Tag Archivio per: utopia

Riposta alla risposta di Giorgio Cesarale al mio Illuminismo su «Astérisque»

Può darsi che nel mio scritto sull’Illuminismo vi sia qualche frettolosità e qualche semplificazione circa il punto che Giorgio Cesarale – nel Commento al mio articolo Illuminismo, «Astérisque», I 1, pp. 27-38, 39-46 – più mi rimprovera: la mia polemica contro l’idea di totalità, dell’intero e le sue conseguenze. Intanto sgombererei il campo dalla previa connessione della totalità con il misticismo. Non che il nesso non vi sia, ma il mistico si dice in molti modi, alcuni dei quali sembrano persino inseparabili dal filosofare e dalla comune esperienza. Se affermo che sono e mi sento parte di un più vasto organismo, al limite dell’intero genere umano, che condiziona il mio modo di pensare e a cui interamente mi rimetto, non si vede perché questa posizione dovrebbe essere censurata. Semmai il problema nasce qui dall’interno, quando hegelianamente comincia a presentarsi nella storia un’individualità che, al modo di Antigone, esorbiti, mettendola in crisi, da una comunità fino ad allora «totalitaria». Ma questo apre, come si vede, un altro problema: dove mai lo holon sociale potrebbe essere detto senza l’interna determinazione delle soggettività? La totalità dovrebbe essere allora costituita dall’insieme, dai singoli e dalle loro relazioni. Solo che in questo modo ci incamminiamo lungo una totalità composta di parti che nell’atto stesso nega ciò che qui c’interessa: un insieme che riduca a sé tutte le interne determinazioni e differenze, dove le soggettività e le «cose» non oppongano nessuna resistenza al loro assorbimento nel tutto, nessun ostacolo all’immane potenza unificante dell’intero. Parmenide esplicitamente esclude che l’intero dello sfero possa mai esser composto di parti, ciò che implicherebbe anzitutto la discontinuità di spazio e di tempo, la presenza di determinazioni. Ma, di contro, ogni volta che una determinazione e una differenza trovano posto, che il pensare-dire sia agito dal tronco aristotelico, nominando alcunchè è negata la forza esclusiva dell’intero, la totalità come reale dominio della conoscenza. Possiamo per queste ragioni tralasciare ora una piena presa d’atto del problema del misticismo, che o è un altro modo di dire la totalità o si risolve in vario modo nell’esperienza comune del gioco tra un intero e le sue parti.

         Ma venendo ora propriamente alla «totalità», si può dire tanto che è una costante tensione, in certo modo ineliminabile dal pensiero, tanto che è un «luogo» dove il pensiero rischia di perdersi interamente, trovando un’annihilatio proprio al termine delle sue più alte prestazioni, una riconduzione a quell’oscurità da cui ci si è faticosamente distaccati. Ora, perché l’intero è legato a quelle determinazioni che pur fondano l’essenza del pensare? Un primo motivo, vien fatto di dire, è che le stesse determinazioni, nonché imporre la loro presenza, vengono, in una prospettiva dualistica, «costruite» o guadagnate, separate dalla (costruita) «totalità» che in qualche modo pur ci costituisce, attraverso le relazioni e le scissioni che affettano, a cominciare dalla corporeità e dall’affettività, la nostra soggettività. Il puro pensare deve, fino a un certo punto, liberarsi da questo peso dell’intero, non al punto però da non ritrovare nel suo cammino l’esigenza e la periodica verifica, anzitutto, di quell’insieme di mente-corpo, di cui si può fare epochè ai fini del pensare (fino a un certo punto, ripetiamo), ma che non si può mai presumere di vanificare del tutto. Anche le più trite e discutibili definizioni dell’uomo come zoon politicon, animal sociale et politicum esprimono a loro modo un «insieme», la cui traccia non si può mai lasciar cadere. Per questo aspetto dunque si deve dire che «l’intero» ci abita e che con esso, dentro di esso, lavoriamo, depurandolo e isolandolo per raggiungere la distinta chiarezza (quasi un innesto di Freud in Cartesio) delle determinazioni. Ci sono infinite cose nell’uomo e nell’atto del pensare che, oscuramente giacenti sempre al fondo dei nostri pensieri, possono talvolta ricomparire con forza all’interno e dentro la semplice e netta riflessione, una «totalità» che va ogni volta controllata e dominata, e semmai fatta giocare con la parzialità e la finitezza.

      Dal lato della conoscenza, a parte obiecti, la totalità si presenta per il fatto che la determinazione, come pensare-agire, sposta sempre in avanti il suo limite, quasi un orizzonte che appena raggiunto presenta subito, in un mondo sferico, un’ulteriore meta. Il senso dell’oltre, la dimensione umana che è al tempo stesso, come in Ulisse, segnata dalla fondamentale finitezza, ma anche dall’apertura all’infinita «totalità», fa sì che la tensione all’intero, mai del tutto debellabile, e anzi essendo anche produttiva, deve essere ricondotta e ricomposta ogni volta dalle ragioni del finito, dall’imprescindibile orizzonte di ogni conoscenza. Se  mai l’idea della totalità si attuasse per intero, prendendo corpo e dominio, risolverebbe in sé, dissolvendola, ogni soggettività, ogni pensiero e ogni teoria critica; ma al tempo stesso una «totalità» parziale, ristretta (e capricciosa), per servirsi di questi ossimori, sembra sempre aggirarsi, certo per essere fondamentalmente dominata, nelle nostre esperienze, ma anche talvolta per far da lievito, una volta ricondotta alla dimensione del finito, alle nostre più alte e significative pratiche. Lo sforzo della determinazione comporta anche costi, persino alti, di introspettiva autolimitazione, di sacrificio, sebbene ineliminabile perché si dia la sua produttività.

      Diverso è il caso di quanti problemi una determinazione abbracci, e nel tempo, o fin dove s’estenda la sua rete. Qui vi è certo differenza tra le determinazioni, a volte circoscritte e a volta di larga portata, intensive ed extensive. Non si vorrà negare questa differenza, né l’invito a non abbandonare il terreno dei grandi problemi o, come si dice con qualche sdegno delle grandi «narrazioni», per affidarsi solo a quei piccoli interventi che popperianamente si dicevano «a spizzico», o   alla «metafisica del potere», alle lotte sempre «circoscritte e locali» di Foucault, dopo l’abbandono, stimato necessario, dei «progetti globali e radicali». Ché altrimenti – come giustamente osserva Giorgio Cesarale – rinunciando a ogni più ambiziosa tensione critica, ci lasceremmo «determinare da strutture più generali di cui rischiamo di non avere né la consapevolezza, né la padronanza». Ma allora il caso consiste veramente nell’affrontare e riformulare la problematica drammaticamente difficile della totalità». proprio in questo caso si deve badare, come più facile deviazione, che i problemi più larghi e comprensivi slittino, proprio per questo, in un non ammissibile esito di «totalità».

S’innesta proprio qui, intorno alla discussione sul «difficile problema della totalità» la recensione-discussione di Giorgio Cesarale al mio articolo, fatto di apprezzamenti e critiche. Di ciò dirò solo poche parole, sia perché ognuno può leggerlo e giudicarlo da sé, sia perché la discussione sarebbe piuttosto tecnica e complessa, sia infine perché dovrebbe avvenire in absentia di Giorgio. In breve, la parte in cui siamo discordanti, come si legge nella conclusione dell’intervento di Giorgio, riguarda l’inizio del nostro filosofare, il «cominciamento» della stessa filosofia o scienza, come accade in apertura della grande Logica di Hegel. Giorgio ritiene che la filosofia giunga a verità e forza critica solo quando cominci e si mantenga nell’orizzonte dell’assoluto. Questo vuol dire che dalla filosofia debba essere esclusa ogni considerazione empirica o pragmatica, come sarebbe la dualità di essere e pensare, di io e mondo; e ciò potrebbe avvenire, come nel radicale idealismo della filosofia classica tedesca, solo se è il pensiero che pone a sé il suo stesso oggetto, scoprendosi non si sa come «essere» o anche «creatore del mondo», in concorrenza col Dio specificamente cristiano, non demiurgo ma creator ex nihilo. Questa identità parmenidea tra pensare ed essere, noein kai einai, dovrebbe ritrovare al suo interno (dedurre/causare) determinazioni e differenze, l’intera ricchezza del mondo, pur in una totalità priva di condizioni e con risultati che appaiono sempre «posti». Da parte mia ritengo invece che la filosofia può e debba nascere, più o meno in senso kantiano, solo dall’empirico e dal finito, da un dualismo originario, seppur subito rinvenibile nelle attività stesse del soggetto. Il risultato di questo così diverso inizio del filosofare è sconcertante, perché entrambi ci rimproveriamo, da due angoli diversi, la stessa cosa. Io dico che una prospettiva come quella di Giorgio che muova da una totalità che attraverso la totalità pervenga alla totalità non riuscirà mai a incontrare ed elaborare determinazioni e vita «reale»; Giorgio a sua volta mi rimprovera che sono io a non incontrare mai reali determinazioni, perché, essendo la mia prospettiva interamente empirica, le pretese determinazioni, innovazioni e differenze ripeterebbero – ma allora facendo intervenire il non congruente uso del trascendentale – senza alcuna consistenza, sempre e all’infinito, una sostanziale identità. Ora questa «bizzaria» non è suscettibile di ulteriori svolgimenti: monismo ontologico e dualismo sono entrambi presupposti infondati e infondabili, privi di dimostrazione. Forse – è la mia convinzione – è meglio abbandonare del tutto questo terreno di «filosofia prima», occupandoci di illuminismo militante e della mondana «filosofia» che esso di volta in volta genera.

Servirsi di un kantiano «pensare largo», ma al tempo stesso non rinunciando alla forza che proprio le determinazioni conferiscono alla nostra azione teorica e pratica, è il grande compito che la riflessione (in senso kantiano) deve oggi affrontare, cercando di ricondurre a ciò anche imponenti filosofie che abbiano passato questo segno. E poiché sono stato contrapposto al più forte pensiero di Foucault – un autore verso cui nutro qualche diffidenza, ma di cui si dovrebbe tornare a discutere, non fosse altro per la profluvie di scritti e discorsi che gli archivi continuano a sfornare ma anche per la sua complessa (e riduttiva) posizione verso la «filosofia politica», magari riprendendo quel confronto con Hanna Arendt cui da tempo è stato spesso associato, per similitudine o pur solo per differentiam – vorrei finire questa breve analisi con una citazione foucaultiana, con cui sono interamente d’accordo, tratta dalla conclusione di Il coraggio della verità:

«ma ciò su cui vorrei insistere, per finire, è questo: non vi è instaurazione della verità senza una posizione essenziale dell’alterità; la verità non è mai il medesimo; non può esserci verità che nella forma dell’altro mondo e della vita altra».

2)  Su dualismo e assolutismo della totalità come posizioni ultime, non fondabili

La mia discussione con Giorgio potrebbe esser detta ‘Filosofia e illuminismo’. L’I ha bisogno della filosofia? Sì, anzitutto come determinazione di un ambito, sia pur impegnativo, di storicizzazione e concettualizzazione delle singole posizioni illuministiche nell’ambito dell’I stesso, nella vicenda più  larga dell’intero I, ma senza trascendere i confini dei prodotti culturali dei fenomeni detti illuministici. Esempio insuperato di ciò resta forse la Filosofia dell’illuminismo di E. Cassirer, che si occupa di due secoli quasi pieni, il ‘600 e il ‘700, come sfondo dei temi illuministici. Chiamerò ciò Illuminismo-Filosofia (IF), che riguarda la sola filosofia richiesta dall’I. C’è poi un più vasto regno della filosofia, che potrebbe, in ipotesi, mettere a tema e smentire, al di là della storia, gli stessi risultati dell’IF. Non si può dunque abbandonare questo piano più largo sui fondamenti e le intere pretese suscitate da ciò che dirò Filosofia-Illuminismo (FI). Il problema è qui allora di capire quale filosofia possa essere omogenea alla FI e quale invece finisce per negare la stessa IF.

Qui, propriamente, nasce il dissidio tra me e GC. Se io cerco di tracciare alcuni punti di questo retroterra filosofico della FI, GC. mi sembra volto subito a far riferimento a una filosofia molto forte, qual è quella che riguarda l’assoluta totalità, che ha l’illuminismo come un sottoprodotto di cui si può parlare solo in quanto la FI ha trovato posto nell’ambito dell’intero, dell’hegeliano «ganz». Una deduzione e un compito che, mi pare di capire, ancora non hanno avuto adeguato sviluppo filosofico perché sembra che l’I possa rinascere solo quando i problemi come quello della totalità siano avviati a soluzione.

    Ho detto sopra che a parer mio iniziare (e sviluppare) la filosofia dal punto di vista dell’assoluta totalità o dalla finitezza «dualistica» non è di per sé produttivo, in quanto questi due cominciamenti sono altresì la colonne d’Ercole del filosofare, ossia che essi sono né fondati, né fondabili. Tuttavia è anche necessario che – prima di abbandonare il campo per passare, eventualmente, all’I militante – si tenga conto di un’ultima considerazione, riguardante non tanto la cosa in sé quanto piuttosto i suoi fruitori. Se la discussione si articola intorno al concetto di totalità, abbiamo a che fare con un concetto così forte da ridurre a sé ogni altra questione.

Mi preme qui richiamare come l’orizzonte della totalità attiri a sé anche a parte subiecti, vale a dire che la stessa argomentazione è ricondotta al suo tema, essendo anch’essa composta di «proposizioni assolute». Anche saltando qui il problema del pensare-dire, non evitabile nemmeno aristotelicamente, resta che il discorso sulla totalità deve essere sorretto dal concetto di assolutezza, e ciò suppone che, non essendoci più totalità, unica sia la forma e il contenuto della sussunzione, esibizione (anche qui non dimostrazione) e della sua argomentazione, sorrette da una sorta di «pensiero unico».

Dalla mia prospettiva di pensiero finito e «dualistico» le cose stanno diversamente, nel senso che si danno (e si mantengono) reali possibilità di lavorare quelle che ho chiamate «determinazioni» e «differenze», senza divieti da parte della filosofia.  Per quello che ora ci riguarda, vi sarà in questa prospettiva una pluralità di possibili opzioni filosofiche, una diversità ad esempio delle concezioni circa il bene, senza quella sorta di «ricatto» che il pensiero della totalità fatalmente esercita verso gli interlocutori, forzati ad accettare tutti lo stesso pensiero ché la totalità conoscerebbe solo se stessa. C’è per la verità la tradizionale risposta a ciò della filosofia, quando distingue episteme e doxa; ma il problema è qui come possono stare insieme queste due forme, dallo statuto così diverso, con difficoltà che riguardano lo stesso tentativo di pensare anche una recta ratio (orthos logos).  Le colonne d’Ercole s’incontrano solo quando il pensare finito e «dualistico», tenta di trasporre in termini «fondanti», ontologici e metafisici, questo stesso orizzonte finito e duale, quando si ponga la durezza della «cosa in sé». Non traggo ora la necessaria conseguenza per cui come la posizione della «totalità» è incompatibile con ogni forma di empirico illuminismo, così, parimenti, la democrazia che almeno abbia qualche consistenza e consapevolezza di sé non è pensabile in questa tensione all’assoluto.  Ma prima di ciò, la posizione che parte dal finito lascia a tutti la liberale e goethiana facoltà di pensare i condizionati e i plurali modi dell’illuminismo.

 

 

Prolegomeni a un capitalismo francescano.

DI Fabio Vighi (Università di Cardiff)

1. Mitologie del Male
La conjuration des imbéciles è il titolo di un breve scritto di Jean Baudrillard pubblicato su Libération il 7 maggio 1997 [ref]https://www.liberation.fr/tribune/1997/05/07/opposer-a-le-pen-la-vituperation-morale-c-est-lui-laisser-le-privilege-de-l-insolence-la-conjuration_206413, traduzione dell’autore (qui e seguenti)[/ref]. Prendendo spunto dal successo politico conseguito in quegli anni da Le Pen padre, Baudrillard si scaglia contro il moralismo conformistico della sinistra, che vede legato a doppio filo all’ascesa del Front National. Due domande di quello scritto colpiscono al cuore del nostro presente: ‘È possibile oggi proferire anche solo qualcosa d’insolito, d’insolente, di eterodosso o paradossale senza essere automaticamente etichettati di estrema destra? […] Perché tutto ciò che è morale, conforme e conformista, e che era tradizionalmente di destra, è passato oggi a sinistra?’ Baudrillard sostiene che la sinistra, ‘spogliandosi di ogni energia politica’, si è trasformata in ‘una pura giurisdizione morale, incarnazione di valori universali, paladina del regno della Virtù e custode dei valori museali del Bene e del Vero, una giurisdizione che vuole responsabilizzare tutti senza dover rispondere a nessuno.’ In tale contesto, ‘l’energia politica repressa si cristallizza necessariamente altrove – nel campo nemico. E così la sinistra, incarnando il regno della Virtù, che è anche il regno della più grande ipocrisia, non può che alimentare il Male.’

La tesi di Baudrillard può essere utile a tastare il polso di un’epoca, la nostra, che ha sviluppato una vera e propria ossessione ideologica per il Male. Questo perché la mitopoietica del Male serve oggi a consolidare l’illusione della fondatezza morale del capitalismo globalizzato. Tale illusione è sempre più necessaria, poiché un sistema globale lastricato di valore e prossimo alla saturazione non può reggersi su sé stesso. Più la globalizzazione capitalista si ostina a liquidare chiunque non si adegui alle sue leggi, più tende all’implosione; e più diventa ostaggio di una logica perversa la cui regola madre è la costruzione del fantasma ideologico del nemico sanguinario.

Oggi il bubbone del Male emerge, per esempio, nella forma di un’oscena plebaglia populista, sovranista e fascistoide, quel ‘basket of deplorables’ (Hillary Clinton) che ammorba il nostro altrimenti sorridente villaggio globale, e che tutti noi “amiamo odiare”. A questa feccia si oppongono in massa le forze liberali e moderate del pianeta, che giustificano le loro battaglie attingendo a piene mani dall’inesauribile repertorio narrativo della favolistica (incluso quella hollywoodiana), in cui il Bene, appunto, lotta e infine trionfa contro il Male. La crociata umanitaria dei moralizzatori è talmente sentita da far loro dimenticare, però, che l’umanità per cui si battono è già stata massacrata, depredata, e nel migliore dei casi svenduta al miglior offerente proprio dai cavalieri dell’apocalisse liberale.

C’è una frase di Baudrillard che fotografa perfettamente l’ipocrisia cui faccio riferimento: ‘Le Pen viene criticato perché rifiuta e esclude gli immigrati, ma questo è nulla rispetto ai processi di esclusione sociale che avvengono dappertutto.’ Perché limitarsi a combattere il becero razzismo di chi respinge gli immigrati, quando la discriminazione sociale è ovunque, nelle forme dell’esclusione, della ghettizzazione, dello sfruttamento (semi-)schiavistico, della violenza e della guerra? Perché ostinarsi a vedere solo il muro sovranista, quando la globalizzazione stessa coincide con soprusi e divisioni sempre più laceranti? Forse la risposta è più semplice di quanto possa sembrare: puntare il dito contro il cattivo di turno ci protegge dalla nostra intima collusione con un sistema profondamente iniquo; ci protegge da quel razzismo strisciante, virale, codificato nel DNA delle democrazie liberali, su cui si fondano le nostre sacre identità e i nostri sacri privilegi. Come egregiamente dimostrato da Domenico Losurdo, le conquiste civili del mondo liberale si sono affermate in stretta simbiosi con le moderne tragedie della schiavitù, della deportazione, e del genocidio[ref]Domenico Losurdo, Controstoria del liberalismo (Roma-Bari: Laterza, 2005)[/ref]. Queste tragedie, se solo vogliamo vederle, si ripetono quotidianamente nel progetto neoliberista. Il paradosso che guida i virtuosismi moralistici della “buona politica”, promotrice di un capitalismo imperialista “dal volto umano (sebbene ora mascherato)”, era stato perfettamente compreso da Baudrillard:

‘Se Le Pen non esistesse, bisognerebbe inventarlo. È lui che ci libera dal lato malvagio di noi stessi, dalla quintessenza di tutto ciò che è peggio in noi. Per questo gli lanciamo un anatema. Ma guai a noi se lui scomparisse, perché la sua scomparsa scatenerebbe i nostri virus razzisti, sessisti e nazionalisti (li abbiamo tutti) o, semplicemente, la negatività omicida dell’essere sociale.’

E infatti Jean-Marie Le Pen non è scomparso; è stato semplicemente clonato in un variopinto carosello di mostri e mostriciattoli dati in pasto all’opinione pubblica per legittimare processi di distruzione socio-economica che spingono milioni di esseri umani nella miseria, nella disperazione, e nella lotta fratricida per la sopravvivenza. Ciò significa che la devastazione neoliberista si auto-sostiene non solo attraverso quella che Goethe chiamò ‘ignoranza attiva’, ma soprattutto grazie a un ipocrita dettato moralistico che immunizza chi lo promuove. Non essendo più in grado di generare alcun progresso, e non potendo più coalizzarsi contro il demone comunista, la nostra civiltà omologata e devitalizzata fa leva sul Male, cercando disperatamente di autoimmunizzarsi.

Riprendendo il tema centrale della filosofia di Roberto Esposito, diremmo che l’odierna ossessione per i vaccini debba essere letta, oltre che in chiave farmaceutico-speculativa, anche come metafora immunologica: il meccanismo della vaccinazione descrive perfettamente il funzionamento di un potere globale che si inocula agenti patogeni (immorali e antidemocratici) per stimolare la produzione di presunti anticorpi (“morali” e “democratici”). Da Le Pen a Trump, dalle armi di distruzione di massa di Saddam Hussein al terrorismo islamico, fino al “programma nucleare” dell’Iran e alla narrazione pandemica del COVID-19, abbiamo di fronte una lunga serie di operazioni immunologiche attraverso cui si tenta di avallare un modello socio-economico palesemente (auto)distruttivo scaricandone la follia omicida sul malvagio di turno. Per questo motivo il potere è sempre più drogato di emergenzialismo.

In breve, il mondo governato dalla violenza del capitalismo senile ama lavarsi la cattiva coscienza attraverso un perverso ma consolidato meccanismo catartico: difendere l’umanità dal proprio Male, messo in scena, però, nel teatro delle crudeltà altrui. Come per il colonnello Kurtz di Apocalypse Now, l’escrescenza del Male è prodotta dal Bene, e dev’essere eliminata affinché questa ingombrante verità non venga a galla. Qui vale sempre l’immortale ammonimento di Max Horkheimer, che in piena seconda guerra mondiale scrisse: ‘Chi non vuole parlare di capitalismo non deve parlare nemmeno di fascismo. […] L’ordine totalitario non è altro che l’ordine precedente senza i suoi freni. […] Oggi combattere il fascismo richiamandosi al pensiero liberale significa appellarsi all’istanza attraverso cui il fascismo ha vinto[ref]Max Horkheimer, Gli ebrei e l’Europa, in Crisi della ragione e trasformazione dello Stato (Roma: Savelli, 1978), p. 55.[/ref]’

E invece ci hanno persuaso che Donald Trump, novello Kurtz, è personalmente responsabile di tutti gli orrori della terra, dalla schiavitù da cui sono nati gli Stati Uniti d’America all’ultimo “apocalittico” virus. E non importa se l’impero del Bene è colpevole dello stesso Male che attribuisce all’altro. Non importa se parliamo di due facce della stessa medaglia, poliziotto buono e poliziotto cattivo. In fondo, importa solo che il lato soft dell’intelligenza liberal non venga troppo disturbato, perché l’obiettivo è stare dalla parte giusta del Bene, dalla parte giusta dell’universalismo dei diritti (e delle sue bombe), ovvero dalla parte giusta dell’imperialismo turbo-capitalista.

L’ultima folle speranza di un modello socio-economico in lenta decomposizione qual è il nostro è affidarsi a una strategia proiettiva, per cui il tumore di sistema viene trasferito nelle intenzioni di truci soperchiatori. Una società che, nelle parole di Baudrillard, ‘sta morendo di inerzia e immunodeficienza’, ha terribilmente bisogno di ‘doppi negativi’, ovvero di una spettacolare proiezione esterna della propria cinica mediocrità. Ha bisogno cioè di una ‘figurazione burlesca, allucinatoria di questo stato latente, di questa silenziosa inerzia composta in egual misura da integrazione forzata ed esclusione sistematica.’ A proposito del lato burlesco del Male, Silvio Berlusconi è stato lo specchio deformante di un intero sistema sociale anemico e decadente, politicamente esaurito e impotente. Questo sistema aveva necessità di proiettare il proprio Vuoto su una grottesca maschera caricaturale da Commedia dell’Arte che, amplificando magnificamente quel Vuoto, potesse legittimare false o effimere opposizioni. Così il Cavaliere ha permesso ai media liberali, ai politici progressisti e alle moltitudini allo sbando di sprezzarlo pur apprezzandolo, di deriderlo pur imitandolo, di diffamarlo pur abbracciandolo, ottenendo infine dalla sua destituzione (per mano europea) l’agognata immunità morale, da rinnovarsi con l’arrivo del successivo “deplorabile”. Nella formula di Baudrillard: se non ci fossero, bisognerebbe inventarli.

2. Verso un capitalismo filantropico-francescano
Allo stesso tempo, però, i paladini del Bene tessono la tela di un futuro resettato, che amano definire più giusto, più sicuro, più resiliente, e ovviamente ammantato di energia green per tutti. Basta lanciare un’occhiata alle pagine del WEF (World Economic Forum) – che ogni anno, com’è noto, si riunisce nella bidonville svizzera di Davos – per capire ciò che ci attende: un mix micidiale di ‘economia delle piattaforme in grado di aprire la strada del benessere a miliardi di lavoratori’ (schiavizzati?)[ref]https://www.weforum.org/agenda/2020/11/digitalization-platform-economy-covid-recovery/[/ref], e ‘l’impegno di attivisti aziendali [corporate activists, sic!] capace di affrontare tutte le sfide del nostro tempo, dal cambiamento climatico alle discriminazioni sociali e razziali’, grazie al motto dal sapore decisamente francescano di: ‘Credi in qualcosa, anche se significa sacrificare tutto’ (milioni di vite umane?)[ref]https://www.weforum.org/agenda/2020/11/the-world-needs-corporate-activists-with-these-5-steps-you-can-become-one/[/ref] .

‘Benvenuti nel 2030. Non possiedo nulla, non ho privacy, e la vita non è mai stata migliore.’ Non è una crudele parodia, ma il titolo, anch’esso molto francescano, di un breve testo di Ida Auken (ex ministro per l’ambiente e ora membro del “Partito Social Liberale” danese) apparso l’11 novembre 2016 sul sito del WEF[ref]https://www.weforum.org/agenda/2016/11/shopping-i-can-t-really-remember-what-that-is/ (Il titolo è stato recentemente cambiato.)[/ref]. Detto sommariamente, la Auken, anima vivace della sinistra neo-futurista, ci racconta del “comunismo” che verrà[ref]https://www.weforum.org/agenda/2016/11/shopping-i-can-t-really-remember-what-that-is/[/ref] . A breve abiteremo in città modello in cui ‘non possederemo nulla – né casa, né auto, né elettrodomestici’. La nostra proprietà privata sarà dunque realmente abolita. E ne saremo felici, perché nella città dei servizi digitalizzati, affrancata da traffico e smog, ‘avremo liberamente accesso a ogni cosa’. Nessun bisogno di ‘pagare l’affitto’, perché quando saremo fuori a girare in bicicletta o a raccogliere margherite ‘qualcun’altro utilizzerà il nostro spazio’ (comunismo vero!). Lo shopping sarà un lontano ricordo, perché ‘un algoritmo sceglierà le cose da comprare’, visto che ‘conoscerà i miei gusti meglio di me’. Anche il lavoro muterà in qualcosa di piacevole: ‘tempo per pensare, tempo creativo, tempo per la formazione’. E nonostante la Auken si dica ‘preoccupata per tutte le persone che avranno deciso di non vivere in questa città’ e che ‘si saranno perse per strada’, magari ostinandosi a occupare ‘case abbandonate di paesini del diciannovesimo secolo’, o a formare ‘piccole comunità autogestite’; e per quanto, scrive, ‘di tanto in tanto troverò fastidioso non avere alcuno spazio privato’ sapendo che ‘tutto quel faccio, penso o sogno [sic!] viene registrato da qualche parte’ – nonostante queste piccole complicazioni, insomma, ‘la vita sarà senz’altro migliore’, perché avremo sconfitto ‘tutte le cose terribili che ci stavano accadendo: malattie legate al nostro stile di vita, cambiamenti climatici, crisi migratorie, degrado ambientale, città congestionate, inquinamento idrico e atmosferico, disordini sociali e disoccupazione.’

Basta un piccolo sforzo dell’immaginazione per capire che questa favoletta utopistica è in realtà un perfetto controcanto distopico, per il semplice motivo che se noi non possederemo più nulla sarà perché, dopo aver “disciplinato” i poveri e spolpato il ceto medio, l’élite mondiale avrà in mano davvero tutto. Già ora, in piena ristrutturazione da pandemia, ai paesi a rischio default, così come ai lavoratori lasciati senza reddito, vengono “in aiuto” i grandi istituti finanziari neoliberisti (FMI, World Bank, ecc.) – gli stessi che sponsorizzano i lockdown più draconiani[ref] Si veda il secondo capitolo del ‘World Economic Outlook’ pubblicato dal FMI a ottobre 2020: https://www.imf.org/en/Publications/WEO/Issues/2020/09/30/world-economic-outlook-october-2020[/ref] – pronti a sottometterci a forza di generosi prestiti. Come scrisse Daniel Guérin nel 1936: ‘Quando la crisi economica […] si manifesta in forma particolarmente acuta, quando il tasso di profitto tende a zero, essa non vede altra via d’uscita, altro mezzo per rimettere in marcia il meccanismo del profitto, se non quello di vuotare sino all’ultimo soldo le tasche – già poco fornite – dei poveracci che costituiscono la “massa”[ref]Daniel Guérin, Fascismo e grandi capitali (Roma: Erre emme edizioni, 1994), p. 58[/ref].’ Possibile non vedere che alla base della presente ‘distruzione creativa’ (Schumpeter) da coronavirus non c’è altro che un nuovo “fascismo dei grandi capitali”, per parafrasare il titolo del libro di Guérin? L’obiettivo dello psicodramma pandemico piovutoci addosso è la devastazione di ciò che rimane dell’economia reale, finalizzata alla stipulazione di un nuovo contratto sociale leviatanico (il Great Reset) in cui la nostra sopravvivenza dipenderà dall’intervento “caritatevole” di istituti monetari sovranazionali che, come conferma appunto la Auken, ci spoglieranno di ogni bene e vigileranno persino sui nostri sogni.

In questo scenario, le imprese tecnologicamente più arretrate e meno produttive sono portate alla bancarotta e assorbite dai monopòli. I lavoratori autonomi e precari spariscono nel nulla. Nel migliore dei casi, la massa crescente di disoccupati viene “riscattata” da un reddito di base universale, miserrimo ma sufficiente a costringerla all’eterna gratitudine verso i benefattori. Qualche pezzo di debito sovrano verrà forse bonificato, in cambio però della consegna di beni pubblici agli istituti finanziari che guidano le grandi manovre. E alla fine di ogni anno ci sarà sempre il santo Natale a restituirci un vago senso di fratellanza, magari grazie al temporaneo allentamento di bizantine misure restrittive. Questa transizione verso un capitalismo totalitario servito in salsa filantropico-francescana viene fatta digerire alle masse attraverso irresistibili narrazioni catastrofico-salvifiche, strumento ideale di una propaganda securitaria che spaccia l’Armageddon sociale come atto umanitario.

La distruzione di ampi settori dell’economia reale e, insieme, la draconiana profilassi sociale contrabbandata come profilassi sanitaria, sono fenomeni interni al folle vortice espansivo del capitale, che per indole non si preoccupa di nulla, tantomeno di chi rimane schiacciato dai cambiamenti. Come Marx aveva osservato, il modo di produzione capitalistico, essendo una soggettività automatica, non ha remore a distruggere le fonti stesse del valore, ossia i lavoratori salariati da una parte, e la terra o risorse naturali dall’altra. “New normal” significa appunto rimodellare l’umanità in modo che transiti obbediente, e magari riconoscente, verso l’inferno del Capitalismo 4.0, quello della quarta rivoluzione industriale. La governance globale in materia di bio-sicurezza è oggi l’espressione più evidente di questo dispotismo assai poco illuminato, che trova nel cosiddetto stakeholder capitalism la sua perfetta incarnazione economica: nello spartirsi gli utili borsistici, manager e azionisti delle grandi multinazionali gestiscono anche un possente fronte politico-mediatico intriso di filantropia e sensibilità sociale.

Eccoci giunti al paradosso dei paradossi: lo 0,1% – i vincitori della globalizzazione, ovvero la classe più predatoria dell’intera storia umana (da Bill Gates a Warren Buffett, Bill Clinton, Mark Zuckerberg, George Soros, ecc.) – che si impegna socialmente a sostenere cause nobili come la salute e la lotta contro la fame nel mondo! Grazie a donazioni erogate dalle loro munifiche fondazioni, i profeti del filantro-capitalismo esercitano un’influenza sempre più tirannica sui governi e le loro fragili istituzioni. La stessa Chiesa di Papa Francesco, comportandosi come ha quasi sempre fatto nella sua lunga storia, promuove la causa del potere secolare, oggi cinicamente travestito da ‘capitalismo inclusivo, che non lascia indietro nessuno’[ref]https://www.inclusivecapitalism.com/ [/ref]. Si tratta di un diabolico intreccio di denaro, potere e alleanze lobbystiche che vuole ergersi a nuova morale universale, togliendo così alla politica anche le ultime briciole di autonomia, al punto che le democrazie di tutto il pianeta ormai accolgono i filantro-predatori a braccia aperte, senza nemmeno più fare domande. E se il ricatto morale funziona, ciò significa anche che l’implosione capitalista non è necessariamente esplosiva: non produce automaticamente contraddizioni e potenzialità rivoluzionarie, come ingenuamente credono ancora molti marxisti. Piuttosto, nella sua fase attuale l’implosione del capitalismo genera una subdola forma di deterrenza di stampo fascista, in cui appunto lo Stato (insieme alla Chiesa) promuove gli interessi delle élites finanziarie. Sottovalutare questa deriva è oggi l’errore più grande che si possa commettere.

Note a Marc Augé, Prendere tempo – Un’utopia dell’educazione (Castelvecchi 2016)

di Fabiola Pavia

 

Nato a Poitiers il 2 settembre 1935, Marc Augé è considerato uno dei maggiori intellettuali contemporanei. Sociologo, antropologo, etnologo, le sue opere hanno influenzato profondamente la letteratura e la filosofia europea della seconda metà del ‘900 e dei primi decenni del nuovo millennio. Tra le principali pubblicazioni dell’autore: In the metro (1986); Non-luoghi. Introduzione a una antropologia della surmodernità (1992); Disneyland e altri non luoghi (1997); Le forme dell’oblio (1998); Diario di un senza fissa dimora (2011).

Con la teorizzazione della surmodernità, intesa come ulteriore evoluzione del postmoderno, Augé ha cercato di dar voce e senso ai diversi fenomeni che imperversano nelle società complesse contemporanee: l’accrescimento del senso di solitudine nonostante lo sviluppo e il potenziamento dei nuovi mezzi di comunicazione, la questione dell’oblio, l’aberrazione della memoria e, soprattutto, i non-lieux. Il concetto di “non-luogo”, coniato da Augé nel 1992, si riferisce a tutti quegli spazi o ambienti anonimi, quali aeroporti, sale d’attesa, stazioni, banche, non identitari, non relazionali e non storici, costruiti appositamente per adempiere a un determinato fine e che, pur non possedendo una specifica identità, incarnano l’espressione par excellence della socialità nel mondo contemporaneo, in cui la difficoltà e, in alcuni casi, l’impossibilità di relazione si accompagna alle “nuove opportunità di incontro” offerte continuamente dai non-luoghi stessi.

Nel testo Prendere tempo – Un’utopia dell’educazione, Augé, incalzato dalle sollecitazioni di La Porta, affronta la questione dello statuto di non-luogo di Facebook e dei social in generale. Lo svago e la mancanza di calcolo e impegno che caratterizzano l’uso dei social, afferma l’intellettuale francese, generano un particolare tipo di spontaneità che ci fa ignorare il tempo e questa spontaneità si manifesta come una tendenza particolarmente pericolosa essendo il tempo, assieme allo spazio, elemento fondamentale in campo educativo. Le relazioni richiedono tempo, l’apprendimento richiede tempo, l’assimilazione, la consapevolezza richiedono tempo: la spontaneità si esplicita come una virtù infantile che deve necessariamente essere educata. Bisognerebbe “pensare di nuovo nel tempo”, “prendere in mano il tempo” per affrontare le nostre inquietudini.

A questo proposito, Augé prospetta il suo programma pedagogico u-topico, fondato su una rivoluzione copernicana delle emozioni e dei sentimenti. Del resto, afferma l’autore, la conoscenza, ovvero ogni tipo di sapere, implica tanto una dose di razionalità quanto una dose di passione e l’idea di una verità “globale”, di “certezze” incrollabili, non è solamente illusoria ma ha da sempre causato “l’infelicità umana”. Al contrario, la “realizzazione dell’uomo” deve passare per la conquista di verità relative, “costruite e verificate”, che non siano semplicemente frutto di calcolo e raziocinio, ma che siano anche vissute e sperimentate nel concreto delle passioni. L’u-topia, in questo senso, è un segno di razionalità, essendo tutti condannati, per natura, a non poter vedere “mai quello che accadrà in seguito, dopo di noi”.

Personalmente ritengo estremamente interessante l’attenzione rivolta ai sentimenti, in particolare a quello di solitudine in una società che si trasforma e che diventa sempre più connessa. Siamo immersi, infatti, in una condizione di solitudine comunicante, in cui tutti siamo connessi online ma al contempo disconnessi quando siamo offline, ovvero nel mondo reale. In tale posizione, tanto rischiosa, non possiamo che incorrere in sentimenti di marginalizzazione, di esclusione, che i nuovi mezzi tecnologici potrebbero, invece, limitare. Ed è per questo che Gardner, in Generazione App (2014), cercava di comprendere la psicologia dei moderni navigatori del web. Le nuove tecnologie consentono di risolvere i problemi più disparati e di far fronte quindi alla complessità del mondo contemporaneo che l’uomo cerca continuamente di esorcizzare tramite l’utilizzo di risposte semplificate che derivano spesso dall’utilizzo di tali app: non a caso McLuhan (Gli strumenti del comunicare, 1964) considerava le app come vere e proprie estensioni delle capacità fisiche e cognitive dell’individuo. Gardner invita quindi ad utilizzare questi strumenti con consapevolezza, necessaria in quanto le app potrebbero andare ad intaccare l’intimità tra gli individui, la formazione dell’identità e del Sé del soggetto e a compromettere lo sviluppo delle relazioni (oggi sempre più offuscate da quella che chiamiamo computazione ubiqua, interazione tra l’uomo e la macchina) che, come ricorda Augé, richiedono tempo. Tutto ciò è perfettamente espresso dal neologismo dei non-luoghi: luoghi senza identità, persone senza identità. Siamo stati resi schiavi di una tecnologia che ha preso il sopravvento sull’autonomia dell’uomo che andrebbe recuperata attraverso la consapevolezza. Come nel mito della caverna di Platone, l’uomo moderno che riuscisse a liberarsi dalle catene, non per forza e, sicuramente, non facilmente, guadagnerebbe rispetto nel trasmettere la “verità” agli altri. Come l’uomo della caverna è schiavo delle ombre proiettate al suo interno, l’uomo contemporaneo è schiavo delle pseudo-relazioni che instaura grazie ai nuovi media. L’importanza del medium sta nell’uso che se ne fa.

Per quanto riguarda la spontaneità credo pienamente nell’affermazione di Augé per cui “non c’è nulla di più spontaneo della violenza”, spesso legata anche all’utilizzo di game, videogame o contenuti proposti dal web: secondo Bandura i protagonisti di film, romanzi e serie televisive, hanno una forte influenza sul comportamento degli individui, i quali vengono spinti, in seguito ad un’attenta osservazione, all’emulazione. L’arte di calcolare il tempo, di prendersi il proprio tempo, al giorno d’oggi è un’arte sempre più ardua da praticare, a causa dei nuovi mezzi tecnologici che ci fanno vivere in un mondo di spontaneità immediata, ma la relazione fra le persone richiede tempo. Prendere del tempo significa “non incalzare”, “non andare di fretta”, ma anche “prendere in mano il tempo”, “gestirlo”, “padroneggiarlo”.