La comunicazione senza comunità
Brevi considerazioni sul senso dimidiato di una parola
Paolo Quintili
Università di Roma «Tor Vergata»
In memoria di Mario Perniola
I discorsi contemporanei sulla comunicazione, con le connotazioni commerciali e pubblicitarie, mediatiche e politiche che essi veicolano, con il connesso abbrutimento e inebetimento degli individui e delle moltitudini che tali discorsi sono volti a legittimare, in molti modi, impliciti o espliciti, tengono nascosto il senso lontano di una parola che è, con scarsa coscienza, sulla bocca di tutti. Ne tengono nascosta e lontana soprattutto la sua ricca storia. La tesi sottesa a queste brevi considerazioni – che apparirà come una sorta di paradosso, – è che il senso specialistico attuale del termine «comunicazione» divenuto oggetto di una pretesa «scienza», insegnata nelle nostre università, copre e legittima delle pratiche che di fatto impediscono gli uomini di comunicare realmente tra loro.
In greco antico, lingua della filosofia, «comunicazione» si dice in due modi. Il primo è il modo della anakòinosis, dal verbo anakoinòo, che indica il «mettere in comune», «mettere a parte» qualcosa con qualcuno, o dare conto dell’esistenza di qualcosa a qualcuno, quindi (derivativo) «prendere accordi», «consultarsi»: insomma, istituire una koinè tra più soggetti su qualcosa appunto di «comune». In Platone, Leggi, 913b, il verbo si presenta nel libro undicesimo, nel contesto della discussione sul tema della proprietà e del dovere, per l’uomo in società, di rispettare la legge di non appropriarsi illecitamente di cose altrui. Platone fa l’esempio di «un tesoro che un uomo abbia con cura conservato e riposto per sé e per i suoi, un uomo che non sia uno dei miei padri: non preghi io mai gli dèi di trovarlo e trovatolo non lo rimuova e neppure io comunichi (anakoinòo) la scoperta ai cosiddetti indovini che in un modo o nell’altro mi consiglierebbero di prelevare ciò che fu affidato alla terra in deposito»[1]. Nell’atto della comunicazione si danno qui due cose principali: una relazione umana e un oggetto d’interesse comune di cui si fa parola e che costituisce il legame tra i comunicanti. Nel caso citato da Platone: il cittadino e gli àuguri, gli indovini, ossia i preti, da cui il filosofo consiglia di tenersi lontano, con cui sconsiglia di anakoinèin.
Ancora Platone, in apertura del Cratilo (384a), mette in bocca a Ermogene, che incontra Socrate mentre sta dialogando con Cratilo, le seguenti (celebri) parole: «Ebbene, Cratilo, vuoi che anche Socrate qui, mettiamo a parte (anakoinòusin) del nostro ragionare? Cratilo. Si, se ti piace. Ermogene. Dice così, o Socrate, il nostro Cratilo: giustezza di nome ha ciascuno degli enti, per natura, innata; e nome non è ciò con cui alcuni, convenuto di chiamarlo, lo chiamano, della loro voce emettendo una parte, bensì una giustezza di nomi vi è, naturale, per i Greci e per gli stranieri, la medesima per tutti»[2]. In Platone la comunicazione prende la forma di un consulto, di una richiesta di parere e di condivisione di un logos attorno alla «cosa» che rappresenta il nome. Nel Protagora (314b), Platone ritornerà su quest’uso pragmatico della anakòinosis, per esprimere il «fare parte di qualcosa a qualcuno», per consultarsi con lui alla ricerca di un logos comune, una comunità di senso[3].
Un secondo modo di dire in greco la «comunicazione» è la metàdosis, dal verbo metadídomi, il «far partecipare», «rendere partecipe» qualcuno a o di qualcosa, con il significato anche di «distribuire», «impartire o ripartire», «trasmettere» (un’elargizione), e talora, in negativo, anche una malattia. La metàdosis s’incontra in Aristotele, nella Politica (1321a), nel Libro VI, quando è trattata la discussione sull’opportunità di «far partecipe» la massa del popolo (e quale massa) al governo della città: «Riguardo alla partecipazione (metàdosis) della massa al governo, o è concessa, come s’è detto in precedenza (1320b 25), a quanti possiedono il censo, o, come presso i Tebani, a quanti si astengono per un certo tempo dai lavori meccanici, o, come avviene a Marsiglia, facendo una scelta di quanti ne sono degni, sia che appartengono al governo, sia che ne stiano fuori»[4].
Anche in questa seconda accezione del termine, con la metàdosis, si attua un passaggio, uno scambio di qualcosa di comune – il governo, nel caso del passo citato – tra diversi soggetti: una relazione umana e una cosa costituiscono l’atto del metadídomi, del partecipare/comunicare insieme. Al punto che, nella stessa Politica (1257a, 24) aristotelica incontriamo anzitutto (nel Libro I) l’uso della metàdosis a indicare lo scambio di beni, il baratto, Afferma Aristotele: «Nella prima forma di comunità, e cioè la famiglia, è evidente che lo scambio non ha alcuna funzione: esso sorge quando la comunità è già più numerosa. I membri della famiglia avevano in comune le stesse cose, tutte; una volta separati, ne ebbero in comune molte, e anche diverse – e di queste dovettero fare lo scambio secondo i bisogni (anagkàion poieìstai tas metadòseis), come ancora fanno molti dei popoli barbari, ricorrendo al baratto (allaghèn)»[5]. Questo passaggio è ancora più significativo, in quanto nella comunicazione/scambio l’oggetto è per così dire indefinito e si riferisce all’ordine, alla necessità dei bisogni comuni[6].
Per venire più vicino a noi, in età moderna l’Encyclopédie (1751-1772) ci fornisce l’ampio quadro di un termine ricco di sfumature semantiche che portano buona memoria dei significati originari della anakòinosis e della metàdosis. L’entrata grammaticale del lemma, opera di Diderot, ci riferisce appunto di questa varietà:
* COMMUNICATION, (Gram.) ce terme a un grand nombre d’acceptions, qu’on trouvera ci-après. Il désigne quelquefois l’idée de partage ou de cession, comme dans communication du mouvement; celle de contiguité, de communauté, & de continuité, comme dans communication de deux canaux, portes de communication; celle d’exhibition par une personne à une autre, comme dans communication de pieces, &c. (Enc. III, 727b).
La successiva concatenazione ragionata di lemmi passa in rivista il concetto dal punto di vista anzitutto fisico-matematico, della «comunicazione di moto» [D’Alembert: «Communication de mouvement»], poi dai punti di vista teologico-morale e letterario (l’abate Edmé-François Mallet: «Communication d’idiomes (Théologie)» e «Communication (Belles-Lettres)») e infine una lunga serie di lemmi che ruotano attorno alle accezioni giuridiche e militari, per lo più anonimi : «Communication de Pièces (Jurisprudence); «Communication sans déplacer»; «Communication aux Gens du Roi»; «Communication au greffe ou par la voie du greffe»; «Communication du jugement»; «Communication de la main à la main»; «Communication au Parquet» ; «Communication d’une Production, Instance ou Procès» ; «Communication des sacs» ; «Communication (Fortifications)», di Guillaume Le Blond ; «Lignes de communication (Art militaire)» e, ultima entrata : «Pont de communication» (Fortifications), dello stesso Le Blond.
L’insieme di queste voci e le numerose accezioni di «comunicare» e di «comunicazione» dell’Encyclopédie si organizzano tutte secondo le diverse dimensioni del 1/ comunicare con, 2/ del comunicare a; 3/ della comunicazione di; 4/ della comunicazione tra: un uomo o una cosa comunicano con un altro o un’altra, nello spazio, con un passaggio o un processo naturale (D’Alembert), o con il pensiero, con il linguaggio ecc.[7] Si comunica ad altri una conoscenza, i propri pensieri attorno a un oggetto comune; c’è comunicazione tra corpi, parti di corpi, menti, esseri in generale, comunicazione dei moti propri di un corpo a un altro o ad altri corpi (è il significato che sviluppa in maniera assai originale, da fisico-matematico, d’Alembert), con tutte le sfumature e significati correlati che possono rivestire delle espressioni oggi inusitate, come «comunicarsi», «comunicazione della persona x a y»[8].
In ogni modo, come si vede bene, questi diversi usi e accezioni si stagliano su uno sfondo semantico generale soggiacente, su un significato più profondo: il concetto di comunicazione, da Platone e Aristotele, fino a Diderot e d’Alembert, rinvia sempre, in tutti i casi, a ciò che fa sì che vi sia qualcosa di comune tra x e y, che si tratti di esseri, di cose, di elementi, di idee, di verità ecc. dunque ad una comunità d’essere che è il presupposto ontologico della comunicazione stessa (anakòinosis o metàdosis), con tutti i problemi che ciò pone: problemi epistemologici, fisici, metafisici, teologici – e le modalità secondo le quali tali problemi si pongono: spaziali, temporali, ontologici, etici ed estetici. A tal riguardo, in questa veste, la nozione di «comunicazione» può figurare come una categoria nel senso filosofico del termine, cioè una nozione di grado superiore che ordina, comanda, sovrasta o ingloba una serie di altre nozioni.
Il problema è che oggi questa ricchezza categoriale del concetto di anakòinosis – preferiamo di tenere fermo questo magnifico concetto greco, per intenderci sulla cosa – è persa, sotterrata sotto il cumulo di macerie semantiche e di sciocchezze che connotano la contemporaneità, la cosiddetta «società della comunicazione», la quale, in rapporto a questa storia, non si sa, precisamente, cosa sia in verità. O dove si collochi, dal punto di vista ontologico.
Mario Perniola, in un libro divenuto oramai (giustamente) celebre – dal titolo: Contro la comunicazione (2004) – ha insistito molto sul carattere vuoto e svuotante della comunicazione mediatico-politica contemporanea, da lui intesa come un vero e proprio cancro antropologico e semantico della nostra epoca. In esergo del breve pamphlet, è indicata la linea critica direttiva, che qui stiamo seguendo anche noi: «La comunicazione è l’opposto della conoscenza. È nemica delle idee perché le è essenziale dissolvere tutti i contenuti. L’alternativa è un modo di fare basato su memoria e immaginazione [«facoltà dell’anima» complementari alla ragione, nell’estetica classica – n.d.r.], su un disinteresse interessato che non fugge il mondo ma lo muove»[9]. Ciò che conta sottolineare, dal discorso di Perniola, è che il mondo della comunicazione, facendo leva sui social media e la Rete, fa economia degli elementi essenziali del comunicare (visti sopra), che passano del tutto in secondo piano: la cosa comune da condividere e la relazione umana diretta. Questa si dissolve in un nugolo di «sensi» contraddittori e talora opposti che possono anche ignorare o eliminare tout court il «qualcosa di comune» (la «comunicazione del nulla» secondo Perniola), di cui l’atto comunicativo si sostanzia, per essere umano e reale. In ultima istanza, tale comunicazione impedisce di fatto gli uomini, che entrano in relazione con l’evento, di comunicare realmente tra loro, in quanto 1/ non si sa bene di quale oggetto si stia parlando – nella contraddittorietà dei sensi costantemente esibita – né 2/ che genere di relazione umana è in gioco, tra il (i) personaggio(i) protagonista(i) dell’evento o atto comunicativo e il suo (o i suoi) antagonisti.
Perniola racconta, nel primo capitolo del libro, alcune utili «Storiette sulla comunicazione» che risultano esemplari al riguardo. «Storiette»[10] vere: un esponente di spicco di un partito dominante esterna pubblicamente dei propositi offensivi e aggressivi contro un gruppo avversario, attraverso diversi canali «comunicativi». Ondata di scandalo e d’indignazione: il politico torna parzialmente sui propri passi, negando di aver inteso dire effettivamente quello che ha detto, essendosi pronunciato solo in forma scherzosa e senza intenzioni offensive. Il giorno dopo, attribuisce il discorso offensivo a una non precisata «opinione diffusa», che lui tuttavia non condivideva. La sera stessa aggiungerà che tale discorso contiene nondimeno una parte di verità. Il terzo giorno concluderà che in tutta la faccenda egli è solo stato «interpretato male»[11]. Questa vicenda ci dice due cose: 1/ la comunicazione del «discorso» politico del personaggio, passato per i media, soprattutto la Rete, non ha un «oggetto» proprio individuabile, una «cosa» precisa da comunicare (e condividere), ma serve solo da superficie, o da spalto, per tenere tre giorni alla ribalta della cronaca il personaggio in questione. 2/ In seconda battuta, non c’è una vera relazione umana tra il soggetto e i suoi antagonisti, nello scambio serrato e contraddittorio di battute informativo-comunicative, bensì un agitarsi spettacolare che esibisce un’insensatezza la quale fa comunque notizia e agita la «scena politica».
Su questo schema si fonda oramai la maggior parte della comunicazione politica che passa soprattutto per i nuovi mezzi d’informazione di massa, i social media e la Rete; mentre, ci sembra, ne restano relativamente immuni i media tradizionali – quotidiani, riviste cartacee – sottoposti a un regime di temporalità che ostacola, in una certa misura, la deriva spettacolistica.
Più di recente ancora è il noto caso di un ex-ministro della Repubblica il quale, in un comizio pubblico, diede dell’«orango» a un esponente del partito avversario, allora al governo. Le registrazioni audio sono inequivocabili: «Ogni tanto apro il sito del governo e quando vedo venire fuori la K*** io resto secco. Io sono anche un amante degli animali per l’amore del cielo. Ho avuto le tigri, gli orsi, le scimmie e tutto il resto. Però quando vedo uscire delle sembianze di un orango, io resto ancora sconvolto…». Discorsi degni de «La Difesa della Razza». Il personaggio, in seguito, s’è agitato molto attorno alla vicenda, risalente al 2013, dopo la denuncia sporta alla Procura della Repubblica per incitamento all’odio razziale. Tra un contorcimento comunicativo e l’altro, l’audience è cresciuta, il consenso del suo partito (oggi al governo) anche, e la figura politica è divenuta infine vice-presidente del Senato. In primo grado di giudizio, il politico è stato appena condannato a un anno e sei mesi di prigione, con pena sospesa. L’ultima sua esternazione al riguardo, nell’audizione di difesa in aula di tribunale, nel luglio 2018, ribalta ulteriormente la «cosa» (e relative relazioni umane): «Non ricordo parola per parola quanto ho detto, ma il mio intento era la critica politica al governo L***, anche per un certo divertimento (sic!) delle persone presenti, con toni leggeri. Non ho mai usato la parola “orango”, bensì “oranghi”, riferendomi a tutto il governo. Intendevo dire che si muovevano come elefanti in una cristalleria. Se avessi usato quest’altro paragone non saremmo in quest’aula»[12].
In conclusione, cosa si può dedurre in ordine alla questione del «Quarto potere e oltre. Informazione, agire comunicativo e opinione pubblica», dalle considerazioni fin qui svolte? In primo luogo, che quando parliamo di «comunicazione» nell’attuale sfera pubblica abbiamo a che fare con un «agire» in cui la cosa comunicata e la (le) relazione(i) umana(e) sono sfuggenti, quando non assenti (chi comunica a chi? che cosa?). In secondo luogo, c’è un fatto molto più importante: con l’avvento dei social media, il «Quarto potere» (l’informazione e la stampa) è stato riassorbito dal «Primo» (la politica), che può e sa gestire l’immagine e i dati della «comunicazione» (svuotata di contenuto e di senso) come, quando e nella forma che ritiene più opportuna, anche grazie alla Rete, come s’è visto nei casi dei due personaggi pubblici summenzionati, che hanno fondato su dei veri e propri reati penali – calunnia e incitazione all’odio razziale – il successo politico dei propri partiti, per di più sempre crescente[13]. La concentrazione di potere in atto, dunque, lede già la democrazia e la divisione dei poteri sulla quale essa si fonda, e sta introducendo nella sfera pubblica una forma inedita di fascismo mediatico. La comunicazione è oramai sganciata dalla comunità – di oggetti, di giudizi, di sentire ecc. – e falsata, tanto sul terreno dell’agire (comunicativo, appunto), quanto nel contenuto che esso veicola nell’opinione pubblica. Oltre a divenire estremamente violenta, nei modi, nei toni e nei linguaggi.
Occorrerebbe, a nostro avviso, avviare a livello intellettuale e culturale una nuova «Costituente» democratica del sapere e dell’agire politico (e non solo «comunicativo»), che crei un nuovo spazio dell’opinione pubblica al riparo dai processi di svuotamento della comunicazione dei suoi elementi essenziali, considerati sopra nella loro storia concettuale e teorica. È un compito, tuttavia, che va ben al di là di una semplice discussione filosofica, e dovrebbe coinvolgere forze culturali e politiche alternative, d’opposizione all’attuale establishment, e soggetti della società civile attivi nel campo dell’informazione e della stessa comunicazione. La filosofia, in quanto pensiero critico, e la sua storia, devono restare comunque il punto di riferimento ineliminabile: il cuore, il motore e il principio attivo di questa futura Costituente.
[1] Platone, Leggi, trad. it. di A. Zadro, in Opere complete, vol. 7, Roma-Bari, Laterza, 1987, p. 351.
[2] Platone, Cratilo, in Opere complete cit., vol.2, pp. 7-8.
[3] In questo stesso senso, il termine anakòinosis lo ritroviamo in Aristofane, Scholia, ed. F. Dübner, Paris, 1877 (Hildesheim, 1969); ed. W. G. Rutherford, London, 1896-1905; W. J. W. Koster, Scholia in Aristophanis Plutum et Nubes, Leiden, 1927, Plutum, 39.
[4] Aristotele, Politica, trad. it. di R. Laurenti, in Opere, vol. 9, Roma-Bari, Laterza, 1983, p. 213.
[5] Ivi, 1257a, 20-26: «κοινωνίᾳ (τοῦτο δ’ ἐστὶν οἰκίἀ φανερὸν ὅτι οὐδὲν ἔστιν ἔργον αὐτῆς, ἀλλ’ ἤδη πλειόνων τῆς κοινωνίας οὔσης. οἱ μὲν γὰρ τῶν αὑτῶν ἐκοινώνουν πάντων, οἱ δὲ κεχωρισμένοι πολλῶν πάλιν καὶ ἑτέρων, ὧν κατὰ τὰς δεήσεις ἀναγκαῖον ποιεῖσθαι τὰς μεταδόσεις, καθάπερ ἔτι πολλὰ ποιεῖ καὶ τῶν βαρβαρικῶν ἐθνῶν, κατὰ τὴν ἀλλαγήν».
[6] Più tardi, in Plutarco, Moralia, 46, 634a, la metàdosis diventa precisamente il «soggetto comune di discussione», la «questione» comune, su cui più soggetti sono coinvolti in ragione di un bisogno. Il concetto ritornerà in Plotino, Enneadi, 5, 1, 12, qui la metàdosis indica precisamente la «comunicazione» / la condivisione e lo scambio tra i diversi gradi della realtà.
[7] Molto ricca è anche al concatenazione della voce «Communication», nel Dictionnaire de l’Academie Françoise, Paris, 17624: « COMMUNICATION. s.f. COMMUNICATION. s.f. Action de communiquer, ou l’effet de cette action. Communication de biens. Communication de maux. On dit, Donner communication d’une affaire à quelqu’un, pour dire, Lui faire part de ce qui concerne cette affaire. Et de même, Avoir communication d’une affaire, d’un traité. Il signifie aussi Commerce, familiarité, & correspondance. Ils ont grande communication ensemble. Ils ont, ils entretiennent communication par lettres. Avoir communication avec les ennemis de l’État. Ils ont rompu toute communication. Défendre, interdire la communication.
En termes de Palais, Communication au Parquet, c’est l’exposition des raisons que les Avocats des Parties sont devant les Gens du Roi. Son Avocat allégua telle chose à la communication. Les Gens du Roi ont pris, ont reçu, ont eu communication. Communication des Parties, se dit, Quand les Parties s’entre-communiquent leurs pièces par original, ou par copie. Il m’a donné son sac en communication. Je n’ai point eu communication de ses pièces».
[8] Ivi, «COMMUNIQUER. v.a. COMMUNIQUER. v.a. Rendre commun à…. Faire part de…. Un corps qui communique son mouvement à un autre. Le feu communique sa chaleur. Le Soleil communique sa lumière à toute la terre.
On dit, Communiquer ses lumières, ses pensées, ses desseins à quelqu’ un, pour dire, Lui faire part de ses lumières, de ses pensées, de ses desseins: Et dans le même sens on dit, Communiquer sa joie, sa douleur. On dit aussi dans la même acception: Dieu nous communique ses graces. Dieu communique ses graces à qui il lui plaît.
Dans toutes ces acceptions, Communiquer est aussi réciproque. Le mouvement d’ un corps se communique à un autre. La chaleur du feu se communique aux corps environnans. Une maladie qui se communique aisément. Certains maux se communiquent en peu de temps. La joie & la douleur se communiquent peu à peu.
COMMUNIQUER signifie aussi, Donner communication de quelque chose. Communiquer ses affaires à un ami. Il ne m’ en a rien communiqué. Je lui ai communiqué mon intention, mon secret. On lui a communiqué les titres. Les Ambassadeurs se communiquèrent respectivement leurs pouvoirs. Communiquer les pièces d’ un procès. Communiquer une production. En ce sens il est–345–aussi neutre. J’ ai communiqué de cette affaire avec lui. Il en faut communiquer à un homme intelligent. Il a fait cela sans en communiquer à personne. Le Rapporteur en communiquera avec les Commissaires. On en a communiqué aux gens du Roi.
COMMUNIQUER signifie aussi, Avoir commerce & relation. En ce sens il se dit absolument. Communiquer avec les Savans Communiquer avec les ennémis.
Il se met aussi avec le pronom personnel, & signifie, Se rendre familier, entrer facilement en discours & en conversation avec quelqu’ un. C’est un bon Prince qui se communique aisément. Les Princes d’ Orient se communiquent rarement à leurs sujets. Vous vous communiquez trop. Il ne faut pas se communiquer à tout le monde.
On dit, que Deux appartemens, deux chambres, &c. se communiquent par un corridor, par une galerie, &c.
On dit aussi, qu’Une chambre communique à l’ autre. En ce sens il est neutre».
[9] M. Perniola, Contro la comunicazione, Torino, Einaudi, 2004, corsivo nostro; cfr. in particolare, Parte 1, capitoli «4. Comunicazione e violenza» e «9. Comunicazione e fascismo».
[10] Mario Perniola, con questo termine «storiette», intendeva riferirsi al modello delle Historiettes. Mémoires pour servir à l’histoire du XVIIe siècle (scritte a partire dal 1657), di Gédeon Tallemant des Réaux (1619-1692). Si tratta di cronache diaristiche e scandalistiche che raccontavano vicende biografiche, della vita politica e culturale del tempo, passate in clandestinità all’epoca per il loro carattere dissacratorio e anticonformista. Per questa ragione le Historiette di Tallemant vennero pubblicate solo postume, sui manoscritti autografi, nel 1834. Perniola, in uno dei suoi ultimi libri, scriverà anche lui delle historiettes: Del terrorismo come una delle belle arti. Storiette, Milano, Mimesis, 2016. Da ciò che qui argomentiamo, s’intenderà meglio il senso del termine.
[11] Perniola, Contro la comunicazione cit., pp. 10-11.
[12] Il Manifesto, 15/01/2019, p. 5.
[13] In riferimento al contributo di Paolo Ercolani nel dibattito di «Filosofia in movimento» sul «Quarto potere»: «La frantumazione del quarto potere (e la genesi del quinto)», ossia la Rete, o la «comunicazione», che s’aggiungerebbe alla tradizionale «informazione» (Quarto potere) come «Quinto potere», non crediamo che alla fine questo Quinto potere si sganci realmente dalle altre sfere (come del resto lo stesso Ercolani lascia intendere), né dal processo di svuotamento della comunicazione, né soprattutto dal fenomeno di concentrazione dei poteri che essa stessa rende possibile.