Tag Archivio per: Tunisia

TRA IL DIRITTO SECOLARE E LA FILOSOFIA POLITICA LAICA: COSTITUZIONALISMO E CULTURA NELLA TUNISIA ODIERNA

La Tunisia sembra destinata a rimanere per gli atlanti non molto più che una virgola di interludio tra l’Algeria e la Libia. Eppure, la sua vitalità culturale, le sue transizioni costituzionali e i suoi moti popolari, accesi e vivaci, quanto spesso sofferti e testimoniali, certificano un’importanza anche di natura geo-strategica assai superiore alle apparenze. Questa indubitabile rilevanza si traduce in una facile suggestione emotiva per l’Italia insulare: la Tunisia è più vicina alla Sardegna e alla Sicilia che alle regioni libiche e algerine non mediterranee. Terra composita, quella tunisina, politicamente portata a un’innovazione perseguita con fierezza e originalità, a far data, almeno, dai moti repubblicani del 1954-1957. E anche terra dove la tradizione, l’uso, la consuetudine e il retaggio – elementi etnologici ed elementi giuridici, elementi letterari ed elementi politico-istituzionali – non si sradicano mai con l’accetta, ma resistono, progrediscono, talvolta si incistano, più spesso si evolvono. Lo conferma il diritto di famiglia repubblicano: la Tunisia è, o perlomeno è stata, emblema di una regolamentazione non esclusivamente coranica delle relazioni inter-privatistiche, non riconducibile, però, nemmeno all’intransigenza legalista del diritto francese statuale.

In Tunisia, sin dagli anni Cinquanta, istituti di civiltà avvicinano la donna e l’uomo, innaturalmente separati da vincoli attribuiti alla religione, ma di fatto imposti dalle interpretazioni teocratiche della spiritualità collettiva. Esiste un’età minima per contrarre matrimonio, la poligamia da mettere al bando è una spinta centrifuga, e non centripeta, rispetto alla familiarità tradizionale, la sposa deve poter acconsentire (non obbedire!).

Il diritto civile tunisino, in molti campi (dalla prospettiva laburista a quella commerciale, dalla famiglia alle successioni), è stato capofila della transizione maghrebina ed è patrimonio di conquiste sociali che non meritano di concedersi ad arretramenti e ad aggressioni.

Nel 2015, il “quartetto per il dialogo nazionale tunisino” (organo composto dalle associazioni degli imprenditori, sindacalisti, attivisti e avvocati) ha conquistato il Nobel per la Pace. Lo spirito di quella concertazione ampia, improntata a un pluralismo prudente, resta nella Costituzione, ma (e ce lo segnalano i complicati lavori preparatori) la Costituzione è anche necessità di compromesso e rappresentanza di forze sociali che furono meno propense alla repubblica democratica. E di agenzie che quel cambiamento avrebbero voluto orientare a proprio uso e consumo. La rivoluzione del gelsomino, insomma, proficua infiorescenza delle primavere arabe, anche di quelle che si sono chiuse con “l’inverno del nostro scontento”, è da difendere nella sua scaturigine primigenia di presidio e difesa della libertà e della dignità umane. Valga, però, un ammonimento biblico, qui assunto nella sua furente carica figurativa e non nella sua accezione giuridico-confessionale. Anche lupi vestiti da agnelli ordiscono insidie al futuro del popolo tunisino: bisogna guardarsene.

La lezione più importante che viene dalla recente storia tunisina non ne fa, d’altra parte, capofila per il solo mondo arabo: nella storia nazionale, l’elogio della dialettica e quello della riflessione, il vissuto dell’introspezione e quello della politicità, convivono fino ad animare un preciso cotè letterario. È tunisino, Rafik Darragi, di un Paese a lungo sottoposto al giogo francese eppure in costante comunicazione con l’intellettualità del circuito accademico parigino. Darragi è sovente ritenuto il più insigne studioso di Shakespeare, il massimo poeta inglese, emblema della Gran Bretagna (non della Francia!) quanto e più della Corona in quanto tale. Un mite accademico al cospetto del Bardo inglese. Un’altra contraddizione: lo schivo studioso davanti al poeta che ha fornito l’insuperata lettura pubblica del teatro, come unità di misura del potere e luogo di lotta a quello stesso potere.

Tunisino è pure Sadri Khiari, il maggior oppositore del discusso intellettuale di riferimento del mondo arabo in Occidente, Tariq Ramadan.

Il seme della dialettica e della tensione che si unisce al dono della riflessività è espresso nella vicenda poetica e biografica dello scrittore nazionale per antonomasia, Abu l-Qasim al-Shabbi: erudito illuminato, morto a venticinque anni, precoce cantore del bisogno di una riforma antiautoritaria, sin dal periodo del protettorato francese. Ora emblema di orgoglio patrio, ieri lirico che stigmatizzava il suo popolo: additarne i vizi, incitarlo alla lotta. Parole attualissime nel loro incedere lacerante, poco meno di cent’anni dopo, nella Tunisia che freme contro il carovita e l’austerità, ma che prova a difendere il pluralismo costituzionale senza frantumare il fragile equilibrio raggiunto con controparti anche dichiaratamente ostili alla repubblica laica. Una sfida che riguarda noi tutti, non solo i poeti che passeggia

LA DIMENSIONE FILOSOFICA DEL MEDITERRANEO

di Fathi Triki

 

(Traduzione dell’articolo La dimension philosophique de la Méditerranée, pubblicato su Rue Descartes, 2014/2, n. 81)

Traduzione a cura degli studenti della classe IV L del Liceo Carducci di Roma e della classe IV M del Liceo Majorana di Guidonia

 

È per noi impossibile, in questo documento, dare un quadro esaustivo delle modalità di circolazione e di migrazione delle idee filosofiche nel Mediterraneo. Ciò, come sapete, richiede una ricerca fondata ed approfondita che questo intervento, per mancanza di tempo, non può assicurare. Proverò, in questo mio contributo, a mettere in rilievo alcuni punti cardine della dimensione filosofica del Mediterraneo.
Ma, innanzitutto, bisogna precisare che la mediterraneità non deve essere concepita come un’altra forma di identità cristallizzata, conseguenza di un approccio geopolitico del mondo. Niente giustifica l’uniformazione dell’appartenenza dei popoli di questa regione, come niente può cancellare le differenze, la straordinaria diversità delle culture e dei modi di vivere di questi popoli. Non bisogna immaginare neanche per un istante che la mediterraneità sia sinonimo di pace. Troppe guerre, troppi conflitti, molta xenofobia, esclusione, deportazioni che hanno imperversato e imperversano tuttora in questa regione in movimento. La mediterraneità è un atteggiamento intelligente che è capace di mettersi all’ascolto degli straordinari sconvolgimenti delle civiltà che hanno potuto attraversare questo mare. Atteggiamento volontario di lotta contro ogni chiusura, contro ogni forma di distruzione dei valori che hanno segnato questa regione.
Rispetto all’Atlantico, si è spesso affermato che il nostro mare è un lago quasi chiuso. Certo, ma è proprio questo che ha permesso una forte circolazione di idee e di oggetti, la creazione di diverse civiltà interattive, di comunicazioni di ogni genere come i dialoghi, i conflitti o le guerre.

Partirò da questa osservazione di Alexandre Koyré:
“La filosofia, o almeno la nostra filosofia, si ricollega in tutto alla filosofia greca, segue le linee tracciate dalla filosofia greca, si esprime attraverso gli atteggiamenti previsti da questa. I suoi problemi sono sempre quelli del sapere e dell’essere posti dai greci. È sempre l’ingiunzione delfica che dice a Socrate: “conosci te stesso”, in risposta alle domande: Che cosa sono? Dove sono? Vale a dire: Che cosa significa essere e che cos’è il mondo? Ed infine, io che cosa è ciò che faccio e cosa devo fare in questo mondo?[1]”.
E, a seconda dell’una o l’altra risposta che si dà a queste domande, a seconda dell’uno o l’altro atteggiamento che si adotta, si può essere platonico, o aristotelico o, ancora, plotiniano. A meno che non si sia già stoico. O scettico.

È chiaro che la filosofia è greca nel suo modo di essere e nel suo modo di funzionare. Questa referenzialità non deve essere presa come argomento in favore di una fissità dei problemi filosofici o di una qualsiasi perennità della sua posizione nei confronti dei grandi problemi che si pone l’umanità. Come Heidegger, Koyré insiste qui sulla grecità della problematizzazione filosofica in generale. Il luogo di nascita della filosofia si rivela di grande importanza poiché la presa di coscienza dell’essere dell’uomo, del suo topos e del suo modo di fare si riflette nell’azione filosofica stessa. La filosofia non è semplicemente una presa di coscienza; essa è la coscienza della coscienza stessa, è la consapevolezza che l’uomo ha della sua presa di coscienza e, in ciò, essa è l’apprendistato della libertà e della morte stessa. Il “conosci te stesso” è l’indice di questa riflessione della coscienza, l’indice del fatto che l’uomo ha deciso di farsi carico del mondo, del suo topos, del suo essere e del suo agire.
Noi sappiamo che questo luogo di nascita si è allargato rapidamente, inglobando tutta la Mediterraneità, questo mare compreso tra l’Europa, l’Asia e l’Africa e collegato all’Oceano Atlantico tramite lo stretto di Gibilterra. Attraverso numerose guerre, la straordinaria circolazione delle merci, i viaggi dei pensatori e dei cronisti, è venuto a crearsi, dopo la nascita della filosofia, un circuito di comunicazione, a volte pacifico, a volte violento tra le diverse entità culturali e religiose (le tre grandi religioni monoteiste). Certo, Atene resta la città che ha assistito, in un lasso di tempo relativamente breve, alla costituzione di opere culturali, di ideologie, di scienze e di teorie che, in maniera decisiva, hanno segnato tutta la storia dell’umanità. Ma questa luce greca ha potuto essere propagata universalmente soltanto grazie a questa straordinaria circolazione mediterranea, inizialmente permettendo la costituzione di scuole filosofiche a Sirte, Alessandria e Cartagine, in seguito universalizzando il pensiero filosofico attraverso l’intermediazione della filosofia araba, nel Medioevo.
Se l’antichità filosofica è greca, il Medioevo è arabo. Così scrive Koyré :
«Certamente, nell’epoca in questione, ovvero il Medioevo, l’Oriente – all’infuori di Bisanzio – non era più greco. Era arabo. Quindi sono gli Arabi che sono stati i maestri e gli educatori dell’Occidente latino[2]».
Infatti, Koyré constata che i Romani si interessavano solamente alle cose pratiche come l’agricoltura, la strategia della guerra, la politica, il diritto, l’architettura. Al contrario, essi non si preoccupavano affatto della riflessione filosofica e scientifica ad eccezione della morale che, senza dubbio, ha una portata pratica evidente. Scrive a questo proposito:
«È veramente sorprendente il fatto che i Romani non abbiano nemmeno provato il bisogno di procurarsi delle traduzioni di testi filosofici. Infatti, all’infuori di due o tre dialoghi tradotti da Cicerone (di cui il Timeo) – traduzione di cui quasi niente è giunto fino a noi -, né Platone, né Aristotele, né Euclide, né Archimede sono stati mai tradotti in latino”.
E aggiunge più avanti:
«Il mondo arabo si sente, e si proclama, erede e continuatore del mondo ellenistico. In ciò ha perfettamente ragione. In effetti, la brillante e ricca civiltà del Medioevo arabo – che non è un Medioevo ma piuttosto un Rinascimento – è, in tutta verità, continuatrice ed ereditiera della civiltà ellenistica. Ed è per questo motivo che ha potuto svolgere, nei confronti della barbarie latina, il proprio ruolo eminente di educatrice[3]».
Conosciamo il resto. La filosofia araba ha fondato “l’unità dell’intelletto”, conditio sine qua non di ogni pensiero dell’umano e dell’universale, dal momento che ora la verità è pensata come una per tutti e la ragione come comunicazione universale tra tutti gli uomini. La filosofia occidentale è figlia della filosofia araba, la quale è, a sua volta, figlia della filosofia greca. Che sia tramite la penisola iberica dove Ibn Roshd e Maïmonide erano maestri dell’Intelletto o tramite la Sicilia e l’Italia attuale, la fioritura della civiltà araba e islamica ha avuto come effetto la trasmissione all’Occidente latino di questa preoccupazione per l’universalità e l’unità dell’intelletto. Ibn Khaldoun constata questa trasmissione scrivendo:
«Ho appena appreso che le scienze filosofiche sono molto apprezzate nel paese di Roma e verso Nord, vicino ai paesi dei Franchi. Mi dicono che vengono nuovamente studiate ed insegnate in molti corsi. Ci saranno molti trattati su queste scienze, molte persone che potranno conoscerle e molti studenti che potranno impararle. Ma Dio sa più di me, perché “Egli crea ciò che vuole e sceglie ciò che è meglio[4]».
Il ciclo è così chiuso. La circolazione delle idee filosofiche riguarda ora tutto il Mediterraneo. Filosofia greca, filosofia araba, filosofia latina ed occidentale costituiscono il nucleo essenziale del corpus del percorso storico della filosofia.
Questa lettura della storia della filosofia non pretende affatto di essere “progressista” e cumulativa, cosa che lascerebbe intendere che dietro questi periodi ci sia un’evoluzione significativa e un progresso reale del pensiero umano. Essa vuole evidenziare, semplicemente, il fatto che la filosofia, nella sua circolazione mediterranea, sia sempre stata fondatrice, differente, creatrice. Legata costantemente alle “culture” diversificate del Mediterraneo, essa ha potuto pensare diversamente le cose ma sempre nel quadro di una razionalità greco-araba fondata sull’unità della verità e della ragione.
Se noi rinunciassimo alla concezione ingenuamente progressiva della filosofia secondo cui l’umanità si dirige dalle tenebre verso la luce e dalla pre-ragione alla ragione compiuta, sarebbe possibile riflettere su ciò che dà origine, in questo gigantesco continente di opere filosofiche, le rotture, gli scarti, le deviazioni, in poche parole, le differenze. Informare non è sottolineare le differenze? In questo caso, c’è un elemento di differenziazione che abbia sempre alimentato la filosofia mediterranea? Infatti, il pensiero filosofico ha sempre oscillato tra il chiuso e l’aperto, tra l’ affermazione dell’uno e del molteplice, tra l’ipseità e l’alterità. Abbiamo sempre sostenuto che la filosofia è nata libera, aperta ed itinerante. Ciò che chiamiamo “filosofia presocratica” (notiamo questa ingenuità di denominazione) è un pensiero dell’erranza. Liberatosi dal potere del mito e della religione, il filosofo di questa epoca si è armato di una «libera curiosità ostile alle immagini sacre dell’antropomorfismo mitico e desideroso di associare la solidità delle osservazioni[5]» allo sforzo di teorizzazione senza, tuttavia, cadere nella trappola della teoria compiuta delle religioni. “L’evento Socrate”, per utilizzare un’espressione di François Châtelet, ha avuto due conseguenze fondamentali: orientare questa erranza filosofica verso una gestione legale e morale dell’umano e dedicarsi alla “retta filosofia”, quella che mira a stabilire, con Platone ed Aristotele, l’essenza delle cose, il “Che cosa è?”, l’essere come tale.
È, a nostro avviso, questa seconda conseguenza che ha segnato il percorso filosofico che si è iscritto in un luogo chiuso, in un ambito specifico con il suo oggetto preciso, il suo potere interrogativo, il suo ordine proprio e un metodo appropriato. Era, in questo caso, più facile islamizzare la filosofia, giudaizzarla o cristianizzarla; era, allo stesso modo, facile per la filosofia interiorizzare i dogmi di queste religioni e sposare questa forma dogmatica del pensiero per proporre all’umanità dei sistemi chiusi, dei pensieri compiuti, delle dottrine architettonicamente costruite. San Tommaso, Cartesio, Malebranche, lo stesso Kant malgrado il suo criticismo, e Hegel, per citarne solamente alcuni, sono delle figure esemplari di questa filosofia dottrinaria e sistematica. Notiamo che più ci si allontana dal luogo di nascita e di sviluppo della filosofia, ossia il Mediterraneo, più si ha tendenza, tanto nella filosofia classica francese quanto nella filosofia tedesca, a sistematizzare questo pensiero. Certo, il luogo non spiega tutto. L’aperto è anche l’effetto dello scoppio del mondo chiuso perpetuato da un pensiero religioso e dottrinale che si riferisce ad un sistema aristotelico strutturato ed anche trasformato dal pensiero medievale. L’aperto è anche l’effetto del Rinascimento italiano in ciò che esso ha potuto liberare, come immaginazione e creazione, nelle arti, nella politica e nelle tecniche. È anche l’effetto dell’Illuminismo che ha dato vita ad un pensiero della libertà, della cittadinanza e della razionalità.  L’aperto è infine l’effetto dello sviluppo della circolazione degli oggetti e delle persone, conseguenza della rivoluzione industriale e tecnologica. Ma è importante segnalare che questa dialettica del chiuso e dell’aperto restituisce, attualmente, alla filosofia la sua vocazione originaria, quella di viaggiare, di errare, di vagabondare anche attraverso i molteplici problemi in cui l’uomo si imbatte nella sua quotidianità.
Desanti sottolinea del resto che:
«Hegel fu, senza dubbio, l’ultimo filosofo a essere seppellito nello stesso luogo in cui era nato. Solo, è bastato a scavare la terra natale che non aveva lasciato mai: questa terra (o questo cielo?) dove si articolavano le figure della Ragione e dove il pensatore immobile uguagliava l’infinita mobilità dell’Essere. Era ancora il tempo in cui, nel campo del concetto, nessun viaggiatore era sconosciuto. Chiunque lasciasse una traccia, matematico, giurista o poeta, tradiva il proprio marchio di origine e il legame che lo incatenava alla trama del discorso vero[6]».
Questo perché, contro l’imperium degli “ismi” e contro ogni egemonia delle dottrine totalitarie, bisogna fare l’elogio di questa filosofia attuale che abbiamo qualificato come aperta e la cui origine non è altro che la mediterraneità del pensiero.
È in questo quadro della filosofia aperta che possiamo comprendere una delle funzioni assegnate alla filosofia da Michel Foucault, funzione complessa ma che deve cessare di “legittimare”, attraverso i diversi metodi di insegnamento o di ricerca, ciò che già si sa, per re-interrogare le evidenze, i postulati, Sappiamo già come riesaminare le evidenze, i postulati, per scuotere le abitudini e rischiare di pensare altrimenti, abbandonare la verità per il più rude compito di “dire il vero”. In questo senso, la filosofia si afferma come pensiero libero, strategia e lotta per la vita e per l’uomo.
La filosofia, come abbiamo visto, è nata come saggezza, riflessione nomade il cui oggetto è indefinito, illimitato, senza frontiere né sistemi; essa è, oggi, presente nel suo stato di “vagabondaggio”, presente al richiamo della ragione, pronta a servire lo scienziato, il politico, l’ideologo, lo stratega, lo storico, l’artista, il poeta, ecc. I filosofi sono attualmente viaggiatori provenienti da diversi luoghi, ma come scrive Desanti ne La filosofia silenziosa:
«Viaggiatori fecondi, nei loro paesi maestri di verità, ambasciatori di cose lontane, non avevano condannato nessuno al silenzio. Avevano semplicemente ridisegnato il campo in cui si sarebbe potuta inscrivere la parola filosofica e dove il filosofo avrebbe potuto cercare di ritrovare un sottile filo di voce[7]».
Dunque, possiamo dire che l’attuale cammino filosofico distrugga, attraverso un ritorno genealogico ai fondamenti della filosofia, quindi un ritorno alla grecità, il solco della verità sistemica ed immutabile per rimpiazzarla attraverso questo desiderio sempre rinnovato di scoprire le verità, qualunque siano le conseguenze, e di denunciare il progetto esclusivo di universalità come è stato imposto dalla ragione classica.
Al limite si può affermare, seguendo Michel Serres, che il progetto di universalità di questa ragione classica che ha operato per riduzione, può essere considerato come «una proiezione nel razionale della situazione violenta del Maître e del Colonizzatore. L’insensibile, l’impensabile e l’incosciente sono (dice Serres) letteralmente, eretici, selvaggi, schiavi; l’età classica colonizza le terre vergini attraverso negazione, omicidio e terra bruciata… cacciava i demoni… bruciava le streghe, gli ebrei e qualche astronomo; reprimeva l’immaginazione, dominava il sogno, eliminava l’errore, rifiutava, in senso stretto, la cultura, le culture; mimava continuamente le orde dei bianchi, che, dall’altra parte del mare, trucidavano gli Incas, gli Aztechi e gli Algonchini[8]».
È per questo che solo la filosofia aperta fondata sul potere della critica e l’imperativo della libertà può nel suo continuo viaggio fare delle incursioni nella strategia delle nostre abitudini mentali, pensare ed agire, per esempio, sui problemi della donna, della libertà, della sessualità, delle minoranze, delle prigioni, dei diritti dell’uomo, della qualità della vita:  problemi acuti della nostra attualità.
In questo senso, la mediterraneità della filosofia si inscrive realmente nella sua erranza originaria quando, ad Atene, inventava il pensiero libero, la democrazia delle idee, la critica pubblica ed il dibattito. Allo stesso modo, si inscrive nella sua apertura attuale, quando, attraverso i continenti del sapere, naviga, non senza pericolo, sfidando i bastioni ed i muri che li dividono, per mettersi all’ascolto dell’oggi pensando, per esempio, all’improvviso manifestarsi delle verità, alla moltiplicazione delle tecniche, alla specificità e all’interferenza delle scienze, alla cittadinanza e ai problemi sociali, all’etica, alla guerra, alla sofferenza, alle deportazioni, ecc. problemi specifici che i differenti rami del sapere constatano ma che solamente la filosofia problematizza coi suoi concetti e la sua tecnicità.

[1] A. Koyré, Etudes d’histoire de la pensée scientifique, Editions Gallimard, Paris, 1973, p. 28

[2] Ivi, p. 26

[3] Ivi, p. 27

[4] Ibn Khaldoun, Discours sur l’histoire universelle, Editions Sindbad, Paris, 1978, t.3, p. 1049

[5] J. Bernhardt, La pensée présocratique, in La Philosophie paienne, Histoire de la philosophie de François Chatelet, Editions Hachette, Paris, 1972, p. 24

[6] J. Toussaint Desanti, La philosophie silencieuse, Editions du Seuil, Paris, 1975, p. 7

[7] Ibidem

[8] M. Serres, La communication, Editions de Minuit, Paris, 1978, p. 198

La “rivoluzione dell’Islam” inizia dalle donne

di
Gianfranco Macrì

Parlare della situazione femminile nei paesi di cultura islamica significa scoperchiare un vaso all’interno del quale è possibile trovare tutto e il suo contrario. Nel senso che, al di là di molte riforme costituzionali, e non solo (alcune delle quali pure significative dal punto di vista della predisposizione di cataloghi di diritti e dei necessari strumenti per renderli giustiziabili) – non ultimo quelle introdotte a cavallo della c.d. “Primavera araba” – la condizione delle donne presenta ancora molte ombre. La stessa nascita del Califfato (2014), che si prefigge di ridisegnare la geografia e gli assetti politici in tutto il Medio Oriente, non “trascura” affatto il ruolo delle donne (che siano le ragazze della minoranza yazidi, oppure quelle appartenenti ad altre minoranze, cristiana o ebraica, ma pure le stesse donne sunnite, poco importa), tant’è che l’ONU ha fin’ora documentato il sequestro da parte dell’Isis di migliaia di donne “assaltate e violentate”, oppure costrette a prostituirsi nei bordelli gestiti dalla brigata femminile al-Khansa, un reparto formato “soprattutto da donne di nazionalità francese e britannica” [ref]M. Molinari, Il Califfato del terrore. Perché lo Stato islamico minaccia l’Occidente, Milano, 2015, pp. 110 ss.[/ref].

Di recente, ha fatto discutere la vicenda accaduta alla poetessa e giornalista libanese Joumana Haddad, notoriamente atea e laica, la quale, invitata in Bahrein a leggere le sue poesie, è stata presa di mira da parte di alcuni gruppi islamisti al grido di: “Nel Bahrein non sono benvenuti gli atei”, e dallo Sciecco Jalal al-Sharki che, durante un sermone del venerdì, la avrebbe minacciata di morte. Da qui l’impedimento ad entrare nel Paese, ordinato dal primo ministro Khalifa bin Salman Al Khalifa [ref]http://27esimaora.corriere.it/author/joumana-haddad/[/ref].

Quella delle donne che in diversi paesi musulmani si battono, come appunto Joumana Haddad, per l’uguaglianza tra uomo e donna, per la libertà sessuale, di parola, contro le discriminazioni di genere, l’omofobia etc., costituisce una questione non adeguatamente approfondita in occidente – attento più che altro a discutere di islam e democrazia, di equilibri geopolitici, di politiche per il contenimento delle migrazioni clandestine, di luoghi di culto (e poco di libertà religiosa) – e che invece, in alcuni paesi come Marocco, Tunisia, Algeria, risulta centrale nel dibattito pubblico animato da tante organizzazioni femminili (o femministe), grazie pure al ruolo di spicco di molte scrittrici, poetesse, giornaliste, agitatrici politiche. Appare allora utile svolgere alcune considerazioni su questo argomento, prediligendo gli aspetti giuridici (e le sue ricadute sociali) che la materia riveste.

Iniziamo col dire che la questione femminile interna all’Islam e ai paesi di cultura islamica, rappresenta da tempo un sistema complesso di materiali la cui narrazione – nella sua trasformazione temporale e tenuto conto delle variegate e complesse rappresentazioni e interpretazioni offerte dalle donne musulmane – occupa uno spazio meritevole della massima attenzione.

A chi studia i rapporti tra diritto, politica e fattore religioso, sono ben note le tante figure femminili da tempo impegnate su questo “fronte”, intendo dire: della puntuale urgenza a svelare una realtà complessa, come quella islamica, troppo sbrigativamente (e, a volte, colpevolmente) data per immobile, sia sotto il profilo “normativo” [ref]tenuto conto della “centralità” che il «teo-diritto» occupa all’interno di questa; cfr. S. Ferrari, Tra geo-diritti e teo-diritti. Riflessioni sulle religioni come centri transnazionali di identità , in «Quaderni di diritto e politica ecclesiastica», 1, 2007, pp. 2-14[/ref] sia della collocazione e del ruolo, appunto, che la donna vi occupa [ref]utile risulta la lettura del saggio di R. Pepicelli, Femminismo islamico. Corano, diritti, riforme, Carocci, Roma, 2010, che aiuta a dipanare le ombre che sul discorso ancora si addensano[/ref].

Si tratta di una tematica ricca di fascino, interessante per i suoi risvolti ermeneutici, e che consente di cogliere – e dunque “mettere in forma” – l’intera procedura discorsiva che l’attivismo di molte e variegate organizzazioni femminili hanno dispiegato e continuano a dispiegare nei diversi contesti pubblici, al fine di persuadere (soprattutto) quella ampia fetta di opinione pubblica occidentale (studiosi, gente comune, politici, etc.) incredula circa la capacità di giungere ad sovvertimento delle «narrazioni patriarcali sul ruolo della donna nell’Islam».

Ha preso così corpo una sensibilità, ancora tutta da consolidare e “orientare” all’interno di un discorso «interculturale» – basato sulla capacità-forza della tradizione dei diritti fondamentali di integrare le identità culturali come tali e vocato al bene comune della società pluralistica [ref]M. Ricca, Oltre Babele. Codici per una democrazia interculturale, Dedalo, Bari, 2008[/ref] – in grado di far comprendere (sia in ambito islamico che non islamico) che la donna può essere vista come il guardiano di una identità musulmana “profanata” da una ermeneutica coranica misogina e arcaica, divenuta dominante nel corso dei secoli e che invece i tanti movimenti femminili sono impegnati a proporre come aperta al negoziato, dialogante a livello sociale e, soprattutto, diretta a riprodurre nuove interpretazioni dei testi sacri.

L’azione intrapresa parte dal profondo del Corano e fa leva sulle “ammorsature” polisemiche presenti in esso, in grado di tenere ancorato, appunto, il “Testo al contesto”, la Tradizione, come «riappropriazione della memoria» (secondo l’approccio di Fatema Mernissi), alla realtà sociale vigente, in funzione della necessaria conciliabilità tra istanze di uguaglianza e religione.

Il tramite discorsivo possono essere una serie di casi oggetto di interpretazioni diverse: la questione del velo, il problema della separazione delle donne dagli uomini nei luoghi di preghiera (la moschea), la vexata questio della poligamia, la semplice recita di poesie in un qualsiasi spazio pubblico (come nel caso della nostra poetessa), etc. Ebbene, la re-interpretazione di questi ambiti importanti del diritto islamico (e non solo) ha rappresentato – a partire da quando l’azione dei movimenti femminili si è diffusa «sempre più capillarmente a livello geografico, culturale e politico», riaprendo la c.d. “porta dell’ijtihad” – uno dei contributi più significativi delle battaglie finalizzate al cambiamento, all’educazione e all’affermazione di una nuova «giustizia di genere». Si tratta, concretamente, di una lotta intrapresa da molte femministe islamiche contro leggi e istituti assolutamente patriarcali, da cui deriverebbe l’affermazione di una “Tradizione ufficiale”, valida per tutti e derivante da un’esegesi prodotta da una ristretta èlite di interpreti autolegittimatasi a parlare in nome dell’Islam contro l’affermazione dei diritti delle donne in chiave islamica.

Una lotta, dunque, intrapresa in nome di un’«altra Tradizione», di una nuova ermeneutica coranica, impegnata a leggere alla luce della realtà del XXI secolo il messaggio di liberazione insito nell’Islam delle origini, un messaggio [è stato scritto] «che è già nel Corano e nella storia della prima comunità di musulmani» [ref]Renata Pepicelli, Femminismo islamico, op. cit.[/ref].

Questo riferirsi, da parte delle donne musulmane, al Corano per sostenere i loro diritti, non deve assolutamente stupire l’osservatore occidentale, in quanto ci troviamo all’interno di contesti (quelli di cultura islamica) dove non si è venuta affermando una filosofia dei diritti umani che considera Dio “indifferente” all’organizzazione politica della società; al contrario, dove più dove meno, si registra il carattere irrecusabile e indiscutibile della trascendenza divina.

Ciò non ha tuttavia impedito a questa complessa e variegata «militanza femminista» di produrre in alcuni ambienti statuali riforme molto interessanti e significative nell’ordine dell’emancipazione femminile all’interno di società fortemente condizionate dalle scelte degli uomini. Un esempio paradigmatico è rappresentato dalla riforma, introdotta nel 2004 in Marocco, della Mudawwana, il Codice della famiglia, che, grazie all’attivismo di base e alla produzione esegetica di studiose come Mernissi e Lamrabet, ha profondamente innovato la disciplina della metà del 1957-1958, innovando in materia di uguaglianza e corresponsabilità tra coniugi, di limiti alla poligamia, in tema di divorzio. Il Codice è stato considerato a livello nazionale e internazionale un grande successo, tant’è che molte femministe di altri paesi lo stanno studiando per trovare spunti su come riformare le proprie leggi nel rispetto della religione.

Ci troviamo, allora, di fronte ad un «processo di transizione», che attraversa e va oltre la stessa “Primavera araba” [ref]C. Sbailò, Diritto pubblico dell’Islam mediterraneo. Linee evolutive degli ordinamenti nordafricani contemporanei: marocco, Algeria, Tunisia, Libia, Egitto, Padova, 2015[/ref]. Tra mille contrasti, violenze, disperazione, si intravedono, in diversi contesti islamici, i segni dell’erosione di «ordini antichi» che però non sia sa quando soccomberanno e, soprattutto, “come” e cosa andrà ad instaurarsi al loro posto. Certamente tutto ciò avrà delle ricadute importanti sull’elemento giuridico che, pur non avendo nel mondo islamico una specificità propria, resta la posta in gioco principale nelle politiche sociali e culturali, mantenendo, innegabilmente, un ruolo privilegiato per la sua capacità di plasmare e ordinare la realtà.