x²) = aprioristico (y²) > Voi (x³) = imbecilli (y³). E via discorrendo, mi fermo per pietas virgiliana alla terza dimensione concepibile.
Mi hanno accusato così di apriorismo, oh caro, ameno Schelling! Di panlogismo, per cui ogni dimensione si riconduce in me alla ragione; di presenzialismo, per cui la totalità del reale alla fine è tutta presente in me. Cioè, diamine, voglio dire, non in me – me, perché non sono Gesù Cristo, ma nell’in me dello spirito, nell’in me del me di tutti. Uhm. Come si vede, è un problema di linguaggio. Ma insomma, hanno cercato di massacrarmi nelle più sottili maniere del discorso, utilizzando il loro linguaggio comune nel tentativo di decostruire la validità del mio. E tuttavia non sono mai riusciti a seppellirmi nella cappa annichilente del silenzio. Né mai riusciranno a togliermi di torno. Ed ora, cari miei, vi sto per spiegare perché.
Io per primo ho tolto di mezzo la metafisica, io per primo!… e non il könisberghese boccoluto. Vi sembra un’affermazione strana e bislacca? Dicono qualcosa di diverso i vostri manuali scolastici di storia della filosofia? Immagino sinceramente di sì. Come Platone ha ucciso il padre Parmenide nella contrapposizione dell’uno e del molteplice, così io ho ucciso lo zio Immanuel nella totalità in svolgimento dell’esperienza storica. Sono stato io a criticare lo spirito di profondità, dicendo che non c’è un punto di vista più profondo rispetto alla realtà. Ma quale noumeno scisso, separato e inconoscibile! Lo zietto cavilloso, per il fatto stesso di mantenere un noumeno in piena salute concettuale, perché se pure non lo si può conoscere, tuttavia lo si può anche solo pensare, non fa che chiudere la porta principale alla metafisica tenendo aperta quella del retro! Non è così che si risolvono i massimi sistemi del mondo, ma solo quelli di Dio. La razionalità, invece, è presente nel fenomeno stesso. La filosofia non è altro che memoria: non è a priori, arriva sempre per ultima nella gara di corsa al sacco dell’intelletto, arriva sempre per ultima nella partita a scacchi della mente. La filosofia non giudica, non stabilisce, non enuncia: essa serve soltanto a comprendere, ad agire in base alla genialità pratica. E non ci sono, né mai io ho preteso di dettare, dei precetti per l’agire: i posteri diranno, legittimamente e con ragione, se abbiamo agito, nel qui ed ora, bene o male. C’è il rischio anzi di non poter padroneggiare le conseguenze delle nostre azioni quotidiane, perché la filosofia si limita a comprendere, è tutta rivolta in direzione della cum – praehensio fattiva del mondo circostante. Solo questo può, solo questo fa, forma di vita del pensiero quotidiana, non speciale.
E poi, cerchiamo di capirci, aprite bene i padiglioni auricolari. Io dico che l’Assoluto è il risultato. Dunque, a rigore, non ho mai detto che esso sia il Principio. L’Assoluto non viene prima, ma si manifesta alla fine del processo dialettico, il quale peraltro neanche ha una fine, perché appena giungo al termine, mi rivolgo nel circolo virtuoso che cortocircuita termine e cominciamento, al di fuori di qualsiasi dualismo sterile di condizione e condizionato. È per questo che bisognerebbe rispiegare ai miei posteri pensatori la distinzione fra vero ed esatto. Il vero è ciò che ha senso, è una realtà significativa, razionale. Ma questo mica significa che tutto vada bene, con un senso delle mie parole che qualcuno pare avermi messo in bocca. L’ottimismo ottocentesco che mi hanno imputato è parziale e frutto di una profonda incomprensione di fondo. infatti è esattamente il contrario! Il senso, il quid dotato di razionalità, deve essere reale, ovvero, fuor di metafora ontologica, si deve manifestare; e pur tuttavia realtà non è immediatamente esistenza, nel senso di tutto ciò che esiste, bensì la realtà è senso, è ciò che contribuisce alla mia presa di coscienza, non mia – mia, ma mia tua sua nostra vostra loro… insomma, alla presa di coscienza dell’uomo in quanto tale, come essere libero, libero, libero, anzi di più: come essere liberato.
Perché sono venute fuori queste criticuzze da quattro soldi? Analizziamo bene la questione. Per Hans Georg l’uomo come essere finito si trova di fronte ad una realtà più grande di lui che gli sfugge. Il vegliardo trapassato sostiene la possibilità di un dialogo tra il singolo e la storia, ma si può solo interpretare la realtà, ovvero la storia stessa, senza pretendere di possederla nella sua assolutezza. Secondo Paul, per cui “l’uomo è la gioia del sì nella tristezza del finito” (molto poetico, nevvero?), io non farei altro che identificare nel finito il principio attraverso cui spiegare la realtà. Ma non è questa una bella e buona proiezione psicanalitica? E prima ancora viene Søren il malinconico, Søren l’adolescente, Søren l’angosciato. Brivido terrore raccapriccio, s’ode l’urlo di Munch avanzare alla velocità del suono dall’orizzonte alla mia fronte. Il singolo, dice il danese dal bel ciuffo, ha le sue esigenze. E chi dice il contrario, non foss’altro che l’esigenza di farsi ogni mattina il bidet. Il singolo è per definizione incompiuto, è creatura rispetto all’essere verso cui tende. Il senso di questo essere in genere sfugge, ma questo suo essere sfuggente è proprio, va da sé, del Cristianesimo. Non aveva tutti i torti Schelling quando affermava che il Cristianesimo ha annientato il sentimento della Natura. E, per Martin, si può soltanto ascoltare l’essere, che è come dire: l’essere si manifesta ma nello stesso tempo si nasconde e noi non possiamo comprenderlo ma solo ascoltarlo. Di quale sorta di grammofono stonato abbiamo dunque bisogno? Il finito è l’uomo pratico, non l’uomo della teoria, quello dei greci a cui, secondo Hans Georg, io vorrei tornare. Nello zietto Immanuel abbiamo, in effetti, l’uomo essenzialmente pratico; secondo invece quella che è la vulgata sulla mia nozione di razionalità, l’uomo è teorico, contemplativo: è nel contemplare che la razionalità si manifesta. Però il finito, così, non è più principio di spiegazione (mi seguite?), bensì deve essere spiegato. Ma io non ho detto altro che bisogna concepire l’uomo all’interno della ragione, non al suo esterno. Il principio secondo me è il senso nella sua verità di far senso: è la Divina Commedia che spiega Dante, non il contrario! Ecco, questo sono io!
Tutti i filosofi boccoluti, imparruccati, ma anche quelli crapapelati, nonché quelli incimiciati ed eventualmente spidocchiati del mondo, per non parlare di quelli belli belli, profumati di dopobarba al musk e di Proraso in puro stilema di Occam, intelligenti tonsori che si industriano col rasoio a farmi barba e capello; e metto in mezzo pure il sifilitico spostato coi mustacchi un po’ da bear, che si affaticava col martello demolitore contro di me, ripudiando la “tirannide della ragione sugli uomini” (come se la ragione ci facesse schiavi e non invece uomini liberi!)… tutti coloro, insomma, pensatori o poeti, che si sono cimentati nel contrasto con me, si sono posti, a me pare, dal punto di vista del finito, cioè dell’uomo, come principio. Invece io ho come principio il senso, ovvero non l’uomo in quanto tale, ma ciò che l’uomo fa! Per me l’uomo è la serie delle sue azioni, l’uomo è in grado di esprimere, anzi, di più: l’uomo è questo stesso desiderio d’espressione, un animal desiderans, un’aspirazione struggente nel momento stesso in cui viene soddisfatta, tanto da divenire incessante, tanto da mettere in perpetuo moto l’azione del circolo; e allora il punto è andare ad indagare le modalità fenomenologiche di queste sue forme d’espressione, la sua creatività, il suo lascito di senso al mondo. Volete una veloce carrellata riassuntiva? Ci metto poco.
L’Illuminista era l’uomo dell’utile, della società che ricercava la felicità. Poi siamo arrivati noi, i Romantici, gli Stürmer entusiastici e poetanti in senso etimologico, e gli abbiamo contrapposto l’uomo che produce, l’uomo che opera, l’uomo che si dà da fare nell’officina del mondo, che forgia il senso delle cose, del circostante contestuale, di se stesso. È l’opera stessa lo scopo dell’uomo, è l’opera stessa ad accrescere il senso, ad alimentare bellamente, esteticamente, il suo desiderio. È per questo che noi romantici abbiamo dismesso l’abito ormai stretto dell’utilitarismo. L’interesse totale non è più rivolto al singolo, non è più rivolto ai pochi: deve essere indirizzato alla produzione di senso. L’uomo, per me, è essere – nel – mondo, come direbbe Martin, ma anche essere – del – mondo, come direi io. Nel momento esatto in cui io mi realizzo nel mondo, mi trovo in un contesto dotato di senso e ciò che faccio è sensato. Ma qualcuno potrebbe a questo punto chiedermi che cosa è il senso, quale che sia, e che cos’è il non senso, quale che sia. E qui bisogna che mi seguiate con un’ancora maggiore attenzione…
Il senso è la presa di coscienza sempre più lucida della libertà dell’uomo nel suo significare storico. Il senso consiste nella sua stessa produzione! E questa produzione coincide con la consapevolezza, progressivamente sempre più grande, della mia essenza di uomo libero, immerso fluidamente nel processo del divenire storico. Perché non c’è produzione senza desiderio. Ma desiderio di che cosa? Ebbene, di libertà.
Nel mondo orientale uno solo era libero. Nel mondo grecoromano solo alcuni erano liberi. Nel cristianesimo della modernità, ormai liberi siamo tutti, e la cultura moderna è permeata di cristianesimo, finalmente sa l’essenza dell’uomo e sa che quest’essenza è la libertà. Dopo secoli e secoli di atroci fatiche, di scontri, di guerre interiori, di abbagli, di peccati, di sconcezze, di atrocità, di ritrosie, di false speranze, di disillusioni; dopo secoli e secoli di magma metafisico, di sonno della ragione, di monstra culturali, di inadempienze, di fallocrazie, di religioni dell’ignoranza; dopo tutto questo oscuro travaglio, col forcipe indelicato e doloroso dell’autocoscienza riflessa e della Rivoluzione, abbiamo tirato fuori la consapevolezza di essere animali desideranti la libertà, la libertà di tutti che non si annulla nel niente. In Africa, bontà loro, mentre io scrivo la Fenomenologia dello Spirito tutto questo ancora non lo sanno, o se nel vostro tempo relativo già lo masticano, questo loro sapere è riflesso, è derivato, essendo la loro emancipazione, se pure in parti localizzate ci sia, discesa da idee eurocentriche: eurocentriche come me.
Eh sì, già intravedo un’obiezione: se la realtà non mi è estranea, direte voi, allora tutto il mazzo che s’è fatto lo zietto? Dobbiamo tout court tornare alla metafisica ed al sonno dogmatico? Ovviamente no, miei cari, no. Potrei sembrare un pastore che guida le pecorelle smarrite nel noumeno verso i pascoli verde posticcio della metafisica prekantiana, ma io non vi penetro dogmaticamente con nessuna suola di scarpa. Prima di giungere al sapere assoluto, io! Sono io che faccio i conti con l’esperire storico. Mentre il boccoluto nella Critica della Ragion Pura si ferma sulla soglia dell’oggetto metafisico, io, e lo ripeto, affermo invece che l’uomo può penetrare la realtà nella sua profondità, proprio perché non c’è un punto di vista più profondo rispetto alla realtà. E può farlo perché lo desidera, perché il suo desiderio inarrestabile fa tutt’uno con la propria volontà.
Anche quando parlo di Spirito, signori, occorre mettersi d’accordo sul suo significato. Il termine, lo ammetto da fervente luterano, è preso di peso dalla teologia. Ma io intendo con esso il risultato di una cultura. Lo Spirito in questo senso nasce in Grecia, dove il cittadino della polis si sente a casa sua nel suo microcosmo culturale, nei suoi valori, nelle sue espressioni fenomenologiche. Nel passaggio dal mondo romano, a quello medievale, a quello moderno, lo Spirito progressivamente si è modificato, e quello del mio tempo è uno spirito estraniato, i cui valori sono rinviati nel Rinascimento e nel Barocco all’aldilà. Quando sono arrivati gli Illuministi d’oltralpe, la fede è stata messa nel cantuccio a ripensare se stessa, e tutto è rientrato crassamente nella sfera dell’utile: però chi è che pone l’utile? Sono io, eh sì, insomma, il solito io tu egli noi voi essi. Il concetto moderno di libertà nasce con Rousseau, con Rousseau si ottiene l’emergenza dell’urgenza, la manifestazione tangibile della forza di volontà anche detta Rivoluzione francese, che però è stata un disastro, un insuccesso, una sconfitta, uno sfacelo: per mancanza di mezzi intellettivi fondanti, per carenza connaturata di strumenti culturali, nonostante fosse basata sull’idea della volontà generale, del contratto sociale, in contrasto con la pura ed egoistica volontà del singolo; nonostante fosse fondata su un desiderio, non foss’altro che un desiderio smodato. Ed infatti, nella Francia di quell’epoca, in cui De Sade prendeva appunti per Le Centoventi Giornate di Sodoma da ospite prigioniero nella sua celletta alla Bastiglia, il singolo non può esprimersi, lo stato lo elimina nel Terrore, ed egli, il singolo, per difendersi dal mal di testa terminale della ghigliottina, deve liberarsi da un peso, deve curarsi chimicamente, deve prendere la Bastiglia. Ma il singolo stesso percepisce il governo come qualcosa di non generale, bensì particolare: come un singolo esso stesso. Onde l’alternarsi di fazioni e forme di governo orientative, girondini, giacobini, Robespierre, Marat, sanculotti e via discorrendo, ora non sto qui a far l’elenco dell’alternarsi juventino del terror nero e del terror bianco. Basti riflettere sul fatto inopinabile che non ci fosse ancora, per i rivoluzionari, in quel lì e in quell’allora, la cultura di fondo per conciliare molteplicità e singolo. Tuttavia, se c’è un esito positivo a tutta quella baraonda di spargimenti di sangue e sperma sacrificale segnati a giorni alterni sul calendario più ridicolo e buffo che sia mai stato creato, è questa: con la Rivoluzione dei gallinacci in lotta nel pollaio l’uomo si è reso conto di esser capace di universalità. Dopo il riassetto napoleonico, mentre la Francia continua a fare coccodè come poi succederà per quasi tutto il Novecento, quando i suoi pensatori marxisti e sessantottini non comprenderanno minimamente il senso dell’evento storico secondo me, lo zietto boccoluto invece lo capisce, oh se lo capisce! Comincia così ad affermare, dalla sua celletta monacale di Könisberg, che l’imperativo, l’azione morale, è un fatto della ragione. Jacobi solo dopo teorizzerà la filosofia dello spirito coscienzioso, che sa quello che fa, nel pieno senso dell’emancipazione di cui io sono il più lucido teorico del mondo, senza falsa modestia.
Questa è la storia della manifestazione in divenire dello spirito dell’uomo. La cultura, le culture, sono il risultato di questo corso storico, degli eventi e del loro intimo significato. E si badi bene, tali eventi hanno contribuito a questo disvelamento dello Spirito a se stesso, essendo tutti gli altri in momento di contrasto, o contraddizione, o metamorfemi schiavizzati ed insieme padroni dell’immane forza del negativo.
Io, a dirla tutta, ho anche esaminato le varie religioni. Fra di esse, soltanto il cristianesimo è la presa di coscienza occidentale in senso culturale del divenire storico. Ma la religione, in sé e per sé, è intuizione ancora rappresentativa, non ancora lucida, della realtà. È la realtà in forma mitica, è la realtà dispiegata nelle storie analizzate da Propp, e proprio avendo affermato questo, non si capisce come mai il mustacchiato sifilitico si sia dovuto sentire investito del, quello sì, sacrale dovere di filosofare col martello distruggendone il fondamento. Non serve un Anticristo che sia convinto di sé, che ci crede, se Cristo stesso è solo una favola, se Cristo stesso non crede a se stesso, se Cristo stesso è il momento del negativo antitetico rispetto alla tesi del Padre che attende la superiore sintesi dello Spirito; se Cristo stesso, insomma, si è negato. E se la gente ci crede? Affari loro. Non si impone come pars destruens una genealogia della morale che si spaccia per negativa ed antipropositiva, tanto più propositiva e sostitutiva quanto più eteroescludente, contro l’ascesi della modernità: se tale ascesi s’è manifestata, ci sarà stato un motivo, e bisogna solo aspettare che essa trapassi. Come infatti nella vostra epoca attuale mi sembra che sia, e certo non per grazia o virtù di quel pazzoide che abbracciava un cavallo. Quando don Chisciotte scende da cavallo torna savio, quando Nietzsche abbraccia un cavallo afferma la sua pazzia. Genealogia della morale è di due anni prima rispetto all’accaduto; Ecce Homo, l’Anticristo, Il Crepuscolo degli Dei dell’anno prima. Opere di poesia, non di filosofia, per le quali vale il vecchio adagio di Poe: “la scienza non ci ha ancora insegnato se la follia è o non è il sublime dell’intelligenza”. Il rischio è che l’irrazionalismo poetico di Mister Mustard si trasformi nella tirannide dell’irrazionale, altro che della ragione! Il rischio è l’avvento dittatoriale del Baffetto e del Baffone. Il rischio è la tirannide senza colore politico, in cui le opposte fazioni che ancora oggi dividono il mondo vengono a coincidere nell’unico esito della mostruosità. Ma allora, se anche la religione ha avuto una sua funzione che si deve riconoscere come mitica, aurorale, a metà fra la funzione estetica dell’arte e quella della scienza, da dove nasce il sapere, come si passa allo stadio successivo?
Il sapere sorge nel mondo postrivoluzionario, e ciò, detto per inciso, è il motivo per cui tutte le rivoluzioni del mondo non sono mai un approdo al sapere o ai saperi, bensì punti di transito e scambio, di import export di coscienza e suggestioni, di trapasso emozionale e sociale, di puro fieri, di forza desiderante e generativa, di immane forza del negativo. È nel mondo romantico che io finalmente mi sento capace di sapere assoluto. Nessuna volontà di potenza è qui necessaria: la potenza c’è già! Tuttavia, e qui sta il bello, il punto per cui nessuno ancora ha pienamente compreso ciò che ho inteso per tutta la vita dire, il fondamento ultimo del mio modo di pensare: questo sapere non è inerrante, non è un assunto metafisico dell’episteme platonica, non è il migliore dei passati e degli svolgimenti storici possibili. Avrebbe potuto svolgersi, manifestarsi, realizzarsi diversamente da com’è andata, diversamente da come si è arrivati a tutto questo. Ed in quel caso, la filosofia non ne sarebbe rimasta sconvolta; l’avrebbe indagato lo stesso a posteriori, con l’utensile da intaglio del ricordo. Il sapere può sbagliare, e allora? Io voglio solo dire che la ragione compie legittimamente le sue azioni, quali che siano. Ma non si tratta mica di un bieco determinismo. Significa piuttosto una cosa ben precisa. Che io sono in grado di filosofare così, voglio dire, con la memoria! Con la memoria la filosofia si volge indietro verso gli avvenimenti della storia, con la memoria li commemora, li cum – memora, ci rimane invischiata, ci sta in mezzo, se ne permea e ci si sviluppa dal loro interno. Con la memoria e solo con essa i pensatori possono scoprire il senso, possono indagarlo non aprioristicamente, come se fosse un batterio sul vetrino sterile di un microscopio, ma possono guardarlo dall’interno dell’esperienza nel pieno razionale del suo svolgersi reale. Ora la metafisica è davvero morta, e questa problematicità moderna, o anche solo il pensare di potermici approcciare, di poterla avvicinare, indagare, penetrare, mi dà il sorriso, la carica, la forza, la sagacia, un nuovo e inesauribile desiderio di conoscere, di amare, di trasformarmi, di vivere.
Non ci sono più misteri, solo problemi. L’essere è fra noi: io sono ormai capace di verità.

 

L’articolo è già stato pubblicato in: Desiderio e desideri. Con Hegel, non solo con Hegel. Quaderni di Dialettica e Filosofia, n.2, Novembre-Dicembre 2014/ I
www.dialetticaefilosofia.it ISSN 1974-417X [on line]
http://www.dialetticaefilosofia.it/public/quaderni/302_desiderio.pdf

L’Introduzione alla Dottrina della scienza 1813: la formazione al senso per la filosofia

1. Nel suo concreto svolgimento la fichtiana Dottrina della scienza si presenta non solo come un sistema compiuto di filosofia trascendentale, ma anche, e insieme, come il risultato, mai definitivamente fissato, di una ininterrotta attività del pensare, che non si appaga mai dei risultati conseguiti, riflette su nuove questioni, dischiude punti di vista originali, apre nuovi campi di indagine. Le diverse esposizioni della Dottrina della scienza, i manoscritti di “meditazioni personali” (eigene Meditationen) su di essa, che Fichte compose durante il corso della sua vita e che sono stati resi accessibili dalla Edizione storico-critica (Gesamtausgabe [GA]) – come per esempio i Diari degli anni 1813 e 1814 – offrono una chiara testimonianza di questo tratto fondamentale della Dottrina della scienza, compresa e realizzata non solo come dottrina (teoria), ma come attività del pensare. In quanto compenetrazione autocritica del sapere, sapere del sapere, la Dottrina della scienza viene sviluppata attraverso una specifica “praxis” della riflessione (Besinnung) e dell’auto-riflessione (Selbstbesinnung), che devono venire consapevolmente esercitate dal filosofo nella sua ricerca e nel suo insegnamento onde pervenire al contenuto sistematico, all’esposizione stessa del sapere trascendentale. Pertanto la Dottrina della Scienza è insieme sistema e prassi del pensare  ovvero prasseologia (Praxeologik), in cui questa si evidenzia come la premessa dinamica e, allo stesso tempo, come il necessario presupposto del venire in essere del primo elemento, cioè del sistema.

Tale dimensione prasseologica della costruzione della Dottrina della scienza – che per Fichte significa: della filosofia stessa – deve essere esplicitamente presa in considerazione dal filosofo trascendentale, riflettuta criticamente e posta metodicamente in gioco. Che la Dottrina della scienza sia non soltanto teoria della ragione, ma insieme e allo stesso tempo anche prassi della ragione stessa, anzi prassi riflessiva della ragione, riguarda non soltanto la mediazione di un contenuto dottrinale già pronto e costituito, ma anche e soprattutto la costruzione, la costituzione stessa del sistema trascendentale. Quest’ultimo non è infatti una morta impalcatura di concetti fissi, ma un organismo vivente di pensieri creativi, che poggiano sull’intuizione intellettuale ovvero sull’auto-intuirsi (Sich-Anschauen) (o intra-intuirsi [Sich-Einschauen]) dell’intelligenza e che restituiscono la stessa immanente sistematicità dello spirito umano. Il “sistema del figurare” (Bilden) (per riprendere una definizione di Reinhard Lauth) deve essere configurato ed elaborato sempre di nuovo nella vivente attuazione del pensare, ovvero nel figurare (Bilden) stesso[ref] Cfr. Reinhard Lauth, Con Fichte, oltre Fichte, a cura di Marco Ivaldo, Trauben, Torino 2004.[/ref].

2. In diversi luoghi  Fichte porta ad espressione tale caratteristica della Dottrina della scienza usando un termine preciso: arte [Kunst]. Nella Esposizione della Dottrina della scienza 1801-2 ad esempio, egli fa notare che, per praticare la filosofia in quanto Dottrina della scienza, è necessaria “un’arte della riflessione (Besinnung) esercitata fino alla libertà assoluta” (GA II/6, 133). Anche all’inizio della Dottrina della scienza di Königsberg 1807 la Dottrina della Scienza viene caratterizzata come “arte del vedere” (GA II/10, 113). Arte della riflessione, arte del vedere: secondo Fichte la Dottrina della scienza è un esercizio (ovvero una pratica) della riflessione o del  vedere – questo termine (Sehen) esprime per Fichte l’essenza stessa del sapere -, che deve risultare sì dall’osservanza di determinate regole, ma sempre comunque in un libero atto del pensiero. Di qui la parola-guida: arte. Un mero seguire la regola senza la vivente attuazione della libertà non è in nessun modo sufficiente a realizzare la Dottrina della scienza come arte del vedere o del riflettere. Già nelle lezioni Sulla differenza tra la lettera e lo spirito in filosofia del 1794 Fichte aveva chiarito che il fatto di accontentarsi, nel filosofare, dell’applicazione di regole conosciute, non avrebbe prodotto altro che una “pura filosofia per formule (Formular Philosophie)” (GA II/3, 330), forse anche totalmente corretta dal profilo formale, ma mai in grado di corrispondere al vero compito della filosofia in quanto esposizione del vivente sistema dello spirito umano. Per un filosofare vivente e non semplicemente formale – si potrebbe dire – occorre una immaginazione ‘speculativa’, che Fichte in queste lezioni chiama “spirito” (Geist): non c’è Dottrina della scienza senza spirito!

3. Ora, era fondamentale convinzione di Fichte, della cui verità e validità egli è divenuto consapevole con crescente intensità, che la costruzione della Dottrina della scienza come arte del riflettere o del vedere presuppone e richiede la formazione (Bildung) di uno specifico “organo” del riflettere e del vedere stessi. Proprio all’inizio della Dottrina della scienza 1807 Fichte afferma che, grazie all’introduzione nella Dottrina della scienza i suoi uditori “sarebbero diventati partecipi di un senso nuovo, al quale si sarebbe aperto un nuovo mondo” (GA II/10, 111). Un nuovo senso, un nuovo mondo: per poter essere compiutamente compresa e realizzata, l’arte della riflessione – la Dottrina della scienza – necèssita di un particolare senso o organo di senso, da curare e coltivare in quanto tale, e che soltanto può renderci accessibili gli oggetti propri della filosofia (qui designati come “nuovo mondo”)[ref] Cfr. Michael Gerten, Geistige Blindheit und der Sinn für Philosophie. Das systematische Problem einer Einleitung in Fichtes Wissenschaftslehre, in „Fichte-Studien“, 31 (2007), pp. 135-158. [/ref]. Poco prima, nell’anno 1805, nelle lezioni introduttive di Erlangen Institutiones Omnis Philosophiae, appare una formulazione che è significativa per il mio tema: “senso per la filosofia”. Fichte chiarisce che ambito della filosofia non sono gli “oggetti del senso esterno”, ma piuttosto quelli del “senso interno” oppure di “un nuovo senso interno”. Senza di esso ciò di cui la filosofia discorre rimarrebbe una “parola vuota, come il parlare sui colori da parte di un cieco”. Incontreremo ancora questa metafora di cecità e visione. Ora, in queste Institutiones il senso interno di cui si tratta viene designato anche come senso per la filosofia. Leggiamo: “il primo esito assolutamente necessario dell’esposizione filosofica consiste […] in ciò, che grazie alla sua sollecitazione si apra, si sviluppi e venga formato un senso per la filosofia che è specificatamente e toto genere diverso da tutti gli altri sensi e facoltà” (GA II/9, 36). Nessuna arte del riflettere allora senza senso per la filosofia.

4. Il crescente significato che Fichte sembra assegnare al risveglio e alla formazione del senso per la filosofia ha tuttavia anche un altro motivo, che non aveva a che fare tanto con l’interna costruzione del sistema, quanto con le “sorti” della ricezione della Dottrina della scienza – ovvero con la comprensione o con la (frequente) incomprensione della stessa presso il pubblico colto. Ancora nel 1801 Fichte aveva intrapreso il “tentativo” di “costringere i lettori a capire” – come recita il sottotitolo del Rapporto chiaro come il sole – mediante nuove spiegazioni. Egli però si sarebbe reso conto via via che l’eliminazione del fraintendimento del suo assunto fondamentale, e la corretta comprensione dello stesso, non potevano venire “costrette” semplicemente mediante ripetute illustrazioni del contenuto dottrinale, ma che esse richiedevano l’assunzione di una determinata disposizione (o orientamento) spirituale da parte dei lettori o degli ascoltatori. Tale disposizione non può essere indotta per via logica; essa infatti appartiene alle premesse del riflettere logico-trascendentale, il quale a sua volta può diventare cosciente del suo valore intrinseco in via riflessiva. Orbene, l’orientamento richiesto ha come presupposto la formazione (Bildung) del senso per la filosofia, e può venire in essere solo  grazie a quest’ultimo.

Fichte ha trattato ed approfondito questo motivo-chiave della formazione del senso per la filosofia in opere o lezioni che per lo più recano come titolo “introduzione” (Einführung o Einleitung), oppure vengono  designate come “prolegomeni” (Prolegomena) [ref] Cfr. Federico Ferraguto, Filosofare prima della filosofia. Il problema dell’introduzione alla dottrina della scienza di J. G. Fichte, Olms, Hildesheim 2010; Id., Orientarsi nel pensiero e avviamento alla filosofia, in “Il cannocchiale. Rivista di studi filosofici, XXXVIII, 1 (2013), pp. 133-148. [/ref]. Tali elaborazioni tuttavia non devono in nessun modo esser considerate come semplici avviamenti esteriori alla filosofia: esse sono già filosofia, ovvero sono parti integranti del concreto compimento della Dottrina della scienza, se questa deve essere intesa – come ho già sottolineato – non solo come l’esposizione di un contenuto dottrinale determinato, ma come attività della ragione in actu, sì, come “esercizio” del pensare.

5. Un esito maturo di queste riflessioni sulla formazione del senso filosofico è rappresentato dalle lezioni che Fichte tenne dal 4 novembre al 23 dicembre 1813 presso l’Università di Berlino come Introduzione alla Dottrina della Scienza [ref] Della Einleitung in die Wissenschaftslehre 1813 possiamo disporre del manoscritto, edito in J. G. Fichte-Gesamtausgabe der Bayerischen Akademie der Wissenschaften, a cura di R. Lauth, H. Jacob, H. Gliwitzki, E. Fuchs, P. K. Schneider, Frommann-Holzboog, Stuttgart-Bad Cannstatt, II/16, pp. 225-314; e di una copia dalle lezioni (Nachschrift), custodita nella biblioteca di Halle, di estensore ignoto, ora pubblicata in GA, IV/6, pp. 351-472.  Esiste anche una Nachschrift dovuta a Jakob Ludwig Cauer, incompleta, passi della quale vengono addotti, dagli editori della GA, come varianti o integrazioni al testo della Nachschrift-Halle.  [/ref]. Nel seguito vorrei porre in risalto soltanto alcuni luoghi di queste lezioni che sono significativi per il mio tema. Esse iniziano con un giudizio molto critico e anzi distruttivo sulla ricezione di quella dottrina (trascendentale) che era stata avanzata prima dalle Critiche kantiane e poi dalla Dottrina della scienza. Tale dottrina (Lehre) “nei  tre decenni [trascorsi dalla prima edizione della Critica della ragione pura 1781] non sarebbe stata assolutamente compresa” (dal manoscritto di Fichte, GA II/17, 232). Fichte osserva che “comprensione, possesso, esercizio del principio fondamentale non hanno ancora avuto luogo” – laddove la non-comprensione del principio rappresenta per lui addirittura “un male minore” rispetto al fraintendimento dello stesso, perché la non-comprensione lascia ancora aperta, e possibile all’umanità, la “trasformazione” della maniera di pensare che è “da attendersi”, mentre il fraintendimento, soprattutto quando creda di aver capito (esattamente) e di aver superato la dottrina compresa, annienta la possibilità stessa di una (giusta) comprensione. Il fraintendimento ostinato, che si reputa superiore, è perciò quello che deve essere assolutamente evitato. Ora, per rettificare la non-comprensione ed eliminare il fraintendimento occorre per Fichte stabilire un punto, che non sembra essere stato del tutto chiaro nemmeno a Kant: “Questo insegnamento presuppone un organo sensoriale [Sinnenwerkzeug] del tutto nuovo, mediante il quale nascerà un mondo interamente nuovo, che per gli uomini ordinari non si dà affatto” (GA II 17, 234). Non si dà accesso alla filosofia trascendentale ed nessuna comprensione della stessa senza l’attività del relativo organo di senso, il quale soltanto è in grado di schiudere il “nuovo mondo” – cioè i veri oggetti della filosofia -, e che già nel 1805 Fichte aveva definito “senso per la filosofia”.

Ora, come risulta dai passi appena citati, il mondo spirituale dischiuso dal nuovo organo sensoriale è completamente sottratto alla percezione di coloro che Fichte definisce “uomini ordinari” (gewöhnliche Menschen): “Per gli uomini quali sono, a seguito della loro nascita, e quali divengono tramite l’educazione ordinaria, questa dottrina è del tutto incomprensibile” (ivi): Gli oggetti di cui parla la filosofia trascendentale non esistono per gli “uomini ordinari”, e ciò perché essi sono sprovvisti del necessario organo sensoriale. Qui riappare la metafora della cecità e della visione, che abbiamo già incontrato, una metafora che – come lo stesso Fichte osserva – risulta particolarmente idonea al tema in gioco, poiché il nuovo senso si rapporta al senso “ordinario” internamente allo stesso modo in cui il vedere e il toccare si rapportano esteriormente. L’“uomo ordinario” è simile al “cieco nato”. Chi volesse parlare con questo di fenomeni (come i colori) che non sono accessibili al toccare, non sarebbe in realtà in grado di parlargli affatto. Peggio ancora sarebbe se il cieco nato pretendesse di capire mediante il toccare quei fenomeni che sono inaccessibili al toccare e accessibili al solo vedere. Il risultato sarebbe o un non-capire, oppure un fraintendere o un equivocare. Proprio quest’ultimo è, secondo Fichte, il destino che è toccato alla Dottrina della scienza: d’esser fraintesa a causa della mancanza dell’organo sensoriale richiesto. Si capisce allora come Fichte sottolinei energicamente che la condizione primaria per rendere comprensibile la Dottrina della scienza è la formazione di un nuovo senso – dell’occhio spirituale – per il quale soltanto possono esistere gli oggetti propri della filosofia. Perciò la Dottrina della scienza – come del resto ogni teoria – è composizione e comprensione in unità di ciò che è dato e conosciuto mediante il senso (= la “percezione immediata”) – solo però non mediante il senso empirico (= ”ordinario”), bensì mediante il senso interno, e da sviluppare dal nuovo. Il nuovo senso è dunque presupposto, vivente premessa della realizzazione della Dottrina della scienza, ciò che per Fichte significa: dell’attuazione della riflessione e auto-riflessione filosofica condotta al suo compimento. Suona di notevole importanza per il mio assunto un’espressione di Fichte in questo contesto, ovvero che la Dottrina della scienza “non sarebbe soltanto dottrina, e nemmeno in primissimo luogo dottrina, ma una trasformazione (Umbildung) completa dell’uomo cui essa giunge. Una ri-creazione (Umschaffung) e rinnovazione (Erneuerung); un ampliamento (Erweiterung) di tutto il suo esserci, da una sfera limitata ad una più alta” (GA II/17, 235). La Dottrina della scienza è non solo dottrina, ma prassi del pensiero, e come tale, cioè in quanto esercizio del pensare, essa possiede una valenza esistenziale. Comporta una metamorfosi dell’uomo ordinario, sì, essa rappresenta per lui una specie di “rinascita” (GA II/17, 237). Ma la metamorfosi e la rinascita presuppongono per parte loro il risveglio e l’esercizio del nuovo senso.

6. Perché nuovo senso? A questa domanda Fichte conferisce, in queste lezioni, una doppia risposta. La prima prende in considerazione la costituzione stessa dello spirito umano; la seconda concerne lo sviluppo spirituale e culturale del genere umano. Riguardo al primo punto Fichte chiarisce che il senso nuovo non è “un senso particolare, partecipato solo a pochi eletti e particolarmente dotati spiritualmente” (GA II/17, 235). Non si danno individui che dispongono di questo senso e altri che ne sono sprovvisti. Una simile opinione sarebbe – come  Fichte si esprime –  “arrogante” e contraddirebbe la sua “intera visione”. Fichte non ha mai dismesso il suo originario umanismo fondato sulla dignità dell’uomo, cioè: fondato sulla dignità di ogni individuo. Ogni individuo ha in se stesso la facoltà di innalzarsi alla conoscenza razionale. Fichte parla in questo contesto di una “disposizione” (Anlage) al senso nuovo, o a un nuovo “percepire” (cfr. la Nachschrift-Halle, GA IV/6, 358 – “percepire” [Vernehmen] è parola apprezzata da Jacobi) – una disposizione che si dà senza eccezione in ogni individuo. Non è la disposizione per il senso spirituale ad essere nuova, perché essa è inseparabile dal nostro essere uomini. Il nuovo che deve venire a manifestazione è il suo “sviluppo” (Entwicklung) . La disposizione deve venire svolta, cioè posta in uso vivente per il percepire effettivo: “Soltanto l’uso reale del senso [interno] è nuovo” si afferma nella Nachschrift-Halle della Introduzione (GA IV/6, 359). Riprendendo la metafora della cecità e della visione: nessuno è, secondo Fichte, spiritualmente cieco per l’eternità. Il cosiddetto cieco spirituale non è privo dell’occhio spirituale e dell’interna forza visiva in quanto disposizione (Anlage); soltanto, quest’occhio è in lui sigillato da una “potenza estranea”, il cui influsso negativo può e deve venire rimosso. Anche se Fichte qui non chiarisce propriamente che cosa si debba intendere con “potenza estranea”, si può supporre che essa rappresenti la forza di ciò che in questo stesso contesto egli designa come “l’ordinaria percezione dell’uomo naturale ” (manoscritto di Fichte, GA II/17, 238). L’introduzione filosofica alla Dottrina della scienza ha infatti come compito di avanzare le premesse per la liberazione dell’occhio spirituale dalla potenza della percezione ordinaria – con il linguaggio della fenomenologia: della “disposizione naturale”. Ho parlato a ragion veduta di premesse, perché l’introduzione filosofica è in grado soltanto di preparare l’apertura dell’occhio spirituale. Che poi questa apertura abbia luogo davvero dipende dalla libera attuazione del pensare, che ognuno deve attivare in se stesso e da se stesso. Chi vuole praticare la filosofia deve – seguendo l’invito a filosofare da parte del “docente della Dottrina della scienza” – lavorare su se stesso e liberamente pensare, “affinché in questa nuova vita creativa possa afferrarlo l’EVIDENZA” (Sullo studio della filosofia, Berlino 1811-1812, GA IV/4, 46). La liberazione dell’occhio spirituale dalle catene e dalle ombre della caverna, per riprendere la celebre immagine platonica, non è dunque un accadimento passivo, ma un’auto-liberazione, che comunque deve avvenire nel nesso interpersonale tra docente e discente, in un dare e ricevere spirituale – ovvero nella comunicazione. L’arte della riflessione, la prassi della ragione potrebbe essere dunque considerata, secondo questa visione, come una risposta liberatrice, una ‘responsività’ (Verantwortung) nei confronti di un appello a pensare in proprio (Selbstdenken).

7. La novità del senso spirituale non riguarda soltanto lo sviluppo della sua disposizione nell’individuo e il suo manifestarsi nella temporalità della singola persona. Questo sviluppo è infatti un processo che avviene non solo in singoli individui, ma si estende, come Fichte sottolinea, all’intero genere umano. Ma come dobbiamo pensare questo sviluppo all’altezza del genere umano? L’Introduzione alla Dottrina della scienza 1813 distingue due momenti (o gradi) di sviluppo del senso spirituale. Essendo quest’ultimo strettamente intessuto con l’essere stesso dell’uomo, Fichte non può né vuole affatto disconoscere che nel passato e fra i contemporanei il senso spirituale sia già stato e sia tuttora, efficace, e attivo. Un passo significativo suona: “Con [questo] senso [e non con quello solo ordinario] si è visto (gesehen) da quando gli uomini esistono, e tutto ciò che di grande e di eccellente si trova nell’umanità, e solo fa sussistere l’umano, proviene dalle visioni di questo senso” (manoscritto GA II/17, 236). Senza l’azione di ciò che Fichte in questo stesso contesto chiama anche la percezione del mondo spirituale, sarebbe divenuto impossibile tutto quel buono e quell’eccellente per cui “il genere umano è conservato nell’esistere” (Nachschrift-Halle, GA IV/6, 359) – perfino la stessa filosofia trascendentale. Il primo momento di sviluppo del senso interiore è perciò caratterizzato dal suo esserci e il suo operare di fatto. Ciò che però assolutamente manca a questo momento, secondo Fichte, è che in esso il senso interiore non viene visto e osservato nella sua differenza ed opposizione rispetto al senso ordinario. Il risultato paradossale di questa assenza di auto-osservazione del senso spirituale, cioè dell’intelligenza (intelligere), è da un lato che le impressioni di ambedue i sensi, quello ordinario ed empirico e quello spirituale, rimangono in qualche modo confuse (= da cui: oscurità, confusione); dall’altro lato è che la vita, priva di un vero legame unificante, rimane divisa in due metà separate (il fattuale e lo spirituale). Confusione e separazione, invece che distinzione e relazione. La Nachschrift-Halle dell’Introduzione adduce su questo tema il seguente chiarimento: Se il senso interiore non viene osservato come tale nella sua differenza da quello ordinario, “gli uomini restano sospesi tra i due mondi, senza poter scoprire il legame tra essi; perciò senza nemmeno poter notare la loro differenza” (GA IV/6, 359).

Il secondo momento dello sviluppo della disposizione spirituale consiste dunque secondo Fichte in ciò: che il senso spirituale in quanto tale deve essere osservato e percepito nella sua fondamentale differenza rispetto a quello ordinario-naturale. Ciò che è effettivamente nuovo per l’umanità è, secondo l’Introduzione alla Dottrina della Scienza 1813, l’auto-vedersi del vedere spirituale, è che venga effettuato un auto-compenetrarsi del senso interiore in una libera attuazione. Fichte definisce questo gradino come “senso del senso”. Quest’ultimo non sarebbe semplicemente la percezione del mondo spirituale (primo gradino), ma la percezione di questa percezione. Solo grazie all’auto-compenetrarsi del senso interiore, o dell’occhio interiore, diviene possibile afferrare unitariamente la differenza e il legame del mondo dato fattualmente e del mondo spirituale, cosa che nel primo gradino di sviluppo, quello del mero esserci del senso interiore, non poteva ancora aver luogo. Il legame unificante entrambi i sensi, quello esteriore fattuale e quello interiore spirituale, è perciò il senso del senso, l’auto-vedersi dell’intelligenza, che secondo Fichte è un principio allo stesso tempo pratico e teoretico. In definitiva è il nuovo senso – proprio quel senso che deve entrare come nuovo nel mondo della manifestazione: il senso del senso -, che realizza la percezione degli oggetti spirituali colta nella sua struttura riflessiva. E senza l’auto-riferimento riflessivo, dice Fichte, la percezione del mondo spirituale non potrebbe neppure considerarsi completamente fondata e assicurata nella sua differenza dalla percezione fattuale.

8. La novità di cui l’Introduzione alla Dottrina della Scienza 1813 vuole essere l’annuncio è dunque l’idea del senso del senso, e insieme l’esortazione che la disposizione al senso spirituale (all’intelligenza, alla ragione) debba essere svolta fino al punto di afferrare se stessa: “Il senso di questo senso, non semplicemente la percezione del mondo spirituale, bensì la percezione di questa percezione in opposizione all’altra [fattuale] – ciò è davvero nuovo” (Nachschrift-Halle, GA IV/6, 359). Ora, questo auto-afferrarsi dell’intelligenza è precisamente ciò che la filosofia trascendentale ha avviato a partire dalla Critica della ragione di Kant e poi mediante la Dottrina della scienza. Ci troviamo allora nel circolo seguente: da un lato la filosofia trascendentale ha ‘scoperto’ il senso del senso e lo ha fatto valere, o quantomeno ha cercato di farlo valere; dall’altro lato la filosofia trascendentale ha questo stesso auto-afferrarsi del senso quale presupposto o premessa della sua stessa costruzione -, tanto che l’assunto trascendentale non viene compreso e deve restare frainteso se questo senso non viene esercitato e praticato. La via d’uscita per sfuggire questa situazione, a seguito della quale il nuovo senso appare contemporaneamente come risultato e come premessa dell’intrapresa trascendentale, è secondo Fichte quella per cui si divenga “convinti della mancanza del nuovo senso” e ci si “impegni a procurarselo” (Nachschrift-Halle, GA IV/6, 359-360). In tal modo mi sembra venga accennato il processo di una educazione (Bildung) riflessiva al senso del senso, cui deve venire riconosciuto un significato centrale nella elaborazione della stessa filosofia trascendentale.

Lo spirito umano deve essere educato allo sviluppo del nuovo senso, del senso del senso, ma una tale formazione, la formazione alla riflessività, è per parte sua una decisiva componente di quella riflessione della riflessione, o riflessione “alla seconda potenza” [ref] Cfr. Luigi Pareyson, Fichte. Il sistema della libertà, nuova ed. aumentata, Mursia Milano, 1976. [/ref], che la filosofia trascendentale è in se stessa – dato che senza esercitazione pensante del senso del senso resta del tutto impossibile non solo l’accesso alla filosofia trascendentale, ma il suo dispiegamento come sistema della conoscenza principiale. Focalizzando l’attenzione sul termine “senso” (Sinn) si potrebbe asserire che senza il senso del senso non sarebbe possibile alcuna radicale riflessione (Besinnung) e autoriflessione (Selbstbesinnung), quale la filosofia trascendentale pretende di essere. Proseguendo questi pensieri Fichte osserva nelle lezioni che il senso del senso rappresenta “un nuovo compito, proposto al genere umano soltanto nella nostra epoca” (manoscritto di Fichte, GA II/17, 236). Il senso del senso non è un mero possesso, che si possa semplicemente detenere e del quale si possa disporre a piacere; educarlo e farlo valere sulla scena filosofica è un compito assolutamente qualificante della nostra epoca. In ultima istanza: il ‘nuovo’ è per noi compito, alla cui libera assunzione e responsabile attuazione siamo appellati. In quanto compito il senso del senso deve venire effettuato sempre di nuovo in una libera attuazione. Non mi sembra sbagliato considerare il motivo del senso del senso e della sua educazione nelle lezioni introduttive alla Dottrina della scienza dell’inverno 1813 come un ultimo legato dell’autore della Dottrina della scienza. Con esso Fichte vuole dire alla sua epoca ma anche alla posterità che la filosofia trascendentale – per poter essere praticata in generale e addirittura compresa – richiede in definitiva una liberazione dell’occhio spirituale e l’apertura di una nuova percezione, che è l’auto-appercepirsi vivente del vedere spirituale. Secondo questo “ultimo” Fichte la filosofia trascendentale sta o cade con lo sviluppo di questa percezione della percezione spirituale, con il veder-si del vedere.

Sull’attualità politica del Principe di Machiavelli

Sull’“attualità” politica del “Principe” di Machiavelli

di Mario Reale

La prima lezione del “Principe” consiste nella decisività della dimensione politica. Ma Machiavelli è anche cosciente che la politica è un’arte difficile, che incontra molti ostacoli, fra cui la durezza delle cose, la variazione dei tempi e la natura degli uomini. È per affrontare questi ostacoli, specie il terzo, che il principe deve far intervenire “estraordinaria” virtù. Il senso della complessa dialettica, svolta nel finale del “Principe”, fra virtù e fortuna.

[drop_cap style=”2″ bgcolor=”#dddddd” color=”#787882″]S[/drop_cap]i può parlare dell’“attualità” del Principe di Machiavelli, in occasione dei cinquecento anni dalla sua redazione, ma con molte cautele. Questo piccolo scritto, un “opusculo”, straordinario per i concetti e per la lingua, tra i più letti al mondo, rientra certamente nel novero dei “classici”. Ora le opere classiche, mentre hanno la straordinaria capacità di parlare a tutti, nella lunga durata, sono sempre anche figlie del loro tempo, ne recano tracce ineliminabili, e a volte la loro bellezza nasce proprio dalla commistione di tempo ed “eternità”.

Così, non c’è attualità che non si costituisca entro la consapevolezza della distanza, niente dei classici è trasferibile immediatamente nella realtà di oggi. Il filo di connessione è piuttosto costituito da quella che direi “lezione”, ossia la possibilità di ricavare liberamente dai classici temi e motivi che, in parte, vanno oltre il tempo e possono, più spesso in forma indiretta, farci da guida.

Il primo e centralissimo punto della lezione del Principe consiste nella decisività della dimensione politica. Certo, Machiavelli riteneva che la politica fosse il “tutto”, la priorità assoluta nella vita degli uomini, e tuttavia, col filtro della lezione, resta vero, in ogni caso, che la politica costituisce un essenziale punto di unitaria connessione per ogni comunità, che mai potrebbe farne a meno, per decidere le sue sorti collettive e anche individuali. Ma, al tempo stesso, Machiavelli insegna che la politica è un’arte tremendamente difficile, che incontra, sulla via della sua realizzazione, numerosi e gravi intralci. Il primo ostacolo che la politica trovi avanti a sé, è ciò che Machiavelli chiama “fortuna”. Fuori da ogni raffigurazione mitica, fortuna significa l’insieme delle condizioni, delle circostanze e delle situazioni, che, in un dato momento, costituiscono la realtà del mondo umano; sono i “tempi” della storia. Questa realtà è subito complicata da un secondo ostacolo, cui Machiavelli è particolarmente sensibile: le cose umane non sono mai “salde”, ma sempre in “moto”, i “tempi”, l’insieme delle situazioni date, sono soggetti a perenne “variazione”. Infine, gli uomini stessi costituiscono un decisivo ostacolo alla politica. L’uomo è costituito, per Machiavelli, da un fascio di potenzialità, che si attuano nella storia, non ha una natura fissa e immutabile, né segnata indelebilmente, come talvolta s’è detto, da una colpa originaria, di natura religiosa, o da una struttura metafisica che lo condanni al male; è anche un essere fragile e insicuro, bisognoso di “assicurarsi” delle forze ostili che lo minacciano, specie quando i tempi hanno una dura configurazione; dovrebbe avere la capacità di mutare se stesso, un precetto fondamentale della politica machiavelliana, e tuttavia è spesso attaccato, tenacemente, alle abitudini del suo modo di essere e di vivere, a specifici e determinati comportamenti.

La “fortuna” riassume nel suo ambito i primi due ostacoli, e specialmente il secondo, la variazione dei tempi, il quale comprende in sé anche il primo, la complessa durezza delle cose. Non è detto che la fortuna, questa dea capricciosa, sia sempre matrigna: può limitare l’azione umana e l’iniziativa politica, fino a “spegnerle”, ma può anche presentare un volto benevolo, ciò che Machiavelli chiama “occasione”. Se questi due primi ostacoli, compresi nella “fortuna”, costituiscono difficoltà a parte obiecti, riguardano l’oggettiva realtà data, spessa e mutevole, il terzo si colloca a parte subiecti; ed è, comprensibilmente, quello che preoccupa di più Machiavelli: la fortuna varia, le cose seguono il loro oggettivo corso, e solo l’azione umana può intervenire a mutarle. Alla decisività del terzo ostacolo, al pericolo estremo che esso può rappresentare per la politica, Machiavelli risponde con la “virtù”, che è l’insieme delle qualità che connotano l’azione del politico eccellente, capace di incidere sulle cose, per quanto siano resistenti e mutevoli.

Sarebbe ingenuo non riconoscere, nel quadro cui abbiamo accennato, il segno del tempo, in particolare circa la variazione, l’estrema mutevolezza della fortuna, e di quel che ciò ingenera nella vita degli uomini, La situazione storica dell’Italia, in cui il Principe nacque, era segnata da una durissima e miserevole crisi, che l’opera riflette e tenta di superare. Drammaticità delle cose, impazzimento nel girar della fortuna, fragile insicurezza degli uomini. L’Italia era divenuta, dalla fine del quattrocento, dalla discesa di Carlo VIII nel 1494, la “sedia”, dice Machiavelli, della “variazione”, e insomma costituiva il principale terreno di scontro e di conquista. E tuttavia, sarebbe anche difficile dire che gli ostacoli individuati da Machiavelli si chiudano in un cerchio remoto e interamente passato, senza entrare a far parte di una costante natura della politica, perciò anche di quella di oggi. La pesante inerzia delle condizioni date e il mutamento delle cose, non abbiano pure la gravità e l’accelerazione che Machiavelli soffre, costituiscono sempre dati elementari e oggettivi di ogni iniziativa politica. Quanto alla concezione dell’uomo di Machiavelli, cui s’è accennato, sebbene sia qui difficile parlarne distesamente, non è priva affatto d’interesse, per ogni età. Per il punto che ora interessa, la polivocità della natura umana viene espressa da Machiavelli attraverso una serie antinomica di qualità, come essere “impetuoso”, rapido di decisione e anche all’occorrenza violento, o “respettivo”, prudente e “temporeggiatore”; ma anche come essere buono o “non buono”. Il principe deve saper essere impetuoso e rispettivo, riuscendo ad alternare questi diversi comportamenti secondo la necessità; e poiché i tempi, e molti uomini, sono “tristi”, deve anche saper “intrare nel male”. La condizione è che l’atto sia necessitato, inferto senza compiacenza (“crudeltà bene intesa”), e, soprattutto, che, come la sua multiversa natura consente, il principe sappia tornare, subito dopo, alla “bontà”, riscattando, alla fine, le sue azioni “non buone” con la costruzione di uno stato che assicuri il “bene comune”. Ora, il problema è se l’uomo riuscirà a gestire queste potenzialità della sua natura, mutandole secondo quel che comandano la durezza dei tempi e i “venti della fortuna”. Varia e molteplice, la natura umana possiede altresì, come s’è detto, un fondo opaco, refrattario al mutamento di sé, ed è questo il problema che più angustia Machiavelli. In ogni caso, venendo all’oggi, anche a questo proposito ci aspettiamo sempre che un buon politico, dinanzi a una situazione nuova, sappia affrontarla vincendo la sua “natura”, i suoi consueti modi di essere.

Il problema del Principe è quello di costruire razionalmente una figura di principe che sappia sfidare l’inerzia delle cose, affrontare la variazione dei tempi, mutare la propria natura secondo le necessità, e, perciò, sappia realizzare il suo alto scopo, nonostante tutti i condizionamenti e le avversità. Ma sarà in grado il principe di vincere quest’insieme di difficoltà? Machiavelli procede, armato di una splendida lingua e di una mente acutissima, con speranza e timore, con sicurezza razionale e profondi dubbi. Il Principe consiste nella razionale costruzione di questa possibilità, nell’analisi delle condizioni e dei modi, attraverso cui l’azione politica possa affermarsi. La priorità essenziale è che il principe abbia una virtù “estraordinaria”, “eccessiva”; e i consigli di Machiavelli sono tesi a dar forma e contenuti al principio generalissimo della “virtù”, plasmando un esprit fort, un politico veramente capace, tanto nella consapevolezza dell’oggettiva realtà che nella soggettiva capacità di agire, di condurre a segno la sua “intenzione alta”. La politica non deve essere affatto pensata, per Machiavelli, come un’arte distaccata ed eterea. Bisogna sporcarsi le mani, scendere nel profondo della complessa realtà delle cose e dei suoi mutamenti, imparando a conoscere bene chi sono gli avversari della buona politica. Duro mestiere quello del politico, perché, conoscendo i suoi nemici, deve altresì passare attraverso i mezzi di cui essi si servono, i soli che conoscano; e, insomma, è costretto a “intrare nel male”, sebbene non debba mai farsene contagiare, fino a corrompere ’intera sua persona. Il male, ai tempi del Principe, era fatto di armi e violenza, tradimenti, pugnali e veleni. E Machiavelli, con la sua alta e dolorosa coscienza morale, è “necessitato” ad attraversare questa greve materia. Ma anche nei “tempi quieti”, come i nostri, la politica che volesse davvero cambiare le cose, dovrebbe egualmente esercitare giusta durezza, conoscere e cercar di neutralizzare i propri nemici, sporcarsi e trattare, entrando nella palude di complessi e purulenti poteri. La condizione di salvezza, dice Machiavelli, è solo che il politico sappia mantenere una fondamentale onestà di coscienza, e tenga ben fermo lo scopo da raggiungere.

Il principe di Machiavelli deve essere “egemone”. L’egemonia non coincide, semplicemente, con la politica “ordinaria”, perché ne costituisce una qualità aggiuntiva, una versione straordinaria e potenziata. Nell’accezione gramsciana, l’egemonia “politica” – un tema profondamente connesso, nei Quaderni, alle pagine su Machiavelli – si può riassumere (poiché la questione è alquanto complessa) nella formula di una politica che poggi, insieme, su egemonia (direzione, consenso) e dominio (forza, coercizione). Sebbene il dominio sia necessario in ogni stato, l’egemonia può esserci o no, come nel fascismo, dove la forza presumeva di essere nell’atto stesso consenso. Il principe nuovo di Machiavelli s’iscrive con precisione in questo quadro: esercita certamente dominio, ma deve in ogni caso governare con il consenso. Anche per giungere al potere, il principe deve dispiegare un’azione egemonica, nella strategia circa il modo di combattere i nemici, e, soprattutto, di stabilire alleanze. In sintesi, egemonica è una politica che sappia abbracciare più elementi e bisogni nel suo quadro, e riesca a prospettarli, con lunghezza di sguardo, nel futuro, mirando a modi di convivenza nuovi, o più avanzati, così come Machiavelli, dall’Italia, guardava a Francia e Spagna, ai primi due grandi stati moderni in via d’affermazione.

Il principe nuovo e “civile”, la figura più alta e “sicura” di principato, è fortunato nella sua genesi: non ha, propriamente, bisogno né di fortuna né di virtù, non deve compiere atti efferati, perché è chiamato al potere di uno stato da una delle due “classi” che lo compongono, dai “grandi” o dal “populo”: i due fondamentali soggetti collettivi, che sempre costituiscono, nella loro lotta o nella conflittuale collaborazione, il fondo ultimo della teoria politica di Machiavelli. Nel caso del principato “civile”, le forze sociali e politiche sono giunte a un’impasse nel loro conflitto, nessuna delle due può vincere sull’altra, e perciò devono ricorrere a un principe, a una figura “terza”. Assurto al potere, il principe deve in ogni caso mettere in atto una strategia egemonica: se ha già il favore del popolo, deve “mantenerselo amico” e assicurargli “protezione”. Ma poiché l’autorità, quale che sia la genesi del potere, deve essere in ogni caso esercitata nel segno dell’alleanza con il popolo, anche il principe che, da “privato cittadino”, sia divenuto tale con il “favore de’ grandi”, deve, “innanzi a ogni altra cosa, cercare di guadagnarsi el populo”. I grandi, cui il popolo non vuole assolutamente sottostare, devono in ogni caso essere repressi o “spenti” dal principe. Rispetto ai grandi, del resto, quando siano trattabili (“quelli che si obligano, e non sieno rapaci”), Machiavelli suggerisce anche una sottile strategia, un po’ al modo della nobiltà francese, rinserrata da Luigi XIV nella regia di Versailles. Del resto, il principe, di “grandi”, può “farne e disfarne ogni dì”.

Nel corso di un’azione egemonica, come si capisce, il principe deve innanzitutto pensare a se stesso e al suo potere, alla propria “gloria”; l’egemonia deve agire, contemporaneamente, a parte subiecti e a parte obiecti. L’appoggio al popolo non è “caritatevole”, ma risponde a una profonda logica politica. Machiavelli ha definito, in premessa, i due “umori”, la caratteristica natura e la passionalità più radicale delle due “classi”: “li grandi desiderano comandare e opprimere il populo”, il quale, a sua volta, “desidera non essere comandato né oppresso da’ grandi”. Da ciò discende la necessità per il principe di “fuggire” in ogni modo i grandi, che si riterrebbero “equali” a lui, e, non ubbidienti ai suoi comandi, si servirebbero di lui come di un fantoccio, “per potere, sotto la sua ombra, sfogare il loro appetito”; dotati di “più vedere e più astuzia”, i grandi costituirebbero insomma una minaccia interna, e anche esterna, quando, abbandonando il principe, tentassero di muovergli contro con le armi. Se dei “pochi” grandi, come nemici, il principe si può “assicurare”, il contrario avviene quando si “inimica” il popolo, che costituisce la stragrande maggioranza della popolazione, i polloi, che sono “troppi”. Poiché il popolo chiede, fondamentalmente, di non essere oppresso, è più “facile” mantenerselo amico, ove il principe “pigli la protezione sua”. E anche quando il principe provenga da un originario “favore de’ grandi”, voltosi alla protezione del popolo, ne riceve “amicizia”, perché gli uomini, “quando hanno bene da chi credevano avere male, si “obligano” al benificatore loro”, ancor più che se il principe fosse stato in origine chiamato dal popolo. Sebbene il ragionamento di Machiavelli sia retto da una ferma logica politica, in un punto dell’argomentazione compare anche un senso più largo di egemonia: non si può dare soddisfazione ai grandi “sanza iniuria d’altri”, sì invece al popolo, perché quello del popolo “è più onesto fine che quello de’ grandi, volendo questi opprimere, e quello non essere oppresso”.

Il principe nuovo, se non vuol farsi assoluto e crudele tiranno, uscendo così dalla stessa dimensione politica, può mantenere l’amicizia, il consenso del popolo, quando agisca con “grandezza e nobiltà d’animo”. Ciò vuol dire che ogni suddito deve essere sicuro di poter conservare il rispetto di sé e l’integrità della propria persona (l’”onore”); star tranquillo circa la protezione delle proprie donne, dei figli, e della sua “roba” (che è il terreno dove un principe “rapace” è più spesso tentato di opprimere); fiducioso che la giustizia sarà esercitata secondo le forme e le garanzie dovute (punire solo quando vi sia “iustificazione conveniente e causa manifesta”); certo che non sarà oppresso, vessatoriamente, dalle tasse di un principe “fiscale”, che, dilapidate le ricchezze dell’erario, venendo meno alla rigorosa distinzione machiavelliana di “publico” e privato, si volga di continuo a spremere il popolo per le guerre e le altre imprese. Scrive Gramsci, a proposito del principe di Machiavelli, che “le masse popolari dimenticano i mezzi impiegati per raggiungere un fine, se questo è storicamente progressivo e risolve i problemi essenziali dell’epoca”; il principe, difatti, “stabilisce un ordine in cui sia possibile muoversi, operare, lavorare tranquillamente”. Insomma, un popolo “sicuro”, “soddisfatto” e, come Machiavelli ripete spesso, “contento”. Si tratta, insomma, di un potere sempre accompagnato da egemonico consenso. Nei tempi che viviamo, in una situazione in cui la democrazia si riduce, non di rado, a garantire, in ultima istanza, un certo stato di diritto e i mercati, nemmeno ci si dovrebbe stupire troppo del quadro delineato da Machiavelli, di questa protezione personale, familiare, e, in senso largo, “sociale”.

Da ciò che si è detto, emerge, certo, una sostanziale passività del popolo; un qualche ruolo “attivo” si potrebbe tutt’al più scorgere solo nel fatto che il popolo, dopotutto, deve riconoscere e accettare l’offerta amicale del principe. Per la contraddizione che non lo consente, il principe non potrebbe mai “soddisfare” il popolo dal lato politico, rinunciando al suo potere monocratico, di modo che la soddisfazione sarà da ritrovare tutta sul piano dei bisogni essenziali e primari, di ciò che sta al di qua, o al di là, della politica. Si tratta, insomma, di una prima ed elementare forma di egemonia, riposante sulle necessità della vita. Ma la grandezza di Machiavelli sta nel fatto che egli conosce, insieme, una diversa e più alta forma di egemonia: quella esemplificata dalla repubblica romana, che è al centro dei Discorsi. Qui tutto il popolo, la “plebe”, è chiamato a un importantissimo, e, in un certo senso, decisivo ruolo politico: tutti i cittadini sono diventati “principi”. E si ha egemonia sia nella forma di una costituzione “mista”, di carattere “duale”, contro la monotonia degli stati “monoclasse”; sia nel determinante conflitto che oppone la plebe o popolo ai nobili o grandi, per la conquista di egemonia, sempre nel quadro delle istituzioni democratico-repubblicane, allo scopo di promuovere leggi “in favore della libertà”; sia infine negli effetti prodotti dal corpo politico così costituito, libertà interna e potenza esterna, con lo strepitoso esempio dell’”imperio” romano, che esercitò hegemonia, diceva Polibio, sull’intero mondo conosciuto, o almeno su una sua parte significativa. I Discorsi non dimenticano mai il Principe, e uno dei punti di forza di Machiavelli, è che, rifiutando ogni pensiero unico e definitivo, lavora su più “modelli”, principato e repubblica, incrociandoli tra loro, e facendo reagire l’uno sull’altro.

La politica, e specie quella d’egemonia, non è mai figlia di allegro ottimismo volontaristico, di spensierata sicurezza. Si nutre sì di ragione e passione, di fermo calcolo e di brucianti emozioni, ma li costituisce sul fondo, e con la perenne compagnia, dell’incertezza e del dubbio, dell’esperienza di passate e forse future delusioni. Il fatto è che non esiste una generale “scienza politica” capace di dare certezze, né Machiavelli ha mai cercato, contrariamente a quanto si continua pigramente a ripetere, di dar corpo a una simile scienza. Nulla è garantito, nulla è certo, in merito alla costruzione e all’effettiva riuscita di una buona politica. Ora, quasi alla fine di Principe XXV, in prossimità della sua conclusione, esplode in Machiavelli un dubbio radicale, “iperbolico e, per dir così, metafisico”, come avrebbe detto Cartesio. Non è più l’esitazione perplessa che aveva accompagnato tutta la stesura dell’opera, ma un dubbio devastante, capace di mettere in crisi, di “ruinare”, l’intera costruzione del Principe. No, forse non è vero che un principe, quand’anche fosse straordinariamente virtuoso, riesca a compiere l’impresa che ho preparato per lui. Lo smarrimento nasce nel punto più delicato: la fortuna è in perenne “variazione”, e questo è il dato della realtà, ma sarà l’uomo in grado di mutare se stesso, restando in sintonia con le cose, anche quando queste mutino rapidamente, ciò che Machiavelli dice “riscontro coi tempi”? Gli uomini, come hanno “diverso volto”, così posseggono pure diverso “ingegno et fantasia”, e, come esempio, Machiavelli riconduce questa disparità a due diversi tipi (prejunghiani), quello dell’”impetuoso” decisionista e quello del prudente “respettivo”. Gli esseri umani sono abituati a condursi in una certa maniera, secondo il loro temperamento, e magari sono stati fortunati nel comportarsi così; si capisce allora come siano riluttanti ad abbandonare il loro modo d’essere. Ma qui siamo ancora al dubbio “metodico”, non a quello “iperbolico”, che si ha quando si osserva che simili attitudini degli uomini non sono né scelte né revocabili, ma costituiscono un immutabile dato naturale. Così accade che, mentre i tempi variano impetuosamente, l’uomo non è in grado di mutare se stesso, non “potendo deviare da quello a che la natura lo inclina”. Si “felìcita” quando c’è un positivo “riscontro” con i tempi, una conformità tra il proprio carattere e quello di uno specifico momento storico, ma si “infelicita” quando il proprio “umore” è disforme dai tempi, sia esso impetuoso o rispettivo, ma nemmeno un uomo virtuoso come il principe nuovo può, uscendo dalla sua natura, secondare tutti i tempi. Può aver prosperato finché c’era un tempo congeniale alla sua natura, ma di necessità “rovina” quando, variando la fortuna, se ne sta “ostinato” nei suoi “modi”. Non c’è “uomo sì prudente” che sappia vincere questa sfida, un “savio” che sappia comandare “alle stelle et a’ fati”.

Per comprendere il punto di crisi, che rovinerebbe l’intero Principe, deprimendo ogni azione umana, è necessario guardare sommariamente la struttura del capitolo XXV, il più difficile, senza dubbio, dell’opera, che ospita quest’amara riflessione. Il titolo si chiede “quantum fortuna in rebus humanis possit”; è un tema del tutto nuovo rispetto al Principe, quale era stato fin qui svolto e presso che ultimato. Finora Machiavelli, pur fin troppo consapevole del peso della fortuna, aveva delineato l’eccezionale figura di un principe che sapesse duramente affermarsi sulla variazione dei tempi. Qui invece la riflessione assume un andamento filosofico, e, insomma, ci si interroga su quale sia “in universali” il potere della fortuna nelle cose umane. La premessa è molto significativa. Machiavelli riporta l’”opinione” di quanti sostengono che la “fortuna e Dio” abbiano così in mano il governo delle cose del mondo, che gli uomini, “con la “prudenzia loro, non possino correggerle, anzi non vi abbino remedio alcuno”. Una simile opinione è, certo, più facilmente credibile “ne’ nostri tempi”, quando si è vista e si vede una “variazione grande delle cose”, eventi “fuora di ogni umana coniettura”. Segue una confessione autobiografica: “a che pensando, io, qualche volta, mi sono in qualche parte inclinato nella opinione loro”. Ma (“nondimanco”) l’idea fatalistica è subito rigettata, “perché il nostro arbitrio non sia spento”. Il problema è quale sia, nella storia, il rispettivo peso della fortuna e delle azioni umane. Machiavelli giudica che, all’incirca (“o presso”), la “fortuna sia arbitra della metà delle azioni nostre”, e che l’altra metà spetti al governo umano. E’ una partizione di necessità approssimativa, quella che aveva guidato, più o meno, la costruzione del Principe. E, del resto, chi potrebbe mai rigorosamente risolvere, con astratta ricerca intellettuale, un simile problema? Importante è sapere, come accade nel Principe, che c’è un pesante condizionamento delle cose, una durezza volta a volta data, e una possibilità d’azione, sebbene ardua anch’essa. La metafora del fiume, notissima e stilisticamente stupenda, illustra questa situazione: il fiume straripa impetuoso perché, nei “tempi quieti”, non si sono fatti “argini” e “ripari”; e così, parimenti, la fortuna “dimostra la sua potenzia dove non è ordinata virtù a resisterle”. Nessuno potrebbe dire che per questa via siamo giunti a una rigorosa soluzione del problema del peso della fortuna nelle cose umane. Machiavelli stesso oscilla, ora inclinando più verso la fortuna, ora più verso la virtù. Ma, come s’è detto, è il problema stesso che è insolubile, né si lascia razionalmente sciogliere.

Nel breve finale del capitolo, Machiavelli si riprende dall’estremo dubbio, e avanza una dichiarazione del tutto contraddittoria, in apparenza, con l’analisi subito prima svolta: “io iudico bene questo: che sia meglio essere impetuoso che respettivo”. Può sembrare solo una passionale battuta, di fronte all’ oscura complessità del problema affrontato. Ma sarei portato a darle più ampio valore. Dalla depressione si esce con umori euforici, e tanto più la prima è stata acuta, tanto più i secondi sono eccitati e “veloci”. Con la preferenza accordata agli impetuosi, i più “decisionisti”, Machiavelli riprende, nella maniera più intensa, il tema, costante nel Principe, della volontà che agisce, della virtù che sa imprimere il suo segno sulle cose. E, implicitamente almeno, affiora qui un altro problema. La domanda sul peso rispettivo di fortuna e virtù, indecidibile sul terreno razionale, può essere affrontato e illuminato solo nell’ambito della praxis. Non si tratta in alcun modo di ergere bandiere di prometeico volontarismo, di azioni senza oggetto, contravvenendo a ogni lezione machiavelliana, ma è pur vero che il duro peso della fortuna si può sperimentare e misurare solo nel lavoro dell’azione, nel tentativo non di annullarlo, quanto di operarvi dentro per mutarlo, e lasciare nella “materia” delle cose la propria soggettiva “forma”. E’ qui che si vede quanto possa la fortuna nelle cose umane.

Se, prima del dubbio, sta l’intero Principe, e se nel finale del capitolo XXV Machiavelli si riallaccia ai suoi temi più caratteristici su virtù e fortuna, nel capitolo seguente e ultimo dell’opera, nella celebre Exhortatio a liberare l’Italia dai “barbari”, si ha una vistosa ripresa di tono circa la possibilità dell’azione politica, un timbro da grande orchestra, in qualche punto persino troppo sonora. Il superamento della profonda crisi intellettuale è segnato con nettezza: “Dio non vuole fare ogni cosa, per non ci torre el libero arbitrio e parte di quella gloria che tocca a noi”. La virtù deve riprendere il suo alto e difficile corso. La politica di Machiavelli è imprescindibile dal nesso con la storia; non teoriche e un po’ eteree dottrine devono guidare il politico, ma l’acuta consapevolezza e il senso della storia, di quella passata e, soprattutto, di quella in cui deve agire. Il Principe è “vissuto” di storia, come si conviene all’”antiteorico” Machiavelli, e nel nostro capitolo è di nuovo al centro la situazione italiana. Nel punto del dubbio radicale, era la virtù, la capacità di agire, la questione centrale, e, anzi, il solo vero problema. Ora, tornata la fiducia nella virtù, che certo deve essere sempre grande, “estraordinaria”, la prospettiva si sposta dalla parte della fortuna, del tempo della storia e della situazione delle cose. La condizione italiana, s’è detto, era pessima, è ciò è ribadito anche nell’ultimo capitolo del Principe: l’Italia è “battuta, spogliata, lacera, corsa”. Centrale è in Machiavelli, tra fortuna e virtù, l’”occasione”, un modo di presentarsi dei tempi e delle cose, che, se non trova virtù adeguata, trascorre vanamente, così come la virtù, grande quanto si voglia, deperisce e si spegne, se non trova l’opportunità di esercitarsi. Nel nostro capitolo, l’occasione sta proprio nella disperazione delle cose, quando si è toccato il fondo dell’abisso. C’è, certo, un tratto di biblico provvidenzialismo nel prospettare come “occasione” quella situazione italiana tenuta ferma, nella sua drammaticità, per tutto il corso del Principe: “el mare si è aperto; una nube vi ha scorto el cammino; la pietra ha versato acqua; qui è piovuta la manna”. Come dirà, in una sua “degnità”, Vico: “parevano traversie ed erano opportunità”. Ma. del resto, secondo il costante convincimento di Machiavelli, “tutte le cose degli uomini” sono sempre “in moto, e non potendo stare salde, conviene che le salghino o che le scendino”; giunte al punto più basso, le cose non possono che risalire. E si ha qui un’altra lezione di Machiavelli. Per quanto miserevole e sconsolata sia la situazione data, conviene sempre tentare una via d’uscita politica. Molte volte, e in vari modi, Machiavelli si sofferma sul fatto che, in condizioni disperate, quando non si ha più nulla da perdere, è sempre meglio affrontare la lotta, tentando, con decisione “impetuosa”, di rimontare la china. Ma per far ciò. le sole armi della ragione non bastano. Occorre saper mobilitare con tutti gli strumenti possibili, accendere gli animi, pur predisposti dalla loro condizione al mutamento, formulare un “manifesto politico” che esprima “fanatismo d’azione”, come diceva Gramsci. Machiavelli ricorre, tra altri esempi e motivi, alla biblica lezione di Mosè, di cui s’è già vista la presenza. L’occasione nasceva dal fatto che gli ebrei erano disperati e “stiavi”, e s’incontrò con la “virtù di Moisè”, il grande condottiero che mobilitò il suo popolo, traendolo fuori dalla schiavitù.

occamQuesto testo, originariamente pubblicato sul Rasoio di Occam, ha fatto da base all’intervento sullo stesso tema realizzato da Mario Reale per l’Osservatorio filosofico.

 

Un rinnovamento storiografico del Novecento: la scuola delle Annales

Un rinnovamento storiografico del Novecento: la scuola delle Annales

di Sonia Caporossi

Già apparso in due parti con licenza CC su criticaimpura.wordpress.com (prima parte, seconda parte), quindi in forma riveduta e corretta su www.storiaestorici.it e in ebook su “Un Anno Di Critica Impura”, di Sonia Caporossi e Antonella Pierangeli, Web-Press Edizioni Digitali, Milano, Gennaio 2013 – ISBN: 978-88-906285-97
 

Sommario:

  • La scuola della Annales
  • 1930-1968, una svolta della storiografia
  • La rinascita delle fonti e la decadenza del soggetto
  • Un sistema aperto e una storiografia eterodiretta dallo storico
  • Il tempo storico e la “lunga durata”
  • Un impianto possente e contradditorio
  • E il tempo che cosa è

 

La scuola della Annales

[drop_cap style=”2″ bgcolor=”#dddddd” color=”#787882″]Q[/drop_cap]uando la scuola storiografica delle Annales, com’è noto, sorse in Francia intorno alla rivista Annales d’histoire économique et sociale fondata nel 1929 da Marc Bloch e Lucièn Fevbre [ref]Il titolo della rivista variò poi nel 1946 in Annales. Economies. Sociétés. Civilisation e dal 1994 in Annales. Histoire et sciences sociales. Il movimento si articolò, com’è noto, in tre periodi fondamentali: 1929-1944, 1945-1968 e dal 1968 in poi, come specificato più avanti.[/ref], essa fu immediatamente caratterizzata da una considerazione fortemente innovativa della ricerca storiografica. Questo senso di ricerca ed innovazione, infatti, concedeva sostrato al significato, nella teoresi e nella prassi, dell’attenzione rivolta da Bloch e Febvre nei confronti di branche del sapere, come ad esempio l’economia e gli studi sociali, che tradizionalmente erano quasi del tutto rimaste ai margini della considerazione storiografica in senso finalmente scientifico, laddove avevano trovato un posizionamento strategico, nel lungo secolo della storiografia di ascendenza idealistico – romantica, come semplici forme dello sviluppo progressivo dello Spirito in generale, ovvero, come propugnavano più tardi i positivisti in polemica con le variopinte hegelianità, in un campo di dominio permeato della più bieca e gradassa metafisica.

La direzione intrapresa era quella dell’ampliamento delle problematiche da analizzare per affrontare i processi storici in senso strutturale, o per meglio dire strutturalista, come verrà meglio a delinearsi successivamente nel marasma culturale degli anni Sessanta  [ref]Cfr. I. Fazio, Nuova Storia Culturale, in Cultural Studies, rivista telematica dell’Università di Palermo, pp. 2-3: “Anche la scuola francese delle Annales, che già dai suoi inizi si era caratterizzata per la ricerca di insiemi sociali e di sviluppi di civiltà di lunga durata che oltrepassavano gli steccati della storia politica e religiosa, in una seconda fase, dal dopoguerra in poi, si è orientata verso temi culturali. Forme simboliche e pratiche materiali venivano documentate in modo dettagliato. L’eclettismo interdisciplinare delle Annales si inquadrava in una cornice teorico metodologica di strutturalismo storicista. Dallo strutturalismo francese, sia linguistico che antropologico, traeva la concezione della storia  come insieme di strutture – dalle  credenze alle  pratiche economiche – che funzionavano in modo organico. Esse si modificavano lentissimamente, lasciando spazio quindi a un’enfasi analitica sui fattori di permanenza e sulle interazioni reciproche tra gli elementi della struttura. È facile comprendere quindi il legame di questo modello analitico con l’antropologia strutturalista. Infine, un terzo elemento accanto al lavoro degli storici sociali e degli animatori delle Annales portava la cultura, e in particolare quella dei gruppi subalterni, in primo piano nella storia e nelle altre scienze sociali: i movimenti sociali, generazionali, controculturali e antiegemonici di fine anni Sessanta premevano nel senso dell’apertura a temi di ricerca relativi ai gruppi dominati, come i neri, le donne, i popoli del cosiddetto terzo mondo la cui vita veniva alla luce nell’ambito del processo di decolonizzazione. La ricerca sociologica soprattutto dava attenzione alla cultura popolare e alla controcultura; la ricerca femminista cominciava a legare mondi mentali e ambiti corporei; nascevano gli studi subalterni”.[/ref]; tuttavia, fin da subito i nuovi storici delle Annales operarono considerando parte integrante dell’indagine storica gli aspetti della produzione, della tecnologia, dei mezzi di lavoro, l’apertura a temi come le mentalità, la considerazione dei manufatti, la demografia, la vita quotidiana, la sessualità, l’alimentazione, le abitudini di consumo e chi più ne ha più ne metta, lanciando esche a cui abboccheranno le successive correnti psicosociostoricofilosofiche, in patria e fuori dai confini (prestabiliti). Campi di interesse nuovi divennero quindi ben presto anche le civiltà extraeuropee, in un ampliamento in senso globale e globalizzato, o forse meglio dire globalizzante, dei confini geopolitici, derivato dalla contemporanea intersezione con l’etnologia e l’antropologia culturale, ma soprattutto nel primo periodo delle Annales era viva la sollecitazione a colmare i ritardi rispetto alle scienze esatte e naturali: “ciò che premeva a Bloch […] era la rivendicazione della possibilità di una conoscenza critica, scientifica, dei singoli fatti storici”, laddove la figura con cui dialogare in tal senso, in primis e fin dal principio, era il Durkheim dell’Année sociologique. Mentre per il sociologo “la storiografia o non era scientifica, e allora rimaneva confinata, al limite, nell’aneddoto; o era scientifica, passibile cioè di comparazioni tali da condurre all’enunciazione di leggi, e allora si identificava con la sociologia”  [ref]Così scrive C. Ginzburg nella Prefazione a M. Bloch, I re taumaturghi, Torino 1973, p. XII. Del resto, come sostiene M. Mastrogregori in A. De Bernardi e S. Guarracino, Dizionario di Storiografia, Milano 1996, “la struttura della rivista riprende quella dell’Année sociologique (1879) di E. Durkheim, e si è ipotizzato che Bloch e Febvre volessero riprendere, a favore della storiografia, il disegno durkheimiano di un’egemonia della sociologia tra le scienze sociali, elaborato all’inizio del secolo proprio contro la storiografia”. Durkheim in effetti opponeva allo studio del fatto individuale, irripetibile, quello delle determinazioni sociali, cui si attribuiva un ruolo essenziale in tutto lo sviluppo della società, e questo, di fatto, è il punto di partenza del discorso storiografico delle Annales fin dalla fondazione.[/ref], per Bloch, al contrario, la scientificità del lavoro dello storico era una rivendicazione legittima senz’ombra di dubbio; ma proprio per questo, implicitamente, dava ragione allo stesso Durkheim: occorreva, per possederne un paradigma valido, uscire dal modello della storia dell’aneddoto.

Non consapevole di questa preliminare contraddizione nell’enunciato, il movimento delle Annales auspicava in questo senso il lavoro collegiale degli storici, i quali avrebbero dovuto avvalersi dei contributi interdisciplinari sulla base di una comune piattaforma interpretativa: si mirava insomma ad  ottenere una cooperazione internazionale a livello di ricerca, l’apertura all’attenzione di un vasto pubblico interessato ai problemi del presente e soprattutto il raggiungimento di “un lavoro comune con le scienze sociali, dalla geografia alla statistica, dall’economia politica alla psicologia e alla sociologia”, anche alla luce dell’importanza del fattore economico analizzato centralmente, per la prima volta, dalla storiografia marxista, caratterizzata dalla posizione di un problema, quello economico – sociale, di più vasto respiro  [ref]Fu J. Jaurès, coi suoi volumi sulla Storia socialista della rivoluzione francese (1900), che indusse gli storici francesi dei periodi successivi a prestare maggiore attenzione ai fatti socio-economici, influenzando per esempio storici del calibro di G. Lefebvre. A testimonianza dell’accresciuta importanza del fattore socio – economico nell’interpretazione storica basti pensare che nel 1927 (due anni prima della pubblicazione del primo numero delle Annales) Mathiez, il maggior storico della rivoluzione francese durante il primo trentennio del secolo, aveva pubblicato la sua migliore opera socio-economica: Il carovita e il movimento sociale sotto il Terrore.[/ref].

1930-1968, una svolta della storiografia

Gli anni Trenta segnano insomma l’inizio della fine della storiografia meramente politica o, come si sarebbe detto di lì a poco a mo’ di slogan, evenemenziale. La rivoluzione russa, la cavalcata spettrale del marxismo nei cieli d’Europa, i mutamenti sociali post-bellici, la presenza ossessiva dell’elemento economico a guidare la danza macabra durante e dopo la Prima guerra mondiale, in particolare la crisi economica nel ping pong planetario che ebbe inizio proprio nel 1929 e che finì per coinvolgere anche la Francia: tutto ciò comportò un avvicinamento fatale, un’attrazione ideocentrica degli storici francesi alle questioni economiche. Ad esempio, se pure i primi lavori di Bloch sono consacrati alla Francia capetingia con studi sui problemi della psicologia collettiva e delle mentalità  [ref]Stiamo parlando de I re taumaturghi , opera che venne pubblicata nel 1924 e all’interno della quale si fa strada un’idea di psicologia e sociologia storica incentrata sulla definizione delle “représentations collectives”. Il sostenitore più fervido della psicologia storica fu Febvre, a cominciare dal saggio del 1938 Une vue d’ensemble: historie et psychologie.[/ref], modalità di analisi e ricerca poi cadute nelle fauci impastoiate di ben più miserandi tuttologi e psicanalisti sessantottini, verso la metà degli anni Venti la sua attenzione si concentra sulla storia agraria medievale francese ed europea, tanto che nel 1931 insegna a Oslo storia agraria comparata e proprio in quel periodo pubblica l’opera che lo fa diventare il maggior storico-economista della Francia: I caratteri originali della storia rurale francese  [ref]Negli anni 1939-40 appare quello che può essere considerato il suo capolavoro: La società feudale.[/ref]. Ma le Annales conobbero anche altre linee di sviluppo, in cui le linee di demarcazione fra tendenze differenti si fanno abbastanza definite. Il secondo periodo delle Annales prende vita dopo la morte di Bloch nel 1944  [ref]Già cinquantenne, Bloch si arruolò doverosamente, col grado di capitano, contro i nazisti. Nel 1940 fu in quelle unità francesi che riuscirono a imbarcarsi a Dunkerque per l’Inghilterra, da dove poi rientrò in Francia, ma dopo la capitolazione non potette più insegnare alla Sorbona e per qualche tempo esercitò in provincia, contemporaneamente gettando su carta il manoscritto dell’Apologia della storia, che rimase incompiuta e fu pubblicata postuma da Febvre con alcuni ritocchi. L’autore aveva dovuto nascondersi, perché ebreo, sotto il regime di Vichy, e del resto era ben nota la sua avversione all’hitlerismo razzista. Divenuto nel 1943 uno dei comandanti della cintura lionese della Resistenza, fu arrestato dalla Gestapo nel 1944 e fucilato il 16 giugno. Come ricorda Le Goff nella sua Prefazione all’Apologia della storia, Bloch “Fu una delle vittime di Klaus Barbie”. Durante tutta la guerra Febvre, rimasto a Parigi, volle con tutti i mezzi possibili mantenere in vita le Annales, la cui periodicità era divenuta, per forza di cose, saltuaria. Come abbiamo già ricordato, nel 1946 i fascicoli ricominciarono ad apparire sotto un nuovo nome, Annales. Economies-Sociétés-Civilisations, redatti dal solo Febvre. Terminata la guerra, la storiografia francese riprese con nuovo vigore, tanto che la pubblicazione, nel 1949, del libro di F. Braudel, Il Mediterraneo e il mondo mediterraneo all’epoca di Filippo II, costituì allora un avvenimento eccezionale. Basti pensare che la sua elaborazione richiese circa quindici anni e che grazie a questo lavoro Braudel venne riconosciuto come uno degli storici più importanti d’Europa, a causa delle novità impellenti del suo lavoro, il quale invertiva volontariamente l’importanza dell’oggetto studiato, il Mediterraneo, a scapito della figura individuale di Filippo II, e per la scansione triadica del tempo storico, concetto problematico di cui si parlerà più avanti.[/ref] ruotando intorno alle figure di Febvre e Braudel e ad una grande istituzione di ricerca fondata nel 1947: la VI sezione dell’École pratique des hautes études, istituzione attraverso cui i due condirettori riescono ad affermare il movimento delle Annales anche in ambito accademico. Il terzo periodo invece ha inizio nel 1968 e ruota intorno alla figura di Jacques Le Goff il quale assume la direzione della rivista dando così inizio al periodo della cosiddetta antropologia storica.

Nonostante questa scansione in tre periodi caratterizzati da diversi indirizzi, giudicati solo apparentemente divergenti e in parte contraddittori, la Scuola delle Annales è stata considerata complessivamente una vera e propria svolta rispetto alla storiografia dell’Ottocento, la quale, a sua volta, declinava i propri parametri di analisi intorno a due grandi correnti contrapposte: lo storicismo romantico e idealista da una parte e il positivismo dall’altro, ambedue considerati mali profondamente radicati nel metodo d’indagine, da emendare con tutte le forze possibili. Nella storiografia ottocentesca il fenomeno storico era vissuto infatti come fare politico in senso pressoché esclusivo. Questa impostazione, probabilmente derivata dal sorgere, attraverso i moti rivoluzionari di ispirazione romantica, del concetto di nazione, permetteva ai nuovi storici di accusare la storiografia romantica di un certo descrittivismo astratto e sistematizzante: essa non faceva altro che scrivere la storia degli Stati  [ref]Chabod si occuperà del concetto di nazione in una serie di lezioni tenute all’università Statale di Milano nell’anno accademico 1943-1944 e poi raccolte e pubblicate a cura di A. Saitta e E. Sestan (L’idea di nazione, Roma – Bari 1961). Lo storico valdostano si era occupato, fin dal decennio precedente, dell’idea d’Europa dal punto di vista del divenire storico della coscienza europea e dello svolgersi dell’idea di nazione, proprio in quegli anni in cui la sua degenerazione in nazionalismo si era resa evidente in seguito al tragico accadimento delle due Guerre Mondiali.[/ref] e così si imperniava intorno a un individualismo particolaristico che non consentirebbe analisi di più vasto respiro. Dall’altra parte si ergeva tuttavia il possente muro del positivismo, contro la cui “metafisica del fatto” le Annales si opporranno sempre fermamente, nella concezione del fatto che permane inerte senza l’intervento interpretativo dello storico e nella convinzione che il lavoro dello storico consista nel porre delle domande alle testimonianze in una considerazione della storia come problema e ricerca. Il tentativo di superare il descrittivismo elencativo positivista e la semplice erudizione ottocentesca doveva, per gli annalisti, farsi forte della convinzione che “la storia […] avrà il diritto di rivendicare il suo posto fra le forme di conoscenza veramente degne di sforzo, soltanto se ci prometterà una classificazione razionale e una progressiva intelligibilità, anziché una semplice enumerazione senza nessi a quasi senza limiti”; per questo occorre considerare la storia come oggetto di un “lavoro ragionato di analisi” e non come mera “pratica erudita”; l’esigenza era quella di superare, pur riconoscendone il valore, una visione della storia come “scienza dell’evoluzione umana” sorretta da un “ideale pan – scientifico”, che però, contraddittoriamente, escludeva dai suoi orizzonti il residuo delle “numerose realtà umane che apparivano disperatamente ribelli a un sapere razionale” chiamandole sdegnosamente “l’avvenimento”: era questo, secondo Bloch,  l’orientamento della scuola sociologica di Durkheim da rigettare in pieno  [ref]M. Bloch, Apologia della storia, Torino 1970, pp. 28 – 31.[/ref].

La rinascita delle fonti e la decadenza del soggetto

Questa necessità finisce per indirizzare Bloch e Febvre verso un nuovo ruolo dello storico che si assume come compito l’analisi del dato concreto, la ricerca del quid strutturale, l’interpretazione delle fonti le quali però, senza quest’intervento attivo e quasi rabdomantico, rimarrebbero mute. Scriveva infatti Bloch nel 1929: “i documenti restano monotoni ed esangui fino al momento in cui il colpo di bacchetta dell’intuizione storica rende loro l’anima”. Al di là della considerazione di soppiatto che l’argomento dell’intuizione storica è di matrice idealistica, proprio una delle tendenze a cui Les Annales volevano di fatto contrapporsi; esso tuttavia possiede, di vitale e nuovo, questo suo innestarsi indefesso sul lavorio filologico documentario. I documenti che lo storico deve interrogare sono, in effetti, svariatissimi: scritti teologici, medici, giuridici, dissertazioni politiche, atti amministrativi, reperti del folklore, dipinti, incisioni, cronache, chansons de geste. Lo storico prende le fonti, le passa al microscopio, le esamina, rende loro una ragione organica di vasto respiro; una ragione, un ordine razionale che oserei chiamare cartesiano e che cambia semplicemente nome: interpretazione. E’ questa un’idea della storia come percorso articolato da ricostruire in tutta la sua complessità, impostazione di pensiero la cui base culturale e politica è stata senza dubbio la vittoria democratica sul nazifascismo, che ha per ciò attraversato l’intero l’arco della cultura democratica europea dell’inizio del Novecento.

Infatti, come ricorda Ludovico Gatto, “gli avvenimenti legati ai due conflitti mondiali hanno contribuito a sviluppare il cammino e l’evoluzione del pensiero storico europeo”  [ref]Ludovico Gatto (Prefazione a H. Pirenne, Storia d’Europa dalle invasioni al XVI secolo, Roma 1991, p. 8) ricorda il valore dell’impegno concreto dello storico e della sua immersione nel presente facendo un riferimento alla figura maestra del professore belga: “Pirenne […] per l’atteggiamento coraggioso e patriottico verso la sua università di cui volle difendere il patrimonio culturale e materiale, nel 1916 venne deportato in Germania. Così fu però anche per Fernand Braudel, durante il secondo conflitto mondiale, tradotto nei campi di prigionia tedeschi di Magonza e Lubecca”. Come si sa, ambedue gli studiosi, per alleviare le sofferenze della prigionia, organizzarono corsi di storia fra i detenuti e scrissero materiale, in quasi totale assenza di documenti e possibilità di ricerca, che sarebbe poi servito ai loro rispettivi capolavori Storia d’Europa dalle invasioni al XVI secolo e Civiltà e imperi nel Mediterraneo nell’età di Filippo II.[/ref]. Il mestiere di storico, insomma, comporta la dimensione dell’impegno in prima persona nell’intenzione votiva di studiare il passato essendo totalmente coinvolti nel presente, in quella circolarità ermeneutica di presente e passato che è una delle tensioni più forti di chi avverte fortemente il richiamo dell’identità storica; e lo è, aggiungiamo, fin dai tempi, appunto, del romanticismo. Paradosso? Contraddizione? Andiamo avanti. Lo storico, specie secondo Bloch, deve tenere ben presente anche il problema epistemologico della legittimità della storia  [ref]“Papà, spiegami a che serve la storia”. Così, pochi anni or sono, un ragazzo che mi è molto vicino, interrogava suo padre, uno storico. Vorrei poter dire che questo libro rappresenta la mia risposta, perché non credo ci sia lode migliore, per uno scrittore, che di saper parlare, con il medesimo tono, ai dotti e agli scolari. Ma una semplicità tanto elevata è privilegio di alcuni rari eletti. Tuttavia la domanda di quel fanciullo, di cui sul momento non riuscii gran che bene a soddisfare la sete di sapere, la conserverei volentieri qui, come epigrafe. […] Il problema ch’essa pone, con la sconcertante dirittura di quell’età inesorabile, è, né più né meno, quello della legittimità della storia. […] e tuttavia la storia, alla quale ci richiama un’attrattiva quasi universalmente sentita, non potesse dimostrare altrimenti la propria legittimità; se non fosse insomma che un piacevole passatempo, […] meriterebbe davvero la fatica che spendiamo per scriverla? […] O dovremo sconsigliare lo studio della storia agli ingegni suscettibili di un miglior impiego, oppure la storia dovrà dimostrare di avere le carte in regola come conoscenza” (M. Bloch, Apologia della storia, cit., pp. 23-27).[/ref]. Egli sorregge sulle spalle responsabilità morali e civiche nei confronti del percorso della civilizzazione (un percorso lineare? Circolare? Ricorsivo?), e la testimonianza storica stessa ha il ruolo fondamentale del mantenimento della memoria, prerogativa di ogni futura civilizzazione; per cui se è vero da una parte che “la storia non dà giudizi morali”, come afferma Bloch, dall’altra è il suo stesso ruolo nel mondo ad essere dotato di un’intrinseca eticità: la storia non è la scienza del passato, bensì, come scrive Febvre, “è una delle scienze umane” in quanto insieme agli stati, alle nazioni, alle tecniche, alle leggi, alle istituzioni “il suo oggetto è l’Uomo; o, se si preferisce, gli Uomini”  [ref]L. Febvre nel Profilo di Marc Bloch preposto all’edizione parigina dell’Apologia della storia del 1949 nell’ed. italiana a cura di G. Araldi , Torino 1970, p. 5.[/ref].

Ora: sfortunatamente, si evince come la scuola delle Annales abbia voluto porsi, onorevolmente, da una parte a sostegno della presenza dell’Uomo nel pensiero contemporaneo: d’altra parte, tuttavia, in quel suo definirlo come “oggetto”, ben lungi dal restituirgli uno statuto ontologico come motore della storia, ha gettato il cemento su cui si sarebbero impiantate, di lì a poco, le maglie castranti dell’antiumanismo posteriore e dell’archeologia del sapere foucaultiana, così disumanizzante e reificante, con quella pretesa di cogliere i rantoli agonizzanti dell’Uomo morente o gli echi umoristici di un Soggetto storico già deceduto. Di fatto, le cose sono andate così: per la Scuola delle Annales, specialmente da Braudel in poi, gli uomini, i singoli, gli individui, sono cominciati a scomparire, volatizzati, liquefatti in una sorta di dissipatio humani generis, annacquati nella salamoia della storia come “lunga durata” e “larghissimo spazio”: vedremo ora come e perché.

Un sistema aperto e una storiografia eterodiretta dallo storico

Accanto alle preoccupazioni epistemologiche e morali, disattese, di conservazione del ruolo umanistico della disciplina storica, le Annales si facevano anche portavoce della concezione della storia come scienza  [ref]Tuttavia nel 1941 Febvre preferiva una definizione più restrittiva: “qualifico la storia come studio condotto scientificamente e non come scienza” (in J. Le Goff, Storia e memoria, Torino 1982, p. 90).[/ref]: ma, beninteso, nella totale assenza di distinzione di ciò che è storia e ciò che non lo è. Lo storico pone nuove domande alle fonti partendo sempre da un’ipotesi: è la stessa istanza ipotetica a garantire la scientificità dell’indagine storica, una scientificità rinnovata perché messa in discussione dal sorgere del probabilismo scientifico e filosofico di inizio secolo  [ref]Stiamo parlando di tutta la rivoluzione di pensiero recata da Einstein, Heisenberg, Goedel, dalla  fisica quantistica, dalle geometrie non euclidee. Questa rivoluzione relativista comportò una nuova concezione di scientificità non più assiomatico – descrittivo – elencativa in senso aristotelico, bensì fondata sul metodo analitico e sulla logica dei sistemi aperti.  Queste tematiche si possono approfondire da un punto di vista logico – matematico e logico – formale in C. Cellucci, Le ragioni della logica, Roma – Bari 2000.[/ref], ma riaffermata fortemente dal richiamo al metodo analitico e alla concezione della storia come sistema aperto: la sostituzione del “certo” con l’“infinitamente probabile”, del “rigorosamente misurabile” con l’“eterna relatività della misura” porta anche lo storico a “concepire la certezza e l’universalità come un problema di gradi”  [ref]M. Bloch, op. cit. p. 33.[/ref].

L’assunto, come si vede, lungi dal superare le istanze positivistiche, ne accoglieva in pieno la metodologia, rigettandone solo la concezione lineare del progresso, per intortarla, avvitarla, aggrovigliarla in un nesso wittgensteiniano di somiglianze e differenze, dove ogni particolare si imparenta con qualsiasi altro e pertiene, in qualche modo,  all’interpretazione storica del tutto globale. Quest’intortamento, quest’avvitamento, questo critico e criteriale scriteriamento del concetto positivista di progresso lineare, in virtù della messa in dubbio e dell’epoké scientifica del principio di Heinsenberg, fa sì che tutto faccia brodo nel calderone della storia. Ma ne mette in dubbio, a ben vedere, la stessa osservabilità dei fenomeni storici, la loro non più intrinseca possibilità d’essere analizzati con fondamenti scientifici certi. E tuttavia, l’apoditticità di qualsiasi assunto definitorio preliminare, pur tuttavia come sempre necessario per rendere intellegibile il “che cos’è” delle vicende storiche e la loro stessa interpretazione dal di fuori, evidenza la sinuosità di un circolo vizioso, il modus operandi di un’epistemologia storica in cui ci si trova a giustificare l’ipotesi parziale assunta piegando il fatto stesso alla sua conferma; se ciò non può essere fatto a priori, lo si faccia almeno a posteriori.

La metodologia ermeneutica delle Annales potrebbe in questo senso venire definita come una storiografia eterodiretta dallo storico in quanto tale, rabdomante e demiurgico semiologo della forma e della sostanza delle fonti, sezionate ed analizzate per rivelare verità che solo lui sa leggere. Quest’ermeneutica del fatto inerte e dello Spirito Santo che scende a ravvivarlo avvia così lo studio di tutto ciò che risulti in qualche modo passibile di essere storicizzato: dalle tecniche, dalle credenze alle mentalità affiancate fin dagli esordi da una forte istanza comparatista  [ref]Fondamentale in tal senso è l’articolo di M. Bloch pubblicato nel 1928 sulla Revue de synthèse historique dal titolo Pour une historie comparée des sociétés européennes.[/ref]. La scientificità della storiografia delle Annales è anche riaffermata dai suoi mentori nei suoi nessi stretti con alcune delle nuove scienze di inizio secolo: lo strutturalismo determina la concezione che il significato di un evento storico sia dato dai rapporti reciproci strutturali con gli eventi coevi  [ref]Se problematico è il rapporto con lo strutturalismo di Lévi – Strauss, accusato spesso di a – storicismo, tuttavia, come scrive Le Goff, Storia e memoria, cit., p. 124: “lo strutturalismo genetico e dinamico dell’epistemologo e psicologo svizzero Jean Piaget, secondo il quale le strutture sono intrinsecamente evolutive” si presta bene ad appoggiare la concezione storiografica delle Annales.[/ref]; la psicanalisi influenza la ricerca sulle mentalità collettive e sugli archetipi, nella riflessione della memoria come fondata su una comune identità, impostazione già tipica del Berr, fondatore della psicologia storica. Infine, la concezione del tempo storico viene rivoluzionata soprattutto da Fernand Braudel, il quale polemizza con la storia tradizionale di superficie, la cosiddetta storia événementielle, basata sugli avvenimenti politici più esteriori e visibili, la quale d’ora in poi viene confinata definitivamente in un ruolo subalterno a vantaggio di un modello di ricerca strutturale e funzionale fondato su uno stretto rapporto fra storia e tempo. “La storiografia tradizionale”, dirà Braudel, “interessata ai ritmi brevi del tempo, all’individuo, all’évenement, ci ha abituati da tempo al suo racconto frettoloso, drammatico, di breve respiro. La nuova storiografia economica e sociale pone invece al primo posto le oscillazioni cicliche e punta sulla validità delle loro durate”  [ref]F. Braudel, La storia e altre scienze sociali, Bari, 1973.[/ref].

Il tempo storico e la “lunga durata”

Quando Braudel, nel suo famoso articolo del 1958 sulla “lunga durata”, delinea la scomposizione della storia in tre piani digradanti, il “tempo geografico”, il “tempo sociale”, il “tempo individuale” (all’interno del quale viene relegato l’évenémentiel), diviene evidente il nesso con la filosofia di Henri Bergson. Infatti “per la meccanica, il tempo è puramente una serie di istanti che si susseguono in un ben determinato ordine lineare: passato, presente e futuro; per la realtà della coscienza, il tempo è invece qualcosa di irriducibile a una successione di istanti, è durata, è un flusso continuo i cui momenti si compenetrano a vicenda, senza poter venire separati l’uno dall’altro”  [ref]L. Geymonat, Immagini dell’uomo, Milano 1990, pp. 464 – 465.[/ref]. La concezione meccanicistica del tempo è sicuramente, per Bergson, fornita di un certo grado di verità pratica, nel permettere lo studio dei fenomeni del mondo inorganico tramite una sorta di “esteriorizzazione del tempo”. Tuttavia, è solo il tempo della coscienza, esclusivamente all’interno della quale esistono passato e futuro, a recare in sé il senso della durata o tempo vissuto, e solo al suo interno è possibile una considerazione globale e veramente razionale degli eventi. L’idea bergsoniana della durata rielaborata e ripresa da Braudel ha dei riflessi metodologici, etici ed epistemologici di importanza fondamentale. L’idea catastrofista, a quel tempo dominante, espressa nel famoso libro di O. Spengler Il declino dell’occidente, apparso all’indomani della disfatta tedesca del 1918, fu contrastata da Braudel proprio attraverso la sua concezione della “lunga durata”, dimostrando insomma che dalle crisi più acute, quelle degli imperi mediterranei analizzati in Civiltà e imperi del Mediterraneo nell’età di Filippo II,  quasi sempre sorgono nuove imponenti civiltà. L’allargamento non solo alla lunga durata ma anche al largo spazio fu lo spirito del suo secondo importante libro, Civilizzazione materiale e capitalismo, il cui primo volume apparve nel 1967, e all’interno del quale l’autore “descrive la maniera con la quale i grandi equilibri economici, i circuiti di scambi creavano e modificavano la trama della vita biologica e sociale, la maniera con la quale, per esempio, il gusto si abituava ad un prodotto alimentare nuovo”  [ref]Burguière cit. in J. Le Goff, op. cit., p. 116.[/ref]. Braudel aveva speso progressivamente quasi sessant’anni di vita studiando una mole infinita di dati sulla vita quotidiana, materiale, degli uomini, dall’alimentazione all’abitazione, dalle fonti energetiche alle vie di comunicazione, dai mezzi di trasporto alla circolazione del denaro, abbandonando giocoforza l’europocentrismo ottocentesco ed allargando il perimetro geografico dell’indagine storiografica anche a continenti tematicamente quasi inesplorati: l’Asia, l’Africa, l’America. Tuttavia, in Civilizzazione materiale e capitalismo, si rende evidente anche un limite di fondo della concezione braudeliana della “lunga durata”, la quale resta troppo vaga e indeterminata, inapplicabile come è al contesto storico se prelevata dall’assunto bergsoniano, che prendeva a sua volta le mosse da un basamento percettivo individualistico ed affettivo, rischiando così di condannare a una semi-paralisi la storia dell’uomo in rapporto al suo ambiente specifico. Per superare l’empasse, Braudel avrebbe dovuto fare, in base alla sua ottica, di peggio: volendo tenere fermo un genuino bergsonismo, avrebbe dovuto relegare la storia dell’uomo nell’angusta cella di uno psicologismo individualistico già precedentemente rinnegato e dato per morto, particolarismo che nulla avrebbe a che fare, secondo gli annalisti, con la Storia in quanto tale  [ref]Come si legge in un interessante saggio sulla storiografia francese del Novecento pubblicato sulla rivista telematica Homolaicus. Materiali di Umanesimo Laico e Socialismo Democratico a cura di Enrico Galavotti, “anzitutto Braudel separa la civilizzazione materiale dalla vita economica produttiva e dal capitalismo. La prima, a suo giudizio, è fatto di routine, è una vita elementare, vegetativa, che non si presta, se non con molta difficoltà, al mutamento, è dunque una realtà di “lunga durata”. La vita economica invece gli appare come uno stadio superiore, privilegiato, della vita quotidiana. Il capitalismo poi è uno stadio ancora più elevato, più sofisticato. In sostanza sfuggiva a Braudel il fatto che il capitalismo s’afferma proprio sulla base delle forme più elementari dei rapporti mercantili, giungendo in diretto antagonismo con altri tipi dominanti di economia”. Questa prerogativa affidata alla lunga durata porterebbe insomma Braudel ad una incomprensione dei fenomeni localizzati in spazi e tempi circoscritti, causando l’inapplicabilità degli stessi agli eventi di spessore superiore.[/ref]. Ma non lo fece.

Uno dei punti deboli della concezione storiografica del secondo periodo delle Annales, insomma, è questo suo guardare i fenomeni di lunga persistenza tramite l’analisi della ripetitività e ciclicità degli eventi ma trascurando i particolari storici, la cosiddetta microstoria, che tuttavia incalzava per avere nuova voce in capitolo. La concezione della “lunga durata” si fondò anche sul richiamo all’etnologia e all’antropologia culturale, ad una specie di metafisica umanistica strutturale e sovrastrutturale insomma, dando vita ad una storia “più analitica, dedita a rintracciare l’itinerario e i progressi della civiltà”, non deterministicamente bensì interessandosi “ai destini collettivi più che agli individui, all’evoluzione delle società più che alle istituzioni, agli usi più che agli avvenimenti” contro l’altra concezione “più narrativa, più vicina ai luoghi del potere politico”, che abbraccia i grandi cronisti medievali come anche gli eruditi del XVII secolo e “la storia événementielle e positivista che trionfa alla fine del secolo XIX”  [ref]J. Le Goff, op. cit., p. 116, cita un articolo di Burguière pubblicato all’interno del supplemento del 1980 alla Encyclopaedia Universalis.[/ref]. Prendono così piede altri campi di indagine come la storia dell’alimentazione, della sessualità e della famiglia, delle donne, la demografia storica (anche tramite l’utilizzo di fonti massicce come i registri parrocchiali), e con essa la storia dell’infanzia, la storia della morte come campo maggiormente fecondo all’interno dell’indagine già avviata da Bloch sulle mentalità: moltiplicazione dei pani e dei pesci di cui si ciberanno gli strutturalisti e i post – strutturalisti francesi del Novecento, in una frantumazione prismatica di temi e problemi che non permette alcuna visione sistematica se non nell’astraente sguardo esterno dello scienziato – interprete e che, proprio per questo, ricade in quel sostrato narrativo, unico modus unificante possibile al discorso storico, sebbene precedentemente rinnegato, il quale si instaura sul fondale scientifico della ricerca filologica.

Un impianto possente e contradditorio

A questo punto è d’obbligo tirare brevemente le somme sulle grandi avversioni, sui grandi rifiuti operati dalla Scuola delle Annales. Tale possente e contraddittorio impianto di indagine storiografica, attraverso le sue varie fasi e i suoi percorsi decennali, porta in sé il messaggio del rifiuto di una storia idealista in cui le idee si genererebbero per partenogenesi come nelle vecchie e muffite impostazioni delle varie filosofie della storia, ed anche l’avversione alla concezione della storia come semplice progresso lineare oppure, in tertiis, di una storia che interpreterebbe il passato sulla base esclusiva dei valori del presente a rischio di incomprensioni profonde del fatto storico; atteggiamento presentista, quest’ultimo, che peraltro non può essere assolutamente evitato dagli stessi annalisti, proprio ed in quanto si pongono ipotesi preliminari, le quali, inevitabilmente, pertengono sempre all’ottica e alla forma mentis di colui che, qui ed ora, si pone il problema, formulandone la domanda. Accanto a queste difficoltà  ermeneutiche ed epistemologiche di fondo, che spesso inficiano il momento stesso dell’approccio storiografico e la sua validità metodologica, l’apertura alla considerazione quantitativa delle fonti, che oggi ha fornito lo storiografo di un nuovo capitale strumento di comparazione e di indagine (il computer) ma che era già implicita nell’uso già blochiano della scienza statistica a fini storici, può essere considerata come un’altra delle eredità piuttosto valide che la Scuola delle Annales ha lasciato a chi voglia oggi occuparsi di storia e storiografia. La parte migliore della prospettiva storiografica delle Annales risiede infatti in quell’istanza critica che si sforza di comprendere, nonostante ed oltre i rigetti, l’avvenimento e il grande evento, la dimensione collettiva e la storia dell’individuo, attraverso l’utilizzo di tutti i materiali possibili (anche la massa immensa delle testimonianze non scritte, in primis quelle archeologiche). In fondo, ai fini della comprensione storica, non è stato tanto importante il rifiuto dell’individuo come base d’indagine, ed anzi, da alcuni storiografi pietosi, egli è stato poi riammesso benevolmente a corte.

Il vero inghippo del sistema analitico ed interpretativo delle Annales, invece, sta nel considerare logicamente veri, oltre che validi, due assunti di per sé perfettamente legittimi: il primo, che i documenti “non parlano se non quando si sa interrogarli”; il secondo, che “ogni ricerca storica suppone che, fin dai primi passi, l’inchiesta abbia una direzione”. Bloch ricalca qui l’istanza scientifica di Henri Poincaré, sostenitore in tempi moderni del metodo analitico, perfettamente funzionante nelle scienze matematiche e sperimentali, in base al quale ogni scoperta scientifica si produce a partire da un’ipotesi preliminare. Ma tale metodo può essere applicato ad una dimensione come quella storica, non riproducibile in laboratorio a piacimento e, dunque, non soggetta ad indici di verificabilità o falsificabilità? Ma allora, chi può dirsi investito della capacità medianica dell’interpretazione corretta ed univoca delle fonti storiche? Non si corre continuamente il pericolo, esso sì, non storiografico, bensì filosofico, di piegare le fonti stesse alla conferma eterodiretta di questa stessa interpretazione? Ciò che di fatto è accaduto, relativamente alle Annales, è stato lo strutturarsi di un metodo storiografico scandito nelle sue quattro fasi fondamentali che ricalcano la pratica professionale quotidiana: “l’osservazione storica”, “la critica”, “l’esperienza storica” e “la spiegazione in storia”  [ref]Si tratta dei titoli di quattro fondamentali capitoli dell’Apologia della storia di Bloch, carichi di una forte istanza metodologica e sottoposti di recente ai dovuti rimaneggiamenti della nuova edizione filologica curata dal figlio Etienne.[/ref]. La metodologia di ricerca delle Annales concepisce la storia non come storia del passato, bensì come scelta, ed ogni scelta presuppone un’ipotesi ed una linea di indagine nel tempo, all’interno della quale bandire l’errore metafisico della “causa unica”; empasse che tuttavia, a discapito di qualsiasi previsione, non fa che riprodursi all’infinito, individuando non più “la causa”, ma “le cause”, ipoteticamente enunciate, di un sistema problematico di eventi da verificare o falsificare. Per questo la storia è soprattutto “storia degli uomini nel tempo”. Ma gli uomini che cosa sono? Ed il tempo, soprattutto, che cosa è?

E il tempo che cosa è?

Succede, ben presto, che nella Scuola delle Annales il tempo della storia venga ricompreso fra la “lunga durata” di Braudel e quella sorta di cristallizzazione temporale che Bloch invece chiamerà “il momento” piuttosto che l’avvenimento, nella convinzione che il tempo della storia sfugga ad ogni uniformità. Scrive infatti Bloch: “il tempo umano […] sarà sempre ribelle sia all’implacabile uniformità che alla rigida ripartizione del tempo dell’orologio. Gli occorrono misure che siano adeguate alla variabilità del suo ritmo e che accettino spesso di non riconoscere come limiti, poiché la realtà vuole così, che zone marginali. Solo a prezzo di questa plasticità la storia può sperare di adattare, secondo il detto di Bergson, le proprie classificazioni alle “linee stesse del reale”: il che è, propriamente, il fine ultimo di ogni scienza”  [ref]M. Bloch, Apologia, cit., p. 137.[/ref]. Questa concezione del tempo rinnega l’ “idolo delle origini” e l’ “ossessione embriogenetica”: si tratta sia di superare la prospettiva antiquaria, totalmente chiusa al presente, sia di strutturare un’istanza critica che viva sulla base dell’avversione al filosofismo storico a tutti i costi, in senso hegeliano quanto comtiano: non per niente Bloch confesserà nell’Apologia di non avere la testa del filosofo avvertendo umilmente in questo “una lacuna nella sua formazione di base”. Tutt’al più, quanto a filosofia, la Scuola delle Annales preferisce di gran lunga la tradizione scettico – critica del discorso sul metodo alla sistematicità ordinatrice della filosofia della storia. Un discorso sul metodo su come condurre rettamente la Ragione, e ricercare la Verità nelle scienze: non per niente è nata in Francia. Sembra una discesa all’inferno, un regressus ad finitum, dal Sistema hegeliano a ritroso verso Cartesio, verso le ipostasi della ragione contemporanea, bypassando, e per questo salvando molto di buono nel proprio impianto epistemologico, il nichilismo nietzscheano, che invece ammorberà parecchi compatrioti afflitti dalla morte dell’Homme; entità edulcorata dall’idea di se stessa, forse, ma che per Bloch, almeno, aveva ancora una propria validità e verità in carne ed ossa, anche se oggettuale, anche se già corporeizzata ante – litteram. Infatti, come negarlo: i  pericoli del  nuovo nichilismo di lì a poco sarebbero comparsi all’orizzonte, ignorando che l’uomo non è ancora un cadavere sul tavolo del vivisezionatore strutturalista o del becchino decostruzionista: egli è, forse, una bestia che si presta al macello, ma ancora viva e vegeta, bella grassa e, soprattutto, in salute.

Io, non io, perché proprio io?

Io, non io, perché proprio io?

Il problema della conoscenza di sé dal razionalismo all’idealismo

di Sonia Caporossi

Articolo precedentemente apparso su criticaimpura.wordpress.com e  in ebook su “Un Anno Di Critica Impura”, di Sonia Caporossi e Antonella Pierangeli, Web-Press Edizioni Digitali, Milano, Gennaio 2013 – ISBN: 978-88-906285-97

[drop_cap style=”2″ bgcolor=”#dddddd” color=”#787882″]L[/drop_cap]a conoscenza di sé, si dà per certo, è un impulso fra i più vivi dello schietto philosophein, fin dallo gnòthi s’autòn socratico o pseudosocratico. Ex abrupto, problema non facile, corruccio umano che specialmente dal Seicento all’Ottocento ha preso le variegate forme di un raziocinare in generale sul raziocinio in particolare, o anche, kantianamente, si è definito come indagine preferenziale sulla primigenia istanza della possibilità di conoscenza in genere. La posizione criticista di Kant a questo riguardo identificava, nella sua esigenza di analisi del sapere, l’anelito all’autoconoscenza a partire dal dato fondamentale della sua “rivoluzione copernicana” applicata all’Io, per cui esso, finalmente e per la prima volta, com’è sempre stato detto con enunciati solenni e squilli di trombe, si trova al centro del complesso sistema conoscitivo, come conoscente che non deve più adattarsi all’oggetto ma, al contrario, è quest’ultimo a doversi adattare agli schemi conoscitivi del soggetto percipiente. Per il processarsi indefesso dello schematismo, che lavora per categorie e per giudizi, Kant definisce chiaramente il presupposto fondamentale dell’atto conoscitivo: nessuna esperienza potrà mai essere elaborata, attraverso le medesime categorie e giudizi, dalla nostra mente, se i dati che compongono la conoscenza sensibile non si trovano già predisposti, prima in senso logico e quindi, anche, in senso cronologico, in essa.

Per risolvere il difficile problema di che cosa sia, o in che cosa consista, questo fondamentale basamento di senso assicurato, questo principio di determinazione cosciente che conforta il crogiuolo dei nostri sensi percipienti dalla frammentazione schizofrenica della conoscenza del circostanziale circostante e, conseguentemente, dall’impietosa perdita di senso, Kant ricorre all’ “Io Penso”, ovvero alla coscienza e consapevolezza dell’atto conoscitivo; l’appercezione trascendentale è questa coscienza garantita dal marchio di fabbrica del criticismo kantiano, che rende possibile la conoscenza ed il suo ordine intrinseco. E qui cominciano i primi dubbi. A parte l’ovvia obiezione di ascendenza aristotelica, per la quale, se Kant mi dà un fondamento di “io penso” come base della coscienza, quell’“io penso” a sua volta dovrebbe poggiare, per avere validità, su un altro pavimento, cotto o crudo che sia, come dire: su un altro “io penso”, aut aliud, e così via all’infinito, in un regresso poco economico e, sinceramente, scomodo. Ma poi e per giunta, a ben vedere, sotto il sole di Königsberg non c’è neanche davvero nulla di nuovo.

Già per Renato Delle Carte, come sarebbe più opportuno traslitterare l’illustre geometra dell’intelletto francese, l’autocoscienza del cogito, ergo sum ci rendeva immediatamente certi dell’esistenza dell’io cosciente, la res cogitans, ed in Cartesio l’anima cosciente era realtà diversa dal suo contenuto, cioè dai processi che in essa hanno luogo. Inoltre, si potrebbe e dovrebbe notare l’insignificante particolare del fatto che, all’interno della formula cogito, ergo sum, la congiunzione esplicativa ha un valore ben più profondo di quello semplicemente argomentativo – retorico. Essa in realtà, per il valore semantico, per il senso del periodo insomma, potrebbe anche venire tranquillamente omessa. Nell’affermazione di una res cogitans che annuisce, che nega, che condensa percezioni in forma disvelata, che, in un verbo solo, pensa, anche l’attività del sentire è ricondotta giocoforza al pensiero stesso. In sostanza, per Des Cartes, la certezza della propria esistenza era riportata alla consapevolezza dell’atto del pensare, proprio di ciascun soggetto individuale ed indipendente. Naturalmente, era ancora netta la distinzione tra soggetto e oggetto, tra pensiero e corpo, tra abstrahens e abstractum, e questa divisione manteneva bellamente in vita tutte le difficoltà, logiche e teoretiche, su come costruire un ponte che, attraversandole da parte a parte, ne collegasse le essenze e le esistenze, altrimenti puramente e apoditticamente enunciate. Eulero dimostrò non essere possibile passeggiare sui sette ponti di Königsberg passando una ed una sola volta per ognuno di essi. Problema ozioso, quello dei ponti della irridente cittadina russa, eppure evocatore, esemplificatore e simbolo di una ben peggiore ed impedente paradossalità. Quale sorta di ponte pontificato ed astratto avrebbe mai potuto indirizzare l’intelletto a sgranchirsi le gambe andando incontro alla sua incorporea corporeità? Quale medium nevralgico occorreva per uscire dall’empasse? E poi, diciamocelo in sordina, quel regressus ad infinitum di aristotelica movenza, lo stesso che avvelenava l’“io penso” di Kant, metteva indiscutibilmente in crisi, come si vedrà poco avanti, anche l’irascibile francese.

Quindi, tanto per esser chiari, in una veloce panoramica dei primi filosofi che hanno fornito un ordine metodico all’analisi della conoscenza nel pensiero moderno, Kant si trovava a dover superare la staticità dell’immobile e crogiolatorio dubbio cartesiano, che scadeva ben presto nell’indefesso scetticismo di Hume, o in un dogmatismo che mutilava il fecondo campo del conoscere falciandone le messi con enunciati castranti come quello, a mo’ di exemplum, in base al quale “causa adeguata all’idea di Dio è solo Dio, quindi Dio esiste”. Per Hume, come la palla da biliardo non colpisce il boccino per necessità, neanche è necessario che esista un io sovrastante ed astrattamente condensato in un uno, se non in forma di amalgama di sensazioni delle quali non si può dire altro che, tolte impietosamente ad una ad una, alla fine di quell’io tanto paventato non rimane un bel nulla. Inutile dire che il nulla, in quanto tale, è pur sempre qualcosa di per sé, perché in tal caso, bisognerebbe argomentare per chi potrebbe mai rimanere pur tale. Sbucciato il carciofo dell’io, per usare una metafora gaddiana, al centro c’è solo un’ultima foglia: tolta quella, tolto l’io. E non in senso hegeliano, come auf – gehoben, bensì tolto come eliminato, et voilà, punto e basta. Del resto, anche con Berkeley, il problema non era stato di certo superato. Secondo il suo esse est percipi, noi non potremmo assolutamente dimostrare l’esistenza di una sostanza materiale indipendente dalle nostre percezioni. Egli affermava infatti l’esistenza di un intelletto autocosciente, consapevole di esistere e di percepire; ma, per garantire l’oggettività della conoscenza, Berkeley faceva risalire le idee a Dio, superiore entità extracosciente, sovratemporale ed ultraspaziale, che invierebbe queste idee di origine divina a tutti. Forse per e – mail. Forse tramite piccione viaggiatore. Chi lo sa.

A questo punto, si rende evidente una cosa: il problema principale, al succedersi dei filosofi, continuava ad essere, come anche per Spinoza, quello lasciato insoluto da Cartesio nei vari tentativi di risoluzione dell’improbabile nesso tra res cogitans e res extensa, per risolvere il quale il gallico in fuga aveva tirato in ballo la ghiandolina pineale che risiede, quieta quieta in quanto ipofisi, alla base del cervelletto. Ma, e l’obiezione è ovvia e risibile: come poteva e come può un grumo di carne, per sua natura di sostanza materiale, fungere da ponte e medium tra anima e corpo, facendo lei stessa parte del campo semantico e concreto di una delle due medesime res? Anche Spinoza confermava bel bello che noi possiamo conoscere soltanto due cose: pensiero ed estensione. E dico per l’appunto cose, in quanto esse, riguardo al loro statuto ontologico, non risiedono più neanche in noi, bensì sono attributi di Dio, ambedue modi di essere di quell’unica sostanza, che concede forma alla materia ed alla forma, alla prassi e alla teoresi, nella più perfetta, ed estraniante, identità con la sostanza divina in quanto tale. Ma siccome tutto è Dio, si deve arguire che allora stanno anche in noi. Altro che tutto è Dio, altro che Deus sive natura! Se tutto è Dio, allora niente è Dio, allora niente è Io. Non si risolve delegando al Titano l’unificazione del becco del rapace metafisico e della carnea materialità del fegato. Ma c’è di più.

Se Dio è questa totalità unificata, se Dio è l’unica sostanza razionalizzata in attributi che si modificano, lo è, appunto, in quanto c’è qualcuno dal di fuori che razionalizza questo modificarsi, che individua con la mente questo incessante divino unificarsi. Il pensiero è un attributo di Dio, ergo a pensar non sono io, ergo è Dio che pensa se stesso; allora io, che pure penso, sono Dio o vi partecipo? Se sono Dio, sto da capo a dodici, perché non mi spiego un bel nulla: cambio solo prospettiva ontologica, ma devo comunque poter essere in grado di argomentarmi come io conosca alcunché. Sono un Dio individuato, e ciò non mi esenta dal ricercare il modo del mio conoscere. E se invece partecipo semplicemente della sostanza divina, non sono, daccapo e a maggior ragione, proprio per questo mio parteciparvi, di per me, un individuo individuato, non foss’altro che da me stesso? Comunque, si dirà, sono pur sempre un Io, perché penso tutto questo. L’io sembra quasi appropriarsi dell’ontologia fenomenologica di un Dio senza dentale sonora. Ma in tutto questo carnascialesco altalenarsi di consonanti e vocali, il due, numero del perenne conflitto insoluto, marito e moglie che litigano senza pace, senza posa, senza fluire dinamico tra l’uno e l’altra, permane a impedimento, persiste a paradosso. Nessuna risoluzione, nemmeno un divorzio definitivo. Anima e corpo come Sandra e Raimondo. All’infinito.

Occorre notare, per tornare a Kant, che la sua concezione della conoscenza di sé, creata per superare l’empasse secolare del diviso e del diverso, non è, per la verità, né eccessivamente originale, in quanto appunto deriva da una rielaborazione in chiave criticistica di tutta la letteratura precedente sull’argomento, almeno da Cartesio in poi; né tantomeno risolutiva, poiché, volendo anche partire da essa come presupposto fondamentale a tutta la possibilità di conoscenza in genere, non risolve affatto, come non lo risolveva Spinoza, il problema della divisione tra soggetto e cosa in sé. Persiste in Kant, infatti, un seppur brevissimo, in senso logico, istante passivo del soggetto in cui esso subisce l’influsso dell’oggetto quando questo si fa conoscere. Perciò, si può tranquillamente porre in discussione anche l’apparentemente certa conoscenza di sé di ascendenza kantiana. Il boccoluto vince, ma non convince. E non convince, occorre ribadirlo, per il pensiero filosofico dell’idealismo tedesco successivo, da Fichte a Schelling, che tesero a superare in varie forme lo scoglio insopprimibile della cosa in sé, la quale, ad occhi attenti, riduceva ad un palese dualismo cartesiano, semplicemente mutato di segno, l’intera critica della Ragion Pura; e tentavano di ovviare all’empasse, gli idealisti, vestendo di un nuovo significato la stessa autoconsapevolezza, traendola fuori dal suo costume sterile ed irrancidito, infarcendone la grazia e la compostezza di un Io rinnovato e antistatico, che si scrollava di dosso la polvere e l’ombra di quel dualismo cartesiano, spinoziano e kantiano, imbalsamato ed irrisolto.

Per Fichte, ad esempio, la cosa in sé non è affatto al di fuori dell’Io. Nel rapporto fra Io conoscente e oggetto, l’Io si pone di fronte ad esso, percependo ogni oggetto al di fuori di sé e qualificandolo come non – io. Fichte pone così una distinzione idealistica tra io empirico, ovvero la conoscenza individuale, ed io assoluto, id est, lo spirito in generale; essi, eureka!, hanno la stessa identica natura spirituale. Nel processo conoscitivo che porta alla determinazione, da parte dell’io, della natura come non – io, in un rapporto di opposizione apparentemente ancora una volta ravvolto dal sudario intristente del dualismo, necessario e fondamentale è il primo passo: l’Io che pone se stesso ed, in quanto tale, in seconda istanza logica, pone il mondo fuori di sé. Quest’io si delinea così come attività fondante la conoscenza stessa, ed in sé unità di coscienza ed autocoscienza: atto puro, come avrebbe detto poi il fascistissimo Gentile, che in Fichte è colorato a tinte forti dalla tavolozza protoromantica della fiducia riposta nell’attività stessa, come indipendenza dell’autocoscienza di fronte al mondo del freddo oggettualismo ostentato; streben umano, affatto sovrumano!; sforzo dell’Io a trovare se stesso come Io che pone fiduciosamente il mondo, un ripostiglio cosmico non spiritualizzato, spirituale, spiritato d’attivismo quasi tantrico, senza infamia e senza lode. La condanna indirizzata dal teutonico verso qualsiasi dogmatismo è evidente: Fichte accusa questa corrente ricolma di spifferi sinistri di far risalire alla cosa l’origine stessa del pensiero il quale, in questa maniera, non sarebbe altro che una cosa esso stesso. Il pensiero, per Fichte, è invece per se stesso, e l’oggetto è, invece, per il pensiero. Successivamente l’io, attraverso un percorso metodologico antitetico, svilupperà la conoscenza, partendo sempre, pur tuttavia, dal principio basilare di identità. Anche nella concezione politica fichtiana ha peso questa concezione di identità ed autocoscienza. I popoli si riconoscono infatti come realtà spirituali; gli io empirici, cioè i singoli uomini, gli individui presi di per sé insomma, conoscendosi e riconoscendosi, decidono di collaborare e di dare forma e luogo alla struttura statale, la quale diviene per l’umanità ciò che l’Io Assoluto è per l’io empirico. Fichte dunque, avvia la contestazione del criticismo, ma per una carrellata romanticamente soggettivistica, storicistica e naturalistica, avremmo dovuto aspettare all’orizzonte la comparsa della figura di Schelling come primo attore.

Allo stesso modo in cui Fichte sostiene, novello Atlante, la teoria fenomenologica del soggettivismo come unica via da tollere sulle forti spalle, così Schelling teorizza il naturalismo come soluzione finale. Ed è tutto un gioco di punti di vista differenziati, di rimproveri e di ritorsioni, come sempre accade nell’aia in cui troppi galli beccano il miglio dallo stesso scifo. Schelling rimprovera a Fichte, com’era prevedibile, la sussistenza della divisione tra soggetto e cosa in sé nell’opposizione mantenuta tra io e non – io. Per Schelling, tale rapporto deve essere di profonda affinità, immersa in una realtà assoluta di concetti filosofici fin troppo astratti. Soggetto ed oggetto assumono così la stessa valenza; viene determinata ulteriormente l’unità di spirito e natura, ma, beninteso, diversamente da Spinoza il quale, com’è stato detto, aveva categorizzato una realtà in definitiva statica nella quale tutto è in Dio; e pure diversamente da Hegel, che darà luogo ad un unicum logico, Assoluto – Infinito – Reale – Idea, in cui la concretezza della sfera razionale e la razionalità della sfera concreta si chiuderanno in circolo virtuoso dinamico e non mai impedente, dove la riduzione a dialettica è elevazione a potenza della possibilità della conoscenza stessa dell’umanità in quanto Spirito. In Schelling, tanto per tornare a monte, al contrario l’io ha consapevolmente un grado di spiritualità differente ed in qualche modo più, come dire… Sveglio, rispetto allo spirito addormentato e silente della natura. Nella concezione della filosofia come scienza dell’Assoluto, l’autocoscienza si identifica con una conciliazione perfetta dell’aspetto realistico e di quello idealistico del pensiero. Nasce così la concezione dell’idealrealismo che dovrà ricostruire la storia ideale dell’Assoluto. L’uomo, in questa visione, risulta essere una manifestazione dell’Assoluto stesso, non morale, bensì in quanto unità di io e non – io, per cui, riconoscendo questa medesima identità, l’uomo non deve far altro che lasciarsi vivere contemplativamente: egli è l’artista, colui che è supremamente consapevole, giacché l’arte viene interpretata da Schelling come capacità d’intuizione dell’unità tra spirito e materia. Non v’è chi conosce se stesso più dell’artista, anzi, meglio ancora: è solo l’artista a conoscere veramente se stesso. E gli altri, i contadini, i manovali, i metallurgici, le casalinghe di Voghera, che fine fanno? Rinascono, dissoluti e dissolti nel soggetto, come aforismi di Minima Moralia, qualche brutto tempo dopo.

Kant, Fichte e Schelling, per continuare l’andazzo, sono ben lontani dal teorizzare un semplicistico innatismo virtuale alla maniera di Leibniz, per il quale la mente è già predisposta alla conoscenza per fatti suoi. Il problema insoluto dei tre, tuttavia, continua ad essere l’esistenza di Dio, che non viene sufficientemente giustificata da Kant e risulta così essere tirata in ballo in modo esteriore, confusionario e contraddittorio da Fichte e da Schelling. Questo problemaccio epocale, a ben vedere, c’entra con l’io, c’entra molto, talmente tanto che finisce per compromettere la validità della concezione della conoscenza di sé in tutti e tre i casi. Non solo perché si è ricorso troppo spesso all’idea di Dio come ponte fra anima e corpo, fra io e non – io, fra spirito e materia. Ma anche perché, come dovrei potere e sapere parlare di Dio, se ammetto anche solo la possibilità di questa stessa esistenza, in quanto parlarne è, in qualche modo, un conoscerne pur qualche modo od attributo, alla stessa maniera dovrei poter conoscere me stesso. Conoscere l’io e conoscere Dio sono processi intellettivi che si fondano sulla medesima struttura fondante. Ma come e perché?

Kant aveva inserito nella conoscenza di sé anche la rigida sfera morale, basata sulla ritrovata validità di una metafisica non in quanto scienza, ma in quanto regolamentazione della condotta umana nel suo dipanarsi pratico ed attivo. L’uomo deve infatti rendersi conto di essere contemporaneamente empirico, cioè condizionato dalla causalità temporale, e libero, intendendo la libertà, sui generis, come obbedienza al Grande Fratello dell’imperativo categorico. Anche al di qua della ragion pratica, però, Kant dà l’impressione di ambire ad un perfetto equilibrio di pensiero. Ad esempio, nella concezione di spazio e tempo come dimensioni fondamentali per l’esistenza e la conoscenza dei fenomeni, egli tende a rifiutare una tesi estremistica come quella di Locke. Secondo l’autore del Saggio sull’Intelletto Umano, se Dio è infinito, dove l’idea di infinito si ottiene estendendo al massimo grado le idee di spazio e di tempo, ne consegue che possiamo con i nostri soli mezzi pensare l’infinito; di conseguenza, una prova ontologica di Dio non occorre, nel senso che si esclude la considerazione stessa, il concetto dell’esistenza necessaria o, peggio, dell’idea innata di Dio. Sensazione e riflessione che cosa c’entrano con l’idea di Dio? Egli è un’idea complessa ed in quanto tale oscura, a cui non corrisponde nulla nel reale, e di cui non possiamo identificare conoscitivamente la sostanza. L’uomo non può andare a trovare il luogo di residenza dell’essenza, può affidarsi solo alla mappatura topografica delle idee chiare, può conoscere con certezza soltanto i fenomeni. Un bel colpaccio contro la metafisica, calibrato con estrema perizia balistica fra capo e collo. Maxima theoretica, di nuovo, e minima moralia. La parola d’ordine in Inghilterra è: empiria. Ma allora, come può l’uomo conoscere se stesso? Possiede forse di sé idee chiare e distinte, e basterebbero i sensi a farcele in qualche modo avere?

Del resto, Kant si rifiuta anche di scendere a patti con il leibnizianesimo selvaggio in base al quale Dio può essere dimostrato a priori o a posteriori, in quanto unico essere in cui l’essenza richiede necessariamente l’esistenza. Gaunilone, in questo senso, ancora ride in faccia ad Anselmo d’Aosta: non si passa così facilmente dal dominio logico, tout court, a quello ontologico, essendo questi due campi ben distinti, anche riguardo il campo di applicazione. Per Kant è evidentemente una sciocchezza affermare, come Leibniz sembra pago di fare, che Dio è possibile a livello logico – razionale, quindi esiste. Salvo poi intortarsi da solo, il fine criticista, rigettando al centro della pista da ballo, nella sfera morale stroboscopica da discoteca in cui ci si agita sulle note di ricorrenti oldies but goldies, quella stessa metafisica derisa nella fisica, derisa dalla fisica. La sua ricerca dell’equilibrio del pensiero crolla poco spavaldamente di fronte alle critiche successive. In Kant l’imperfezione consiste nella persistenza del noumeno. Inutile negarlo o tentarne un postmoderno recupero. Come giustificare, infatti, una perfetta e fenomenica conoscenza di sé, se a rigor di logica non si può affermare una conoscenza del mondo, certissima perché dichiarata tale, ovvero dei fenomeni stessi, giacché nulla a rigore vieta al noumeno stesso di essere, esso stesso, il mondo, o anche solo una porzione di esso? Noi cosa siamo? Anzi, io stesso cosa sono: fenomeno o noumeno? L’ombra nefanda e nefasta del gran genio di Hume oscurava di nuovo il sole opacizzato della razionalità, proprio quando Fichte e Schelling facevano la loro comparsa sulla scena del dramma filosofico moderno e, nei ripensamenti successivi, anche contemporaneo.

Per Fichte e Schelling, il problema, di ascendenza platonica, è la convivenza millenaria dell’uno e del molteplice. Ed è stato molto comodo per i due, nella fase finale della loro filosofia, affidarsi all’atto creativo di Dio per giustificare la metexis, il passaggio, il ponteggio comunicativo dell’io monadico e del reale multiforme fenomenico. Ma insomma, ovunque risieda una soluzione pur sperata, o meglio una semplice e semplicistica risoluzione di natura religiosa, non si vede dove sia la reale possibilità di una piena conoscenza di sé, laddove noi stessi, in quanto individui, risultiamo essere figli di una creazione superiore ed imposta che ci domina dall’alto. Logicissimo si rivela essere, invece, il ragionamento comune di Cartesio e di Hobbes, in questo convergenti nonostante le opposte e lontanissime concezioni filosofiche: essi vedevano nella matematica la necessaria base della loro filosofia. Opportuno appariva, ora come allora, ricercare una perfetta conoscenza, possibile ed effettiva, nonché effettuale, in ciò che è la mente stessa a creare, nella pura mathesis astratta ed astraente, la quale, in quanto fervido parto dell’intelletto umano, senza impurità di sorta dall’esterno, consiste in quell’armonia di coscienza e conoscenza, eternamente auspicata e mai raggiunta, che l’uomo tutt’oggi ricerca ancora per se stesso fuori di sé, e che non troverà mai al proprio interno, non solo se fosse vero che Dio esiste, ma anche, e proprio in quanto, di fatto, Egli sussiste, nella mente che pure unicamente lo pensa, come terza persona singolare, pensandolo essa fuori, in alio, in alteris, in Natura non sicut in Deo, sed sicut Deus ipse. L’esistenza dell’idea di Dio o, diciamo, l’invenzione di essa da parte della mente umana che le rende ragione nella coscienza, determina in definitiva il senso di angoscia kierkegaardiano e di oppressione in cui versa l’umanità da millenni; uno stato di prostrazione, psicologico in senso filosofico, filosofico in senso psicologico, proprio di chi trova ostacoli sul proprio cammino, e poi si accorge, o si ricorda, di averceli disposti accuratamente egli stesso, per darsi il suo daffare, per occupare un po’ di tempo. Dio non è né conforto né salvezza, bensì un ostacolo etico, deliberatamente creato dalla mente del singolo individuo per trascorrere i nostri settant’anni medi immersi in una qualche occupazione che fornisca un senso alle ore che passano, come accade ai bambini quando di notte, nel buio dell’insonnia, inventano un mostro preferito con cui fantasticare.

Si potrebbe obiettare che, se fosse valido il caso in cui è la mente stessa a creare Dio, Egli, in quanto idea, sarebbe perfettamente conoscibile come i principi matematici, e, di conseguenza, avremmo anche una perfetta conoscenza di noi stessi; basterebbe a tale scopo, come nel caso di Dio, porsi. Ebbene, mefistofelicamente, noi poniamo di fatto noi stessi, e perciò ci conosciamo alla perfezione; ma ci poniamo in quanto imperfetti, così come, e il caso non è fuori di realtà, noi abbiamo posto coscientemente l’idea di Dio come di un inconoscibile, ed in quanto tale, tutto ciò che se ne può sapere è, per l’appunto, il fatto stesso che Dio è inconoscibile: e questo, per l’appunto, ribadisco se non fosse chiaro, è tutto ciò che se ne può sapere; quindi, e proprio per ciò, ne sappiamo tutto! Ergo, dov’è il problema?

La vita del pensiero, il percorso fuorviante ed astruso della conoscenza di sé è, probabilmente, solo questo lungo ed inenarrabile processo fatigante, che consiste nel conficcare, filosoficamente e nel concreto della prassi, una lunga fila di chiodi nel muro dell’intelletto; una parete così specialmente sottile che, passando attraverso, un chiodo da una parte scaccia l’altro dalla parte opposta, tale che, nella storia della filosofia, appendere quadri non è mai stato il reale scopo, consistendo questo stesso, bensì, nel continuare a martellare e a fare buchi, nel sudare dietro al proprio indaffararsi: nel lavorare allargando il vuoto.

Logoanalisi e Biblioterapia

1. La Filosofia o è pratica oppure non è

La filosofia nasce pratica. Chiariamoci subito su questo. È vero tutto quello che vi pare, è vero che Gerd Achenbach ha avuto per primo l’idea di aprire uno studio di Consulenza filosofica, è vero che Lou Marinoff sull’idea che Platone sia meglio del Prozac ha venduto milioni di copie, è vero che Ran Lahav per citare il più conosciuto, si sta dando da fare da tempo per cercare strade originali all’interno del counseling. Ed è vero, come spesso provocatoriamente sottolineo, che la Consulenza filosofica nasce in realtà in Italia. Non con Umberto Galimberti, ma con Edoardo De Filippo che ne L’Oro di Napoli interpreta negli anni cinquanta un consulente filosofico ante litteram, don Ersilio Miccio, da cui si reca tutto il quartiere per consigli di ogni genere.

Dobbiamo subito sottolineare però che la Filosofia non è astratta e teorica. Non lo è mai stata e continua a non esserlo. Aristotele nella Metafisica ci dice che la filosofia nasce dallo ‘zauma’, termine spesso tradotto in senso debole con ‘meraviglia’, ma che Emanuele Severino invita a tradurre piuttosto con ‘paura’. La Filosofia da subito è chiamata a dare risposte, universali e di ragione, a una esigenza naturale dell’uomo, che è quella del senso. Tutto quell’ambito disciplinare che oggi chiamiamo Filosofia teoretica, ma anche l’Ontologia, la Filosofia della Religione non è altro che questo: come la saggezza dell’umanità ha risposto a quei problemi, da Platone a Heidegger. Non solo. La Filosofia politica è una filosofia pratica, il suo scopo è quello di fornire modelli di interpretazione, di critica del reale. Nelle sue forme più forti e complesse come è noto questo reale non lo si doveva solo pensare o capire, ma addirittura trasformare. Ancora, la filosofia morale. Anche qui la Filosofia è ben lontana dall’essere una disciplina difficile e algida, avvolta nelle torri d’avorio del sapere. Ultimo esempio: la Logica. Ora, la Logica ha probabilmente fallito il suo compito più titanico, quello di descrivere la realtà, il modo di pensarla, come i dati si organizzano nella nostra memoria, come vengono trattati dalla nostra coscienza. Ma il suo contributo, da Aristotele, alla Logica Formale, a Godel, è tutt’altro che estrinseco dalla quotidianità, perché si è evoluta nei linguaggi di programmazione. Oggi le App dei nostri iPhone e iPad vengono programmate in C++; ma la parentela è ancora più stretta nei linguaggi di programmazione per così dire più didattici, come il Basic o il Pascal. C’è addirittura un linguaggio di programmazione che si chiama ProLog (dal francese ‘Programmation en Logique’), che tenta di formulare il problema (e quindi la sua soluzione) in forma logica, e non sotto la forma tradizionale di un algoritmo. La piantiamo qui, anche se potremmo continuare con la Filosofia della Scienza, l’epistemologia, e così quasi all’infinito.

La Filosofia non è quella disciplina “con la quale o senza la quale tutto rimane tale e quale”. In 2500 anni di storia è riuscita a dare contributi concreti. Quali sono i suoi limiti oggi? Probabilmente la specializzazione, la Filosofia tramonta nel momento in cui perde di vista il tutto. “Con il Dio che muore, scomparendo dall’orizzonte ultimo della pensabilità, la verità s’inabissa nell’immanenza e si frantuma nel puro scenario della temporalità e dalla finitezza, privando così la filosofia del suo compito originario: la ricerca del fondamento primigenio e del senso ultimo di tutte le cose” (Giannatiempo Quinzio A., 1999, p. I). Questo impoverimento del pensare può però predisporre l’uomo all’attesa e alla ricerca. Magra consolazione.

C’è un’altra questione invece, che è la Torre d’Avorio. L’Università, l’Accademia. Che ha il grande merito di non aver mai banalizzato la Filosofia, di averla preservata da “contaminazioni”. E l’altrettanto grande merito di averci formati. Ma spesso si è pensato, e lo si pensa ancora, che la Filosofia la si possa fare solo lì, o nei Licei. Il Filosofo è come un contabile, e lo diceva già Hegel, che mette ordine al pensiero altrui. È un ragioniere dello Spirito. Le Pratiche filosofiche vanno contro questa idea. Il Filosofo si confronta con la società, e non con l’Accademia. La Consulenza filosofica va a portare ai suoi clienti, agli “ospiti” per dirla con Achenbach, 2500 anni di sapienzialità, con i suoi temi, i suoi sgambetti, le sue discese vertiginose verso l’abisso e la follia, le sue risalite verso quelle vette che gli altri non riusciranno nemmeno a seguire con lo sguardo.

2. La Filosofia può curare?

Fatte queste (doverose) premesse possiamo rispondere alla domanda: la filosofia può curare? La filosofia non interviene in ambiti patologici, per cui se per cura si intende: diagnosi e terapia, la risposta è sicuramente no. Ma la filosofia può intervenire con la sua autorevolezza per percorsi di chiarificazione e sostegno nel disagio diffuso e quotidiano, cioè nei tanti problemi che un uomo può incontrare nella sua vita. Perché la Filosofia è sempre stato questo: un raffinato ragionare intorno ai problemi, a partire dal principale che è quello esistenziale.

Si tratta di confrontarci su come la Filosofia possa intervenire in una Consulenza filosofica. La bibliografia è molto lacunosa e tocca darci da fare, sia nell’elaborazione di metodi, per esempio. Quello che dobbiamo fare secondo me è evitare che la Consulenza filosofica sia figlia minore come professione d’aiuto delle psicoterapie. La Filosofia deve scendere in campo senza crisi di identità né (ingiustificabili) complessi di inferiorità. Ci sono cose che mi piacciono poco, e che secondo me poco hanno a che fare con l’aggettivo filosofico che qualcuno pone accanto al sostantivo counseling.

Cosa mi piace? C’è uno strumento dell’epoché – il Consulente nei processi di ricondizionamento autonomo non interviene con giudizi – che a me sembra molto convincente. Ed è la Logoanalisi Coscienziale, uno strumento dell’Antropologia esistenziale, il cui papà non è don Ersilio Miccio, ma è un altro napoletano, uno psicologo, laureato anche in Filosofia, Ferdinando Brancaleone. Ce ne fossero. Con Gianfranco Buffardi, che è uno psichiatra, hanno preso spunto dal modello esistenziale della logoterapia di Viktor Frankl e dal pensiero antropologico di Jaspers e quindi creato una scuola Antropologica esistenziale che è quella dell’Isue, l’Istituto di Scienze Umane ed Esistenziali. Aiutare un uomo a ritornare alla propria esistenza, significa aiutarlo a percepire il campo vasto delle possibilità che gli si offrono da realizzare e che costituiscono in effetti una sfida. Dal momento che ogni esistenza è sempre specifica, unica e irripetibile anche la Consulenza non è qualcosa di generale, di valido per tutti e per ognuno, di permanente in ogni tempo, non inquadra in una patologia, o in disturbo del DSM, il Manuale Diagnostico degli psicologi, perché si modella all’unicità e all’individualità di ciascuno. L’uomo di Frankl è unione ed interazione di tre parti: quella somatica, le cui patologie sono di pertinenza della psichiatria, quella psicologica e quella noetica. Brancaleone è riuscito a ritagliare uno spazio tutto filosofico. Innanzitutto lo sfondo filosofico è l’esistenzialismo, la traduzione filosofica di quanto abbiamo accennato è la progettualità dell’esserci-nel-mondo, con un pantheon di filosofi che va almeno da Kierkegaard ad Heidegger passando per Nietzsche, ma che include anche Sartre, Unamuno, Camus. Ma anche la Logoanalisi ha una genesi tutta filosofica, essendo il lessico mutuato dalla Grammatica Generativo -Trasformazionale di Noam Chomsky. E la Logoanalisi Coscienziale è una metodica comunicativa volta a rendere sempre maggiormente chiara ed esplicita la “struttura profonda” di una comunicazione, sottesa ad una struttura superficiale attraverso cui ha luogo la comunicazione tra il consulente e il cliente.

Apriamo una parentesi sul rapporto con le psicoterapie. La Consulenza filosofica, è chiaro da quanto abbiamo detto, non si pone in contrapposizione né teorica (è altro il campo di intervento), né pratico. Va detto che quella del DSM è una situazione davvero paradossale: nel 1952 indicava complessivamente 112 turbe, nel 1968 il DSM II ne elencava 163. Nel 1980 il DSM III riportava 224 turbe e l’ultima edizione ne elenca 374. Negli anni Ottanta si riteneva che un cittadino americano su dieci fosse ammalato. Negli anni Novanta lo era uno su due. Non si può non condividere l’opinione di Marinoff e cioè che tra un po’, psicologi e psichiatri a parte, saremo tutti malati. Oppure funziona alla rovescia, e cioè che la malattia sta in chi vede malattie. Psicoterapeuti e psichiatri hanno interesse a patologizzare l’esistente per questioni di bottega e di mercato e per questo, in assenza di mercato, possono tendere a crearselo ad hoc. Un po’ per calcolo un po’ anche in buona fede perché come ha giustamente fatto notare Abraham Masslow se l’unico arnese nella tua cassetta è un martello, molte cose cominceranno ad apparire simili ai chiodi. La Consulenza filosofica parte da questo bisogno: che nella nostra società c’è bisogno di dialogo e non solo di diagnosi. E che la Filosofia può offrire sia un percorso di Bildung, di formazione, di crescita critica, di consapevolezza che non è né sterile citazionismo, né salotto. Altrimenti finiremo tutti per credere che la massima forma di manifestazione del nostro pensiero sia quella di mettere Mi Piace su uno stato altrui su Facebook.

3. La Biblioterapia a sostegno della Logoanalisi esistenziale

Può la Logoanalisi, da sola, sostanziare un intero ciclo di consulenze? Probabilmente no. Ed ecco il motivo per cui studio da qualche tempo la possibilità di affiancare la Logoanalisi con la Biblioterapia, cioè l’utilizzo nei processi di chiarificazione di alcuni testi (di alcuni brani in realtà) tratti dalla letteratura filosofica. Non è questa la sede per una articolata analisi dei testi in relazione ai problemi portati. Basta solo accennare a quanto utili possono essere riflessioni condotte attorno al De Anima di Aristotele o al Fedone di Platone in problemi di ambito esistenziale. O in ambito morale alcune pagine di Kant, o di Hegel, o di Nietzsche in problemi generati tra l’identità tra colpa e pena. Ma molta letteratura stoica è funzionale al tipo di lavoro che dovremmo fare. Molto interessante il lavoro che sta proponendo da tempo Ferdinando Testa, sull’utilizzo dei Miti. O il lavoro di Giancarlo Marinelli su Dostojevksij, o di Arcangela Miceli su Cartesio e Pascal. C’è un saggio che non si può non citare ed è quello di Pierre Hadot, tutto dedicato all’utilità pratica della filosofia antica: Epicuro, Seneca, Epitteto, Marco Aurelio. Insomma, secondo me siamo chiamati a fare filosofia così. Il filosofo non è soltanto chi è dotato di un’anima bella che il volgo non avrà mai, ma deve mettere in gioco il proprio sapere. Parafrasando Nietzsche oggi sono i poveri che fraintendono la loro povertà. Non hanno perso tutto. Hanno gettato tutto. La Consulenza filosofica possiamo leggerla alla voce del verbo trovare.

4. L’Idraulico e la consulenza filosofica

Ci sono quelle giornate un po’ così, in cui un po’ ti gira e un po’ no. Magari ti arriva un assegno della casa editrice, pochi spiccioli, e ti sembra che spunti il sole. A me capita di essere meteopatico alla rovescia. Poi arrivi a casa, vai per lavarti le mani, e una vitina scema del telefonino che tieni nella tasca della camicia ti cade dentro il lavandino. In queste giornate un po’ così ti senti un cartone animato, mentre, maldestro, tenti di recuperarla prima che ti cada giù nello scarico. Lei ti prende in giro, e per prenderti in giro non trova meglio da fare che girare, girare, girare. E poi ploff, quel buco se lo infila svelta. E ti sembra persino che prima di andarsene ti faccia marameo. In queste giornate un po’ così ti viene l’intuizione del genio. Sviti il sifone e recuperi la preziosissima vite dal raccordo sotto lo scarico. Sulla carta l’idea non è male. La teoria ha un suo aspetto nobile che poi la pratica smentisce. Infatti svitare il dado non è tra le operazioni più agevoli per chi scrive libri e fa il filosofo. Intanto non riesci a fare un giro completo con la pinza, perché ci sono le piastrelle. E se ti scivola, nel mezzo giro di cui ti devi accontentare, tra la pinza e la piastrella ci resta il tuo dito. Un colpo secco. Tac. E fa un po’ male. Appena hai finito ti resta in mano la guarnizione e tre anelli, che metti via non immaginando che non sarai più in grado di ricomporli insieme nell’esatta sequenza. Tu pensi solo alla vite. È la vite che fissa l’antenna al telefonino, mica una vite qualsiasi. Ti pare sia facile trovarla? Inclini il tubo e viene giù? Ma beato te! Te la devi guadagnare, mentre sei lì in ginocchio, sudaticcio, a rovistare con le dita tra fango, capelli, grasso, sapone. Quando la trovi sei pure contento. Non sai che il peggio deve ancora arrivare. Perché smontare è stato facile. Montare mica tanto. Oltretutto il tubo era pure un po’ arrugginito e se ne è spezzata una parte. Gli anelli e la guarnizione sono l’enigma del giorno, il rompicapo che non ti aspetti. Manco il cubo di Rubik. Morale della giornata un po’ così: hai fatto l’eroe per una vite, roba che a momenti la Nintendo ti scrittura per la versione sfigata di Super Mario, e per risparmiare 10 centesimi hai combinato una catastrofe da 200 euro. Di viti te ne compravi 2000. Non ti resta che chiamare l’idraulico, quello vero. Dei dieci minuti che se ne sta nel tuo bagno, due lavora, gli altri otto ti prende per il culo. Per due minuti ti chiede, per l’appunto, 200 euro. Più Iva. Sei fortunato che almeno per il culo ti ci ha preso gratis. Per pagarlo l’assegno del giorno manco ti basta. Devi pure aggiungerci dei contanti.

È in questi giorni un po’ così che pensi: nella vita dovevo fare l’idraulico. Infatti adesso non so, quando mio figlio prende un bel voto a scuola, se devo premiarlo o punirlo. Prendi ottimo a storia? E io ti tolgo la paghetta settimanale. La professoressa mi dice che sei bravissimo ad Epica? Ti riempio di botte, così impari. Sei impreparato a spagnolo? Ti porto un fine settimana a Disneyland.

Pier Aldo Rovatti ha un’idea diversa. Lui è di quelli che si spende per un esercizio pratico ed una concretezza della filosofia e della cultura umanistica in genere. La Consulenza filosofica, appunto, che per lui ha due compiti fondamentali: uno, istituzionale, che è quello di affiancarsi alle terapie del disagio diffuso, anzi di sostituirle con un rapporto non medicalizzato e dunque non terapeutico della filosofia, facendo pesare il suo prestigio anche nella casa di Psiche; l’altro quello di dotare i giovani laureati di una possibilità lavorativa ed economica in più. Almeno per guardare dritto in faccia un idraulico, con dignità, senza abbassare lo sguardo. «L’ibridazione nelle Università dissimula una lotta di modelli culturali, assai più di quanto contribuisca a una sintesi sensata. Il modello tecnico (apparentato a quello aziendale) vi gioca la sua partita, con pretese di leadership, nei confronti di quello umanistico, il quale non sembra oggi capace di un rilancio o di una positiva metamorfosi delle sue motivazioni di fondo». Il rischio è quello di una banalizzazione della filosofia stessa. Ma è un rischio che darà all’uomo di cultura in genere la piena padronanza del suo lavandino.

 

*Rielaborazione degli interventi tenuti all’Istituto Italiano per gli Studi Filosofi per il convegno «Esistere per essere. L’antropologia clinica esistenziale: sviluppo futuri nelle professioni d’aiuto»» a cura dell’Isue il 19 aprile del 2013 e al Palazzo Pretorio di Certaldo in occasione del convegno «La filosofia può curare?» organizzato dall’Associazione Nazionale Pratiche Filosofiche.

 

Bibliografia

Achenbach G. (2009), La consulenza filosofica, Feltrinelli, Milano

Brancaleone F. (2004), Existentia, Ofb Editing, Curti (Caserta)

Brancaleone F. (2004), Logodinamica generativo-trasformazionale, Ofb Editing, Curti (Caserta)

Brancaleone F. Buffardi R., Traversa G (2008), Helping, La Melagrana, San Felice a Cancello

Cascio M. (2013), Al divino dall’umano, Bastogi, Foggia

Cascio M. (2007), L’Autocoscienza, Bastogi, Foggia

Frankl V. (2004), Alla ricerca di un significato della vita, Mursia, Milano

Hadot P. (2005), Esercizi spirituali e filosofia antica, Einaudi

Galimberti U. (2005), La casa di Psiche, Feltrinelli, Milano

Lahav R. (2010), Oltre la filosofia, Apogeo, Milano

Marinelli G, Miceli A. (2010), Le polifonie dell’anima, Bonanno, Catania

Marinoff L. (2007), Platone è meglio del Prozac, Piemme, Milano

Rovatti P.A. (2006), La filosofia può curare?, Cortina Raffaello, Milano

Testa F. (2012), Le idee dell’anima. Jung e la visione del mondo, Bonanno, Catania

de Unamuno M. (2007), Inquietudini e meditazioni, Rubbettino, Soveria Mannelli

I mass-media, Gramsci e la costruzione dell’uomo eterodiretto

L’articolo si propone di recuperare alcune categorie fondamentali del pensiero gramsciano,
e nel metterne in evidenza la portata innovativa rispetto al marxismo ortodosso, utilizzarle per
comprendere adeguatamente un fenomeno che accomuna gli anni fra le due guerre mondiali
e il nostro tempo. Ossia la costruzione dell’uomo eterodiretto.

Searle e la filosofia del Novecento

[drop_cap style=”2″ bgcolor=”#dddddd” color=”#787882″]I[/drop_cap]l percorso filosofico di J. Searle rappresenta sicuramente una felice coniugazione tra la tradizione cosiddetta “continentale” e lo stesso terreno di gestazione del suo pensiero, ossia la filosofia analitica americana. Nato a Denver nel 1931, Searle si è formato inizialmente ad Oxford in Gran Bretagna sotto la guida del suo maestro J. Austin per sviluppare nel corso degli anni 60 del secolo scorso la teoria degli Atti Linguistici il cui libro è uscito nel 1969. In questa importante opera Searle evidenziava come il nostro linguaggio non è solo un strumento di rappresentazione della realtà ma un “agente” diretto, un “fare”. In sostanza con le parole o le frasi non ci limitiamo a dare un Significato al mondo, bensì facciano cose. Il linguaggio, dunque, è uno strumento di comunicazione in cui “parlare”, è sempre un impegno in una forma di comportamento. In questo senso Searle distingue 4 atti linguistici diversi , così riassumibili:

1) Atti linguistici che proferiscono;
2) Atti proposizionali;
3) Atti illocutivi;
4) Atti perlocutivi;

Tra questi, di cui Searle in questa opera studia il secondo e terzo tipo, è veramente centrale il terzo, ossia gli atti illocutivi. Solo questi indicano la completezza dell’atto linguistico stesso. In altre parole solo gli atti illocutivi nel dire “fanno”.

Un atto linguistico illocutivo è il solo che ci fornisce una vera e propria cognizione di ciò che significa comunicare. Il caso della promessa che un parlante A fa nei confronti di un parlante B viene utilizzata da Searle come “paradigma” di riferimento della sua teoria degli atti illocutivi. A Searle interessa dunque ciò che si fa mentre parliamo. Come filosofo del linguaggio Searle ha avuto una certa influenza sulla linguistica contemporanea proprio nel dare una priorità concettuale alla completezza di quegli atti linguistici che chiamiamo “illocutivi” (locutivo ed illocutivo è una distinzione di Austin, solo in parte accettata da Searle), come sono dare ordini, fare promesse, affermare, domandare.

Ben presto però la teoria degli atti linguistici sarà ritenuta non sufficiente a spiegare una cognizione fondamentale della filosofia contemporanea, ossia il concetto di intenzionalità, rimesso in auge da Brentano a fine ottocento e ritenuto in seguito dalla stessa fenomenologia un suo asse portante. Proprio perché l’Intenzionalità rappresenta la possibilità di discriminare il mondo fisico dal mondo psichico era necessario individuare una cornice teorica più ampia per giustificare le scoperte della linguistica novecentesca, che avevano denotato la prima fase del lavoro di Searle. Dunque, fin dal 1983 con l’opera dal titolo “Dell’intenzionalità”, e poi in seguito nel 1992 con l’opera “La riscoperta della mente”, Searle estende il suo impegno epistemologico concentrando i suoi interessi filosofici nella critica al cognitivismo e alle scienze cognitive che avevano “ridotto” gli studi sul rapporto mente-cervello ad un modello computazionale.

Con la teoria della Stanza Cinese Searle critica fortemente la possibilità di descrivere il funzionamento della mente come un sistema di calcolo, distinguendo tra le giuste conquiste delle scienze neurobiologiche e il permanere di un’ontologia in prima persona e cioè di una soggettività irriducibile a processi neurocomputazionali. La sua teoria della coscienza rappresenta il modello attuale più originale di confluenza tra gli studi neurobiologici e il mantenimento di una visione “fenomenologica” della mente che dia conto dell’esperienza cosciente soggettiva.

Etica della parola

Partirei dal sintagma stesso “etica della parola” e innescherei subito il doppio senso del genitivo, oggettivo e soggettivo. Etica, cioè, come un qualcosa che è una proprietà della parola e di cui quest’ultima è, a sua volta e al tempo stesso, una declinazione.

Etica, come si sa, viene da ethos: un termine che Heidegger ci ha invitato a intendere nel senso di abitare. Per cui, in via assolutamente iniziale, potrei dire che concepisco la parola come un modo di abitare il mondo, non però poeticamente – come voleva lo stesso Heidegger –, ma prosaicamente. Termine, quest’ultimo, che mi fa pensare a un qualcosa che mette radici in quella “carne” – il riferimento è, ovviamente, a Merleau-Ponty[ref]Su questo punto, cfr. il mio La prosa del senso. La dinamica della significazione in Merleau-Ponty, IF Press, Morolo (Fr) 20122.[/ref] – che è la pasta comune di cui siamo fatti noi stessi e il mondo.

Parto da un’ipotesi poco ortodossa dal punto di vista strettamente linguistico, ossia che la parola sia la cellula e il nucleo germinale del linguaggio. Poco ortodossa, perché nel campo dei miei studi vige, da qualche tempo, incontrastata, una tesi: quella secondo cui la parola, intesa come atto creativo individuale, sarebbe sempre preceduta dalla lingua, intesa come sistema. Facendo mio il principio secondo cui il linguaggio articolato metterebbe radici nel terreno della gesticolazione e della corporeità, do grande importanza alla dimensione cosiddetta “circostanziale”, in quanto sfondo extralinguistico indistinto su cui si staglia l’apparizione della parola. Tale sfondo lo faccio coincidere anche con l’esperienza del “voler dire qualcosa”, inteso con quella riserva permanente di senso che, convertendosi solo parzialmente nel parlare, fa della lingua, in quanto allusione, un continuo processo di metaforizzazione. Al riguardo, parlando di metafora, voglio ricordare che il primo accesso a quest’ordine di problemi lo devo all’autore cui ho dedicato la mia tesi di dottorato: Vico, di cui ho approfondito, appunto, la filosofia implicita nella sua riflessione sulla retorica.

Dicevo che parto da un’ipotesi poco ortodossa dal punto di vista strettamente linguistico. La preciso meglio, appropriandomi della definizione di un filosofo americano, ingiustamente definito comportamentista, George Herbert Mead, il quale afferma quanto segue:

ciò a cui la parola si riferisce è qualcosa che può risiedere nell’esperienza dell’individuo a prescindere dall’uso del linguaggio[ref]G. H. Mead, Mente, sé e società. Dal punto di vista di uno psicologo comportamentista (opera postuma: 1934), tr. it. di R. Tettucci, Barbera, Firenze 1966, p. 44.[/ref].

E se vi prescinde, vuol dire che essa è intesa in qualità di gesto incardinato in un comportamento, ossia, pragmatisticamente, in termini di “abito”.

In un testo che ho in preparazione e che s’intitola: Semiotica dell’espressione, studio il passaggio dal gesto alla parola attraverso la mediazione di una terza figura: il ritmo. Il sottotitolo del libro è infatti: Il gesto che si fa ritmo, parola.Cosa intendo per ritmo? Uno degli autori da me studiati in questo testo, l’antropologo e linguista francese – ahimè poco noto, ma vi garantisco geniale – Marcel Jousse, parla di «gesto proposizionale»[ref]Cfr. M. Jousse, L’antropologia del gesto (opera postuma: 1969), tr. it. di E. De Rosa, Paoline, Roma 1979.[/ref], attribuendo al gesto la propensione naturale a strutturarsi “sintatticamente”, dandosi, appunto, una cadenza strutturale ritmica. Per l’autore da me appena citato, il nostro corpo, dopo aver captato i segnali che provengono a esso dalla realtà circostante e averli raccolti in quelli che lui chiama «mimemi» – e qui starebbe, appunto, l’origine del linguaggio –, li rilancia, infine, sotto forma di pensiero o di azione. I momenti da tener presente sono, dunque, tre: il momento mimetico originario, il momento ritmico, che consiste in una riarticolazione e in un assetto più coeso della fase precedente e, infine, il momento in cui codifichiamo le due fasi orali precedenti nella scrittura.

Ma torniamo al ritmo. Un altro autore che studio nel mio prossimo libro, il linguista francese Henri Meschonnic, invita a intenderlo non, come abbiamo fatto, da tempo immemorabile, fin qui, nel quadro della legge del numero e come sinonimo di ordine e di misura, ma come un qualcosa di connaturato al linguaggio, così che, per questa via, arriveremmo a superare la canonica – e ormai poco produttiva – distinzione, nel segno, fra significato e significante, nonché, in un testo, fra contenuto e forma. Potremmo pensare, cioè, al darsi di un senso extralessicale che, permeando di sé tutto il discorso, si struttura, appunto, in termini di continuità del ritmo[ref]Su questo punto, cfr. il mio Il movimento della parola del linguaggio. Meschonnic e la poetica del ritmo, in «Testo e senso», 2012, n. 13, pp. 117-33.[/ref].

Parlando di gesto come “abito” e prospettandolo come ipotesi naturale circa l’origine del linguaggio, trovo inevitabile risalire a un autore che sta all’origine di molte questioni ancora aperte del nostro tempo: Darwin. Da lui, riprendo l’idea relativa al carattere “modulare” del linguaggio umano, nel senso di un sistema combinatorio che funziona scomponendo e ricomponendo elementi discreti in ordini e combinazioni particolari sempre nuove. Idea di cui egli si serve, in chiave esplicativa, soprattutto, nell’opera: L’espressione delle emozioni nell’uomo e neglianimali (1872).

Un’altra tesi di Mead che mi sta molto a cuore è che «parlare è [innanzi tutto] parlarsi», nel senso che la «comunità della risposta è [a tal punto] essenziale alla insorgenza della parola»[ref]C. Di Martino, Linguaggio e autocoscienza in George Herbert Mead, in Id., Segno, gesto, parola. Da Heidegger a Mead e Merleau-Ponty, ETS, Pisa 2005, pp. 141-2.[/ref] che noi stessi, per primi, ci percepiamo come membri di una tale comunità. L’atto in cui ci udiamo parlare sarebbe, cioè, quello in cui si costituisce la nozione stessa di significato, poiché, nel momento in cui incardiniamo ciò che diciamo in un profilo dal tratto fermo e stabile, mettiamo capo ad un qualcosa che vale, al tempo stesso, per noi e per gli altri.

Un antropologo tedesco del Novecento, Arnold Gehlen, ha definito questo fenomeno come «autoaffettività della voce»[ref]A. Gehlen, L’uomo. La sua natura e il suo posto nel mondo (1940), tr. it. di C. Mainoldi, Feltrinelli, Milano 1983.[/ref] e l’ha indicato come quello in cui sarebbe custodita, per lui, la radice principale del linguaggio.Grazie ad un tale fenomeno, noi impariamo a dislocarci, a “trasferirci” nella reazione dell’altro, per cui l’interiorità nascerebbe nel segno di una figura non mentalisticamente autocentrata, ma eteroreferenziale. Che è proprio ciò che, ad esempio, ha consentito a Ricoeur di parlare – è anche titolo di un suo libro – del “sé come un altro”[ref]Cfr. P. Ricoeur, Sé come un altro, a cura di D. Iannotta, Jaca Book, Milano 1993.[/ref]. È questa una scoperta molto importante, perché, gettando luce sul modo di insorgere del linguaggio, siamo arrivati a vedere come sia proprio nel segno di esso che, dischiudendosi la dimensione del sé, si dischiude, al tempo stesso, anche la dimensione dell’alterità.

Definendo la parola, nella sua essenza, come gesto, penso, ovviamente, al gesto deittico, indicativo. Ora, approfondendo il problema filosofico e linguistico dell’enunciazione[ref]Cfr. il mio L’istanza del soggetto parlante. Il problema linguistico dell’enunciazione, Lithos, Roma 2010.[/ref], ho potuto mettere meglio a fuoco il carattere, fondamentalmente, interlocutivo dell’alterità, prospettando la parola, nel suo profilo ostensivo, come quello spazioetico in cui facciamo originariamente esperienza della comunanza umana, dell’incontro e della prossimità.

Dandosi a noi nel segno dell’indicazione, la parola mostra, inoltre, di avere un vero e proprio volto, nel senso che la percezione e l’identificazione del parlato avvengono sempre secondo modalità di tipo fisiognomico, esattamente come noi riconosciamo una faccia o un oggetto familiare. E proprio questa dimensione che si concretizza nella materialità della voce è quella che, forse, più è stata affossata nel regime, sotto cui da lungo tempo ci troviamo, cosiddetto di «devocalizzazione del logos»: regime che, oltre a «fissare il primato ontologico del pensiero sulla parola», ha provveduto anche a disincarnare quest’ultima, liberandola «dalla corporeità del fiato e della voce»[ref]A. Cavarero, A più voci. Filosofia dell’espressione vocale, Feltrinelli, Milano 2003, p. 74. Sulla voce come ciò che «sgorga prima che qualsiasi carattere semiotico/semantico abbia a formularsi», cfr. C. Bologna, Flatus vocis. Metafisica e antropologia della voce, il Mulino, Bologna 1992, p. 29. Infine, circa «il disincarnarsi della lingua dalla voce», G. Agamben, La parola e il sapere, in «aut aut», 1980, n. 179-180, pp. 155-66, afferma che, da tutto ciò, la prima, in quanto «costruzione del sapere», ne esce guadagnando un’autonomia radicale rispetto alla seconda e «all’atto concreto di parola» (pp. 162-3).[/ref]. Trovo che un motivo da recuperare sarebbe proprio questa unità originaria – e spezzata – fra logos e voce. E ciò a partire dal ripensamento della famosa definizione aristotelica del linguaggio come phoné significativa: come un qualcosa che ci dà prova, cioè, della genesi, naturale e contemporanea, di articolazione vocale e di attività logico-cognitiva[ref]Cfr. F. Lo Piparo, Aristotele e il linguaggio. Cosa fa di una lingua una lingua, Laterza, Roma-Bari 2003.[/ref].

Oltre al titolo “Etica della parola”, l’incontro di oggi presenta anche un sottotitolo: “Politica, comunicazione, responsabilità”. Lascio cadere, senza alcuna esitazione, il primo termine, non rientrando la problematica relativa a esso nella mia sfera di competenza specifica, e mi approprio, invece, degli altri due. Ebbene, “comunicazione” e “responsabilità” posso considerarli come le parole-chiave intorno a cui si raccolgono due miei testi, già citati in precedenza: uno dedicato a Merleau-Ponty e l’altro a Ricoeur.

Merleau-Ponty impianta il processo della comunicazione sulla dialettica fra silenzio ed espressione. Poiché, per lui, vi è un senso prima che vi sia linguaggio, il lasciarsi guidare dalle cose così come esse si danno e si manifestano, è un far sì, letteralmente, che esse “prendano la parola”: parola che, perciò, è da sempre già iscritta nella “carne” viva dell’esperienza prelinguistica e preriflessiva.

Nella sua opera, forse, maggiore: Fenomenologia della percezione, Merleau-Ponty interpreta il motto fenomenologico che prescrive un “ritorno alle cose stesse” come un recupero di quel «mondo anteriore alla conoscenza» di cui essa «parla sempre», come l’«espressione seconda» di quella vita irriflessa della coscienza che opera in modo inavvertito e silenziosamente. Prima del «significato concettuale», che fa leva sulla funzione rappresentativa ed eteroreferenziale del segno verbale, si darebbe, cioè, un «significato gestuale», «esistenziale», «emozionale», che è «immanente alla parola» e che coincide con «uno degli usi possibili del mio corpo». Dietro la parola c’è sì un’operazione categoriale, ma ciò non vuol dire che essa riposa sul concetto come sul suo fondamento: parlare non è accedere ad un oggetto posto da un’intenzione conoscitiva o da una rappresentazione, ma quella dimensione espressiva entro cui il pensiero stesso trova la sua ragion d’essere e il suo compimento. Le parole “abitano” non solo le cose, ma anche il soggetto stesso quando le pronuncia. E ciò che ci consente di affidarci spontaneamente alla parola e di “muoverci” a nostro agio in essa è proprio il fatto che noi ne possediamo l’essenza articolare come una «modulazione» o un certo «stile di condotta» del nostro corpo. In tal senso, proprio come noi non ci rappresentiamo mai lo spazio esterno quando ci muoviamo in esso, ma lo viviamo come quel campo d’azione che ci si apre d’intorno, così non abbiamo bisogno di rappresentarci la parola per capirla e per pronunciarla: essa è un «certo luogo del mio mondo linguistico, fa parte della mia costituzione». Ne discende che la parola non è il modo di designare un pensiero, ma la presenza di questo stesso pensiero nel mondo sensibile: «non il suo vestito, ma […] il suo corpo»[ref]M. Merleau-Ponty, Fenomenologia della percezione (1945), tr. it. di A. Bonomi, Bompiani, Milano 2003, pp. 251 e 253.[/ref]. Una riflessione, quest’ultima, che – quasi identica – possiamo trovare anche nello Zibaldone di Leopardi[ref]G. Leopardi, Zibaldone di pensieri, 2 voll., a cura di A. M. Moroni, Mondadori, Milano 1972, vol. II, p. 610 (n. 1694).[/ref].

E passiamo al termine “responsabilità”, una parola che – come sapete – ha un profilo linguistico, prima ancora che etico, stando a significare, propriamente, “abilità nel rispondere”. Su questo punto, di Ricoeur, ho sviscerato, soprattutto, la sua riflessione intorno al fenomeno della promessa, nel cui segno egli intende l’identità personale come fedeltà alla parola data. Per il filosofo appena menzionato, tre sono i fattori che ci obbligano a mantenere una promessa. Innanzi tutto, chi promette si vincola all’impegno di fare qualcosa, dando prova, così, di essere fornito di autostima. In tale autostima, trova espressione, poi, il bisogno di essere riconosciuti da altri: è sempre a qualcuno, infatti, che si promette. Ed è qui che il fare di cui si è appena detto si configura, propriamente, come un dare: un dare all’altro qualcosa di ritenuto buono da chi promette. Infine, dietro il mantenimento di una parola data c’è sempre la volontà di «preservare la struttura del linguaggio» e la sua «dimensione fiduciaria»: linguaggio che, nel suo uso normale, «ingloba una tacita clausola di sincerità e, se così si può dire, di carità»[ref]P. Ricoeur, Percorsi del riconoscimento. Tre studi, a cura di F. Polidori, Cortina, Milano 2005, p. 149.[/ref].

Vorrei terminare parlandovi della riflessione di Ricoeur in merito al problema della traduzione, perché è qui che trova la sua formulazione ciò che egli ha definito “etica dell’ospitalità linguistica”[ref]P. Ricoeur, La traduzione. Una sfida etica, a cura di D. Jervolino, Morcelliana, Brescia 2001.[/ref]. Si parte dal fatto che, nell’atto in cui noi ci rivolgiamo ad un’altro, in quest’ultimo c’è sempre un qualcosa dello straniero. Ciò fa sì che lo scambio comunicativo di tipo intralinguistico non sia strutturalmente diverso da quello di tipo infralinguistico. Concedere una spiegazione nella nostra lingua all’interlocutore di turno, presentandogli la cosa da lui non capita in un altro modo, presuppone, infatti, la ricerca di una corrispondenza fra due versioni dello stesso discorso. Che è proprio ciò che facciamo anche quando traduciamo da una lingua ad un’altra. Tanto nel primo quanto nel secondo caso, andiamo alla ricerca, cioè, di un principio di equivalenza, nel cui segno di svolge, perciò, qualsiasi forma di scambio interumano mediato linguisticamente.

In tal senso, rappresentando un modello di integrazione che concilia il proprio e l’estraneo, l’identità e l’alterità, la traduzione si configura come un ethos che è perfettamente funzionale sia alla politica di edificazione della nuova Europa sia alla cultura del dialogo ecumenico interreligioso.

Ecco, prima avevo lasciato cadere il termine “politica”. Ora – come potete vedere – lo riguadagniamo, ma solo dopo aver attraversato i percorsi contrassegnati dai termini “comunicazione” e “responsabilità”.

** Testo letto nell’ambito della rassegna «Le ragioni della politica», organizzato dall’Osservatorio filosofico e dalla Compagnia de’ Galantomeni (Latina, 16 aprile 2013).