Recensione a Siamo tutti diversi! di Teresa Forcades (Castelvecchi editore, Roma, 2016)

di Francesca Giammei

Due sere nel mio letto prima di andare a dormire: è il tempo che ho impiegato a leggere “Siamo tutti diversi!”, il libro di Teresa Forcades.

Solo due sere nel mio letto prima di andare a dormire per passare in rassegna i temi di una vita intera, per rimettere in discussione le mie presunte certezze e per trovare una voce che esprimesse un incerto interiore che – con una prepotenza ogni giorno maggiore – sentivo affacciarsi al di fuori.

“Siamo tutti diversi!, Per una teologia queer” – di Teresa Forcades, edito da Castelvecchi e a cura di Cristina Guarnieri e Roberta Trucco – è un (bel) libro intervista. Ma è anche un manuale, un dizionario, un romanzo. Una storia. Perché parte sempre tutto da lì, dalle storie, dalle persone. Dalla persona unica e irripetibile che ognuno di noi è. E toccando con coraggio tutte le questioni importanti, scottanti e quanto mai urgenti, non solo di una religione ma di un’intera epoca e attraverso tutte le epoche – femminismo, omosessualità, unioni civili, sessualità, clericalismo, lotta politica e tanto altro – arriva qui, a farci domandare quanto male l’uomo avrebbe potuto risparmiare al mondo e a sé stesso, se solo avesse guardato all’altro semplicemente per quello che è, uscendo dalle categorie umane che sono tante, ma che sono comunque meno davanti al nostro essere di più: lui, lei, o qualsiasi altro pronome useremo un giorno nella nostra lingua – perché anche lei, la lingua, si evolve seguendo il movimento continuo dell’esistenza umana, a volte rallentandoci e altre precedendoci – per chiamare quell* che esistono già. Il male che l’uomo potrebbe risparmiare al mondo e a sé stesso, se soltanto non tendesse a trasformare la persona in un’idea di lei costruita unendo i puntini delle nostre sovrastrutture; se guardassimo sempre all’altro come a qualcuno che amiamo, perché le persone che amiamo per noi non hanno mai categorie, perché dentro i limiti di una categoria non riusciamo a farcele stare. Perché l’amore straborda, irrompe, sconvolge, esplode; l’amore è un’estasi, dice Teresa Forcades: il momento in cui l’energia vitale è così forte da uscire prepotente al di fuori di noi pur di raggiungere l’altro, mentre siamo troppo innamorati per lasciare che la possibilità di perderci ci freni, mentre ci abbandoniamo all’emozione di un ignoto che in fondo è il nutrimento della nostra esistenza. L’amore nasce sempre da un punto di rottura, insieme a tutte le cose che gli somigliano e che sarebbero suoi sinonimi, se solo i sinonimi esistessero davvero: insieme alla bellezza, all’arte, alla vita, alla fede. Il punto di rottura delle acque in un metaforico parto eterno. Lo stesso di cui ci parla la Forcades quando afferma che nel XXI secolo sarebbe fortemente anacronistico stare lì ad aspettarci un Dio che venga dall’alto, che è necessario invece desiderare di farlo nascere dentro ognuno di noi e soltanto dopo, metterlo al mondo; espandere lo spazio di un Dio che si contrae in favore della nostra libertà di scelta, riscoprirci tutti Maria di Nazareth dopo secoli di patriarcato. Un pensiero che può però essere anche assolutamente laicizzato e che quasi vuole esserlo, nel desiderio di una fede che si interroga ogni giorno, si rinnova, si rinsalda, e nel progetto di una Chiesa che non si impone, ma che si apre a tutti in quella relazionalità costitutiva che ne è tanto il fondamento quanto la ricerca e l’obiettivo. Così il libro della Forcades è un libro per tutti: per chi sa poco e niente di teologia e teologia queer e vuole capirne qualcosa, per chi sa anche troppo ed è aperto a scoprire di non sapere tutto, per chi è seduto in chiesa in prima fila ed è disposto a disinfestarsi da quell’abitudine un po’ cieca che è il tarlo di ogni rapporto, per chi è seduto in fondo e ritrova un suo spazio in una nuova vicinanza, per chi è al di fuori con fermezza e però – in quel di fuori – può aspettare che esca un amico per una passeggiata insieme, nella realizzazione e nella consapevolezza che il primo passo per l’accettazione della propria diversità è accettare la diversità altrui; per chi si sente solo e con meraviglia scopre di non esserlo più, per chi si sente lontano da Dio e scopre che invece Dio non è così lontano da lui.

C’è un’istantanea dell’incontro del 2 ottobre con Teresa Forcades al Macro di Roma – promosso da Castelvecchi Editore e Filosofia in Movimento, in collaborazione con Voices of Faith, con l’introduzione di Cristina Guarnieri e il prezioso intervento di Antonio Cecere – che mi porterò dentro, ed è legata al momento in cui – quasi osservandomi da fuori – mi sono vista lì con il mio rossetto rosso e gli anfibi ai piedi, seduta davanti a una donna col velo in testa – così bella ed elegante nella sua semplicità – e ho realizzato che era vero, che siamo tutti diversi, e che però allo stesso tempo riuscivo a guardarmi e a riconoscermi in lei come in uno specchio, a sentirla così amica e sorella e madre e quindi vicina oltre ogni nostra diversità o proprio grazie alla diversità stessa. E quando lei senza sapere mi ha detto: “Guardarti mentre parlavo mi ha aiutata tanto”, ho pensato di nuovo che era vero, che anche lei aveva aiutato me. Così ho avuto modo di convincermi del fatto che non esista alcun motivo di non credere che chiunque possa riconoscersi e ritrovarsi allo stesso modo, forse in tutto o forse soltanto in qualcosa, ma uscirne tutti comunque con la stessa speranza.

E allora un (bel) libro intervista, un manuale, un dizionario, un romanzo, una storia. Ma soprattutto, una storia d’Amore. Perché Teresa Forcades è e fa cose diverse, e parla di queste cose diverse che fa ed è e siamo sempre con Amore, partorendosi assolutamente monaca proprio lì dove la critica la accusa di non esserlo più, nello spazio del bisogno.

Teresa Forcades, le sue opere, il suo operato e la teologia queer sono ossimori viventi. Ma definire un ossimoro semplicemente come un accostamento di concetti contrari equivarrebbe alla forzatura di inserire in una categoria prestabilita qualcosa che per sua natura esce da qualsiasi categorizzazione, e così anche a uno svuotamento della poesia di cui invece è un co-creatore; l’ossimoro allora è per me più il rovesciamento, il superamento del concetto di contrario, è mettere insieme cose che ci hanno sempre detto che insieme non potevano stare, per scoprire che invece – vedi – addirittura si tengono per mano e non solo danno vita a un compromesso e a una realtà (im)possibile, ma nascono per descrivere una realtà che esisteva già. Un’attrazione di incoerenze che si annullano tra di loro e danno come risultato una coerenza perfetta, più coerente e credibile di molte altre nel suo non avere la pretesa di esserlo. Così gli ossimori sono queer. E così la Forcades e il suo libro risultano coerenti e credibili.

Teologia queer quindi è trascendere quelle categorie che esistono, ma che devono essere riconosciute e inquadrate come il punto di partenza e non di arrivo di un essere umano costantemente in movimento, è la resistenza alle definizioni prestabilite, il definire soltanto l’indefinibile in quanto tale, il riconoscere e rendere visibile l’umanità prima e al di là di qualsiasi categoria; non è difendere i diritti di tutti, ma affermare le necessità di ognuno. Non è dire che “siamo tutti uguali”, ma – come primo passo verso l’uguaglianza – valorizzare le nostre preziose diversità. E ripartire da lì, insieme.

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