F. Marchi, Contromano. Critica dell’ideologia politicamente corretta, Zambon 2018

Fabrizio Marchi

Contromano. Critica dell’ideologia politicamente corretta

Zambon editore, Milano 2018, pp. 367, € 12,75.

 

 

 

 

 

 

In un tempo in cui vengono stampati testi, nel migliore dei casi, di mera erudizione o atteggiati in maniera filosoficamente storiografica, il libro di Fabrizio Marchi segna uno scarto patente quanto potente. Fin dalla modalità espressiva, per nulla accademica ma anzi costruita sulla base di scandagli di pensiero puntuali e concretissimi, si comprende assai chiaramente che il volume intende porsi come un documento di rottura. Insomma, abbiamo a che fare con un libro che non nasconde di voler essere interferente e contromano – appunto – rispetto al mainstream del pensiero e della prassi politica contemporanea.

In quale maniera, pertanto, Marchi intende manifestare il proprio essere eretico? Quali sono gli argomenti sulla base dei quali l’A. si spinge a sostenere la sua eterodossia rispetto all’ortodossia del nostro tempo, smascherandone così la falsa coscienza e mettendo a nudo le sue contraddizioni? E, preliminare a tutto ciò, che cosa afferma oggi il pensiero e la prassi politica dominante?

L’intero scenario politico contemporaneo, per Marchi, dal sovranismo di destra, al liberal-capitalismo interclassista e multinazionale di sinistra, appare all’A. diviso soltanto su fatti marginali e contingenti, poiché in realtà esso condivide fortemente i valori e gli obiettivi fondamentali, ossia l’appartenenza indiscutibile e a-problematica all’orizzonte del mercato capitalistico e all’attuale strutturazione delle classi. Mentre in altre fasi storiche del capitalismo occidentale la triade Dio, Stato e famiglia costituiva un punto di riferimento fortissimo e, di fatto, con quella triade ideologica, il potere aveva assolto assai bene la sua funzione di “verità/sapere, oggi quella triade non appare più consona alla mutata condizione storica. Il capitalismo – è noto a tutti – costituisce una struttura mobile che deve la sua forza fondamentale alla capacità spregiudicatamente metamorfica. La triade di un tempo, così, si è mutata in altre parole d’ordine, finalmente adatte al contemporaneo.

Alcune delle parole fondamentali dell’attuale ideologia – ci dice Marchi – sono: laicismo, scientismo, eugenetismo, modernismo, governismo, femminismo, genderismo e diritto-umanismo. L’ideologia dominante, così, si avvale di sub-settori ideologici che vanno a costituire un fronte assai compatto e uni-forme.

I sotto-settori dell’ideologia dominante sono disposti – come sempre accade nelle strutture di verità/sapere – in maniera militare. Le sue parole/guida, cioè, hanno il compito di servire da legittimazione teorica, oltre che da sistema immunitario del mondo occidentale contemporaneo e, come una falange macedone, devono risultare impenetrabili a qualsiasi critica di orizzonte che volesse aprirsi un varco nella direzione dell’antagonismo politico. La ferrea impenetrabilità da parte del pensiero contemporaneo, e della prassi che da esso discende, alla dialettica trasformativa del reale, del resto, si manifesta nella sua forma più potente nel momento in cui si viene affermando la più pericolosa delle sue ideologie, ossia quella che attesta la fine delle ideologie, con la conseguente naturalizzazione ontologica del capitalismo.

Nell’orizzonte asfittico e claustrofobico che ne emerge – afferma Marchi – la destra e la sinistra appaiono appiattite integralmente su una (psico)sfera unica. La massa dei cittadini/consumatori, così come del resto i loro rappresentanti politici, metabolizzano la differenza e lo scarto dialettico (che rimane presente soltanto in termini metastorici nella forma di un perenne quanto inestinguibile conflitto di classe, sebbene artatamente occultato dalle classi dominanti), e rattrappiscono la distanza politica nell’ambito della società, saturandola con una omogeneità fittizia. Molto diversamente dalle ideologie che un tempo determinavano la disposizione delle classi fra di loro, l’orizzonte ideologico del contemporaneo non colpisce il corpo ma investe anzitutto la mente – e ciò viene portato a compimento attraverso un uso spregiudicato della tecnica e perfino della formazione scolastica.

Dal punto di vista del potere, al fine di cancellare la possibilità stessa della lotta di classe, occorre dis/locare il conflitto nel corpo stesso delle classi dominate: devastanti guerre fra poveri, pertanto, vengono alimentate incessantemente: donne contro uomini, classi subordinate di un paese contro quelle di un altro, settori di lavoratori contro altri settori, ecc. Una delle guerre più cruenta, soprattutto in periodi recenti, viene combattuta dai cittadini dei singoli paesi occidentali contro i flussi migratori che in maniera crescente si sono andati via via determinando. Marchi, con buone ragioni, sottolinea a più riprese che, sia la destra xenofoba, sia la sinistra accogliente, pur assumendo una posizione diametralmente opposta rispetto al fenomeno, di tipo respingente la prima, buonista la seconda, in realtà convivono e colludono nell’eludere il vero problema. La causa primaria che induce i flussi migratori viene ipocritamente rimossa, così come viene cancellata quella geopolitica mondiale che vede l’Occidente aggredire i paesi da cui l’emigrazione pro-viene. Non si presta alcuna attenzione, cioè, alla capacità strategica dell’Occidente di oscurare la propria azione predatoria non dissimile nella sostanza dalle attività colonialistiche e imperialistiche del passato.

Ovviamente, questo disegno politico, questa volontà di potenza, pur essendo molto nota alle classi dirigenti, deve essere ben occultata alle masse sempre più passivizzate dell’Occidente. E ad assolvere a tale scopo viene, appunto, chiamata l’ideologia politicamente corretta. Mettere dunque gli uni contro gli altri, sia sul piano interno, sia su quello internazionale serve al sistema dominante, ci dice assai chiaramente Marchi, per rimuovere totalmente l’unico conflitto che abbia un senso reale sul piano storico, ossia quello di classe. Per questo, dal punto di vista del sistema, occorre fare tutto il possibile (e con ogni mezzo) per rendere sempre più individualistica ed omogenea la realtà socio-politica: sarà dunque indispensabile combattere, indebolire e, possibilmente, frantumare definitivamente le residue strutture identitarie. Fra queste, non fa eccezione neppure il connotato biologico più naturale, ossia quello sessuale. Soltanto massacrando e polverizzando le identità e le residue comunità strutturate, la società capitalistica nella sua fase avanzata potrà esercitare un controllo/potere totale su una società che dovrà risultare del tutto indifferenziata al suo interno: una massa di esseri conformi(sti) e assolutamente permeabili (senza più ostacoli di tipo identitario) alle transazioni merceologiche tipiche del capitalismo tecno-finanziario. L’intero campo del sociale dovrà, di conseguenza, essere ontologicamente costituito da monadi lisce e irrelate, sconnesse e atomizzate, e senza alcuna capacità di resistenza – ciò di cui potrebbe invece esser capace una identità forte, una famiglia solida e una società strutturata secondo vincoli comunitari stabili. Dal punto di vista del turbo-capitalismo, infatti, non dovrà avere alcuna identità ciò che è destinato – l’uomo non escluso – a non essere altro che un numero di serie contabile, in un ordine simbolico integralmente mercificato.

Come si vede, la posizione di Marchi mostra una estrema coerenza. Nell’ambito del dibattito attuale, l’A. si colloca in maniera assai appartata ma il suo pensiero, robusto quanto penetrante, indica una strada precisa alla lotta politica; una strada munita, nello stesso tempo, di logica dialettica e di speranza umana. Egli, infatti, non si allinea alla posizione dei decostruzionisti di matrice foucaultiana o nicciana, così come non può essere inquadrato fra gli anarchici che combattono il potere in quanto potere, non sposa neppure la linea dei normativisti di matrice kantiana, né infine si adegua ad un marxismo rivisitato in chiave spinoziana, come può essere il post-operaismo di Toni Negri e dei suoi epigoni.

Per prendere in considerazione soltanto l’ultimo dei fronti di pensiero testé evocati, al quale peraltro è dedicato un ampio ed illuminante capitolo critico del libro, è importante rilevare quanto e in qual modo Marchi si opponga allo spino-marxismo di Negri, rimanendo peraltro fedele fino in fondo ad un approccio analitico squisitamente marxiano. Egli, infatti, ha buon gioco nel far vedere come la presunta rivoluzione operaista che, grazie ad una trasformazione del lavoro dovuta alla tecnicizzazione ed intellettualizzazione di esso (il lavoro cognitivo e la sua globalizzazione), dovrebbe costituire una sorta di disalienazione dallo sfruttamento di classe, non mantiene affatto le sue promesse e, anzi, si avviluppa in contraddizioni assai più grandi di quelle che vorrebbe superare. Negri, infatti, forse sulla scia del progressismo segnatamente del “Manifesto”, (scotto che Karl Marx aveva pagato al positivismo del suo tempo), non considera affatto però elementi che, lungi dal consentire la disalienazione delle classi dominate, ne ha provocato piuttosto un ancor più marcato asservimento. Negri – convinto assertore d’una rivoluzione proletaria immanente nelle cose stesse – non considera, o non inquadra nella giusta misura, fenomeni assai rilevanti come l’abbassamento dei diritti dei lavoratori su scala globale, la formazione di zone geopolitiche sempre più diseguali, il crescente individualismo, l’offuscamento della coscienza di classe, lo sfruttamento e perfino il mancato riconoscimento del lavoro, la formazione di monopoli, di multinazionali, di potentati tecno-finanziari. Insomma, Negri sembra trascurare quelle devastanti realtà che sembrano oggi voler metabolizzare qualsiasi dimensione umana e naturale gli si pari davanti. Insomma, la prospettiva negriana, ottimistica o addirittura enfatica, non considera l’orizzonte reale della nostra situazione epocale – ciò che io stesso definisco altrove la Ecity globale contemporanea.

Il soggetto politico a cui Marchi si richiama non si trova più aggregato in una struttura partitica e questo, da un certo punto di vista, è senz’altro negativo, poiché è effettivamente pericolosa la confusione che spinge il popolo della sinistra verso obiettivi tradizionalmente di destra – quel popolo va senz’altro strappato alle destre populiste e restituito ai binari ad esso più consoni della lotta di classe. Ciò, però, costituisce anche un dato positivo poiché consente di sfuggire ad un rischio in cui è talvolta incorsa la militanza politica comunista, ossia l’assolutizzazione dei propri precetti, innalzati essi stessi sul piano ideologico-metafisico. Nella nostra contemporaneità, le assolutizzazioni – si pensi soltanto alle alterazioni scientiste tipiche del post-human, alle conseguenze nefaste di una comunicazione politica totalmente innervata dalla tecnica e all’assolutizzazione del fatto economicistico – sono tutte nel territorio della tecno-scienza e del grande apparato capitalistico a guida americana. E sono – appunto – proprio tali maschere ideologiche, ossia i nuovi assoluti metafisici del nostro tempo, ad essere oggetto della critica del marxismo dell’A.

In un tempo in cui il comunismo non può vantare paesi-guida, in una fase storica nella quale le gabbie ideologiche sembrano ridurre sempre più le possibilità di rivolta dell’uomo e il marxismo stesso appare abbandonato, il libro di Marchi espone un pensiero capace di ritornare alla concretezza della storia e dell’intersoggettività umana. Esso individua con un movimento unico sia il tratto contingente, sia le nervature strutturali della storia, ponendosi dunque come un pensiero vivo e concreto, capace di configurarsi in una vicinanza essenziale al disagio individuale e collettivo; invocante altresì la necessità vitale di un nuovo equilibrio fra uomo e mondo. Marchi, nel suo libro, con la tempra del giornalista coriaceo e con la finezza dell’intellettuale engagé, ci ricorda che la storia è aperta e che essa aspetta soltanto noi per essere fatta.

Un libro di questo tipo costituisce – a mio parere – un contributo assai utile al nostro tempo.

Antonio Martone

Jean-Pierre Vernant, Le origini del pensiero greco, Feltrinelli, Milano 2018

 

Jean-Pierre Vernant

Le origini del pensiero greco

Feltrinelli, Milano 2018, pp. 128, € 8,00.

 

 

 

 

 

 

Lo studioso Jean- Pierre Vernant ne “Le origini del pensiero greco” traccia in poco più di cento pagine il percorso storico che ha portato alla nascita del pensiero razionale in Grecia, ricoprendo un lasso di tempo che va dal crollo della civiltà micenea avvenuta nel XII secolo a.C. alla polis democratica classica del V secolo.

L’opera viene pubblicata nel 1962 nella collana “Mythes et religions”, diretta dallo storico delle religioni Georges Dumézil, e si compone di 8 capitoli. La brevità del testo e l’uso di un linguaggio che non lascia troppo spazio a sfoggi eruditi e a specialismi, offre un quadro generale senza presunzione di compiutezza rispetto a un tema che tradizionalmente vede il confronto tra due polarità opposte: mito e filosofia.

La prefazione alla nuova edizione del testo, redatta nel 1987, funge da fondamento metodologico volto a chiarire lo scopo generale del saggio: delineare quali siano stati gli elementi di rottura rispetto al passato e al presente dei Vicini regni orientali che in Grecia hanno portato alla nascita di una forma di mentalità innovativa. L’attenzione rivolta alla mentalità è ciò che contraddistingue l’opera di Vernant grazie agli studi intrapresi da Louis Gernet, suo maestro e docente all’École Pratique des Hautes Études scomparso il 29 gennaio del 1962, il quale ha contribuito in Francia ad introdurre i metodi della psicologia storica nello studio dell’antichità.

I primi quattro capitoli ricostruiscono il contesto dell’area mediterranea dal II millennio a.C. all’avvento della polis, situato tra il VIII al VII secolo a.C.. Protagonista della trattazione è la civiltà micenea che dall’assorbimento della cultura minoica a Creta sin dal 1450 a.C. espande la sua influenza dal XIV al XII secolo fino in Asia Minore. La costanza dei contatti con regni del Vicino Oriente attraverso le migrazioni e le conquiste dà vita a una cultura carica di sincretismo miceneo-minoico-orientale che istituzionalmente si traduce nell’adozione del sistema palaziale il cui vertice è occupato dall’anax, il sovrano la cui monarchia si estende in terra e in cielo e i cui poteri vanno dal controllo del territorio e delle ricchezze all’amministrazione della regolarità e dell’ordine della natura. È proprio la figura dell’anax il fulcro attorno al quale si instaura la riflessione di Vernant, in quanto il mantenimento dell’ordine politico esercitato nel segreto del palazzo mette capo a una serie di riti religiosi legati alla regalità che trovano espressione nella narrazione mitica. In tal senso, le teogonie e le cosmogonie che cantano le guerre fra divinità hanno come orizzonte mentale la ricomposizione dell’ordine attraverso l’affermazione di una monarchia. La vittoria e il potere del singolo, dunque, si estende sia alle questioni umane sia all’origine del mondo e dei fenomeni naturali. Tuttavia, l’invasione dei dori nel XII secolo segna il declino della civiltà micenea e il passaggio al cosiddetto “Medioevo ellenico” (XII-VIII secolo), la cui peculiarità consiste nella scomparsa della scrittura e, di conseguenza, del linguaggio legato alle gerarchie e alle prassi palaziali. La scomparsa di un potere accentrato esercitato nel segreto del palazzo e la sopravvivenza del ceto aristocratico guerriero comporta una specializzazione degli incarichi politici che per legittimarsi si servono della persuasione e della discussione esercitate nella pubblica piazza. L’agonismo tipico della classe aristocratica, tuttavia, aprendosi al dibattito pubblico nell’agorà presuppone un cambio di rotta nella concezione del potere che vede la competizione fra individui che si considerano pari. La preminenza della parola, dunque, dimostra di essere lo strumento politico per eccellenza e il principio fondamentale della polis, la cui nascita si situa tra l’ VIII e il VII secolo a.C. e interessa la trattazione dei successivi tre capitoli del saggio.

Il ruolo cruciale ricoperto dal linguaggio, rafforzato dalla ricomparsa della scrittura, mette in evidenza la distanza che separa il mito dai primi passi del pensiero razionale. Se originariamente mythos e logos significavano “discorso, parola”, successivamente le loro connotazioni hanno preso strade divergenti: da un lato il mythos come sfera dell’irrazionale, religioso e misterioso, dall’altro il logos come faro della razionalità, del discorso e della dimostrazione che trae vitalità dalla competizione della prassi politica. Inoltre, il passaggio da una cultura orale a una scritta permette di diritto la fruizione di leggi e saperi da parte di un pubblico più vasto, rispetto alla cerchia ristretta dei ministri di palazzo, che può anche metterli al vaglio del dubbio e della confutazione. L’oralità dei proverbi, delle massime del senso comune e i decreti dei sovrani, al contrario, chiedevano soltanto obbedienza e la prosecuzione della tradizione.

La ripresa dei contatti con l’Oriente a partire dal VII secolo a causa della penuria di metalli e materie prime comporta l’emergere di un ceto nobiliare mercantile che stabilisce nuove colonie in Asia Minore. Il commercio di beni di lusso e l’introduzione della moneta inaspriscono le disuguaglianze sociali che oppongono il demos e l’aristocrazia. Tale contesto di antagonismo e disparità politica, mediato dall’ascesa di una classe media che si allontana dalla Grecia continentale per stabilirsi nelle colonie del bacino mediterraneo, rappresenta il quadro generale che nel VI secolo a.C. vede la nascita della filosofia a Mileto. Per meglio illustrare l’incidenza psicologica del contesto storico del VI secolo, Vernant individua la coppia di contrari hybris e sophrosyne. La hybris è l’atteggiamento protagonistico dell’aristocrazia tradizionale che valorizza la prodezza del singolo e ostenta un lusso smodato e insaziabile. La sophrosyne, invece, rappresenta la cosiddetta «arete borghese»[1] che pone nel giusto mezzo l’unità di misura della condotta umana. Il sapiente pratica il “conosci te stesso” e propone un cammino ascetico di conversione e controllo delle passioni che raggiunge «un accordo secondo natura tra le voci del meno bravo e del migliore sulla questione di sapere a chi deve appartenere il comando, nello stato e nell’individuo»[2]. Nella prospettiva della polis, i primi Sapienti sono individuati come gli interlocutori a cui rivolgersi per la ricomposizione del kosmos politico nel quale occorre mantenere l’equilibrio fra Eris e Philia, rottura e unione, occupando ciascuno il posto che gli conviene senza ribellarsi o prevaricare, pena il chaos della città.

L’ultimo capitolo di “Le origini del pensiero greco” si chiude con un interessante focus su Anassimandro, la cui riflessione viene condensata in tre parole chiave che definiscono la distanza del nuovo pensiero filosofico dalla tradizione mitica: secolarizzazione, razionalizzazione e geometrizzazione. In primo luogo, la secolarizzazione esprime la scelta di Anassimandro di ignorare deliberatamente le teogonie e le cosmogonie per la spiegazione dei fenomeni naturali, inaugurando così una riflessione di natura profana che si esprime in prosa. A sua volta, la razionalizzazione si chiede il come della generazione del kosmos dal chaos, problematica intorno alla quale occorre organizzare l’indagine razionale. L’antropomorfismo tipico del mito spiega l’origine del mondo alla stregua delle vicende umane distinguendo l’attore dai prodotti della creazione. Anassimandro, invece, nel Peri physis individua un principio immanente e autosufficiente: l’apeiron, l’indefinito dal quale e al quale tutti gli elementi scaturiscono e ritornano “secondo l’ordine del tempo”. La geometrizzazione, infine, contribuisce a definire il mondo come ordinato da rapporti quantitativi reversibili e simmetrici distanziandosi così da un universo qualitativo costituito da gerarchie e ranghi con a capo la monarchia assoluta di un dio-sovrano. I fenomeni naturali, dunque, vengono inquadrati nell’avvicendarsi ciclico dei meccanismi di aggregazione e disgregazione, conquista e cessione del potere da parte degli elementi.

La compenetrazione di politica, morale e natura permette a Vernant di sostenere che la filosofia è «figlia della città»[3]. Essa non ha potuto che svilupparsi in un contesto storico segnato da trasformazioni politiche, economiche e sociali dinanzi alle quali ha saputo porre interrogativi e tentare risposte differenti volte, però, alla trasformazione degli uomini. In tal senso, l’autore rigetta le tesi secondo cui la filosofia sia un “miracolo greco” o un modello scientifico su cui si basa la scienza moderna. Da una parte, Vernant insiste nel dimostrare che i greci siano stati portatori di una forma di ragione piuttosto che della Ragione intesa come evento che squarcia la trama della Storia per incarnarsi in Grecia separando un’umanità pre- e post- miracolo. Dall’altra, mostra come la procedura dell’esperimento della scienza moderna sia pressoché inesistente nella scienza dei greci proprio perché il fine di quest’ultima non mirava alla manipolazione della Natura bensì al processo trasformativo dell’uomo in quanto animale politico.

In conclusione, il metodo della psicologia storica adoperato nel saggio si rivela carico di sviluppi di ricerca in quanto permette di ricostruire la mentalità di civiltà antiche attraverso le testimonianze materiali del passato intese come «espressione di un’attività mentale organizzata»[4]. La diversità delle opere dell’uomo e l’intento di costruire un quadro mentale d’insieme porta scienze come l’archeologia, la sociologia, l’antropologia e la filologia a condividere i propri risultati costituendosi come gruppo di ricerca. La pratica di una scienza partecipata, dunque, permette di ampliare il campo visivo rispetto alla settorializzazione delle discipline e restituisce vita all’antichità, il cui studio è appannaggio quasi esclusivo dei cosiddetti “umanisti”. Così, è possibile instaurare un dialogo fra passato e presente individuando punti di contatto e di specificità e, magari, comprendere criticamente lo spazio circostante e le opere del proprio tempo in quanto espressione materiale di un quadro mentale. Chissà se in questo modo lo studente principiante, grazie all’ausilio di una guida valida, acquisti maggiore confidenza con la filosofia in quanto anch’essa fatta di carne e sangue.

Maria Chiarappa

[1] Jean-Pierre Vernant, Le origini del pensiero greco, Feltrinelli, Milano, 2018, p. 85.

[2] Ivi, p. 95.

[3] Ivi, p.125.

[4] Jean-Pierre Vernant, Mito e pensiero presso i greci, Einaudi, Torino, 1982, p.3.

 

T. Morton, Iperoggetti. Filosofia ed ecologia dopo la fine del mondo, Nero 2018

 

Timothy Morton

Iperoggetti. Filosofia ed ecologia dopo la fine del mondo

Nero, Roma 2018, pp. 279, € 20,00.

 

 

 

 

 

A partire dal titolo Un terremoto nell’Essere dell’introduzione alla sua opera Iperoggetti (2013), Morton presenta una nuova classe ontologica di oggetti, con cui la filosofia è chiamata a confrontarsi oggi nel dibattito ecologico, ontologico e politico, «che consiste in primo luogo nel precedere il pensiero» (p. 36) di fronte all’urgenza del riscaldamento climatico. Gli iperoggetti vengono presentati come realtà enormemente più vaste dell’individuo, a cui appartengono fenomeni ecologici come il riscaldamento globale, il petrolio, i rifiuti tossici, ma anche il Capitale, l’evoluzione, l’inconscio, fino a estendersi alla biosfera e ai buchi neri. Questi sono oggetti che inglobano l’uomo, in un’ontologia dove «a contare come oggetti sono anche le relazioni tra gli oggetti e all’interno degli oggetti stessi» (p. 152). Invece di considerare gli oggetti come cose in sé, Morton evidenzia che ogni oggetto è in realtà un iperoggetto, contenitore e contenuto allo stesso tempo in altri oggetti su diversi livelli di realtà, che compongono il tema dei capitoli del libro.

Questi oggetti vengono studiati attraverso il campo della Object-Oriented-Onthology fondata dal filosofo Graham Harman, per cui gli iperoggetti sono entità reali «la cui essenza ultima è preclusa agli esseri umani» (p. 28). Rielaborando l’assunto kantiano dove la conoscenza è conoscenza umana racchiusa in un mondo, dato che in Kant il soggetto conoscente si pone come filtro epistemologico tra il fenomeno (la cosa per come appare) e il noumeno (la cosa in sé, inconoscibile), la OOO rifiuta e amplifica a un tempo l’antropocentrismo kantiano, concentrandosi sulla realtà oggettuale indipendentemente dalla percezione intersoggettiva. Caratteristica della nuova oggettualità è che «l’intersoggettività è solo un esempio particolare, molto familiare per gli esseri umani, di interoggettività» (p. 111). Il soggetto in sé scompare, e può esistere solo come un particolare oggetto in relazione ad altri oggetti, che persistono nella loro identità sfuggevole nonostante l’esistenza umana, «la stranezza risiede negli oggetti stessi, non nell’interpretazione che ne facciamo» (p. 205). Umani e non-umani sono parti di reti, «un’interconnessione che non permette una perfetta trasmissione priva di perdite di informazione, ma che al contrario è costituita anche da buchi e vuoti» (p. 112).

Morton spiega che l’uomo non può cogliere gli iperoggetti nella loro interezza in primo luogo perché questi sono non-locali, termine tecnico mutuato dalla meccanica quantistica, e ondulatori temporalmente, cioè distribuiti diffusamente nel tempo e nello spazio, oltre la durata della vita umana. Rifacendosi alla relatività di Einstein, spazio e tempo emergono dagli oggetti stessi a causa della loro massa, e non possono esistere corpi rigidi estesi, perché ciò violerebbe il limite della velocità della luce. «Ne viene che l’universo fisico consiste di oggetti che assomigliano più alle turbolenze di una corrente che a corpi estesi» (p. 86). Esaminando il comportamento dell’elettrone, Morton espone, riprendendo il fisico Bohm, la non-località degli iperoggetti come l’impossibilità di poter dire che qualcosa abbia proprietà intrinseche, «non esistono particelle in quanto tali, non esiste la materia in quanto tale, esistono solo oggetti quantici discreti» (p. 65). La discrezione è dovuta al fatto che a causa del principio di indeterminazione di Heisenberg, quando si osserva un fotone o un elettrone con un dispositivo di misurazione, «almeno un aspetto dell’osservato gli è precluso» (p. 60). Ciò vale sia alle scale dei quanti, sia a livelli di realtà maggiori, dove viene ripreso il riscaldamento globale come esempio madre, di cui per l’autore è impossibile avere una visione d’insieme, perché questo si mostra di volta in volta come tante realtà e situazioni particolari tra loro. Singoli eventi riconducibili a uno stesso fenomeno, ma non correlati causalmente da nessun rapporto estetico che possiamo intrattenere con essi, spingono per Morton verso una ripresa del sistema causale humeano «entro cui associazione, correlazione e probabilità sono gli unici fattori su cui si possa fare affidamento» (p. 57), concependo diversi livelli del concetto di causa.

Ecco perché un’altra proprietà degli iperoggetti viene ritrovata nel phasing, cioè «il segno indessicale di un oggetto diffusamente distribuito nello spazio delle fasi che è multidimensionale rispetto agli strumenti che usiamo per misurarlo» (p. 105). Di un iperoggetto è possibile solo avere un rapporto estetico parziale, nel momento in cui le sue parti entrano gradualmente nella nostra percezione tridimensionale. L’uomo può quindi porsi nei confronti degli iperoggetti solo asimmetricamente, per cui nonostante accumuli sempre più dati su di essi, non può conoscere totalmente l’iperoggetto, anche se ne fa parte. La nostra epoca per Morton è caratterizzata dall’Età dell’Asimmetria, iniziata nel 1748 con l’avvento della macchina a vapore e il sedimentarsi dei primi strati di carbone sulla superficie terrestre, dove «il non-umano è fuori controllo, irrimediabilmente ritratto rispetto all’accesso umano» (p. 221). Rifacendosi tra le altre alle riflessioni sul gigantismo in Heidegger, e all’esperienza estetica primordiale della pelle d’oca in Adorno, l’iperoggetto appare per l’autore esteticamente percepibile solo «sotto forma di spettralità spettrale che si allinea e si sfasa con lo spaziotempo normalizzato degli esseri umani» (p. 217). Questo causa ciò che Morton chiama la fine del mondo, cioè l’impossibilità per il soggetto, riprendendo Harman, di tracciare attorno a sé un orizzonte al cui interno si situi il proprio mondo, perché «non sono situato in un mondo (unico e stabile), ma in un insieme mutevole di zone emesse da oggetti specifici» (p. 183).

La fine del mondo porta con sé la viscosità degli iperoggetti, che l’autore descrive come la condizione in cui «più li avviciniamo meno li conosciamo; ma non possiamo liberarcene per quanto lontano si possa fuggire» (p. 230). Con la definizione di “morte zuccherata del per sé” di Sartre, Morton concepisce la realtà come un miele viscoso che non permette all’uomo di porsi a debita distanza espistemologica da essa. Invece di ritirarsi metafisicamente “di fronte” l’oggetto, l’umano è invischiato negli iperoggetti, da essi circondato senza potervisi distanziare. Questo atteggiamento si ritrova nell’ipocrisia e la debolezza, termini che l’autore usa evidenziando il fatto che per queste realtà, come il riscaldamento globale, non sembra esserci soluzione, «scarseggia il tempo per affrontarlo, non vi è alcuna autorità di riferimento, chi cerca di risolverlo sono le stesse persone che hanno contribuito a crearlo» (p. 176). Nessuna politica finora ha dimostrato di poter trovare una soluzione al problema.

Morton scrive un libro denso e multipolare, che partendo dall’ecologia, mette in risalto un intreccio ontologico transdisciplinare di ampio respiro. La riflessione sugli iperoggetti spinge l’uomo a trovare nuovi modi d’essere e di agire nel mondo, fino ad ora inesplorati, segnati nella loro urgenza dall’epoca dell’Antropocene. Più che offrire delle soluzioni, il libro si preoccupa di orientare il lettore ad una prospettiva critica che segni l’uomo dal XXI secolo in poi.

Alessandro Mazzi

S. Audier, Il socialismo liberale (a cura di Francesco Postorino), Mimesis 2018

 Serge Audier

Il socialismo liberale (a cura di Francesco Postorino)

Mimesis, Milano 2018, pp. 176, € 16,00.

 

 

 

 

 

La recente traduzione italiana del libro di Serge Audier, Le socialisme libéral, sollecitata negli ultimi anni da vari studiosi di sensibilità progressista, contribuisce ad arricchire il dibattito culturale sulla crisi della nostra sinistra e, allo stesso tempo, offre buoni suggerimenti per una sua rinascita.

Audier chiarisce fin da subito le sue finalità: prima fra tutte l’esigenza di far conoscere una tradizione che è nata, si è diffusa ed intrecciata nel panorama teorico-politico occidentale in maniera complessa; si tratta di quel socialismo liberale la cui variante italiana ha assunto nel corso del Novecento un ruolo fondamentale. Un secondo motivo, non meno importante, investe l’involuzione «centrista» del socialismo europeo contemporaneo; per intenderci il blairismo di Giddens, in Italia le visioni uliviste del Partito Democratico e, in Francia, la «piccola moda del socialismo democratico» (p.16).

In questo quadro di riferimento, ci si poteva aspettare, dice il filosofo francese, di coniugare gli ideali di libertà con quelli di giustizia, auspicando le libertà uguali per tutti, ma non è andata così. Agli inizi del duemila, quando si afferma la globalizzazione, almeno nei paesi di forte tradizione democratica, i principi autentici del socialismo democratico vengono colpevolmente traditi dall’establishment di turno e, in particolare, da una sinistra sia politica sia intellettuale che subisce il fascino della mondializzazione dei mercato, decidendo di non affrontare il problema delicato dei diritti individuali e sociali. Questa presunta sinistra, inoltre, non ha messo in atto quelle misure adatte a sconfiggere l’evasione fiscale. Non ha neppure sfiorato i profitti e le rendite, e non ha tutelato i redditi da lavoro al fine di garantire una quota minima alle categorie escluse. Tante mancanze che ci fanno supporre il suo fallimento: queste scelte, aggiunge Audier, nulla hanno a che fare con gli ideali egualitari e democratici di Carlo Rosselli, di Guido Calogero, di Piero Calamandrei e di Aldo Capitini.

La crisi identitaria della sinistra coinvolge anche la Francia, la Germania, e altre realtà europee, nonostante i diversi percorsi di Syriza in Grecia con tutte le sue difficoltà, di Podemos in Spagna, l’elezione in Gran Bretagna di James Corbyn alla guida del Partito Laburista nel 2015, senza dimenticare la candidatura di Bernie Sanders alle primarie del Partito Democratico negli Stati Uniti alle ultime elezioni. Se da una parte, tali esperienze testimoniano un cambiamento di rotta, gli esiti sono tuttora incerti. La sinistra non riesce ad inventare un progetto comune: il rilancio di una prospettiva egualitaria, democratica, ed ecologica non è «all’ordine del giorno» (p. 17).

Nell’accurata rivisitazione del pensiero liberale e poi del socialismo liberale nelle diverse accezioni, Audier rivela il suo scrupolo filologico e la sua inclinazione ideologica, come sottolinea il traduttore Postorino nella sua prefazione. Il lungo percorso storico-dottrinale, tracciato dall’autore, parte da John Stuart Mill, il primo a rompere con la tradizione del pensiero liberale aprendo la strada a Green e Hobhouse. Per quest’ultimo, ad esempio, la proprietà privata non era né un diritto sacro né un male assoluto da estirpare, ma bisognava risolvere alla base tutte le ingiustizie che determinavano la ricchezza di pochi e la povertà di molti altri; auspicava inoltre una fiscalità fortemente progressiva, partendo dall’assunto che larga parte della ricchezza è di origine sociale e alla società deve tornare. Per Audier neanche il pensiero di Mill può essere ispiratore di una terza via blairiana. Sempre Mill aveva a cuore l’emancipazione della donna, come molti altri pensatori e filosofi. Il filosofo inglese era pervaso da una sensibilità ecologista idonea a contrastare quell’ideologia produttivista che oggi domina nelle forze politiche del centro sinistra.

Nel secondo capitolo l’autore si sofferma sul socialismo francese di formazione repubblicana e socialista: Leroux, Huet, Renouvier, Camille Sabatier, Lavargne, senza trascurare l’influsso che ebbero in Francia Oppenheimer e il revisionismo di Bernstein. Si sottolinea come il socialismo francese presenti una tendenza all’utopismo e all’idealismo, legata ad un rifiuto della modernità e a una difficoltà a pensare la società salariale e l’importanza del conflitto per l’emancipazione dei ceti subalterni (p. 160).

Passando al panorama italiano, lo studioso francese introduce figure semisconosciute ai più, quali Francesco Merlino, che già nell’800 presagiva la deriva del pensiero di Marx, che avrebbe dovuto realizzarsi nel Socialismo reale; Eugenio Rignano, Calogero, fino ai fratelli Rosselli, allievi di Salvemini e fondatori di Giustizia e Libertà, il cui impegno in chiave socialista e democratica si coniuga con un coraggioso antifascismo, finito tragicamente con il loro assassinio. Audier non trascura il pacifismo “religioso” di Aldo Capitini, né il “comunismo liberale” di Piero Gobetti, che insieme a Gramsci auspicava una rivoluzione morale e culturale mai avvenuta. Audier conclude il suo itinerario con Piero Calamandrei e Norberto Bobbio, il quale fino alla sua scomparsa si batte affinché la democrazia si combini con la prospettiva socialista, senza mai rinunciare al richiamo sulla differenza tra Destra e Sinistra.

Ivana Rinaldi

A. Martone, Ecity, Rubbettino 2018

Antonio Martone

Ecity. Antropologia della tecnica

Rubbettino Editore, Soveria Mannelli (CZ) 2018, pp. 180, € 14,00.

 

 

 

 

 

Come si evince dal sottotitolo del testo, Antropologia della tecnica, in Ecity Martone visualizza in maniera frontale la situazione antropologico-esistenziale dell’uomo contemporaneo e, per farlo, pone come oggetto di studio il contesto spazio-temporale della “città elettronica” e della sua genesi storica. Parafrasando Foucault, pertanto, Ecity si può definire un’ontologia dell’attualità, un’analisi critica del nostro presente protesa, da un lato, a farne emergere il percorso genealogico e, dall’altro, a prospettare possibili linee di emancipazione.

Contrariamente ai teorici del post-moderno, Martone evidenzia la sostanziale continuità tra l’epoca moderna e le logiche sottostanti all’attuale strapotere tecnico-scientifico che caratterizza l’Ecity. Il punto di rottura fondamentale è, piuttosto, quello emerso tra l’età cristiano-medievale e l’età moderna. Il passaggio è esemplificato da Martone attraverso i simboli caratterizzanti le logiche della vita politica, economica, sociale ed esistenziale delle due diverse epoche: la cattedrale per l’era cristiana e la frontiera per l’era moderna. La prima rappresentava «la trasformazione del Kaos, attraverso la mediazione di Dio e della Chiesa, in Kosmos ordinato» e, da questo punto di vista, «la cupola della cattedrale costituiva l’essenza della costruzione onto-teologica del mondo nella sua totalità. Essa svettava verso l’alto, imponendosi come mediazione simbolica tra Dio e l’uomo[1]». La “frontiera”, invece, che subentra con la fine del mondo teologico-cristiano, incarna lo spirito dell’epoca moderna, fondata sull’«orizzontalizzazione dei rapporti umani – ciò che è meglio conosciuto come “uguaglianza”: antropologica dapprima, socio-economica in seguito, e infine giuridica[2]».

La nozione di uguaglianza e, soprattutto, il processo dialettico a cui essa è stata sottoposta nel corso dei secoli è, secondo Martone, il concetto fondamentale per comprendere tanto la modernità, quanto «quel lembo estremo di essa nella quale ancora viviamo (…) La modernità è l’uguaglianza e l’uguaglianza è la modernità[3]». L’analisi critica cui l’A. sottopone il concetto di uguaglianza e, con esso, quello correlato di democrazia, spesso assunti da molti autori a-criticamente come valori positivi in se stessi, è uno dei punti fondamentali dell’opera. Si tratta, invece, per Martone, di comprendere fino in fondo, e genealogicamente, che cosa l’uguaglianza abbia significato. A questo proposito, l’A. si richiama alla prospettiva di Tocqueville che per primo ha posto in rilievo «gli aspetti più dirompenti della politica moderna – i pericoli e le possibilità che la marcia verso l’uguaglianza democratica comportava[4]». È chiaro dunque l’intento di Martone: non si tratta di una valutazione ideologica dell’idea di “uguaglianza”, ma di analizzarne piuttosto il senso storico al di là del bene e del male: «il punto centrale da cui si irradia l’essenza antropologica e la visione del mondo dell’uomo democratico (…) consiste nel fatto che quest’ultima trasferisce le possibilità di “salvezza” dalla trascendenza all’immanenza[5]». La logica sottostante al principio di uguaglianza è, dunque, una logica di potere, un discorso del potere che, con l’avvento della modernità, intende affrancarsi da ogni tipo di trascendenza politico-religiosa per auto-fondarsi nella propria immanenza: «la democrazia nasce insieme alla modernità e, per questo, l’uguaglianza democratica va a costituire il terreno antropologico sul quale si muovono, come su un terreno comune, tutti gli autori moderni di maggior rilievo[6]».

Alla base dei rapporti interpersonali che si stabiliscono una volta superate le comunità tradizionali, imperniate sulla «personalizzazione di rapporti diseguali», per lo più tramandati per nascita, è posto il contratto, strumento in mano al libero gioco dell’agire individualistico[7]. Laddove tuttavia i rapporti sociali vengano siglati in quanto contratto, «la stessa umanità dell’uomo è “misurata” dalla razionalità economica[8]». Il dissolvimento della sovranità politico-religiosa dell’ancien régime, la liquefazione progressiva delle plurisecolari mediazioni politiche della modernità, hanno spianato così la strada – inesorabilmente – al denaro, «nella sua infinita capacità di mediare[9]». Il denaro, nella nostra contemporaneità, è diventato pertanto il simbolo per eccellenza delle relazioni tra gli uomini. In realtà, nella Ecity, il denaro manifesta il proprio fondamento nichilistico stabilendo «relazioni di uguaglianza tra cose anche quando le cose stesse non presentano alcun elemento di uguaglianza o somiglianza[10]», ovvero esso si presenta come «una mera astrazione simbolica[11]». Proprio in virtù di questa assoluta astrattezza, come afferma Simmel, il denaro ha la capacità di creare rapporti fra gli uomini lasciando però gli uomini stessi al di fuori delle relazioni e, se da una parte, esso appare come «un farmaco che promette di non far sentire l’angoscia[12]», dall’altra – Martone lo afferma assai chiaramente – il denaro è la causa principale dell’alienazione dell’uomo tipico dell’ecity.

Il denaro e la sua forza attrattiva, inoltre, è alla base di un altro strato di senso posseduto dal simbolo della “frontiera”: mentre il primo era quello dell’orizzontalità dei rapporti, a fronte della verticalità che caratterizzava le relazioni sociali nell’era antica, il secondo è quello del limite. L’idea della frontiera, infatti, porta con sé quella di un orizzonte da raggiungere e da oltrepassare, di confini da superare alla conquista di nuove terre e di nuovi, ulteriori, obiettivi. La logica alla base della modernità si riscontra tanto a livello storico, di cui la scoperta dell’America rappresenta l’evento più eclatante, quanto a livello esistenziale. L’uomo moderno non deve mai fermarsi, non deve mai “perder tempo” (il tempo è denaro) soffermandosi su se stesso, deve sempre guardare oltre[13]. Nel testo di Martone emerge chiaramente, e in maniera del tutto originale, il continuo parallelismo tra gli aspetti storici, politici e quelli esistenziali che hanno segnato la modernità e che continuano a caratterizzare il contemporaneo. Nella sua ottica, del resto, storia e antropologia sono due facce dello stesso discorso della e sulla modernità. L’abbattimento della cattedrale come simbolo del potere “onto-teologico” equivale alla morte di dio, considerata niccianamente in quanto evento originario del nichilismo tipico dell’uomo moderno: «quando “Dio è morto”, ciò che rimane non può che essere “soltanto” il mondo. Orfani di Dio, gli uomini si proiettano allora senza alcuna reticenza sui propri desideri: vogliono gustarne il più possibile (…) Alla base della smaniosa attività dell’uomo democratico, c’è dunque qualcosa che somiglia a un lutto, un senso di vuoto[14]». Senza più trascendenze, l’uomo “uguale”, non più soggetto ai confini tracciati dalle forme di potere pre-moderne, ha desideri sconfinati e “illimitate potenzialità” che caratterizzano il suo “essere-per-il-successo-mondano”[15]. Tuttavia, questa infinità desiderante si scontra, naturalmente, con la limitatezza delle “possibilità concrete” che, da una parte, come aveva già intuito Hobbes, può generare il rischio (mortale) della lotta di tutti contro tutti e, dall’altra, può alimentare, in caso di insuccesso, uno dei mali più diffusi nella nostra stretta attualità, ossia la depressione e lo “sballo”.

Relativamente agli ultimi decenni, un sintomo chiaro del disagio della socialità è espresso assai bene dalle teorie ordo-liberali e, soprattutto, neo-liberiste del tardo ‘900. Il messaggio diffuso da questi apparati ideologici, infatti, è che «l’individuo, barricato nel proprio spazio vitale (…) possa conquistare/consumare tutto il mondo che le sue capacità “imprenditoriali” gli consentano di acquisire[16]». Per Martone, in realtà, lo spazio di azione libera e autonoma di ogni singolo individuo è molto ridotto e lo è sempre più nell’attuale città della tecnica. La stessa soggettività di ognuno di noi del resto – l’A. lo dimostra in maniera assai chiara – è formata e “costruita tecnicamente”. L’antropologia di inizio millennio appare plasmata perfettamente dalle logiche che dominano la Ecity e quindi l’idea di poter opporre l’apparato “oggettivo” della tecno-scienza ad una libera coscienza critica individuale rischia di essere soltanto una chimera della quale, del resto, il potere stesso ha bisogno per potersi legittimare come libertario. Questo è tanto più vero, ove si consideri che l’ultima frontiera della cibernetica è l’automazione, ossia l’amplificazione esponenziale della capacità di adattamento delle macchine al mutare delle condizioni presenti in un determinato ambiente. Da questo quadro teorico, genealogico e fenomenologico insieme, non è difficile dedurre che l’obiettivo finale della visione del mondo tipica del nostro tempo sia quello di superare completamente il senso dell’azione umana, nella sua imprevedibilità e creatività costitutiva, rendendo «prevedibile e indefinitamente reiterabile l’esperienza[17]».

La morte dell’uomo postulata da Foucault ne Le parole e le cose assume lineamenti sempre più chiari e più prossimi. Martone, nella sua opera, ne dà conto lucidamente, ricostruendo le logiche alla base di una città elettronica alla quale noi tutti siamo assoggettati, invitandoci a riscoprire il valore del vulnus originario dell’uomo e il senso costitutivo dell’«appartenenza all’Altro, nella consapevolezza che soltanto l’apertura di nuovi spazi comunitari potrà produrre risultati apprezzabili ai fini dell’approdo in una inedita fase storica[18]».

Antonio Coratti

 

[1] A. Martone, Ecity. Antropologia della tecnica, Rubbettino Editore, 2018, p. 104

[2] Ibidem

[3] Ivi, p. 104-105

[4] Ivi, p. 25

[5] Ivi, p. 25

[6] Ivi, p. 42

[7] Ivi, pp. 43-44

[8] Ivi, p. 92

[9] Ivi, p.97

[10] G. Simmel, Filosofia del denaro, Utet, Torino, 1984, pp. 219-220; in A. Martone, op. cit., p. 97

[11] Ibidem

[12] Ivi, p. 30

[13] Suggestiva l’analogia con il mito di Prometeo: «lo sguardo di Prometeo, concentrato nella corsa spasmodica in avanti, non ha mai avuto tempo di guardare la propria immagine riflessa nello specchio, né di guardare il cielo e di vederlo per quello che è, ossia un’entità ormai vuota»; Ivi, p. 107

[14] Ivi, p. 45

[15] Ivi, p. 44

[16] Ivi, p. 113

[17] Ivi, p. 141

[18] Ivi, p. 129

 

 

L. Ferrajoli, La democrazia costituzionale, Il Mulino 2016

Luigi Ferrajoli

La democrazia costituzionale

Il Mulino, Bologna 2016, pp. 106, € 10,00.

 

 

 

 

 

Nel breve volume introduttivo La democrazia costituzionale Luigi Ferrajoli traccia un quadro sintetico e esaustivo dei principi e degli elementi che sono alla base dell’introduzione delle cosiddette “costituzioni rigide” del secondo dopoguerra, quali limiti e vincoli imposti ai poteri di maggioranza. L’introduzione di tali costituzioni ha mutato profondamente la democrazia e il diritto, a seguito della stipula di principi di giustizia affermati tramite norme costituzionali sovraordinate ad ogni altre (principio di eguaglianza, diritti di libertà e diritti sociali), ma soprattutto esse hanno imposto alla legislazione ordinaria limiti e vincoli di contenuto quali condizioni di validità delle leggi (p. 7). Siffatti mutamenti strutturali della democrazia hanno rivelato l’inconsistenza di alcuni fondamenti teorici propri della democrazia stessa, ossia quella teoria secondo la quale essa non sarebbe altro che una forma di governo nel quale il potere è esercitato direttamente, o mediante rappresentanza, dal popolo. Secondo tali prospettive, la democrazia consisterebbe principalmente in un metodo di formazione delle decisioni, in cui il potere sarebbe saldamente nelle mani della maggioranza dei governati. Tale definizione rimanda direttamente a quella di “autonomia” che, secondo un celebre principio rousseuiano, sarebbe data dal potere di dar norme a se stessi e di non obbedire ad altre norme che a quelle date a se stessi. Ferraioli chiarisce come tale nozione sia identificabile come democrazia formale o procedurale, cioè in quelle forme e procedure che garantiscono che le decisioni siano espressioni, direttamente o indirettamente, della volontà popolare. Per quanto tale dimensione formale costituisca un connotato assolutamente necessario della democrazia, del suo potere legittimato, è necessario altresì riconoscere e considerare anche una “dimensione sostanziale”. Tale aspetto si limita ad individuare la correttezza formale delle decisioni sulla base di due criteri, il chi (il popolo o i suoi rappresentanti) e il come (la regola della maggioranza). Questa nozione di autonomia non è in grado di rendere conto dell’attuale paradigma dello stato costituzionale, nella misura in cui si richiede che i poteri pubblici siano esercitati esclusivamente dal popolo. Ferrajoli chiarisce come essa disconosca, in tal modo, quei limiti e vincoli ai quali il supremo potere legislativo è assoggettato e che costituiscono l’elemento di novità introdotto entro la struttura delle democrazie costituzionali. Nel tentativo di far luce su quella dimensione sostanziale, dovremmo indagare il nesso indissolubile che lega la democrazia politica (e la sua concezione formale) a quei diritti fondamentali costituzionalmente stabiliti, a partire dalla tesi che la volontà della maggioranza debba essere limitata da taluni diritti fondamentali come precondizione della democrazia (p. 11). Si intende, in questo modo, impedire che i metodi democratici (secondo la regola della maggioranza) possano sopprimere gli stessi principi democratici; non alludo qui soltanto ai diritti sociali e politici, ma anche a quegli elementi portanti che ne definiscono la struttura (il pluralismo politico, la rappresentanza, la separazione dei poteri etc.). Ferrajoli intende rievocare le esperienze storiche dei totalitarismi (il nazionalsocialismo), i quali si impadronirono del potere e soppressero la democrazia attraverso metodi democratici; ed è utile anche ricordare come dalla memoria ferita di quelle esperienze nacque il paradigma costituzionale e garantista delle odierne democrazie. È dunque importante comprendere come il metodo di formazione delle decisioni politiche basato sulla rappresentanza popolare (sulla regola della maggioranza e sul suffragio universale) garantisca soltanto sulla “forma” in cui le decisioni sono prodotte, ma non sul che cosa, sul valore di giustizia e sulla sostanza democratica di esse. L’autore chiarisce come questa tesi sembri smentire la storia e un certo orientamento del pensiero democratico da Platone, passando per Rousseau, fino ad arrivare a Kant. Si deve smentire l’idea rousseauiana che vi sia una “volontà generale” in sé assolutamente buona e giusta, e quindi sempre rivolta al bene comune e all’ ”utilità pubblica”. Quest’ultima è stata infatti confutata da quelle stesse esperienze storiche a cui abbiamo fatto precedentemente riferimento, le quali hanno messo in discussione lo stesso fondamento assiologico della democrazia formale: quello dell’autogoverno e dell’autodeterminazione del popolo, da intendersi come la libertà positiva del popolo di non essere soggetto ad altre decisioni (p. 16). L’autore denota, richiamandosi a Kelsen, come nella democrazia rappresentativa il voto popolare contribuisca soltanto all’elezione di chi è chiamato a decidere, senza che sia possibile da parte degli elettori entrare nel merito del contenuto delle decisioni politiche. L’odierna democrazia si caratterizza, infatti, non tanto per il libero consenso, quanto per il libero dissenso, quale massima espressione del pluralismo politico. Non bisogna cadere nell’illusione, che sopravvaluta il grado di autonomia decisionale dei rappresentati, di concepire il popolo come un unico corpo politico dotato di una certa volontà omogenea, o ancora nell’illusione che i principi di maggioranza e di rappresentativi esprimano “la volontà generale e unitaria” del popolo. Bisogna evidenziare quanto tale associazione produca l’effetto di ignorare i conflitti e il disaccordo che caratterizzano le dinamiche socio-politiche e che configurano anche i conflitti di classe. L’autonomia politica, quale legittima espressione dei diritti politici, non deve essere intesa quale realizzazione dell’autogoverno (soggezione alle leggi prodotte da sé medesimi), bensì in quanto “libera opposizione”. L’autentico fondamento assiologico della dimensione formale della democrazia è il principio di eguaglianza, da cui emanano i diritti fondamentali posti dalla Costituzione a garanzia di se stessa; esso rappresenta anche il principio d’accordo del pluralismo politico (la libertà di dissenso) e del sistema rappresentativo. Accanto alla validità formale, la quale costituisce il paradigma procedurale della democrazia (di cui sono espressione il voto, la regola di maggioranza etc.), vi deve essere anche una dimensionale sostanziale della democrazia. Tale dimensione concerne i contenuti normativi, i quali devono essere concepiti coerentemente rispetto alle norme costituzionali che ne limitano la sostanza. La dimensione sostanziale della democrazia si richiama alla sostanza delle decisioni (pubbliche o private): perché una legge sia valida è altresì necessaria la coerenza dei suoi significati con regole che possiamo chiamare norme sostanziali sulla produzione (p. 31). Ferrajoli disegna un quadro quadridimensionale di democrazia, del quale sono espressione le quattro classi di diritti entro le quali possono essere distinti “i diritti fondamentali” (diritti politici, diritti civili, diritti di libertà e diritti sociali). Possiamo, a buon ragione, distinguere i primi due sulla base del loro statuto formale (posti a garanzia dell’autonomia politica e privata degli individui), perché valgono a fondare la legittimità (formale) delle decisioni; attribuiamo invece ad una seconda classe, costituita dai diritti sociali e di libertà, una dimensione puramente sostanziale. L’autore fonda su queste quattro dimensioni l’impalcatura dell’odierna democrazia costituzionale, che assolve ad una importante funzione di garanzia, ossia impedisce la possibile manomissione, da parte di poteri pubblici o privati, dei principi fondamentali di una costituzione democratica come l’eguaglianza, la dignità della persona, la separazione dei poteri, l’indipendenza della giurisdizione, il conflitto d’interesse e così via. Alla luce di quest’analisi, è ancora una volta importante sottolineare come il potere di maggioranza non garantisca l’equilibrio e la qualità del sistema politico, ma, in taluni casi, ne metta a rischio persino la sopravvivenza. Si riscopre, in tal senso, il significato di Costituzione come limite e vincolo all’esercizio del potere pubblico: Ogni società nella quale non sono assicurate la garanzia dei diritti e la separazione dei poteri non ha costituzione (p. 40). Si può far derivare da tali ragioni la necessità di stipulare una “Costituzione rigida”, che a partire dal dopoguerra ha visto sorgere le tante Carte Internazionali, tra cui la Carta dell‘ Onu, le quali stabiliscono una serie di divieti a carico della maggioranza, come ad esempio azioni lesive dei diritti fondamentali e del principio d’eguaglianza. I diritti fondamentali costituiscono, nondimeno, delle norme sovraordinate a qualunque altra norma dell’ordinamento, ovvero delle “regole tetiche”: dei principi che sono oggetto non di applicazione, bensì di bilanciamento. L’affermazione di tale concezione garantista del costituzionalismo deve essere affermata contro le derive plebiscitarie della democrazia rappresentativa e le sue degenerazioni populistiche. Questo garantismo, di cui sono espressione le quattro dimensioni di diritti precedentemente annunciate, realizza di fatto le condizioni di effettività della democrazia. Nell’ultima parte, l’autore analizza i possibili fattori di crisi del paradigma della democrazia costituzionale, che può tradursi in una “virtuale divaricazione” tra normatività e “effettività”. È possibile denotare come tale divaricazione sia, in una certa misura, fisiologica, in ragione di una dose di ineffettività delle garanzie costituzionali. Tuttavia essa, oltre tale misura ordinaria, diviene espressione di “un punto di crisi” che si traduce in un difetto di legalità (p. 77). Le cause generanti, come evidenzia Ferrajoli, sono molteplici: sono inquadrabili, da una parte, entro le costituzioni rigide statali, che vedono un progressivo processo di obsolescenza dei principi della stessa concezione democratica – dalla soggezione alla legge dei poteri di maggioranza alla tendenza di tutti poteri di legittimarsi autonomamente; dall’altra, dalla mancata costruzione di una sfera pubblica sovranazionale in ragione di uno spazio globale all’interno del quale i poteri pubblici e economici risultano essersi trasferiti. Inoltre, si può rilevare anche una particolare tendenza illegalistica, della quale si fanno portatori i poteri pubblici e privati. Tutto ciò risponde all’esigenza di un maggiore coordinamento delle concezioni della democrazia e della libertà (liberal-democrazia) con le decisioni dei poteri economici del mercato e quelle della maggioranza dei poteri politici di ciascun governo. Si è, infatti, determinata una pericolosa affermazione assolutistica di tali poteri, in contrasto con i principi di uno Stato Costituzionale di diritto. Ciò ha, infine, portato ad un radicale ridimensionamento di gran parte dei diritti sociali, dello statuto fondamentale dei lavoratori, del diritto alla salute e all’istruzione. Questa demolizione di diritti, frutto di anni di lotte sindacali, ha visto la precarizzazione del lavoro e di tutte le garanzie dei lavoratori. Ancor più gravi, sottolinea l’autore, sono le violazioni compiute nell’ambito dei diritti umani internazionali – che hanno visto la riesumazione di dottrine ormai archiviate quale quella della “guerra giusta” e che hanno evidenziato, sul piano strettamente giuridico, un vuoto di diritto pubblico costituzionale. È venuta perciò a crearsi una preoccupante asimmetria tra il “carattere planetario” di tali poteri e il carattere statale del diritto e della politica. L’assenza di regole di diritto pubblico idonee a disciplinare i poteri del mercato ha prodotto una crisi economica anche nei paesi più ricchi, che è degenerata in una crisi delle forme democratiche. Questa crisi ha messo in luce la totale impotenza della politica, degli Stati e delle loro tradizionali istituzioni democratiche, e la loro subalternità nei confronti del capitalismo globalizzato. La politica e le sue istituzioni democratiche hanno abdicato alla loro funzione di governo per assoggettarsi alle “leggi del mercato” e ai poteri selvaggi della finanza speculativa, mediante una serie di interventi politico-economici. Non sono più i governi democraticamente eletti e i suoi parlamenti a regolare “il mondo degli affari” in nome dell’interesse pubblico, bensì sono le potenze deregolamentate del mercato a governare gli Stati nazionali. Si è così invertito il rapporto tra pubblico e privato, che ha avuto come conseguenza l’affermarsi di politiche anti-democratiche in funzione dell’interesse privato della “massimizzazione del profitto”. In ultimo, la crisi economica in atto potrebbe, secondo Ferrajoli, offrire l’occasione per avviare un possibile processo di integrazione internazionale, o almeno europea. Sarebbe dunque necessaria, anzi indispensabile, la costruzione di una sfera pubblica sovrastatale, da intendersi come un sistema di vincoli ai nuovi poteri globali e un ripensamento, a livello statale ma anche sovrastatale, della celebre tripartizione dei poteri pubblici montesqueiana, che tenga conto del mutamento e dell’espansione della sfera pubblica prodottasi nell’ultimo secolo.

Luigi Somma

 

 

 

G. Agamben, Stato di eccezione, Bollati Boringhieri 2003.

Giorgio Agamben

Stato di eccezione

Bollati Boringhieri, Torino 2003, pp. 120, € 14,00.

 

 

 

 

 

La straordinaria attualità del saggio di Agamben, Stato di eccezione (2003), è propria di una visione che non può essere ridotta all’analogia con il singolo evento “eccezionale” di cui ci aggiornano con sempre maggiore frequenza le cronache dei media; essa riguarda, piuttosto, lo spirito di una intera epoca, di cui i singoli eventi non sono che manifestazioni contingenti. In particolare, a partire dalla prima guerra mondiale si è costituito «uno stato di eccezione permanente», poi diventata «una pratica corrente nelle democrazie europee», che, nel corso dei decenni, ha affrontato l’emergenza militare, l’emergenza economica[1], quindi nucleare, fino a giungere all’emergenza terrorismo e alla “questione migranti” dei nostri giorni. In tutte queste manifestazioni di problemi politici, è stata proprio “la politica”, con tutti i suoi rapporti inter-istituzionali, a venir meno e a cedere spazio allo stato di eccezione che, normalizzato, diventa un dispositivo letale per la democrazia stessa messa tra parentesi, per i diritti che si cedono in nome dell’emergenza e, in definitiva, per tutte le nostre vite. Nella sua analisi, Agamben mette in luce i risvolti che lo stato di eccezione permanente impone ai rapporti tra diritto e politica, tra legge e vita, tracciandone confini inediti rispetto alla tradizione della Repubblica romana, in cui lo stato d’eccezione si dispiegava in tutt’altro modo e per altri fini. Contrariamente alla teoria moderna dello Stato, per la quale il concetto di sovranità assume una connotazione particolare, contrassegnata dall’unità indistinta e indeterminata di auctoritas e potestas, nel mondo della Repubblica romana auctoritas e potestas sono funzioni differenti, demandate a soggetti diversi e, per certi aspetti, in lotta continua e dialettica fra loro. In particolare, auctoritas è «il termine che designava a Roma la prerogativa più propria del senato […] auctoritas patrum è il sintagma che definisce la funzione specifica del senato nella costituzione romana[2]». Lo stesso Carl Schmitt, dalla cui nota definizione del sovrano come «colui che decide sullo stato di eccezione» prendono corpo le riflessioni di Agamben, lamentava «la mancanza di tradizione della moderna teoria dello Stato, che oppone autorità e libertà, autorità e democrazia fino a confondere l’autorità con la dittatura[3]», dichiarando di essersi ispirato per il suo trattato di diritto costituzionale all’acume e alla profondità del diritto romano per il quale «il senato aveva l’auctoritas, dal popolo invece si fanno discendere potestas e imperium[4]». La prima questione sollevata dalla distinzione tra auctoritas e potestas (o imperium) attiene, dunque, al problema della legittimità. Contrariamente al carattere elettivo e alla funzione rappresentativa dei detentori della potestas o dell’imperium, l’auctoritas «non ha nulla a che fare con la rappresentanza […] l’atto dell’auctor non si fonda su qualcosa come un potere giuridico di rappresentanza di cui egli è investito […] esso scaturisce direttamente dalla sua condizione di pater[5]». Per il fatto stesso di non (dover) essere legittimata dal popolo, all’auctoritas non spetta la decisione, l’imperium, presupponendo sempre, al contrario, qualcosa su cui esprimersi. Non a caso, il termine tecnico per definire le azioni del senato è consultum che, come affermato da Mommsen, equivale a «meno che un ordine e più che un consiglio[6]». Pur essendo nettamente distinta dalla potestas e dall’imperium dei magistrati, la funzione dell’aucoritas patrum vi si intreccia necessariamente e costantemente, spettando ad essa la ratifica e l’autorizzazione delle decisioni dei consigli popolari, nonché la sospensione o l’attivazione di procedure politico-giuridiche. La chiave per comprendere a pieno questa «potenza che accorda la legittimità, nella sua relazione alla potestas dei magistrati e del popolo» risiede, secondo Agamben, nell’analisi della «figura estrema dell’auctoritas che è in questione nel senatoconsulto ultimo e nel iustitium[7]». Si tratta di un istituto del diritto romano che il senato poteva evocare in situazioni di pericolo per la Repubblica emettendo un senatus consultum ultimum «col quale chiedeva ai consoli […] e, al limite, a ogni cittadino, di prendere qualsiasi misura che si ritenesse necessaria per la salvezza dello Stato[8]». In questo modo, per mezzo del iustitium il senato sospendeva il diritto provocando, di fatto, un vuoto giuridico in cui ogni cittadino romano, fosse egli magistrato o un semplice privato, perdeva diritti e doveri, nonché la funzione sociale e politica ricoperta fino a quel momento. Ma, allo stesso modo, un senatoconsulto, in presenza di gravi pericoli per la Repubblica, poteva resuscitare l’imperium di ex dittatori o consoli, come avvenuto nel 211 a.c. sotto la minaccia di Annibale. Le due azioni contrarie della sospensione della potestas da un lato e della riattivazione della stessa dall’altro sono entrambe manifestazioni della medesima essenza del potere dell’auctoritas, che può sospendere o riattivare il diritto perché «non vige formalmente come diritto[9]». In effetti, afferma Agamben, da una parte l’auctoritas che decide per lo stato di eccezione e per il conseguente vuoto giuridico sembra «assolutamente impensabile per il diritto», in quanto auctor che ne intima la sospensione, dall’altra, tuttavia, l’ordine giuridico stesso pare doversi «mantenere necessariamente in rapporto con un’anomia» per fondarsi[10]. Lo stato di eccezione nel mondo romano rappresenta il dispositivo in grado di articolare i rapporti dialettici tra potestas e auctoritas al fine di permettere il superamento delle crisi dell’ordinamento giuridico-politico: si tratta, naturalmente, di finzioni «attraverso le quali il diritto tenta di includere in sé la propria assenza e di appropriarsi dello stato di eccezione o, quanto meno, di assicurarsi una relazione con esso[11]» attraverso il potere non dispotico dell’auctoritas. Per questo motivo, Agamben contesta la “confusione” schmittiana tra stato di eccezione e dittatura: secondo il paradigma del iustitium «lo stato di eccezione non si definisce … come una pienezza dei poteri, uno stato pleromatico del diritto, ma come uno stato kenomatico, un vuoto e un arresto del diritto[12]». Cambiare prospettiva in questo senso, superando il “paradigma della dittatura[13]” nella gestione e nella giustificazione giuridica dello stato di eccezione e riconoscendo il «suo autentico, ma più oscuro paradigma genealogico nel diritto romano[14]», significa rivalutare il rapporto diritto/violenza e rivendicare, a questo proposito, il ruolo forte della politica. L’anomia che si apre a seguito della sospensione del diritto neutralizza, infatti, sia la sfera comune dello spazio pubblico sia quella privata, coinvolgendo allo stesso tempo la città tutta e il singolo: «lo stato di eccezione non è una dittatura […] ma uno spazio vuoto di diritto, una zona di anomia in cui tutte le determinazioni giuridiche – e, innanzitutto, la stessa distinzione fra pubblico e privato – sono disattivate[15]». In questo spazio anomico non vige alcuna legge, non c’è traccia di alcun imperium esercitato da un potere sovrano: in questo non-luogo regna la forza-di-legge, ovvero la forza-di-legge separata dalla legge, un elemento mistico[16] «di cui tanto il potere quanto i suoi avversari, tanto il potere costituito quanto il potere costituente cercano di appropriarsi[17]». Il vuoto anomico è, dunque, previsto e necessario dalla distinzione originaria nell’ordinamento giuridico e politico della Repubblica romana tra auctoritas e potestas al fine della propria ri-vitalizzazione ad ogni insorgere dell’eccezione. Al contrario, «l’essenziale contiguità fra stato di eccezione e sovranità[18]» fissata da Carl Schmitt deriva direttamente dall’idea moderna di «una indistinzione e pienezza originaria del potere», presupponendo il fatto che «lo stato di eccezione implichi un ritorno a uno stato originale pleromatico in cui la distinzione tra i diversi poteri (legislativo, esecutivo, ecc.) non si è ancora prodotta[19]». La differenza tra le due posizioni è tutta nell’idea di legge, ovvero di forza-di-legge. Nel caso della Repubblica romana, l’istituto del iustitium che sospende il diritto per un evento eccezionale è motivato in ultima istanza dal principio secondo cui «ogni legge è ordinata alla salvezza comune degli uomini, e solo per questo ha forza e ragione di legge; se viene meno a ciò, non ha efficacia obbligatoria. Nel caso di necessità, la vis obligandi della legge viene meno, perché il fine della salus hominum viene nella fattispecie a mancare[20]». Al contrario, laddove «con i moderni» lo stato di eccezione diventa espressione della sovranità, la necessità tende ad essere inclusa nell’ordine giuridico costituendo «il fondamento ultimo e la sorgente stessa della legge[21]». La decisione sullo stato di eccezione che Schmitt riserva al “sovrano”, in un contesto come quello contemporaneo caratterizzato da uno stato di eccezione permanente[22], comporta «la progressiva erosione dei poteri legislativi del parlamento, che si limita oggi spesso a ratificare provvedimenti emanati dall’esecutivo con decreti aventi forza-di-legge[23]», minando alla base i principi democratici.

La politica è oggi, sempre più, «contaminata col diritto, concependo se stessa nel migliore dei casi come potere costituente (cioè violenza che pone il diritto), quando non si riduce semplicemente a potere di negoziare col diritto[24]». Alla base di questa deriva risiede la concezione della sovranità come insieme indistinto di auctoritas e di potestas, come potere originario che dà la vita, di cui decide sempre le sorti, per il corpo sociale e per il singolo, nell’ordinario e nella necessità. Riconoscere la differenza tra vita e diritto, anomia e nomos, auctoritas e potestas sarebbe un primo passo per riscoprire la sfera politica, quello spazio in cui la vita rivendica la sua autonomia in una tensione dialettica con il diritto, che non ha mai fine.

Antonio Coratti

 

[1] G. Agamben, Stato di eccezione, Bollati Boringhieri editore, Torino, 2003, p. 23

[2] Ivi, p. 95

[3] C. Schmitt, Der Hüter der Verfassung, Mohr, Tübingen, 1931, p. 137; in Agamben, op. cit., p. 96

[4] C. Schmitt, Verfassungslehre, Duncker & Humblot, Berlin, 1928, p. 109; in Agamben, op. cit, p. 96

[5] G. Agamber, op. cit., pp. 98-99

[6] T. Mommsen, Römisches Staatsrecht, Akademische Druck, Graz, 3 voll., 1969, p. 1034, in Agamben, op.cit., p. 100

[7] G, Agamben, op. cit, p. 101

[8] Ivi, p. 55

[9] Ivi, p. 101

[10] Ivi, p. 66

[11] Ivi, p. 67

[12] Ivi, p. 63

[13] L’iscrizione, da parte di Schmitt, dello stato di eccezione nella “tradizione prestigiosa della dittatura romana” è stato, secondo Agamben, un “errore interessato”, funzionale a giustificare giuridicamente lo stato di eccezione stesso, Ibidem

[14] Ibidem

[15] Ivi, p. 66

[16] Il chiaro riferimento agambeniano è al “fondamento mistico dell’autorità” che Derrida, parafrasando Montaigne, pone al centro del testo Dal diritto alla giustizia, poi pubblicato in J. Derrida, Forza di legge. Il “fondamento mistico dell’autorità”, Bollati Boringhieri. Torino 2003

[17] Ivi, p. 67

[18] G. Agamben, op. cit, p. 9

[19] Ivi, p. 15

[20] Ivi, p. 36; Agamben traduce con queste parole l’adagio latino necessitas legem non habet

[21] Ibidem

[22] Agamben parla di «creazione volontaria di uno stato di emergenza permanente» come «una delle pratiche essenziali degli Stati contemporanei» (Ivi, p. 11)

[23] Ivi, p. 17. «La prima guerra mondiale coincise nella maggioranza dei paesi belligeranti con uno stato di eccezione permanente… E’ in questo periodo che la legislazione eccezionale per via di decreto governativo…diventa una pratica corrente nelle democrazie europee. Com’era prevedibile, l’allargamento dei poteri dell’esecutivo in ambito legislativo proseguì dopo la fine delle ostilità ed è significativo che l’emergenza militare cedesse ora il posto all’emergenza economica, con una implicita assimilazione tra guerra ed economia», Ivi, p. 23

[24] Ivi, p. 112

M. Barcellona, Dove va la democrazia, Castelvecchi 2018

Mario Barcellona

Dove va la democrazia?

Castelvecchi, Roma 2018, pp. 87, € 15,00.

 

 

 

 

Il breve saggio, che con questo titolo, sarà a breve pubblicato da Castelvecchi, tratta della crisi della democrazia.

L’idea da cui muove è che all’origine di questa crisi stia uno scontro, che è insorto circa cinquant’anni fa soprattutto sul terreno del rapporto tra politica ed economia e che ha radicalmente ridisegnato la stratificazione sociale e gli immaginari individuali e collettivi. Per questo ne tratta a partire dal celebre Report su “La crisi della democrazia”, redatto a metà degli anni ’70 del secolo scorso da M.J. Crozier, S. Huntington e J. Watanuki: la crisi in esso diagnosticata suggeriva la destrutturazione delle società del Welfare ed è da questa destrutturazione che nasce, appunto, la crisi di oggi.

La Postdemocrazia di C. Crouch, la Controdemocrazia di P. Rosanvallon e la Democrazia deliberativa degli allievi di J. Habermas suggeriscono che la democrazia possa essere salvata dall’esterno delle istituzioni rappresentative, attraverso un demos che si organizzi fuori da quelle forme e da quei partiti che fino a qualche tempo fa le avevano vivificate.

La tesi di questo saggio è che, invece, non ci sia un “esterno”, un “fuori” intrinsecamente diverso dalle istituzioni della democrazia che, di per sé, sia in grado di salvarla. Perché la sua crisi comincia proprio da questo “esterno”: essa viene da una mutazione antropologica, che investe i pensieri e le prassi, che ridetermina la cifra quasi prepolitica delle relazioni sociali, che alle molteplici solidarietà della società di un tempo sostituisce una universale singolarizzazione, una individualizzazione di massa, che produce in ciascuno una percezione di sé astratta dalle proprie condizioni, materiali e spirituali, di esistenza e lo rende “impolitico” e, perciò, “irrappresentabile”.

Come si è osservato in una precedente riflessione (Tra Impero e Popolo. Lo Stato morente e la sinistra perduta, Castelvecchi, 2017) di cui qui è sembrato giovasse ricordare alcuni passaggi, la progressiva estinzione delle sovranità nazionali e la robottizzazione e informatizzazione dell’economia hanno stravolto i rapporti di lavoro e con essi gli assetti generali delle società: la stratificazione sociale ha preso la forma di una clessidra, ove la parte superiore è occupata dalle élite, dalle loro corti e dai minores che esse garantiscono ed in quella inferiore trova posto tutto il resto, l’insieme molteplice dei non protetti.

A questa modificazione dei rapporti sociali e politici si è, però, accompagnata una ancor più radicale modificazione del modo in cui gli uomini intendono sé stessi ed i rapporti tra loro: un orizzonte, ove a ognuno è dato di salvarsi da solo. Di questa modificazione, che prende forma nell’ascensa dell’ordo˗liberalismo a “pensiero unico” e che consiste in una universale singolarizzazione delle società, è figlia la “morte della politica” e sono nipoti i populismi di oggi. Essa consiste in una universale astrazione dalle condizioni di esistenza di ogni individuo e procura che il disagio di una tal “società liquida” sia esternalizzato: la singolarizzazione rende latente il conflitto e, senza conflitto, c’è solo l’indistinto del popolo, che cerca le ragioni del suo malessere in un altro da sé e riesce a vederlo solo nell’indistinto di una superfetazione parassitaria del potere o del diverso che viene da fuori. Ma le è anche parente quel che ai populismi si contrappone e che però, seppur con ben altri fini, ne ripete il paradigma, solo svestendolo dal disagio e dal risentimento: la predicazione che la distinzione tra destra e sinistra, ossia la disputa sull’ordine ed il governo sociale, è del tempo che fu.

È, per l’appunto, questa modificazione dell’immaginario che fa di questa società una società impolitica e irrappresentabile.

Le origini della politica moderna e i mutamenti cui la rappresentanza è andata incontro dal tempo dell’ideazione dello Stato moderno giovano a comprendere meglio questo passaggio cruciale.Nel grande artificio secondo il quale è stata pensata l’origine dello Stato moderno, il patto sociale esibiva una fondazione politica, che, però, dava vita ad un ordine al cui funzionamento la politica rimaneva del tutto estranea. E postulava un popolo concepito come dispera multitudo, che ha voce solo una volta e solo nella finzione della sua stipula. L’ordine, perciò, stava fuori dallo Stato, nel particolare delle relazioni private, e lo Stato metteva in scena solo l’interesse suo proprio, l’interesse generale. Questo Stato, dunque, non conosceva la politica come disputa sull’ordine e non conosceva la rappresentanza se non come rappresentazione dell’artificiale unità della moltitudine.

Politica e rappresentanza entrano nel mondo solo quando la liquidità della dispersa moltitudine hobbesiana prende a solidificarsi e quando la società dei liberi e uguali proprietari di J. Locke prende a divedersi tra proprietari e non proprietari.       Il loro presupposto è, dunque, la distinzione, ossia l’oltrepassamento della doppia astrazione su cui si è inaugurata la modernità, quella del popolo (che metteva in scena l’unità artificiale di un’indistinta moltitudine) e quella dell’eguale soggetto proprietario (che consegnava il retro-scena della ribalta pubblica all’incommensurabile singolarità dei portatori di diritti e dei loro interessi particolari).

Politica e rappresentanza, dunque, prendono la scena della Modernità solo quando il suo immaginario originario viene rimosso, solo quando il posto della dispersa moltitudine di un tempo è preso da solidificazioni, appartenenze organizzate, che pongono le condizioni imprescindibili della politica e della democrazia rappresentativa. La crisi di oggi nasce, così, da una sorta di ritorno di quell’immaginario originario: il popolo si ripresenta di nuovo come moltitudine degli individui irrelati e le solidificazioni della politica si dissolvono nella società liquida della universale singolarizzazione.

Nel domani di una tale società singolarizzata non ci può essere, allora, che una democrazia singolare. Una democrazia che, sul versante della politica, produce disincanto e rancore per fronteggiare i quali può solo consegnarsi a crescenti divaricazioni tra governo e società. E che, coniugandosi con la rivoluzione economica della tecno˗scienza, produce già, e sempre più produrrà, una società divisa, dove la nuova moltitudine degli esclusi rischia di essere confinata in una nuova riserva sussidiata proprio perché non aspiri più a lavorare.

Robot e intelligenza artificiale – si osservava nel saggio che si è prima ricordato – sembra promettano di distruggere più lavoro di quello che la crescita da essi promossa produce. Si riprospetta così, in una forma inedita, un’antica contraddizione: l’iperbolica crescita della produttività espande incessantemente le capacità di produrre merci, ma riduce incessantemente le basi salariali del loro consumo.

Probabilmente il capitalismo troverà il modo di sottrarsi ad un esito infausto del suo rinnovato matrimonio con la tecno˗scienza. Ma le conseguenze per la società si intravedono già: precarizzazione e, poi, inoccupazione, insicurezza e solitudine, e una democrazia singolare che conta sempre più sull’indifferenza e l’astensione. Lo scenario che preannunciano è quello di una società spaccata in un nucleo operoso, in grado di accedere ai consumi della produzione tecnologica, ed una grande riserva, ove il “resto” è confinato proprio per non lavorare e sono somministrate assistenza e rassegnazione.

Solo un nuovo immaginario, che riprenda a distinguere e ad aggregare, seppur nel modo necessariamente diverso che a questo tempo è proprio, potrebbe, dunque, inaugurare un ritorno della politica e il ridispiegamento di una democrazia che ridia corpo alla rappresentanza.

Se si vuole sottrarre la democrazia al destino singolare che l’oggi promette, occorre, perciò, chiedersi se e immaginare come la società possa tornare a pensarsi politicamente e ad organizzare in conseguenza la propria rappresentanza, e dunque come si retrocede o si oltrepassa l’universale singolarizzazione, dalla quale dipende, e nella quale propriamente consiste, la sua crisi.

Concepire un altro immaginario e un’altra democrazia, restituita alla politica ed alla rappresentanza, potrebbe sembrare utopico: non c’è più lo Stato su cui politica e rappresentanza erano cresciute, non ci sono più i confini a riparo dei quali esso aveva preso forma e si erano resi pensabili progetti di società, un’universale contingenza sembra la sola cifra secondo la quale il mondo di oggi si lascia trattare. Ma pensare che non si possa ormai che registrare tutto questo vorrebbe dire che le società hanno cessato di auto-istituirsi, che l’immaginazione che ne ha segnato i tempi si è ormai spenta, che la fonte delle sue significazioni si è definitivamente inaridita, che il logos della tecno-scienza sposata col mercato e la sua economia l’abbia irrevocabilmente prosciugata. E questo, forse, non è ancora detto.

Su questo, che è il vero spazio della politica e della democrazia, l’unico, occorrerebbe, allora, iniziare a riflettere.

 

J. Kristeva, Simone de Beauvoir. La rivoluzione del femminile, Donzelli 2018.

Julia Kristeva

Simone de Beauvoir La rivoluzione del femminile. 

Donzelli, Roma 2018, pp. 140, € 16,15.

 

 

 

 

Continua a produrre pensiero la scrittrice francese di origine bulgara, Julia Kristeva. Un pensiero solido, autorevole, anticonvenzionale. Laddove il dibattito sul femminismo, nel diritto e nella cultura, sembra oggi sradicato dalla carne delle sue lotte reali nella storia del continente, ecco la Kristeva regalare una riflessione di brevi pennellate e saggi veloci, confluiti in Italia, per i tipi di Donzelli (Roma, 2018), in “Simone de Beauvoir. La rivoluzione del femminile”. Il rischio metodologico della cultura accademica – e di quella militante – in materia di femminismo è esattamente quello di confinarne genesi e sviluppo nella riflessione nord-americana e anglosassone, come se i codici di quel femminismo critico fossero gli unici oggi servibili nel ricomprendere e abbattere il patriarcato. Nulla di più falso, ci porta a dire l’agile volume della Kristeva: il femminismo ha una storia politica e di lotta piena, vera, reale, battagliera, non eterea o alchemica o algida; le sue radici non sono appannaggio dei Paesi del liberalismo anglofono. Il mondo è ricco di riflessione declinata al femminile, di pari o talvolta maggiore qualità e intensità: intestare alla sola critica liberal la radice del femminismo è errore metodologico, giuridico e politologico, non solo ideologico.

La Kristeva racconta il volto attuale e palpitante del femminismo: quello che si affanna a togliere retaggi superati nella cultura black, quello che in Cina e in Russia difende la causa delle donne dovendo cimentarsi in una lotta contropotere sia sui diritti civili che su quelli politici e sociali, quello che nell’Islam è diviso tra sconfessare la fede e l’esigenza di ricondurla al Corano e di liberarla da clericalismi patriarcali. Julia Kristeva sceglie il solo canale possibile: tornare con argomenti nuovi a Simone de Beauvoir (1908-1986), alla sua opera tutta, e alla sua biografia. La narratrice e filosofa francese, del resto, è testimone di decenni dell’impegno nel sociale che, con malamente deprecata e in realtà felice frenesia, mescolavano il teatro e il saggio, il romanzo e l’accademia, l’esibita testimonianza di vita e la riflessione collettiva e antigerarchica. È probabile che questa versatilità tematica e questa indiscutibile varietà di contenuti e di stili rendano difficile l’approdo a una sistemica filosofica organica e fortemente unitaria. La Kristeva, però, non si scoraggia e il suo iter ermeneutico, abbeverandosi a una visione fortemente antiautoritaria della psicologia, cerca costantemente di riannodare i fili, di cucire i punti, di squadernare tutte le possibili, intrinseche, connessioni. Il risultato deve essere considerato molto positivamente, perché garantisce a un volumetto antologico pur molto breve di non disperdere mai una traccia comune, un anelito ricostruttivo apprezzabile, anche sotto il profilo esegetico.

 

Certo, il ruolo privilegiato, nella trattazione, se lo aggiudicano facilmente, per il ciclo dei romanzi “I mandarini”, per l’autobiografia “Le memorie d’una ragazza perbene” e “La cerimonia degli addii”, per la saggistica culta “Il secondo sesso”: tale è stata la fortuna delle opere ricordate che prescinderne sarebbe stato impossibile per qualunque serio lavoro monografico sull’Autrice parigina. L’utilità dell’indagine comparatistica sul classico è in fondo pure quella di non tradire mai una tassonomia minima dell’approccio all’autore, ritornando alle fonti senza pretese di eccessiva semplificazione, anzi arricchendo quei profili che troppe volte si danno per acquisiti. Eppure, la Kristeva, anche a percorrere i binari già tracciati, smobilita l’aneddotica con cui la fine della storia e la sua retorica avevano cercato di seppellire l’esistenzialismo, declassandolo a progenitore piagnone del Maggio francese. Il rapporto con Sartre, ad esempio, è ricondotto alla sua franchezza, senza la coltre posticcia del pettegolezzo: ci sono i tradimenti reciproci, certo, c’è la reciproca influenza-ingerenza nella percezione pubblica del personaggio, ma c’è pure e finalmente l’inesausta entropia di una ricerca comune che segna almeno tre decenni della cultura francese (e occidentale tutta). Sarebbe interessante concepire un lavoro monografico su Sartre che abbia le medesime caratteristiche dell’agevole raccolta che la Kristeva dedica alla riscoperta della sua compagna: un’accessibile opera di rivitalizzazione di nodi tematici. Dopo gli anni della grande fortuna editoriale e del grande consenso esegetico, la discussione collettiva di impegno ha forse riposto con eccessiva fugacità il contributo sartriano, deponendone lo strumentario e bollandolo con la sufficienza che ormai si riserva a quegli anni di intenso vissuto generazionale e di spesso dissacrante posa intellettuale. Spogliato dagli orpelli delle letture convenzionali, anche Sartre avrebbe molto da (tornare a) dire, persino sulle relazioni uomo-donna, che sostanzialmente non possono dirsi costituire capo autonomo della sua proposta politico-interpretativa.

Simone de Beauvoir è per la Kristeva, d’altra parte, l’eroina di un pensiero genuinamente anticonvenzionale: non cade nelle sirene del comunismo totalitarista; anzi, mette a verbale l’inadeguatezza dei tanti parrucconi che vogliono fare del marxismo-leninismo modello di intervento socioculturale sic et simpliciter. Non cede nemmeno alle semplificazioni del coniugio liberal-borghese, la cui libertà non sfugge invero al retaggio del conformismo sociale: il matrimonio dell’opera e della dottrina di Rousseau è tutto fuorché scevro, ad avviso della Kristeva, dall’invadenza di una visione politica e politicamente onnicomprensiva dell’agire sociale. Questi due passaggi avrebbero verosimilmente meritato ulteriore approfondimento; in fondo, la carica contropotere e contro-egemonica del modello socialista aveva seguito perché si poneva come unica alternativa storicamente vittoriosa alla razionalizzazione della legalità capitalistica. E, con pari sincerità, va pur ammesso come il modello rousseauiano non intendesse dotarsi di profili autoritari persino nelle relazioni intersoggettive: in ciò, se mai scivolava, probabilmente finiva perché ancora non era stata depotenziata analiticamente la carica di restrittività che in varie forme poteva rimanere impressa persino nelle istituzioni giuridiche post-illuministiche. Le necessarie spigolature qui proposte non tolgono ovviamente meriti all’opera in commento…

Conviene soprattutto agli uomini rileggere la Kristeva e Simone de Beauvoir: l’insistenza a descriverne il sesso nella sua infantile parvenza di “altro dito”, forse inconsapevole rimando freudiano alla seduzione ordinatrice di quel dito, smantella con pari efficacia ogni illusione sulla pretesa razionalistica del patriarcato. Quest’ultimo non è gestione e ragione della cosa pubblica, contrapposta alla presunta umoralità femminile. È indice alzato, è pretesa attribuzione e avocazione di competenze, che ha strappato lo stemma della deliberazione alla donna. Il femminismo, come tutti i movimenti libertari che hanno saputo tracciare una visione complessiva delle relazioni sociali, ha concorso, insieme agli altri, a reindirizzare quello stemma: dalle mani dell’assolutismo e del convenzionalismo (mani, in fondo, speculari) a quelle della jacquerie, della sua costruzione politica di rivolta.

                                                                                                                                                                                                               Domenico Bilotti

R. Roni, Il flusso interculturale. Pragmatismo etico e peso della storia nella filosofia emergente, Mimesis 2017

 

 

Riccardo Roni 

Il flusso interculturale. Pragmatismo etico e peso della storia nella filosofia emergente

Mimesis, Milano 2017, pp. 172, € 16.

 

 

 

 

Ne “Il flusso interculturale”, Riccardo Roni si propone di riesaminare gli studi condotti sulle origini del flusso di coscienza, nonché il loro riscoperto legame con l’assunto jamesiano dell’interculturalità. Se le prime elaborazioni teoriche assumevano il flusso di coscienza quale espressione della vita interiore del soggetto, ora, invece, si può affermare che traccino il disegno di un flusso di relazioni eterogenee orientate all’apertura di nuovi orizzonti culturali e sociali. L’interculturalità, se rettamente intesa, risponde all’esigenza di una continua messa in discussione delle categorie occidentali, ma anche delle sue fonti e tradizioni. Entro questo quadro, è possibile comprendere come l’auspicato passaggio da una società verticale-piramidale ad una orizzontale, possa condurci in direzione di un modello di società aperta e a un nuovo universalismo inclusivo e plurale. In questo senso, si può rilevare come paradigmi concettuali quali quelli di emergenzialità, di interazione, di continuità delle esperienze, del racconto autobiografico e narrante del proprio Sé, fondino un’interpretazione psicologica dell’altro e del suo vissuto, attraverso una completa ristrutturazione dei principi democratici di convivenza, ma soprattutto mediante la riconfigurazione di linguaggi alternativi e di inedite caratterizzazioni dello spazio e del tempo vissuto. Questo volume è il risultato di una duplice operazione: da una parte, v’è una precisa rivisitazione storiografica e ermeneutica delle elaborazioni teoriche concernenti le origini del flusso di coscienza nella storia del pensiero francese tra ottocento e novecento, e dall’altra, la ricollocazione delle stesse entro il quadro concettuale del pragmatismo americano contemporaneo, in riferimento ad autori come William James e John Dewey. Ciò risponde all’esigenza di una rifondazione interculturale dei saperi e di un ripensamento critico delle categorie fondative del pensiero occidentale. Tali proponimenti assumono ancor più valore se considerati alla luce delle guerre mondiali e dei totalitarismi, germogliati sul terreno dei nazionalismi europei, che hanno posto la questione del riconoscimento dei diritti civili e politici in stretto legame con i diritti sociali.

Il primo capitolo del volume si muove nel tentativo di individuare le radici storico-filosofiche a partire dalle quali si può rilevare il motivo fondamentale dell’interculturalità in ragione delle trasformazioni che hanno segnato l’età moderna. L’autore intende qui determinare l’incidenza storica dell’interculturalità mediante un’opera di ricostruzione che, prescindendo dall’esito ultimo rappresentato dalla prospettiva unidimensionale del mondo globale, rianalizza l’origine dello Stato-nazione moderno, nel quale l’appartenenza etnica viene determinata riduttivamente come un fatto di natura, secondo cui «razza, lingua, territorio natio definiscono così l’identità delle nazioni moderne» (p.17). L’età moderna, come ci mostra l’autore, viene almeno inizialmente a costituirsi intorno ad un “concetto etnico” di nazione, poiché presiede alla formazione dei primi stati nazionali un impulso unificatore, ossia il tentativo di consolidare la mescolanza di sangue e razze intorno ad un nucleo essenziale che costituisce l’identità delle nazioni moderne. A tal proposito, Ortega y Gasset scrive: «Lo stato nasce quando l’uomo si sforza di evadere dalla società nativa in cui ha iscritto il sangue». Ancora Roni spiega come ciò nasconda, di fatto, l’affermarsi di una “egemonia europea”, la quale si muove su due direttrici fondamentali: da una parte, la Riforma e la Controriforma danno vivo impulso al movimento con cui le prime società massificate si dotano di una lingua standard; dall’altra, lo strettissimo intreccio che lega a doppio filo Stato e religione – e che attribuisce al primo carattere sacrale. Tuttavia, una serie di profonde trasformazioni storiche giungono, successivamente, a frantumare tale modello identitario e localistico di nazione: la prima è la Rivoluzione francese, nella quale l’individualismo moderno viene a crollare dinanzi all’ergersi del modello universalista. Ciò pone una lunga serie di questioni concernenti la determinazione assoluta del rapporto tra popolo e nazione; in tale contesto si afferma una concezione “etnicarchica” che vede la storia moderna come teatro di scontro tra razze, o come afferma Augustin Thierry, «la storia moderna è storia di lotta di razza tra conquistatoti e conquistati». L’intero Ottocento è segnato ancora dallo scontro tra lingue, razze e culture, laddove inizia ad affermarsi un modello di democrazia sociale che, però, troverà il suo compimento soltanto nella tarda modernità. Sorvolando, dunque, sul carattere ambivalente e “ambiguo” di democrazia espresso dall’intellettuale francese Alexis Tocqueville – in visita negli Stati Uniti – e magistralmente espresso ne “La democrazia in America”, ciò che va configurandosi in quei anni è un modello di Europa “unificato”; in altre parole v’è un’Europa, dal punto di vista valoriale, ancora interamente ancorata ad una concezione di “cittadinanza nazionale”, nei termini della definizione di un vero e proprio status socio-culturale che travalica gli stessi confini geopolitici (pp.19-20). La storia della tardo-modernità afferma, quasi in via definitiva, il passaggio verso una nuova realtà sociale, politica ed economica: v’è, cioè, una fase di sviluppo segnata dalle “lotte di classe” di marxiana memoria. Tale rilettura di Marx, ad opera dell’autore, consente di spostare il baricentro del conflitto dalla “lotta di razza” a quella di classe, che sorge in concomitanza del configurarsi di due nuove categorie sociali, borghesia e proletariato. Il fulcro decisivo di questo passaggio è riconducibile alla forte impronta cosmopolita apportata dalla borghesia alla produzione e al consumo di tutti i paesi, giacché «con l’idea che i proletari non hanno né lingua, né nazione» si assiste al progressivo e decisivo soppiantamento della rigida concezione dello stato nazionale e di alcuni dei suoi elementi identitari (la lingua, il territorio). Inoltre è necessario evidenziare, nella prima metà degli anni novanta, gli importanti movimenti di liberazione nazionale (si pensi alla lotta per le decolonizzazioni) e alle lotte contro la segregazione e la discriminazione razziale che, in quanto tali, segnarono la transizione da culture pre- e anti-liberali ad una autenticamente liberale, all’interno della quale è forse possibile rinvenire un mutamento di paradigma, maggiormente aperto a spazi di interculturalità; sebbene, una certa “sindrome colonialista” abbia portato, come ci ricorda l’autore, a rinforzare l’idea di “egemonia culturale”.

È interessante rilevare come, sulla scia della scuola pragmatista di G.H Mead e J. Dewey, la sociologa americana Jane Addams, abbia manifestato un certo orientamento interculturale, in particolare nel suo attento studio delle marginalità sociali. Ella rivolge le proprie ricerche alla giovane classe operaia nella grande metropoli (Chicago) e ai giovani dalle differenti etnie che la abitano. Lo spazio della metropoli deve essere necessariamente osservato a partire dalla doppiezza del suo abitare: da un lato, la metropoli intesa come luogo di aggregazione, come comunità nella quale il lavoro assume una funzione mediatrice tra il sé e la comunità stessa, dall’altro «la commercializzazione delle vite», mediante il riversarsi delle stesse nelle industrie del divertimento. Ma ciò che è più importante evidenziare è come la Addams assegni al soggetto la capacità di rivalorizzare le proprie esperienze e di conferire alle stesse un valore superiore, dato dalla capacità del soggetto di accordare la propria sensibilità all’immaginazione, e così facendo di convertire la spinta del desiderio in impulsi psichici qualitativamente superiori. La questione che ella pone rivela il proprio carattere etico nella misura in cui è posta in relazione ad una prassi educativa; v’è, infatti, un problema di adattamento dei giovani lavoratori al proprio ambiente. Sulla base di tali assunti, credo sia utile far riferimento al concetto di “società aperta”, teorizzato da una delle figure intellettuali più eminenti dei primi del Novecento, Henri Bergon. Nella sua opera, Le due fonti della morale e della religione, egli abbozza, per così dire, il disegno di un’inedita “società aperta”, la quale non si ispira alle società reali bensì ad una comunità “mistica”, che abbraccia una concezione più ampia di umanità; l’invito che egli muove alla società è di porsi ad un livello intermedio tra l’istinto animale e la volontà creatrice divina, ossia di innalzarsi al di sopra dell’obbligazione propria degli istinti animali senza, tuttavia, nutrire alcuna ambizione creatrice divina. Tale concezione mistica può essere compresa soltanto a partire dal bisogno connaturato «al sogno di espandere intorno a sé uno slancio d’amore, a cui ciascuno imprima la propria personalità», e in cui ciascuno possa sentirsi amato per se stesso, seppur nella propria intrinseca diversità. V’è quindi come Roni spiega, una certa preminenza dello spirituale sul manuale, che viene, appunto, anteposto al secondo. Come distinguiamo una società aperta da una società chiusa? Dalla capacità della prima di concepire la città, e i suoi membri, come un unico organismo vivente. La società aperta è, in tal senso, una comunità in cui mediante la continua inter-relazioni dei suoi membri, è possibile abbracciare l’intera umanità. Ora, Bergson individua nella democrazia la concezione politica più adatta ad un tale genere di società e, per l’appunto, ciò costituisce un processo decisivo, dal punto di vista interculturale, in direzione del superamento del conflitto religioso e dell’apertura ad un dialogo plurale tra le diverse religioni appartenenti a una stessa comunità. Per concludere, ciò pone in primo piano la figura dell’educatore nella sua fondamentale funzione emulativa, che sembra riallacciarsi all’apparato teorico-concettuale della Addams, e della sua capacità di avviare un processo di ritraduzione delle idee e una loro rielaborazione mediante la lettura dei classici. Questo non solo al fine di poter cogliere il magma incandescente del pensiero che giace sotto lo strato superficiale delle parole, bensì a quello di sottrarre il pensiero al suo nucleo dogmatico, introducendovi “la libera circolazione della vita”, ossia immettendovi un flusso di culture e vissuti declinati al plurale (pp. 28-29). Tali prospettive di pensiero hanno prodotto grandi mutamenti di senso, innanzitutto nella possibilità di innestare un rapporto con il mondo non solo da un punto di vista cognitivo, ma soprattutto etico. Ancor di più, esse hanno ritradotto le esperienze dei totalitarismi novecenteschi in spazi di maggiore autonomia per gli individui, realizzando, entro questa cornice, un passaggio epocale dall’identità alla differenza che ha aperto i confini di una vera e propria rivoluzione culturale e sociale. Questa apertura alla differenza, una categoria cardine del Novecento, intesa come pluralismo e diversità, ha favorito una nuova lettura dell’individualità secondo «modalità intersoggettive e sociali»; allo stesso tempo, tutto ciò ha incoraggiato una diverso orientamento da parte delle istituzioni nel predisporre politiche pubbliche che favoriscano l’integrazione.

Nel secondo capitolo, Identità, interculturalità e linguaggi inediti nel flusso di coscienza, Roni – dopo aver definito i principi teorici e alcuni dei possibili nodi problematici relativi all’interculturalità – chiarisce la stretta connessione che mette in relazioni identità, memoria e linguaggio da un lato, e i processi di interculturalità dall’altro. L’autore chiarisce come ciascun individuo sia legato a un sentimento di appartenenza a una determinata cultura, che ne struttura inevitabilmente la personalità, e come ciò lo ponga in un rapporto problematico con un’origine assai complessa. Può accadere, infatti, che tale origine non venga a sedimentarsi soltanto su substrati mitico-religiosi condivisi, ma anche su fenomeni negativamente intesi – come genocidi, segregazione razziali etc. Tali presupposti, spiega l’autore, possono portare alla formazione di vere e proprie “identità muro rovesciate”, laddove le dinamiche esclusive sorgano nello “straniero”, anziché nella cultura d’origine; il rapporto conflittuale che l’ospite instaura con la propria cultura originaria non concerne tale cultura per se stessa, bensì i suoi codici costitutivi. Ciò comporta, in una certa misura, l’istituirsi di un rapporto fortemente asimmetrico tra hospes e hostis, che può dare luogo persino a forme di fanatismo, data l’assenza di un spazio simbolico entro il quale poter gestire tale conflitto. L’autore, ancora, evidenzia come sia necessario trovare tale spazio simbolico di interazione, quindi uno spazio di prossimità. Giacché la creazione di un siffatto spazio può delineare un nuovo orizzonte trans-culturale, il quale però non può essere gestito dalle parti in causa, ma richiede l’ausilio delle istituzioni nel porre in essere una efficace azione educativa che miri a implementare il riconoscimento di valori come la legalità, la solidarietà e i diritti umani (p. 45).

La determinazione di un principio d’identità all’insegna dell’interculturalità non può in alcun modo prescindere dalla valorizzazione della memoria autobiografica, dal momento che ogni migrante si fa portatore di un insieme di narrazioni soggettive che ne costituiscono il nucleo identitario e che confluiscono, successivamente, in una memoria collettiva. Essendo tali memorie autobiografiche legate a vissuti profondi, non definiscono immagini inscritte in un passato ormai definito, ma costituiscono, per così dire, la prospettiva operante secondo cui è possibile interpretare il presente. Da tale prospettiva, è possibile notare come il passato giunga a fondersi con il dato presente, andando a rimodellare continuamente il significato che il migrante è in grado di attribuire alle esperienze presenti. Questa funzione semantica e mediativa del ricordo-memoria del passato consente, pertanto, di ridefinire gli abiti mentali e gli schemi già consolidati dando così forma a pratiche di legittimazione di cittadinanza solidale. Seguendo il filo conduttore che dall’identità conduce alla memoria, Roni definisce quell’”atto del narrare se stessi”, dal quale è possibile giungere alla conoscenza dell’altro, della sua alterità, mediante le narrazioni con cui questo è in grado di definire, innanzitutto, se stesso. Occorre, tuttavia, chiarire: cosa si intende con questo “raccontare a se stessi? «La narrazione di sé definisce lo spazio irriducibile della soggettività che apre intenzionalmente la propria storia al mondo mediante la memoria, i sentimenti, le idee e le credenze», in altre parole tale auto-narrazione di sé richiama un’esperienza di tipo intenzionale in cui tutte le nostre credenze e i nostri desideri (stati cognitivi) si fondono con gli stati disposizionali (le nostre emozioni). Ciò che qui importa comprendere è come il Sé, mediante questo atto di narrare se stesso, costituisca la storia personale e culturale, nonché la maniera con esso è in grado di riplasmare continuamente se stesso (pp. 49-50).

Dopodiché l’autore mostra, in relazione al Sé, come esso nel suo raccontare se stesso non sempre coincida con ciò che gli altri si aspettano che debba essere, cioè con la costruzione di un Sé pubblico. A questo punto Roni, nel richiamarsi ai dialoghi platonici, facendo particolar riferimento al Teeteto, riprende la definizione di Socrate secondo cui il pensare non sarebbe null’altro che parlare a se stessi: «l’anima non fa altro che dialogare, interrogando se stessa e rispondendosi da sé, affermando e negando». Quest’ultima citazione chiarisce come l’anima sia scandita sì dal dialogo silenzioso – menzionando, in tal senso, Victor Egger nel suo La parole intèrieure – con se stessi, ma anche dai suoni, quindi dalla “voce”; in essa si rivela tutta la sua potenzialità dialogica, poiché essa costituisce anche il tramite tra Sé e gli altri. Difatti, Roni scrive, nell’illimitatezza della voce sono presenti molte voci, come un dialogo polifonico tra più soggetti. Cosicché all’attività del linguaggio interiore, e alla sua modalità monologica, corrisponde il trasferimento di questa stessa identità in un contesto inter-culturale, in altre parole la narrazione di sé può diventare pratica donativa, attraverso il suo strutturarsi in diverse fasi: l’interazione dialogica, l’integrazione e, infine, il costituirsi di un dialogo plurale entro una molteplicità di voci che scorrono secondo un flusso di continuità (p. 60).

Nondimeno, il linguaggio – l’autore spiega – non deve essere inteso esclusivamente nella sua funzione logica poiché esso ottempera anche ad un’altra funzione, ossia esso è anche strumento sociale che, in quanto tale, rende possibile «partecipare delle idee e dei sentimenti degli altri». In tal senso, è importante tenere conto anche del contesto entro il quale si svolge il confronto dialogico tra le idee, dato che esso, a seconda della logica che lo anima, può rafforzare sentimenti di appartenenza in quanti tali escludenti, oppure favorire il multiculturalismo. Da ciò possiamo sicuramente ricavare l’idea che non sia possibile pensare all’interculturalità senza renderci conto di come tale identità debba reggersi su di un Sé di appartenenza, che purtuttavia, «può restare solo anche se in presenza di altri». L’interculturalità non rimanda ad un mero relativismo culturale, concepito in senso assai riduttivo, giacché l’appartenenza ad un contesto può aprire ad un orizzonte di interculturalità soltanto se è capace di sperimentare la propria soggettività e di aprire all’elemento trascendentale che lega ciascun soggetto al suo universo culturale. Inoltre, ogni pretesa di universalità della cultura può possedere un valore relativo o assoluto; mentre il primo mira a trascendere il dato culturale senza però smarrire il proprio limite (la propria soggettività), così includendo più punti di vista, al contrario il secondo nella sua pretesa di assolutezza e oggettività non è capace di conservare il proprio limite ma, anzi, deve essere inteso nella sua forza egemonica e assorbente. Di conseguenza, promuovere un dialogo interculturale vuol dire farsi carico di più universalità relative, la cui sommatoria non darà mai come risultato un’università assoluta. Tale limite di relativa universalità costituisce il dato costitutivo di ogni cultura, ma può anche avviare un processo di trasvalutazione reciproca, che crea le basi per l”oltre-culturalità”. Quest’ultima rappresenta la volontà prospettica di procedere verso un ignoto, verso un “oltre” che riconduce alla dimensione del viaggio; inteso in tal senso, esso riacquisisce il suo significato originario che è quello della conoscenza rivoluzionaria, della scoperta dell’ignoto e dello sconosciuto (p. 67).

Il terzo e il quarto capitolo devono essere intesi in ragione del loro stretto legame, che ruota attorno al declino della “post-modernità” e alla straordinaria, nonché ricca di stimoli riflessivi, figura del migrante, la quale deve essere obbligatoriamente intesa, come vedremo, nella sua “emergenzialità”, ma anche nella connotazione liquida con cui è possibile comprendere lo strutturarsi dinamico delle soggettività e delle loro inter-relazioni.

La seconda metà del secolo scorso – denominato “post-moderno”, come sottolinea l’autore – si è contraddistinta per una ricerca spasmodica di un criterio unico e normativo di verità attraverso il procedimento dell’interrogazione tra soggetto e oggetto; tale interrogazione ha, tuttavia, prodotto un insieme inesauribile di risposte prive di senso. Sebbene a tale paradigma interrogante potremmo contrapporre quel silenzioso linguaggio interiore di Eggeriana memoria, è ancora più importante evidenziare come ciò costituisca un campo aperto per il «paradigma rivoluzionario della vita nuda e migrante». È questo il paradosso della post-modernità: rilevare come al declino dell’attuale modernità corrisponda invece, l’ascesa della soggettività migrante. Si può, dunque, comprendere come il dialogare stesso costituisca l’unico dispositivo in grado di scalfire la logica autoreferenziale dell’impianto normativo questuante, assolutamente ingabbiato all’interno di rigidi schemi predefiniti; quindi, un dialogare capace di conformarsi in situazione e rimodulare per sé incessantemente nuove regole. L’autore, mediante l’analisi di tale rapporto dialogico, si focalizza sul passaggio fondamentale dal concetto autoreferenziale d’identità a quello di differenza, riscontrando come esso sia legato al concetto di emergenzialità in relazione alla soggettività migrante. Successivamente comprenderemo come tale concetto rivesta un ruolo fondamentale, in virtù della sua funzione disfacente nei confronti delle stesse fondamenta della società occidentale. A tal proposito, Roni scrive: «L’emergenza richiama un’esperienza di disvelamento la quale, a sua volta, si presenta come fonte di rischio e di pericolo», giacché l’identità del migrante può essere compresa soltanto a partire dal paradosso della sua alterità. Il migrante non possiede un’identità che non indichi, nel contempo, una fuoriuscita di sé; la sua identità coincide con un’assoluta alterità. L’emergenza del migrante è un riaffiorare in superficie «in un contesto senza contesto». L’assoluta “emergenza” del migrante si traduce, dunque, nell’esigenza non di comprendere, ma di essere compresi dall’altro, laddove tale comprensione equivale ad una richiesta disperata di sopravvivenza. L’autore rileva come sia null’altro che il bisogno (bedürfnis), il nucleo essenziale di tale condizione di “prossimità” emergenziale. In breve, l’autore suddivide il processo di accoglimento del migrante in diverse fasi: v’è un primo momento che, soprattutto a causa dell’assenza di una vera e propria cultura dell’accoglienza, coincide con atto di reificazione del migrante – motivo per il quale, esso diviene null’altro che oggetto, deprivato delle proprie qualità umane soggettive; dopodiché, v’è una seconda fase che coincide con la sua eventuale registrazione\espulsione, la quale si risolve in un mero funzionalismo, come appendice di un certo apparato tecnico del potere biopolitico – che identifica il migrante esclusivamente come un numero emergente, depredandolo dalla propria dimensione soggettiva, ovvero della memoria intesa come storia personale (p. 75). Esso diviene una figura generica, entro la quale esistenza giuridica e persona fisica vengono a scindersi indefinitamente, allorché questa sospensione della cittadinanza si pone al di fuori di ogni possibile prassi interculturale che consenta di partecipare al mito emergenziale, che rende possibile la comunione e la “convivialità”. Altresì ciò pone un problema di riconoscimento che, oltre a rappresentare una questione giuridico-normativa, racchiude aspetti di natura etica, e che rischia di generare un cortocircuito nei processi democratici di riconoscimento della cittadinanza, soprattutto in relazione alla loro stessa attuabilità. Questa radicale opera di de-soggettivazione del migrante, che passa attraverso le maglie del potere sovrano, può venire a rappresentare un momento di riscatto per lo stesso, in ragione della sua condizione di isolamento al di fuori dello spazio unidimensionale della cittadinanza. Attraverso un vero e proprio atto di resistenza, essa contribuisce a mutare il paradigma etico-politico e la sua struttura normativa, generando nuovi modelli di convivenza interculturale. Vorrei, ora, far riferimento alle soluzioni che l’autore offre all’indifferenza generalizzata di cui è vittima il soggetto migrante ma che, malgrado essa, possono dischiudere nuovi “corridoi” jamesiani di interculturalità; affinché l’emergenzialità costituita regga la prova dell’indifferenza e si tramuti in una ancora dischiudente possibilità, è necessario che il potenziale dialogico, in tutta la sua valenza inter-comunicativa, si costituisca in quanto ponte verso l’altro. In conseguenza di ciò credo che, a questo punto, occorra introdurre il concetto di solidarietà. L’autore ricostruisce, in via preliminare, l’etimologia dal lemma latino solidus, che rimanda, per l’appunto, a ciò che è compatto, solido, massiccio etc, ma è utile porre l’accento anche sulla sua valenza filosofico-interpretativa. Sembra che la solidarietà si realizzi come un’estensione dell’emergenzialità, poiché essa è in quanto tale «una relazione tra solidi che col tempo però si fanno sempre più liquidi»; affinché essa possa costituire una nuova identità come metissage, deve preservare la sua componente liquida, pena l’eliminazione della differenza.

Recuperando la rappresentazione etico-politica della modernità liquida di Zygmunt Bauman, Riccardo Roni ci introduce ad una nuova lettura della migranza, ora interpretata in termini di fluidità. Bauman, nel suo saggio Modernità liquida, propone questo concetto di fluidità in merito alla società contemporanea globalizzata, che è descritto nei termini di un processo di liquefazione dei corpi solidi, in cui il tempo giunge a divorare lo spazio e l’individualismo riafferma se stesso in tutta la sua ferocia nella dimensiona privata degli individui. L’autore, riproponendo tali questioni in relazione alla realtà della migranza emergenziale, chiarisce come essa non possa essere semplicemente, in via definitiva, liquefatta; tale processo di liquefazione rivela la presenza di un esercizio di potere esterno, che corrisponde alla volontà di rendere i soggetti quali “gelatine malleabili”. Rispetto a questo diktat del potere post-moderno che impone di «non essere come siamo», il migrante oppone, de facto, un’azione di resistenza: «attraverso la fluidità solidale che lega – impastandoli nel metissage – gli elementi solidi delle identità originarie, trasforma le scelte individuali in azioni e progetti collettivi […] viene rimesso al centro il diventare chi siamo». Se in Bauman, tale fluidità era tradotta in un quadro descrittivo delle società globalizzate assolutamente negativo, al contrario, viene ora a rivestire un significato assiologico di segno diverso, non più configurandosi come un limite storico: dall’impatto delle differenze, all’impasto delle differenze come metissage (pp. 83-84). Oltretutto, credo sia fondamentale sottolineare come la migranza produca un’essenziale evoluzione dello spazio nel tempo, dato che lo spazio viene ad essere occupato in funzione del tempo e non del consumo individuale: «la migranza è prima di tutto un viaggio nel tempo, prima che nello spazio, è una critica sociale permanente al tempo spazializzato». Essa deve, pertanto, seminare il terreno in cui far sorgere una nuova pratica educativa in cui spazio e tempo non siano più percepiti come limiti invalicabili e nemmeno uniformati secondo gli orientamenti e le prospettive proprie della globalizzazione. Se gli spazi detemporalizzati offrono un modello di comunità privativo delle differenze e dei conflitti, all’opposto, la connessione interculturale secondo uno spazio che si fa tempo e del tempo che si fa spazio possono favorire la riproposizione di una nuova elaborazione della territorialità, favorendo in tal mondo l’integrazione tra le culture: « Rimettere al centro il rapporto di reciproca connessione e implicazione tra lo spazio e il tempo consente di decentrare l’identità proprio dove avviene l’incontro con il diverso e lo smarrimento nell’altro […] in modo tale che lo spazio, da semplice non luogo, diventa il territorio globale e locale nello stesso tempo» (p. 89).

Per ragioni di spazio e opportunità, non approfondiremo lo stretto rapporto tra corpo e interculturalità in opposizione ai miti androcentrici. Il corpo, liberato da ogni sovrastruttura culturale condizionata, può finalmente divenire paradigma di una nuova mediazione interculturale, in altre parole possiamo altresì assistere alla riscoperta del corpo quale pratica identitaria e espressione della differenza, e dunque come centro operante di una futura rivoluzione etica e culturale. Credo sia tuttavia opportuno anche porre l’accento rispetto a come l’etica del desiderio, secondo il modello pragmatico, trasformi esperienze in quanto tali finite in «esperienze integrali» e più autentiche. Siffatto desiderio è ciò che propriamente contribuisce allo sradicamento essenziale del soggetto umano proiettandolo, in questo modo, verso altri mondi e religioni, senza che però esso smarrisca il proprio sé. Il desiderio, «così connotato dal flusso interculturale», costituisce la struttura fondamentale non soltanto delle esperienze storiche, ma finanche di quelle autobiografiche; sulla base di tale asserzione, v’è il determinarsi di un processo di autocoscienza che fa dell’altro non soltanto qualcuno contro cui lottare per il riconoscimento, bensì un soggetto con cui condividere le proprie esperienze. La spinta del desiderio, travalicando l’istanza egoica, fonda un vero e proprio principio di responsabilità nei confronti dell’alterità, dello scarto, nella misura in cui questi appartengono al flusso interculturale. Giacché nel desiderio, così come nella passione amorosa, noi possediamo «germe mistico di ciò che potrebbe significare un’unione totale di tutta la vita senziente», dacché questa responsabilità verso un mondo plurale ci apre ad un genere di esperienze integrali (p.118).

Il sesto capitolo è, a mio avviso, di fondamentale importanza, poiché ci introduce all’analisi di un modello dominante della modernità, la società signorile di massa. Si tratta, secondo l’autore, di individuare il nesso causale che, a suo modo, congiunge la definizione nicciana del modello signorile di massa e la questione interculturale «della continuità delle esperienze di mondi totalmente altri». L’immagine pragmatista della coscienza interculturale può essere compresa soltanto a partire dall’accentuazione dello “scarto”, o del passaggio interstiziale dove tutto accade e può dispiegarsi. In virtù del delinearsi di questo quadro concettuale, da tale scarto diviene possibile ritradurre il movimento verticale e gerarchico dei “signori” (inteso nei termini del dispiegarsi una scalata sociale verso l’alto) nell’orizzontalità propria del dispiegarsi interiore della coscienza. Diviene possibile, quindi, determinare il “tra”, “lo scarto”, nella direzione del compimento di un tempo interiore che trae la propria vitalità dal differimento e dalla durata temporale (p.123).

In ragione dell’esigenza di delineare i caratteri della società signorile, Roni esamina il graduale sviluppo delle condizioni di eguaglianza nel quadro di un regime democratico. Egli evoca, proseguendo in tale direzione, le riflessioni di un celeberrimo filosofo francese della tarda modernità, Alexis de Tocqueville, in riferimento alla sua opera, La democrazia in America (1835-1840). La riflessione del filosofo francese sulla democrazia si dipana a partire da due distinte espressioni della medesima: vi è, infatti, una democrazia senza educazione (priva di un’organizzazione politica ben strutturata) che tende a privilegiare le forze solipsistiche e gli egoismi individuali, a discapito dell’uguaglianza; cioè, un’espressione di democrazia che, anticipando le argomentazioni nicciane, si riduce ad un indiscriminato livellamento con cui i più deboli degradano i forti. Dall’altra parte vi è, invece, una diversa concezione di democrazia che trae il proprio seme di sviluppo dal possesso di un’idea di libertà: « Se il primo atteggiamento mostra che la libertà è più antica dell’uguaglianza, il secondo significa che prima di rendersi uguali non si è stati liberi».

E ciò spiega anche i differenti livelli di sviluppo democratico che hanno caratterizzato le società democratiche americane e quelle europee. Tocqueville riconosce nel primo sviluppo democratico il carattere “signorile” delle società di massa, dietro cui si cela l’instaurarsi di un vero e proprio sistema totalitario. Emergono, in questo modo, le condizioni per l’insorgenza di un dispotismo democratico, che segna il trionfo di un livellamento «in cui nulla sporge e nulla affonda».

Le democrazie pluralistiche occidentali covano, infatti, al proprio interno totalitarismi che trovano la propria espressione nella cultura di massa, la middle culture; laddove, il libero arbitrio del cittadino democratico si risolve nell’irriducibile contraddizione tra il bisogno di libertà e la necessità di piegarsi ad un’autorità per essere guidati. Nel contesto operante di queste società, il diritto di ciascuno alla felicità e la promessa insita nel raggiungimento di una sempre maggiore condizione di benessere hanno generato classi elitarie completamente asservite al sistema consumistico. Allo stesso tempo, l’autore ci spiega come ciò abbia contribuito alla formazione di un sistema verticale di tipo piramidale che costringe, appunto, coloro che sono posizionati alla base a sottomettersi, o adeguarsi a un modello di valori dominante. Si capisce, dunque, come tale modello asimmetrico renda impossibile raggiungere qualsiasi orizzonte di interculturalità. Nello scarto differenziale tra i due estremi della piramide sociale, è possibile individuare uno spazio multidimensionale di condivisione, che non si limiti a ricercare soluzioni “multiculturaliste a mosaico”, piuttosto orientate verso un modello sempre più assimilazionista. Roni chiarisce come tale spazio condiviso debba essere ricercato in una società di tipo orizzontale, che aspiri a riappropriarsi di quel “tempo residuale” come ciò che resta dalla totale assenza di vincoli temporali propria delle società elitarie. Questa ricerca, per così dire, della durata, consente di appropriarsi di queste esperienze dalla natura fluida, ossia di appropriarsi di quell’immediato flusso di vita che costituisce il materiale per la riformulazione e la messa in discussione di vecchie e nuove categorie concettuali. Ed a partire da questa prospettiva pragmatica diviene possibile tracciare il profilo pratico-ideale di un nuovo umanesimo interculturale. Quest’ultimo può essere, infine, definito grazie ad un atteggiamento critico che, nel medesimo tempo, si ponga il duro compito di rigettare le culture e le tradizioni egemoniche-dominanti, attraverso «un lento spostamento della prospettiva filosofica che osserva le cose da un nuovo centro di interesse o punto di vista». Seguendo queste premesse, è chiaro come questo progetto interculturale si determini entro una situazione di instabilità, o contingenza, la quale purtuttavia, contribuisce alla costituzione di molteplici varchi verso altre culture; in tal senso, simili varchi contribuiscono «alla corrente sociale di scorrere orizzontalmente verso il totalmente altro», opponendosi a quel modello piramidale e gerarchico che costituisce il più grande ostacolo all’integrazione culturale.

Inoltre, il configurarsi di questo modello verticale, e il suo estrinsecarsi nella forma simbolico-rappresentativa di una piramide sociale, sembra abbia prodotto come conseguenza un allargarsi indiscriminato delle diseguaglianze, nonché un accresciuto bisogno di separazione; allorché l’altro, tradotto all’interno delle logiche concorrenziali e competitive del mercato globalizzato, è soltanto “rivale nella grande corsa”, cioè un nemico contro cui concorrere all’interno della struttura piramidale. L’autore, a tal proposito, puntualizza come l’elemento signorile, intendendo favorire gli interessi appartenenti alla cultura dominante, abbia finito per estendere le basi del conflitto sociale e smorzare ogni tentativo di dialogo interculturale.

L’autore rimarca come il pensatore tedesco Friedrich Nietzsche abbia prodotto più di alcuni timidi richiami alla “trans-culturalità”. Il filosofo di Rocken, cogliendo con esemplare lucidità i motivi scatenanti della crisi europea, individua nell’assenza dell’elemento contemplativo il mancato passaggio ad una forma di cultura superiore. Avendo riconosciuto nella re-azione dei popoli esclusi dai “comfort”, l’attivarsi di una “volontà di potenza”, egli auspica un contro-movimento che progredisca al di là degli individui, in direzione di un’oltre-umanità, di «una specie più forte». Il nodo problematico resta quello di un’umanità capace di elevarsi soltanto in vista dell’affermarsi di una società aristocratica in un’epoca, quella nicciana, ancora interamente ingabbiata all’interno di una struttura chiaramente gerarchica, in cui si pongono differenze di valore da uomo a uomo. L’interculturalità deve fare qui i conti con un problema legato ai privilegi delle elité al potere, le quali hanno assai poco interesse a porsi a confronto con altre culture. Sarebbe, pertanto, auspicabile l’istituirsi di un modello anti-elitario che passi attraverso una ristrutturazione democratica interculturale delle istituzioni internazionali (p. 138). In considerazione di quanto scritto, resta da comprendere come si possa favorire un rapporto autonomo di inter-relazione con altre storie e vissuti, senza che quest’ultimi siano tenuti insieme forzatamente iscrivendoli nel perimetro delle idee regolative della ragione occidentale. La costruzione di queste nuove inter-relazioni può realizzarsi mediante la riscoperta di opere dimenticate, poiché ciò faciliterebbe l’innestarsi di processi di traduzione da una cultura all’altra, mettendo in contatto lingue, culture, vissuti e pratiche sociali tra loro differenti: «il rapporto con autore dimenticato è un disvelamento della differenza e un’apertura verso nuove prospettive, un lasciar apparire, un rivolgersi ad un dire originario che rende più attenti ai particolari di un certo discorso»; si tratta dunque di un autentico parlare, in grado di porsi dinanzi alla società signorile di massa allo scopo di metterne in discussione le categorie in essa operanti. Altresì, si può considerare l’interculturalità come il luogo dell’inespresso, in riferimento alla poesia come vera e propria categoria etica.

In conclusione, è fondamentale che tutto ciò si traduca in un’azione politica che permetta l’apertura di inediti spazi di interazione e connessione tra nuove soggettività. Uno spazio che, configurandosi come “una zona umbratile di democrazia radicale”, sappia dischiudere per quest’ultime le misure che ne consentano un adeguato riconoscimento. Tenendo conto di come esso abbisogni di norme di convivenza democratica che ne valorizzino l’esperienza limite del vivere ai margini, mi riferisco a quell’esperienza inscritta in ogni condizione di clandestinità. Certamente, si deve riflettere sulla possibile incidenza della politica proprio in quegli spazi pubblici che, molto spesso, sono esclusi dai processi economici e sociali. E, quindi, sul configurarsi di un’azione politica interculturale che non intenda occupare i spazi pubblici per adattarsi all’ambiente e alle pratiche diffuse, ma piuttosto che si muova al di fuori degli spazi di apparizione, ossia in spazi di “sottrazione” nei quali sia possibile interrompere il proprio flusso di appartenenza ad una cultura dominante e monolitica spostando, invece, l’attenzione su pratiche sociali, mondi religiosi e culture alternative, da ricercarsi in quegli spazi e tempi residuali. Infine, è ancor più di vitale importanza che ciascuno si senta interculturalmente responsabile di sé, dell’altro, di ogni altra forma vivente e, persino, del pianeta che abita, e che ciò si esplichi in una serie di azioni singolari e collettive, volte a porsi in ascolto dell’altro per rispondere ad un imperativo categorico che indica nella comprensione reciproca e nella costruzione di un «dialogo culturale complessivo» la chiave di volta per la fondazione di un nuovo umanesimo interculturale. Negli spazi oscuri della società signorile di massa sono, infatti, riaffiorate le persone, le cose, gli animali e gli eventi, come nuove soggettività sulle base delle quali intessere nuove relazioni culturali. Nella speranza che, tra questi detriti, sia possibile in un “futuro presente” scorgere i segni di una nuova forma “oltreumana” di convivenza, che non precluda nuove modalità di gestione e di “cura” heideggeriana della vita del pianeta.

Luigi Somma