Internet: opinione di massa ed economia del gratis

Renato Parascandolo

Opinione pubblica e opinione di massa

Il panorama che emerge dagli Internet studies è apocalittico. Basta mettere insieme i titoli dei saggi più famosi per farsene un’idea. La rete è il nemico, il sesto potere, un abisso che ci rende stupidi e ingenui, uno sciame digitale che provoca ossessioni collettive e demenza. Il dominio delle Big five sulla rete appare insuperabile tant’è che non resterebbe altro da fare – come suggerisce J. Lanier, un guru della rete – che disconnettersi e cancellare le tracce.

Eppure, grazie a internet, contestualmente al dilagare dello shitstorm (tempesta di letame) sta prendendo forma su scala planetaria una nuova opinione pubblica, paragonabile a quella che nel XVIII secolo aprì la strada alla modernità: basti pensare alla fitta rete di scambi quotidiani di informazioni, papers e pubblicazioni tra università, accademie e centri di ricerca di tutto il pianeta, oppure alla realtà di banche dati della conoscenza come Sci-hub come https://scihub.org/ che ospita oltre 70 milioni di pubblicazioni scientifiche anche allo scopo di favorire la crescita delle università dei paesi poveri, o l’archivio della Cornell University, Arxiv.org, una miniera della conoscenza, accessibile a tutti, che comprende oltre un milione di papers di fisica, matematica, informatica, finanza e biologia con un incremento di cinquemila papers al mese di varie discipline, comprese quelle umanistiche.

La rete che sta dando vita al più grande e straordinario spazio pubblico che l’umanità abbia conosciuto; la rete che consente alle menti migliori del nostro tempo di condividere saperi e conoscenze e dare concretezza a un’etica della comunicazione fondata sul dialogo, l’ascolto, la responsabilità e la critica è, quindi, la stessa rete che produce campagne di disinformazione e derive irrazionali che alimentano un chiacchiericcio ininterrotto condito di rabbia, rancore e indignazione che spiana la strada a pericolose scorciatoie repressive “dolorose ma inevitabili”.

Internet si presenta, pertanto, come un universo parallelo, popolato da due diverse specie di abitanti che pur condividendo lo stesso territorio e gli stessi mezzi di comunicazione (siti web, posta elettronica, social network, skype, apps), si rendono invisibili gli uni agli altri; non si confrontano, né si scontrano: convivono ignorandosi, come la materia e l’antimateria. Da una parte, il regno silenzioso dell’episteme, dall’altra il trionfo chiassoso della doxa; da un lato gli eredi dell’opinione pubblica borghese nata nel secolo dei Lumi; dall’altro, un’indistinta opinione di massa, un rassemblement di individui che non sono altro, per dirla con Brecht, che “il singolare di gente” oppure, per dirla con Parmenide: “uomini con due teste: l’incertezza infatti guida nei loro cuori la mente errante; ed essi sono trascinati stupidi e parimenti ottusi; moltitudini confuse, per le quali l’essere e il non essere sono considerati come la stessa cosa”.

Al tempo stesso, al’interno del territorio presidiato dal “popolo della rete” che si alimenta di suggestioni e demagogia, si scorgono, disposte a macchia di leopardo, numerose casematte, espressione di una nuova opinione pubblica, fondata sull’argomentazione razionale, la libera circolazione delle conoscenze, la democrazia e il rispetto dell’Altro. Queste piccole fortezze sono il presidio di un Internet bene comune, servizio pubblico, strumento di crescita culturale e di contrasto al crescente analfabetismo funzionale e alle “legioni di imbecilli” di cui parlava Umberto Eco in un comprensibile momento di sconforto: basti pensare a Wikipedia, al progetto Gutenberg ai siti delle più importanti istituzioni nazionali e internazionali, alle fonti giornalistiche più accreditate, per non parlare del vastissimo e generoso mondo dell’Open source movement; un universo improntato a una economia del dono antitetica alla economia del gratis che procura profitti miliardari ai cinque padroni della rete.

Il paradosso di questa situazione non sta tanto nella coesistenza di questi due mondi paralleli quanto nell’inspiegabile sottovalutazione da parte degli studiosi della rete di questa nuova opinione pubblica, della sua vivacità intellettuale e delle sue potenzialità culturali e politiche: una costruzione in fieri che, prendendo coscienza di sé e della sua forza, potrebbe incarnare il moderno principe immaginato da Gramsci.

Produzione di utenti-merce a mezzo di utenti-merci

Le aberrazioni del web sono sotto gli occhi di tutti ma la causa prima che le alimenta, l’economia del gratis, è pressoché sconosciuta. L’Adam Smith di questo modello di business è Chris Anderson, un brillante economista che ha osato smentire, nel passaggio dagli atomi ai bit, il dogma su cui si fonda l’intera storia del pensiero economico, la massima secondo cui “non esistono pranzi gratis”, ribadita, peraltro, nel titolo di un libro di Milton Friedman, il padre del neoliberismo.

Per comprendere l’economia del gratis su Internet conviene fare un passo indietro gettando uno sguardo sul modello di business della Tv commerciale. In che cosa consiste questo commercio? che cosa è in vendita? che cosa produce valore?

La prima cosa da puntualizzare è che la compravendita nella Tv commerciale non avviene tra l’emittente televisiva e il consumatore (il telespettatore) bensì tra l’emittente e l’inserzionista, l’agenzia di pubblicità che acquista spazi del palinsesto il cui valore è in proporzione all’audience abituale in quel lasso di tempo. Pertanto, la finalità di una Tv commerciale non è tanto la produzione di programmi quanto la produzione di telespettatori da vendere alle concessionarie di pubblicità dopo averli contati, grazie all’Auditel, minuto per minuto. Il telespettatore, dunque, è, formalmente un consumatore ma, sostanzialmente, è la merce.

Anche su internet, come nella TV, il modello di business fondato sulla pubblicità si è imposto come dominante: la navigazione in rete è quasi esclusivamente gratis ma l’utente, nel fare una ricerca su Google, nel postare un video su You Tube, nel chattare con gli “amici” su Facebook, nel leggere il giornale online o nel fare un acquisto su eBay incrementa, sebbene di una piccolissima quota, il valore complessivo della pubblicità; inoltre incrementa, poiché lo perfeziona di giorno in giorno, il valore del suo profilo. Ma se la sua attenzione, il suo sguardo, i suoi clic e tap generano valore, stando ai classici dell’economia, quello che l’utente svolge è, a tutti gli effetti, un lavoro, magari piacevole ma, in ogni caso, non remunerato. Pertanto, smentendo le apparenze, lo spettatore non è il beneficiario di un’offerta gratuita e neanche un autentico consumatore , ma piuttosto un utente-merce, che sta concedendo (gratis!) il suo tempo, la sua attenzione e la sua privacy.

Mentre la Tv commerciale per produrre telespettatori-merce da vendere agli inserzionisti deve pur sempre mettere in onda un programma acquistandolo o producendolo, Google o Facebook, essendo solo degli aggregatori di contenuti prodotti dagli utenti sono esonerati dall’onere di acquistare l’esca necessaria per catturare gli utenti-merce. Quindi, in questo prodigioso universo dove i bit hanno preso il posto degli atomi, gli utenti-merce producono gratuitamente (e inconsapevolmente), per conto delle cinque sorelle contenuti che, a loro volta, produrranno altri uomini-merce. Prendendo scherzosamente a prestito la famosa formula di Sraffa, potremmo dire che il modello di business dominante su Internet è basato sulla “produzione di utenti-merci a mezzo di utenti-merci”, un meccanismo che genera profitti favolosi ai tycoon proprietari di segretissimi algoritmi di profilazione degli utenti.

Esiste un nesso inscindibile tra la proliferazione di un’opinione di massa incolta, esposta alla suggestione delle fake news, dei complotti e delle post-verità e il modello di business fondato sulla produzione e la vendita di utenti-merce nel mercato dominato dalla economia del gratis poiché ciò che conta in questo mercato non è la qualità intrinseca dei contenuti ma solo la quantità di clic, di inoltri, di like e commenti prodotti dalla loro veicolazione. In questa logica, una notizia falsa sarà sempre più clamorosa, e quindi più remunerativa, di una vera e una campagna d’odio sarà certamente più virale di un invito alla tolleranza.

Sotto questo aspetto, Internet è una fabbrica sconfinata con oltre quattro miliardi di lavoratori che, pur lavorando in media sei ore al giorno, non percepiscono salario né remunerazione: lavorano gratis, ma non protestano. Internet è anche uno sterminato centro commerciale dove gran parte di quel che si espone è gratis ma gli utenti non si stupiscono di tanta generosità piovuta dal cielo. Eppure in questo fantastico Campo dei miracoli gli zecchini d’oro crescono davvero e fruttano ogni anno al Gatto e alla Volpe – Apple, Google, Microsoft, Amazon, Facebook – centinaia di miliardi di dollari tant’è che il loro valore complessivo supera di gran lunga il PIL dell’Italia. Questa è l’economia del gratis e, a suo modo, Anderson ha ragione nel dire che “coloro che comprendono il nuovo Gratis padroneggeranno i mercati di domani e sconvolgeranno quelli di oggi: anzi già lo stanno facendo”.

Ma da queste considerazioni non deve conseguire una visione apocalittica della “civiltà della comunicazione”. Tutt’altro, perché la nuova opinione pubblica che sta crescendo silenziosamente dietro le quinte del palcoscenico dove si esibisce l’opinione di massa è molto di più che una semplice manifestazione di resistenza; piuttosto è l’espressione di nuovo umanesimo che si riconosce nei valori di libertà, di emancipazione e di giustizia che sono a fondamento della Dichiarazione universale dei diritti umani. L’obiettivo è darle coscienza di sé e organizzarla senza lasciarsi andare alla rassegnazione. Hic Rhodus, hic salta.