NANCY FRASER: LUMI NELLA TRANSIZIONE

di Domenico Bilotti

In occasione dei prossimi incontri con Nancy Fraser, Domenico Bilotti ci offre una panoramica del pensiero dell’illustre filosofa.

La Fraser non è una nostalgica del socialismo inteso nella sua dimensione prettamente marxista-leninista, memore dell’antica contraddizione per cui persino nei regimi giuridici socialisti resiste, ad esempio, la pornografia e, a maggior ragione, il mercato nero, e in sistemi legali avanzatamente liberali può esservi comunque una legislazione di tutela per categorie sociali sottoproletarie (la prostituzione, le dipendenze, la sottoccupazione e così via).

La filosofia politica di Nancy Fraser è una guida orientante per chi si occupa dei rapporti tra diritto, religione e culture. I suoi scritti investigano nel concreto la dinamica e il governo dei rapporti sociali, evitando una prospettiva teorica meramente asservita a una morale dominante e, all’opposto, puntellando continuamente il proprio stesso campo di riferimento. 

Pare che debbano essere ritenuti almeno tre i filoni d’indagine di interesse nel percorso recente della docente statunitense, che, volendo esemplificare, possono così essere riassunti: – la critica ai meccanismi di riassorbimento del femminismo nel diritto del consumo e delle relazioni industriali; – la teoria della giustizia intesa come giustizia redistributiva e attività di perequazione, ma anche come giustizia “da riconoscimento” (che immette le soggettività riconosciute in una posizione paritetica); – l’incapacità delle ideologie novecentesche di reggere l’onda d’urto dei fenomeni demografici, economici, sociali e normativi contemporanei che fa continuamente fronteggiare una teoresi “vecchia” (estinta o inadeguata o non calata nelle nuove sfide ordinamentali) e una proposta costituente “nuova”, che però non s’è ancora esposta, né formata, nella sua completezza. 

Quanto al primo aspetto, è bene richiamare l’edizione del 2014 (in Italia per i tipi di Ombre Corte) de “Fortune del femminismo. Dal capitalismo regolato dallo Stato alla crisi neoliberista”. Nel volume testé menzionato, la Fraser traccia un ritratto impietoso dello scadimento liberista della rivendicazione femminista diffusa: in altre parole, il riconoscimento della soggettività femminile da istanza liberante e collettiva, come si proponeva all’inizio nei termini stessi della giustizia sociale, si era proiettato verso la massimizzazione dei diritti individuali. Questi ultimi, del resto, vengono sempre più intesi non nel loro istitutivo bigiurisdizionalismo, secondo che le libertà debbano essere garantite e attuate attraverso il divieto d’ingerenza del potere o con le azioni positive dei pubblici poteri e doveri di solidarietà, ma alla stregua di libertà meramente negoziali, plasmate sull’andamento dei rapporti economici. Un femminismo che richiama carriera, distruzione del legame affettivo, interscambiabilità assoluta delle opzioni valoriali, è un femminismo pietosamente assunto nella dinamica dello Stato capitale. 

A far da cerniera col secondo aspetto, si consiglia “La fine della cura. Le contraddizioni sociali del capitalismo contemporaneo” (Mimesis, 2017), nel quale giustamente si critica la sempre maggiore apprezzabilità patrimoniale del lavoro affettivo che è riconosciuta da chi ne lucra, ma non a beneficio di chi ne sia il materiale prestatore. 

La Fraser non è una nostalgica del socialismo inteso nella sua dimensione prettamente marxista-leninista, memore dell’antica contraddizione per cui persino nei regimi giuridici socialisti resiste, ad esempio, la pornografia e, a maggior ragione, il mercato nero, e in sistemi legali avanzatamente liberali può esservi comunque una legislazione di tutela per categorie sociali sottoproletarie (la prostituzione, le dipendenze, la sottoccupazione e così via). In “La Giustizia incompiuta. Sentieri del post-socialismo” (edizioni Pensa Multimedia) la Fraser si misura proprio sulla non realizzazione della proposta di eguale libertà del socialismo antiautoritario, ma anche con la ontologica ingiustizia del modello liberale statuale classico, fondato su premesse – come noto – che esso non può e non riesce a mantenere. 

Quanto all’ultimo aspetto individuato, e cioè la quasi escatologica e paradossale compresenza di una struttura delle libertà politiche ossificata su strumenti di partecipazione ormai inservibili e di una innovazione della pratica sociale comune ancora non emersa, ci si permette di suggerire, di recente, per i tipi di Ombre Corte, “Il vecchio muore e il nuovo non può nascere. Dal neoliberismo progressista a Trump e oltre”. Si tratta di un coraggioso quanto veloce volume di sapore saggistico e divulgativo che ha il pregio di centrare i due percorsi della giustizia nella loro attuale fase depressiva, laddove il riconoscimento si declina solo come accesso al mercato dei beni di consumo e l’attività redistributiva è sub specie iuris troppo spesso solo esplicativa di dinamiche disciplinari del potere di controllo. 

La sua partecipazione romana a un duplice appuntamento di studio ha certo il significato di discutere in una sede dialogica e assertiva le lucide tesi di un’Autrice che detta le coordinate del nostro tempo senza il timore di forzare la pagina in corso, per provare a scriverne un’altra. 

Domenico Bilotti