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LUKÁCS SU HÖLDERLIN E IL TERMIDORO

di Michael Löwy (traduzione di Antonino Infranca)

Gli scritti di Georg Lukács negli anni Trenta, malgrado i loro limiti, le loro contraddizioni e i loro compromessi (con lo stalinismo) sono di grande interesse. È il caso soprattutto del suo saggio su Hölderlin del 1935, intitolato L’“Hyperion” de Hölderlin, tradotto in francese da Lucien Goldmann e incluso nel volume Goethe et son époque (1949).
Lukács è letteralmente affascinato dal poeta, che descrive come «uno dei poeti elegiaci più puri e profondi di tutti i tempi», in cui l’opera «ha un carattere profondamente rivoluzionario»[ref]G. Lukács, L’Hyperion de Hörderlin, p. 197 [“L’Iperione di Hölderlin” in Id., Goethe e il suo tempo, tr. it. A. Casalegno, in Id. Scritti sul realismo, Torino, Einaudi, 1978, p. 315[/ref] . Ma contrariamente all’opinione generale degli storici della letteratura, egli rifiuta ostinatamente di riconoscerlo come un autore romantico. Perché?
Dopo l’inizio degli anni Trenta, Lukács aveva compreso, con grande lucidità, che il romanticismo non era una semplice scuola letteraria ma una protesta culturale contro la civiltà capitalista, in nome dei valori – religiosi, etici, culturali – del passato. Era, allo stesso tempo, convinto che, per i riferimenti al passato, si trattasse di un fenomeno essenzialmente reazionario.
Il termine “anticapitalismo romantico” appare per la prima volta in un articolo di Lukács su Dostoevskij, dove lo scrittore russo è condannato come “reazionario”. Secondo questo articolo, pubblicato a Mosca, l’influenza di Dostoevskij risulta dalla sua capacità di trasformare i problemi dell’opposizione romantica al capitalismo in problemi “spirituali”; a partire da questa «opposizione intellettuale piccolo-borghese anticapitalista romantica (…) si apre una larga strada verso la destra, verso la reazione, oggi verso il fascismo e, al contrario, un sentiero stretto e difficile verso la sinistra, verso la rivoluzione»[ref]G.Lukacs, «Über den Dotsojevski Nachlass », Moskauer Rundschau, 22/3/1931[/ref] . Questo “sentiero stretto” sembra sparire, fino a quando scrive, tre anni più tardi, un saggio su “Nietzsche precursore dell’estetica fasciste”. Lukács presenta Nietzsche come un continuatore della tradizione dei critici romantici del capitalismo: come loro «egli contrappone continuamente alla mancanza di civiltà del suo tempo l’alta civiltà di periodi precapitalistici o protocapitalistici». A suo avviso, questa critica è reazionaria, e può facilmente condurre al fascismo[ref]G. Lukács, «Nietzsche als Vorläufer des faschistischen Aesthetik », pp. 41 e 53 (1934) [«Nietzsche precursore dell’estetica fascista » in Id. Contributi alla storia dell’estetica, tr. it. E. Picco, Milano, Feltrinelli, 1975, pp. 336 e 360[/ref] .
Si trova qui un sorprendente accecamento: Lukács non sembra percepire l’eterogeneità politica del romanticismo e, in particolare, l’esistenza, a fianco del romanticismo reazionario, che sogna un impossibile ritorno al passato, di un romanticismo rivoluzionario che aspira a una svolta dal passato, in direzione di un avvenire utopico. Questo rifiuto è ancor più sorprendente, perché l’opera dello stesso giovane Lukács, per esempio il suo saggio La teoria del romanzo (1916), appartiene a questo universo culturale romantico/utopico .
Questa corrente rivoluzionaria è presente nelle origini del movimento romantico. Prendiamo come esempio Le origini dell’ineguaglianza tra gli uomini di Jean-Jacques Rousseau (1755), che si può considerare come una sorta di primo manifesto del romanticismo politico: la sua feroce critica della società borghese, dell’ineguaglianza e della proprietà privata, si fa in nome di un passato più o meno immaginario, lo Stato di Natura (direttamente ispirato ai costumi liberi ed egualitari degli indigeni “Caraibi”). O contrariamente a ciò che pretendono i suoi avversari (Voltaire!), Rousseau non propone che gli uomini moderni ritornino alla foresta, ma sogna una nuova forma di eguale libertà dei “selvaggi”: la democrazia. Si trova il romanticismo utopico, sotto diverse forme, non soltanto in Francia ma anche in Inghilterra (Blake, Shelley) e anche in Germania: il giovane Schlegel non era un ardente partigiano della Rivoluzione francese? È il caso anche, ben inteso, di Hölderlin, poeta rivoluzionario, ma che, come molti dei romantici dopo Rousseau, è posseduto dalla “nostalgia dei giorni di un mondo originario” (ein Sehnen nach den Tagen der Urwelt) .
Lukács è obbligato a riconoscere, controvoglia, che si trovano «tratti romantico-anticapitalistici di Hölderlin, che quando egli scriveva non erano affatto reazionari» . Per esempio, l’autore dell’Iperione odia, anche lui, come i romantici, la divisione capitalistica del lavoro e la ristretta libertà politica borghese. «Eppure nel fondo del suo essere, Hölderlin non è romantico, benché molti tratti della sua critica del capitalismo incipiente lo siano»[ref]G. Lukács, L’Hyperion de Hörderlin, p. 313[/ref] . Si sente in queste righe che affermano una cosa e il suo contrario, l’imbarazzo di Lukács e la sua difficoltà a designare chiaramente la natura romantica rivoluzionaria del poeta. Questo perché in una prima epoca il romanticismo non aveva «tratti [… che] non erano affatto reazionari»? ciò vorrebbe dire che tutta la Frühromantik, il periodo iniziale del romanticismo, alla fine del XVIII secolo, non era reazionario? In questo caso, come si può proclamare che il romanticismo è, per sua natura, una corrente retrograda?
Nel suo tentativo, contro ogni evidenza, di dissociare Hölderlin dai romantici, Lukács menziona il fatto che il passato al quale essi si riferivano non è lo stesso: «La differenza tra la tematica di Hölderlin e quella dei romantici – Grecia contro medioevo – è dunque anche una differenza politico-ideologica» (p. 313). O, se molti romantici si riferiscono al medioevo, non è il caso di tutti: p. es. Rousseau, come si è visto, si ispira al modo di vita dei “Caraibi”, uomini liberi ed eguali. Si trovano, d’altronde, dei romantici reazionari che sognano l’Olimpo della Grecia classica. Se si tiene conto del cosiddetto “neo-romanticismo” della fine del XIX secolo – la continuazione del romanticismo sotto una nuova forma – si trovano autentici romantici rivoluzionari – il marxista libertario William Morris e l’anarchico Gustav Landauer – affascinati dal Medioevo.
Infatti, ciò che distingue il romanticismo rivoluzionario dal reazionario non è il tipo di passato al quale si riferisce, ma la dimensione utopica dell’avvenire. Lukács sembra non rendersene conto, in un altro passo del suo saggio, quando evoca la presenza, in Hölderlin, di un «sogno di una risorta età dell’oro» e dell’«utopia di una liberazione reale dell’umanità» . Egli percepisce anche, con perspicacia, la parentela tra Hölderlin e Rousseau: nei due trova «il sogno di una trasformazione della società», con la quale, quella sarà «ridiventata natura»[ref]Ivi, p.304-305[/ref] . Lukács è dunque preso dal rendere conto dell’ethos romantico rivoluzionario di Hölderlin, ma il suo pregiudizio ostinato contro il romanticismo, catalogato come “reazionario” per definizione, gli impedisce di raggiungere questa conclusione. È, secondo noi, uno dei principali limiti di questo saggio, altrimenti brillante …
L’altro limite riguarda piuttosto il giudizio storico-politico di Lukács sul giacobinismo ostinato – post-termidoriano – di Hölderlin, paragonato al “realismo” di Hegel: «Hegel si adatta ad essa [la situazione post-termidoriana], si adatta alla fine del periodo rivoluzionario borghese e costruisce la sua filosofia proprio sul riconoscimento di questa svolta nuova nella storia mondiale; Hölderlin rifiuta ogni compromesso con la realtà post-termidoriana, resta fedele all’antico ideale rivoluzionario di rinnovamento della democrazia ellenica e viene schiacciato da una realtà in cui per quell’ideale non c’era più posto, nemmeno sul piano filosofico e poetico». Mentre Hegel interpreta «la rivoluzione borghese come un processo unitario, del quale sia il Terrore che il Termidoro e Napoleone erano le fasi necessarie», «l’intransigenza di Hölderlin resta invece un tragico vicolo cieco: solitario Leonida degli ideali giacobini, egli cade sconosciuto e incompianto alle Termopili del termidorismo avanzanto»[ref]Ivi, p. 302-303[/ref] .
Riconosciamo che questo affresco storico, letterario e filosofico non manca di grandezza! Esso, però, non è meno problematico … E, soprattutto, contiene, implicitamente, un riferimento alla realtà del processo rivoluzionario sovietico, così come esisteva nel momento in cui Lukács redigeva il suo saggio.
È, in ogni caso, l’ipotesi, un po’ rischiosa, che ho tentato di difendere in un articolo apparso in inglese sotto il titolo “Lukács and Stalinism”, e incluso in un libro collettivo Western Marxism, a Critical Reader, London, New Left Books, 1977. L’ho incluso anche nel mio libro su Lukács pubblicato in francese nel 1976 e apparso, nel 1978, in Italia con il titolo Per una sociologia degli intellettuali rivoluzionari. Ecco un passo che riassume la mia ipotesi riguardo all’affresco storico schizzato da Lukács nell’articolo su Hölderlin: «Il significato di queste osservazioni in rapporto all’Urss del 1935, è chiaro; basterà ricordare che Trotsky aveva pubblicato, proprio nel febbraio 1935, un saggio in cui utilizzava per la prima volta il termine “Termidoro”, per caratterizzare l’evoluzione dell’Urss dopo il 1924 (Lo Stato operaio e la questione del Termidoro e del bonapartismo). Non vi sono dubbi che i brani citati, siano la risposta di Lukács a Trotsky, questo Leonida intransigente, tragico e solitario, che rifiuta il Termidoro ed è condannato all’impotenza … Lukács, invece, allo stesso modo di Hegel, accetta la fine del periodo rivoluzionario e costruisce la propria filosofia sulla comprensione della nuova svolta della storia universale. Notiamo, inoltre, che Lukács sembrerebbe accettare, implicitamente, la caratterizzazione trotskista del regime di Stalin, come termidoriano …»[ref]M. Löwy, Per una sociologia degli intellettuali rivoluzionari. L’evoluzione politica di Lukács 1909-1929, tr. it. R. Massari, Milano, La Salamandra, 1978, p. 236[/ref] .
Con un certo stupore, ho letto in un recente libro di Slavoj Zizek, un passo a proposito del saggio di Lukács su Hölderlin, che riprende, quasi parola per parola, la mia ipotesi, ma senza menzionare la fonte: «È evidente che l’analisi di Lukács è profondamente allegorica: essa è stata scritta qualche mese dopo che Trotsky lancia la sua tesi, secondo la quale lo stalinismo era il Termidoro della Rivoluzione d’Ottobre. Il testo di Lukács deve essere letto come una risposta a Trotsky: egli accetta la definizione del regime stalinista come “termidoriano”, ma in lui prende una svolta positiva. Piuttosto che deplorare la perdita di energia utopica, dovremmo, in una maniera eroicamente rassegnata, accettare le sue conseguenze come l’unico spazio reale del progresso sociale»[ref]S. Zizek, La révolution aux portes, Paris, Le Temps des Cerises, 2020, p.404[/ref] .
Non credo che Zizek abbia letto il mio libro su Lukács, ma egli probabilmente è venuto a conoscenza della mia analisi nell’articolo pubblicato nella raccolta, a grande circolazione, Western Marxism. Dato che Zizek scrive molto e molto velocemente, è comprensibile che non abbia sempre il tempo di citare le sue fonti …
Slavoj Zizek fa molte critiche a Lukács, nelle quali, paradossalmente, Lukács «diviene dopo gli anni Trenta il filosofo stalinista ideale che, per questa ragione precisa e a differenza di Brecht, passa dalla parte della vera grandezza dello stalinismo…»[ref]Ivi, p. 257[/ref] . Questo commento si trova in un capitolo del suo libro curiosamente intitolato “La grande interiorità dello stalinismo” – un titolo ispirato dall’argomento di Heidegger sulla “grandezza interiore del nazismo”, in cui Zizek si distanzia, negando, a giusto titolo, ogni “grandezza interiore” del nazismo.
Perché Lukács non ha colto questa “grandezza” dello stalinismo? Zizek non lo spiega, ma lascia capire che l’identificazione dello stalinismo con il Termidoro – proposta da Trotsky e implicitamente accettata da Lukács – era un errore. Per esempio, a suo avviso, «il 1928 fu una svolta travolgente, una vera seconda rivoluzione – non un tipo di “Termidoro”, piuttosto la radicalizzazione conseguente della Rivoluzione d’Ottobre». Morale della storia: si deve «cessare il ridicolo gioco consistente nell’opporre il terrore stalinista e l’“autentica” eredità leninista» – un vecchio argomento di Trotsky ripreso «dagli ultimi trotskysti, questi veri Hölderlin del marxismo attuale»[ref]Ivi, p. 250-252[/ref] .
Slavoj Zizek sarebbe, dunque, l’ultimo stalinista? È difficile rispondere, dato che la sua pensiero-mania, con un considerevole talento, usa i paradossi e le ambiguità. Cosa pensare delle sue grandiose proclamazioni sulla “grandezza interiore” dello stalinismo e del suo “potenziale utopico-emancipatore”? Mi sembra che sarebbe più giusto parlare della “mediocrità interiore” e del “potenziale distopico” del sistema stalinista … La riflessione di Lukács sul Termidoro mi sembra più pertinente, anche se esso stesso è discutibile.
Il mio commento, nell’articolo “Lukács e lo stalinismo” (e nel mio libro) concernente l’ambizioso affresco storico di Lukács, a proposito di Hölderlin, tenta di porre in questione la tesi della continuità tra Rivoluzione e Termidoro: «Questo testo di Lukács rappresenta indubbiamente uno dei tentativi più intelligenti e più sottili di giustificare lo stalinismo come una “fase necessaria”, “prosaica” ma “dichiaratamente progressista” dell’evoluzione rivoluzionaria del proletariato, vista come un processo unitario. Questa tesi – che costituiva probabilmente il ragionamento segreto di molti intellettuali o militanti più o meno seguaci dello stalinismo – conteneva un certo “nucleo razionale”, ma gli avvenimenti degli anni seguenti (i processi di Mosca, il patto russo-tedesco, ecc.), avrebbero dimostrato, anche a Lukács, che questo processo non era così “unitario”». Aggiungo in una nota a piè di pagina che il vecchio Lukács, in un’intervista del 1969 a New Left Review, ha una visione più lucida sull’Unione Sovietica: il suo potere d’attrazione straordinaria è durato dal “1917 alle grandi purghe” .
Ritornando a Zizek: le questioni che pone nel suo libro non sono unicamente storiche: esse riguardano la stessa possibilità di un progetto comunista emancipatore a partire dalle idee di Marx (e/o di Lenin). In effetti, secondo l’argomento che egli propone in uno dei passi più bizzarri del suo libro, lo stalinismo, con tutti i suoi orrori (che non nega) è stato, in ultima analisi, un male minore, in rapporto al progetto marxiano originale! In una nota a piè di pagina, Zizek spiega che la questione dello stalinismo è spesso mal posta: «Il problema non è che la visione marxista originale sia stata sovvertita dalle sue conseguenze inattese. Il problema è la questione stessa. Se il progetto comunista di Lenin – e dello stesso Marx – fosse stato pienamente realizzato secondo il suo vero nucleo, le cose sarebbero state ben peggiori che lo stalinismo – avremmo una visione di ciò che Adorno e Horkheimer chiamarono verwaltete Welt (la società amministrata), una società totalmente trasparente a se stessa, regolamentata dal general intellect reificato, dalla quale sarebbe stato bandita ogni velleità di autonomia e di libertà»[ref]Ivi, p. 419[/ref] .
Mi sembra che Slavoj Zizek sia troppo modesto. Perché nascondere in una nota a piè di pagina una tale scoperta storico-filosofica, la cui importanza politica è evidente? In effetti, gli avversari liberali, anticomunisti e reazionari del marxismo si limitano a renderlo colpevole dei crimini dello stalinismo. Zizek è, che io sappia, il primo a pretendere che se il progetto marxista originale si fosse realizzato pienamente, il risultato sarebbe stato peggiore che lo stalinismo …
Si deve prendere sul serio questa tesi, o piuttosto è meglio metterla sul conto del gusto smoderato di Slavoj Zizek per la provocazione? Non potrei rispondere a questa questione, ma penso alla seconda ipotesi. In ogni caso, ho qualche difficoltà a considerare come seria questa affermazione alquanto assurda – uno scetticismo senza dubbio condiviso da coloro – soprattutto giovani – che continuano ad interessarsi, ancora oggi, al progetto marxista originario.

Nota sull’intervista a Lukács del 1969

Sollecitato dai redattori di “Filosofia in movimento”, scrivo queste righe per chiarire lo scenario dentro il quale si inserisce l’intervista che Lukács concesse a Leandro Konder nel 1969. Per ragioni di spazio non ho avuto modo di fare questa opera di storicizzazione nel presentare la stessa intervista.
Innanzitutto lo stesso intervistatore va presentato: Leandro Konder. Nato nel 1936 a Petropolis, vicino a Rio de Janeiro, prima avvocato del lavoro, poi costretto all’esilio dal Brasile a causa del golpe militare del 1964, si rifugiò in Germania e in Francia. Nell’esilio approfondì lo studio della filosofia e del marxismo. Con Lukács aveva già intrattenuto un carteggio, insieme al suo amico Carlos Nelson Coutinho prima del golpe del 1964 – carteggio che è pubblicato in filosofiainmovimento. Nel 1978 poté fare ritorno in Brasile, dove intraprese la carriera accademica nelle facoltà di Storia e di Educazione. È morto nel 2014, dopo una lunga e tormentata malattia. Nel 1969 visitò Lukács a Budapest e da quella visita scaturì l’intervista di cui parliamo. La lingua dell’intervista fu il tedesco. L’intervista fu pubblicata in un grande giornale brasiliano Jornal do Brasil il 24 e 25 agosto 1969, proprio per il titolo che gli fu dato: “L’autocritica del marxismo”. La censura militare guardò più alle critiche che Lukács faceva al marxismo che alle proposte, che forse non furono neanche capite, così fu concesso il permesso di pubblicazione.
Lukács, nel 1969, aveva 84 anni, morirà due anni dopo, il 4 giugno 1971. Era un filosofo famoso in tutto il mondo, ma viveva isolato nella sua natia Ungheria. Non era particolarmente gradito al regime comunista di Kádár, perché era un pensatore indipendente e non disponibile a seguire le linee ideologiche del partito comunista ungherese. Alcune relazioni della C.I.A. che lo indicava come un dissidente sono citate in un mio articolo presente in filosofiainmovimento. L’anno precedente all’intervista, in occasione dell’invasione sovietica della Cecoslovacchia, a cui parteciparono anche truppe ungheresi insieme a quelle di altri paesi del Patto di Varsavia, Lukács aveva ribadito la sua posizione di indipendenza ideologica, scrivendo e inviando al Comitato Centrale del Partito, un saggio di argomento politico, Demokratisierung heute und morgen (La democrazia della vita quotidiana è il titolo in italiano). Naturalmente il saggio fu sepolto negli archivi del Partito, da dove riemerse soltanto nel 1985, suscitando un forte dibattito sull’analisi politica del vecchio Lukács.
Il tema centrale dell’analisi di Lukács è la sua polemica contro lo stalinismo, come ricorda anche nell’intervista. Una delle distorsioni politiche dello stalinismo era per Lukács il tatticismo, cioè la subordinazione delle scelte politiche non a un progetto strategico di lungo termine, ma a calcoli politici di dimensione ridotta, che, però, causavano enormi danni di immagine e di scelte politiche. Nell’intervista Lukács riferisce della crisi interna al Partito Comunista Francese, che non partecipò inizialmente alla Resistenza anti-nazista, perché l’URSS aveva firmato il patto di non belligeranza con la Germania. Questo patto di non belligeranza non si estendeva all’Italia e il Partito Comunista Italiano continuò senza limitazioni nella sua attività anti-fascista. La difformità di comportamenti, in base agli ordini di Mosca, ha segnato fortemente la storia futura, post-bellica, dei due partiti comunisti. Lukács ricorda che il tatticismo continua anche nella politica sovietica post-stalinista, in particolare nella politica estera, per cui alcuni paesi arabi, come l’Egitto, sono considerati socialisti, in contraddizione palese con la loro effettiva e reale struttura economica e sociale.
Come è detto nell’intervista Lukács, al momento dell’intervista stava scrivendo la sua Ontologia dell’essere sociale. Infatti Lukács fa riferimento al fenomeno dell’alienazione, che poi sarà indicata con il termine di estraniazione. L’estraniazione è l’argomento del quarto e ultimo capitolo dell’Ontologia dell’essere sociale. Per Lukács si tratta di un fenomeno specifico del capitalismo del XX secolo, per cui l’intera vita quotidiana dell’essere sociale è subordinata, addirittura progettata, dal sistema capitalistico. Così alla classica estrazione di plusvalore dal lavoro vivo del lavoratore, si unisce lo sfruttamento dei suoi consumi: il consumismo è un fenomeno specifico del capitalismo moderno, è un’energia irrefrenabile che spinge il capitalismo a sfruttare anche i bisogni dell’essere sociale e il loro soddisfacimento. I bisogni vengono indotti e controllati dalla pubblicità e dalla propaganda, come facevano i due sistemi totalitari, fascismo e nazismo. Il consumo è indirizzato verso le merci che il sistema capitalistico ha prodotto e predisposto a un consumo programmato. La psicologia dell’essere sociale è così manipolata e subordinata alla produzione delle merci. La totalità sociale è interamente programmabile e calcolabile. Lukács confessa che non crede che siano possibili crisi fondamentali nel capitalismo moderno. La capacità di manipolabilità del sistema sembra in grado di superare qualsiasi crisi e, in realtà, così è avvenuto negli ultimi cinquanta anni.
Dietro a questa capacità di manipolabilità del sistema capitalistico dominante, c’è la calcolabilità sia della produzione che del consumo. Il tema della calcolabilità era stato sviluppato dal grande amico di gioventù di Lukács, Ernst Bloch in Lo spirito dell’utopia, e Lukács riprese il tema già in Storia e coscienza di classe. Il tema è implicito ovviamente nella sua analisi dell’estraniazione nell’Ontologia dell’essere sociale. Sostengo questa implicita presenza, perché Lukács critica radicalmente la concezione del mondo del neo-positivismo – in particolare vi dedica un capitolo nella prima parte dell’Ontologia dell’essere sociale – che fa della calcolabilità lo strumento di analisi della realtà. Lukács si ribella a questa riduzione delle cose e degli esseri umani a numeri. In fondo, quindi, la calcolabilità è una forma ideologica del capitalismo moderno, un suo strumento di azione nella realtà sociale.
Lukács accusa il marxismo post-Lenin di essere stato incapace di analizzare i fondamenti teorici del capitalismo contemporaneo. Egli sostiene che il marxismo deve riprendere la sua concezione razionale e storicistica della realtà sociale. L’irrazionalismo è da lui considerato il grande avversario del marxismo. Così fenomeni come l’esistenzialismo – di cui però salva alcune analisi di Sartre, ma condanna in blocco Heidegger –, il neopositivismo e anche alcune tendenze considerate marxiste, come quelle della Scuola di Francoforte, sono asservite all’ideologia borghese in lotta contro la ragione dialettica. In pratica le tendenze dominanti la scena della filosofia della seconda metà del Novecento sono considerate da Lukács come oppositrici del marxismo. La reazione a questa generale opposizione lukácsiana fu il considerare Lukács uno stalinista. Il giudizio di “stalinista” ha condizionato fortemente la diffusione della conoscenza delle opere del Lukács maturo. In realtà Lukács fu una vittima dello stalinismo sia per l’ostracismo decretato alle sue opere nei paesi del socialismo realizzato, sia nei confronti della persona, arrestato per due volte – una nella Russia stalinista nel 1941 e una seconda in Ungheria per la sua partecipazione alla Rivoluzione del 1956 – e isolato dal regime post-stalinista ungherese – isolamento favorito anche dalla ostilità degli intellettuali occidentali.
Soltanto in America latina il pensiero di Lukács ha avuto un notevole successo, che continua ancora oggi. Infatti Lukács, come si nota nell’intervista, non assume una posizione eurocentrica nei confronti del suo interlocutore brasiliano. Anzi sprona gli intellettuali latinoamericani a sviluppare una propria analisi della loro realtà sociale ed economica, cioè a non ripetere gli errori degli intellettuali marxisti occidentali che non hanno saputo ripetere l’analisi compiuta dai fondatori del marxismo. Egli si considerava un semplice indicatore di tendenze da sviluppare.
Per concludere queste righe di esplicazione, ricordo il giudizio di Lukács nei confronti di Gramsci. Lukács non conosceva l’italiano e le opere di Gramsci, almeno fino agli anni Sessanta, non erano ampiamente tradotte in inglese, francese o tedesco, ancor meno in ungherese, le lingue che Lukács conosceva; quindi la sua conoscenza di Gramsci non era ampia, ma malgrado questa ristrettezza il suo giudizio è indicativo: nel considerare Gramsci come un teorico che dà indicazioni generali, le quali devono essere tratte dallo studio del contesto storico ove Gramsci agì, Lukács invita a trattare Gramsci come un classico del marxismo. Invita a analizzare dettagliatamente il rapporto che il pensiero di Gramsci ha intessuto con la storia che lui ha vissuto e ha visto. È lo stesso lavoro di ricerca che lui compì nei confronti di Marx.