DEMOCRAZIA IN AFFANNO (Ripartire dai fondamentali)
di Alessandro Corbino
1. Da anni (da molti ormai) è divenuta palese la difficoltà dei nostri moderni sistemi “liberal-democratici” di conservare la fiducia sulla quale si è costruito il largo consenso che ne ha accompagnato l’esperienza negli anni del secondo dopo-guerra.
Quel che più colpisce è il fatto che questa caduta di consenso non è stata conseguenza del contrasto ideologico che essi hanno dovuto a lungo affrontare. Prima e dopo la fine della “guerra fredda”. Né il duro confronto con il “blocco comunista”, né le insidie del terrorismo (sia di matrice “interna”, che “internazionale”) avevano messo in dubbio (nelle popolazioni dei Paesi che li adottavano) la (imperfetta, ma sicura) superiorità del modello “liberal-democratico” su ogni altra “forma” storica di governo. Anzi. La coscienza di tale sua (ritenuta al tempo) evidente preferibilità era stata una delle più forti ragioni del suo consolidamento (oltre le insidie). Fino a non troppo tempo addietro la “democrazia” sembrava in Occidente un destino irreversibile.
Non è più così. Le certezze vacillano. I nostri sistemi di governo sono tutti in discussione. E le ragioni non sono troppo difficili da comprendere. Come ha reso impietosamente evidente la vicenda della pandemia.
2. Dobbiamo muovere da una considerazione.
Viviamo da qualche decennio in un mondo profondamente cambiato. Lo percepiscono meglio naturalmente le generazioni come la mia, che hanno vivo il ricordo di quel che esso era ancora non troppi decenni fa. Ma lo percepiscono anche le generazioni più giovani, che constatano la generale “instabilità” che lo connota e che ne subiscono le conseguenze nelle loro vite quotidiane (nelle quali è sempre più difficile una “programmazione” – personale/lavorativa – sulla base di “fondamenti” di presumibile almeno media durata). Sono dunque ben comprensibili le preoccupazioni diffuse e la conseguente “tensione” nella quale ciascuno è costretto a vivere la propria esistenza.
Come sempre, non è facile – nel corso di fasi della storia caratterizzate da trasformazioni impetuose e da cambiamenti sensibili degli “equilibri” tradizionali – assecondare le novità con un passo che sia in grado di fare accettare, a coloro che li vivono, le ragioni dei cambiamenti. È difficile indurli insomma ad un atteggiamento di “accompagnamento”. Per una ovvia considerazione. Mentre il “mutamento” (il venir meno delle “certezze sociali” maturate) si percepisce con relativa immediatezza (incide, con drammatica evidenza, sulle vite di ciascuno), il “riassetto” che, alla lunga, inevitabilmente ne verrà – determinando un nuovo (accettabile) “equilibrio” – maturerà in un periodo troppo lungo perché anche chi ne intraveda i contorni possa sottrarsi alle ansie del presente. Quando esso si stabilirà (un fatto certamente di decenni) varrà per altri.
La coscienza (diffusa e generale) di vivere una transizione “storica” significativa irrigidisce le resistenze. Invita alla difesa del conseguito molto di più di quel che non accade in epoche di più “lenta” (ordinaria) transizione. Scoraggia dal contribuire alla ricerca del “nuovo”. E rende tutti inclini alle solidarietà “corporative” (che aiutano a conservare i benefici e le rendite di posizione). Non vale a nulla demonizzarlo. Se non ad accrescere l’allarme e la propensione “conservativa” di chi ne è ancora toccato marginalmente.
Accade sempre.
3. In democrazia, la percezione di vivere una transizione “significativa” ha però una conseguenza ulteriore e correlata. Innesca immediate tensioni.
Mentre nei sistemi nei quali la forma di governo preveda una passiva condizione dei “governati” la “irrequietezza” serpeggia ma non emerge, nei sistemi che – come quelli “liberal-democratici” – sollecitano (o almeno favoriscono) una larga partecipazione alle “decisioni collettive” dei “governati”, la “irrequietezza” si manifesta subito. Non attende che i risultati dell’azione di governo si rivelino “insopportabili” e generino “rivoluzioni”. Produce “malcontento” e “sfiducia” già ai primi segnali.
Ne è del resto indicatore il passaggio che, in questi secondi sistemi si osserva, da un costume nel quale nei “governati” appare prevalente un atteggiamento di relativa distaccata indifferenza (che ne favorisce il rinchiudersi nel loro – piccolo o grande – “privato”) ad uno nel quale cresce invece il livello collettivo di interesse e di partecipazione. Nelle diverse forme (e con la diversa praticabilità) consentite dagli strumenti di comunicazione/interazione. È quel che è accaduto in questi anni. Come è esperienza di coloro che li hanno vissuti. E che sta a fondamento della crisi dei nostri sistemi.
Abbiamo assistito – in particolare, negli ultimi dieci anni – ad una esponenziale crescita (agevolata dai progressi della tecnologia) della “circolazione” del pensiero “immediato” e “spontaneo”, che ha relegato del tutto in secondo piano, nell’orientamento dell’azione politica, quello “elaborato”. Il “tweet” ha sostituito i giornali e i libri. Generando presto due concorrenti fenomeni.
Da un lato, l’azione politica ha cessato di guardare lontano. Sia per la naturale difficoltà di “prevedere” una realtà dominata da una tensione al cambiamento senza precedenti. Sia per la sempre minore possibilità di “fidelizzare” il consenso “politico” sulla base di “risultati” (inevitabilmente legati a “processi” complessi e a tempi almeno medi). Ed è venuto così il tempo di una politica di “annunci”. Il cui gradimento, affidato a “sondaggi”, ne orienta una gestione di continua “rimodulazione”. Che ne permette, nei fatti, solo modesti e lenti “avvicinamenti”, che divengono anche i soli sui quali l’azione viene giudicata. Con la paradossale conseguenza di una estrema fluttuazione delle “aggregazioni” di orientamento (secondo la dinamica speranza/delusione) nella sostanziale “immobilità” di fondo della realtà materiale.
Dall’altro, si è percepita tale “immobilità” delle cose come dovuta anche alla “chiusura” (in “cittadelle fortificate”) di “gruppi di interesse” orientati a conservare i vantaggi derivanti dalle posizioni di potere (economico, sociale, politico) “occupate” (spesso occasionalmente, e non all’esito di un’aperta competizione) e difese con tecniche “corporative”.
4. Gli effetti sono sotto gli occhi di tutti.
Il montante disagio degli “esclusi” (che spesso sono piuttosto “espulsi”, persone che hanno cessato di potersi giovare – per la sopravvenuta insostenibilità degli stessi – di molti dei meccanismi “clientelari”, che ne avevano frenato in passato il ribellismo) ne ha favorito la confluenza in movimenti “populisti”, proliferati un poco dovunque. Nel nome del contrasto alle consorterie “elitarie” e alle aggravate disuguaglianze tra “forti” e “sfavoriti”.
Non può dunque sorprendere più di tanto la caduta di consenso verso le istituzioni tradizionali che – in tutto il mondo occidentale – ha caratterizzato da alcuni anni l’atteggiamento generale dei “governati”. Ben oltre le reali responsabilità dei governanti. I quali non hanno “voluto”, avendo – a ben vedere – anch’essi “subito” piuttosto ciò che è accaduto e sta accadendo.
La difficoltà di fronteggiare le epocali novità del nostro tempo e di dominarne l’impatto sulla vita quotidiana di ciascuno è generale. E non può non essere dunque anche di chi “governa”. Come sottolinea per altro il fatto che il “malumore” non investe questa o quella specifica declinazione delle “liberal-democrazie”. Le investe tutte.
Il disfavore si è lentamente spostato (si sta spostando) dalle “persone” ai “sistemi”. Per restare a ciò che tutti osserviamo, l’Occidente è (era, fino al fatto nuovo: la pandemia) attraversato dovunque dalle stesse tensioni. Ovunque sono nati “leaderismo” e “populismo”. E, con essi, vigorosa contestazione degli stessi “fondamenti” sui quali si reggono le istituzioni che regolano l’ordine politico sul quale si è retto l’Occidente per circa 70 anni. È andato in crisi tutto. È crollata la fiducia nelle organizzazioni “sovranazionali”. Ed è esplosa la rissosità. In Europa tra istituzioni comunitarie e stati membri, in Italia tra governo nazionale e governi regionali e, a cascata, tra questi e i governi comunali.
Le pur palesi insufficienze (ad essere generosi) degli uomini (di quanti hanno materialmente dovuto fronteggiare – da “governanti” – le necessità) non spiegano la crisi che viviamo (che stavamo già vivendo). Essa ha radici ben più “strutturali”. Nasce dalla sopravvenuta inadeguatezza delle forme del nostro “governo”. Come ha reso drammaticamente evidente la pandemia.
5. Il “processo decisionale” (il fatto che dà espressione a ciascuna forma di governo) è sfuggito – nelle liberal-democrazie del nostro tempo – al controllo collettivo. Ciò che era (o ritenevamo fosse) il nostro punto di forza (il fondamento “collettivo” di ogni investitura in una funzione di governo) si è rivelato il nostro punto di debolezza. La “gestione” delle funzioni pubbliche si è rivelata tutt’altro che “aderente” al “disegno” (l’ordine normativo vigente). All’astratta previsione delle cose non corrisponde la pratica che se ne fa. Sono miseramente naufragate tutte le aspirazioni di una gestione coordinata del nostro “complesso” universo di riferimento. Ed è (era già in verità) evaporata ogni corrispondenza dei “fatti” alla previsione che ne aveva “normato” l’evenienza. E la “decisione” (in qualunque materia) si è rivelata comunque non solo “scoordinata”, ma anche tutt’altro che “controllata” dai molti (democrazia), tutt’altro che affidata ai “migliori” (come liberamente e collettivamente individuati), tutt’altro che capace di esprimere “tempestività” (efficacia) e rassicurazione (efficienza).
La pandemia lo ha reso manifesto.
Non solo perché ciascuno ha imboccato (più o meno dovunque e ad ogni livello) il percorso che ha ritenuto, ma anche perché lo ha fatto secondo una filosofia de-responsabilizzante nel massimo possibile. Sono divenuti protagonisti assoluti gli “scienziati” (e impressiona vedere che lo siano anche agli occhi di coloro che ne avevano – fino a qualche mese addietro – deriso la “competenza”). Si “confida”. La domanda più ricorrente è: avremo, e quando, un vaccino? E lo stesso accade nei confronti del “potere” politico. Anche quando non ha altra “legittimazione” che il suo attuale “insediamento”. E nonostante abbia operato (altrettanto dovunque) – più che in vista di “obbiettivi” riconoscibili e dichiarati (di strategie condivise) – nella più palese e balbettante incertezza.
È stato evidente a tutti che i “processi decisionali” (come definiti dalle “norme”) non fossero in condizione di reggere l’urto delle circostanze. Di assecondare la “gestione” della emergenza. Nel momento nel quale è stata questa (la gestione) ad assumere prioritaria rilevanza è venuta in evidenza l’insufficienza della “norma”. Si scopre che ne conta altrettanto (e nell’immediato anche più) la “pratica” che ne avviene. La quale esige accortezze che non può dare la “norma”, ma la “cultura” di chi ne cura l’osservanza. Da diretto destinatario o da “controllore”/“giudice” della sua corretta esecuzione.
Abbiamo assistito (almeno in Italia) al deprimente susseguirsi di “dettati normativi” che si sono subito (dopo ore) rivelati non in grado di assolvere alla funzione “regolativa” che li aveva ispirati. Nella illusione generale che bastasse la “legge” (la regola dettata) a dare “ordine” alla realtà fattuale. Se ne sono ignorate (in assoluta buona fede, per una evidente ragione di abitudine generale, di “cultura”) sia le cautele che devono precederne la formulazione, sia le naturali “insufficienze” che questa sconta. Suggerita dalla “esperienza” (da una realtà “consumata”), la regola proietta la sua vigenza su una realtà “imprevedibile” (perché necessariamente futura rispetto alla regola). E deve tenere dunque in adeguata considerazione la (insuperabile) funzione “mediante” che vi svolge il suo (vario) destinatario.
Nessuno si è impegnato (a nessun livello) in una “concertazione” delle cose. Quella “prevista” dalle regole vigenti era (per la farraginosa ed incerta determinazione “normativa”: in Italia, le disposizioni costituzionali vigenti nella materia) fattualmente impraticabile. Ed essa avrebbe richiesto comunque una disponibilità al dialogo, orientata dalle “cose” e non dalle “convenienze”.
Nell’azione individuale (istituzionale voglio dire), ciascuno si è preoccupato (è sembrato a me preoccupato) di sottrarsi alla possibilità di essere additato domani come l’autore delle “scelte” adottate. Di quelle compiute quasi nessuno ha rivendicato, a distanza di settimane (e dunque con l’evidenza dell’esperienza), la paternità. Si è affrettato a chiarire continuamente di esservi stato “costretto” dalle circostanze. Si è persino teorizzata l’opportunità di non perseguire “strategie”, ma di operare “vedendo/facendo” (anche là dove – come nella materia economica – operare senza strategia ha voluto dire, come appare già evidente, condannarsi alla sicura intempestività degli interventi).
E quel che sgomenta è che un tale atteggiamento non è stato solo dei “politici”, ma anche degli “scienziati”. Molti dei quali non si sono trattenuti (già al primo manifestarsi degli eventi) dal dare (ignorando tutto: il virus è – com’è noto – di una specie mai osservata) indicazioni “nette” (è solo un’influenza/è un morbo mortale). Gareggiando talora tra loro. In una sorta di manifesta “competizione”. Non troppo diversamente dai “politici” impegnati (visibilmente) spesso (non tutti per la verità) a fare soprattutto da immediato contraltare ai “governanti” esposti. Chi era all’opposizione del governo centrale predicava che si dovesse fare il contrario di quel che frattanto facevano i suoi colleghi di schieramento nei governi locali. E chi era all’opposizione rispetto ai governi locali lo faceva a sua volta, incurante di ogni coerenza. “Aprite tutto” / “chiudete tutto” non era una “convinzione” (su che poi?). Ma una valutazione di “convenienza” (su un “che” qui invece ben chiaro).
Naturalmente, quella descritta è una versione esagerata e in parte caricaturale. Sarebbe ingiusto trascurare il “trasparente” serio (e anche prudente) impegno di molti scienziati e politici. Ma questo non assolve il “sistema”. E – quel che, più ancora, rileva – non permetterebbe di dare evidenza a ciò che è invece necessario: la palese maturata inadeguatezza delle nostre forme di governo e soprattutto della “cultura” che ne sta a fondamento e che ne orienta il funzionamento. Se non ne avviamo una urgente revisione, rischiamo quel che la pandemia ha cominciato a fare intravedere. “Partecipazione” ed “inefficienza” rischiano di divenire una “correlazione” che giustifica uno sguardo interessato “fuori campo”. Di dare fiato a seduzioni pericolose. Sarà anche “autoritario” ed “illiberale” ma un bel “sistema cinese” (si è detto persino esplicitamente) è sicuramente un sistema “efficace ed efficiente”. Un modello. Perché no? Magari non per tutto e per sempre. Ma per le “emergenze” forse invece sì.
Se vogliamo che la pandemia non si porti – con le molte vite che si è portata con sé – anche la nostra “libertà” dobbiamo fermarci a riflettere.
6. La prima riflessione riguarda un fatto metodologico, ma essenziale.
Dobbiamo recuperare la cultura del “dubbio”. Che non vuol dire dell’esitazione paralizzante, ma solo della necessità che ogni nostra decisione deve trovare un “consenso” che si formi a valle di un libero e aperto confronto. Che non viva di “adesioni”, ma di “convergenze”. Trasparenti. E delle quali dunque siano individuabili i “responsabili”. Non certo per perseguirli (in caso di insuccesso), ma solo per giudicare (a valle dei risultati) la “opportunità” delle valutazioni fatte (e giudicare l’affidabilità dimostrata).
Non sono parole.
Sono la conseguenza della preoccupata osservazione di quel che accade – da molti anni – per il diffondersi delle pratiche di “valutazione”. E nella ricaduta che tutto ciò ha avuto sui nostri “costumi”.
7. Negli ultimi decenni, si è incrementato il ricorso in ogni campo a criteri di “valutazione” legati a forme di certificazione della qualità realizzata attraverso giudizi “astratti” e “preventivi”.
Il fatto non è certo una “novità” del nostro tempo. Da sempre sono esistiti filtri preventivi di rassicurazione. Tra i più noti ed universali, come tutti sanno, quelli utilizzati per legittimare l’accesso ad alcune funzioni “pubbliche” fondate sul possesso di abilità tecniche (si pensi al “valore legale” dei titoli di studio).
La novità del nostro tempo è stata la diffusione del fenomeno.
Sotto la spinta di esigenze rese pressanti dalla nuova dimensione dei mercati (e dalla conseguente impossibilità di una relazione di “affidante” diretta conoscibilità del produttore) esso ha preso sempre più campo. Non ne ripercorrerò – per non farla lunga – tutti i passaggi, i tentennamenti e le progressive manifestazioni. Mi limito a sottolineare le conseguenze che la cosa ha alla lunga comportato sul costume sociale. Pervadendolo. Anche nella materia della “scienza”.
8. Fino a non troppo tempo fa, si era mantenuta salda la convinzione che ogni “scienza” fosse (in misura diversa, in relazione ai suoi diversi oggetti) un insieme di convinzioni “provvisorie”. Un approdo momentaneo maturato per convergenza progressiva (catena di adesioni a valle di verifiche/discussioni). Contava (nel dibattito) la reciproca legittimazione dei partecipanti (come ammoniva del resto già Plinio il giovane, “solo il sapiente può riconoscere il sapiente”). E contava il “merito” delle cose. Benedetto Croce non aveva laurea. E il possederla non era (ancora pochi decenni addietro) requisito per ottenere una “cattedra” universitaria.
Queste convinzioni non sono state esplicitamente abbandonate. Sono regredite nei fatti. Sostituite (quasi insensibilmente) dal progressivo espandersi del criterio “formale” in danno di quello “sostanziale”.
Con due ricadute.
Una prima è stata l’introduzione di “filtri preventivi” di valutazione/ accreditamento sempre più diffusi. Si sono istituite “agenzie” varie (anche pubbliche) preposte alla funzione. Con riferimento alla materia scientifica, si è ritenuto che ogni “contributo” (significativamente ridenominato “prodotto”) dovesse esporsi (per divenire meritevole di “considerazione”) ad un parere “di ammissibilità”. Se ne è introdotta insomma una rilevanza “condizionata”. Ogni “proposta” è entrata nel circuito della discussione (incidente sullo stato delle conoscenze “scientifiche”) solo a seguito di un giudizio di “ammissibilità”. Senza il superamento del quale non si ritiene che essa possa avere “legittimazione”.
La seconda conseguenza è stato il lento ma inesorabile avanzare di “cittadelle” (riviste, società scientifiche, raggruppamenti vari) divenute “luoghi” di controllo del “pensiero”. Contano le idee condivise. Talora anche (se non più, dove questo può accadere) gli interessi materiali di coloro che ne filtrano (“negoziano”) gli ingressi. Anche grazie a strumenti (come l’anonimato) che li sottraggono alla “responsabilità” della pronuncia.
L’ “autorità” non è più, in nessun campo, una “investitura” trasparente e momentanea. Ma il presupposto (comune e generale) che la giustifica (l’accreditamento già ottenuto e che rende a propria volta “accreditanti”). In quello scientifico, non è più un fatto occasionale (l’essere componente “elettivo”, ad esempio, di una commissione di concorso). È la conseguenza di uno “status” permanente (che può giustificare perciò l’investitura anche solo “a sorte” in una funzione).
La conseguenza è stata inesorabile. La “squalifica” dissuasiva (di un punto di vista considerabile “erroneo”) ha finito di essere il risultato di un processo dialettico (una “discussione” che esitasse cioè nella mancata rimozione del precedente risultato provvisorio). Per trasformarsi nel risultato di un processo “censorio”. L’opinione “respinta” non è più rimasta viva e circolante (ancorché minoritaria). Non le è stato semplicemente consentito di prendere forma (pubblicazione). Direte: succedeva anche prima. Certamente. Ma molto meno e soprattutto senza una “regia” soffocante.
Nelle “scienze” che non hanno ricadute “pratiche” immediate (come quelle “umane”: storiche, ad esempio) il cambiamento ha una minore percepibilità immediata. Il “conformismo” che genera rallenta la “comprensione” delle cose. Fino a quando almeno la tenace azione “eversiva” di qualcuno che non si acquieti (e riesca anche a inserirsi nella discussione) non produca “revisione” (un fatto che – com’è noto – sconta ritardi pluridecennali). Ma nelle “scienze” che quella ricaduta hanno (come quelle “mediche”, per esempio) genera effetti ulteriori: di “presunzione”. Favorisce la formazione di “clan”, che perdono nel tempo coscienza di tale loro “condizione fattuale” e (in assoluta buona fede di coloro che vi sono stati ammessi, in funzione appunto del loro atteggiamento supino ed adesivo) divengono “barriere” verso la discussione. Favoriscono il formarsi di un “pensiero” che alla fine si impone solo per “autorità” (per la forza “legale” assegnata alle “forme”). Diviene (si propone) come “verità”. Non più come “probabilità”.
8. Questa nuova cultura “scientifica” è dilagata nei venti anni che ci precedono. E ha avuto ricadute di costume molto più generali.
Ha favorito la esaltazione del principio maggioritario (fondato sulla “pari” valenza dei votanti) in ogni occasione che sollecitasse una “decisione”. Dovunque si sono “neutralizzate” le differenze tra i “decidenti”. Non solo dunque nel campo direttamente “politico” (il suffragio universale, nel quale la pratica subiva comunque il temperamento delle formazioni sociali “medianti”), ma in ogni altro. Anche dove le “differenze” (come nella “scienza”) fanno (non possono non fare) la “differenza”.
Esso ha ingenerato l’idea – in chiunque rivestisse una “posizione” legata alla propria “competenza” – di poter far valere la propria (conseguente) “autorità”. La quale dunque non è più il risultato di una “investitura” motivata. Ma il presupposto che dà rilievo (differenziante) ad un punto di vista. Chi la possiede non deve “convincere”. Può limitarsi anche a “declamare”. Come purtroppo osserviamo fare a molti. La “decisione” è stata affidata (dovunque) al “numero”. E dunque ad una “composizione” del consenso che – se libera – vede la prevalenza dei “meno qualificati”. E – se invece “condizionata” dalle “dipendenze fattuali” (le aspettative) – quella dei più “corrotti”. Moltiplicando il potere dei “corruttori”. E comprimendo (fino alla soppressione) quello di coloro che non vi si piegano.
Direte: cosa c’entra tutto questo con il costume politico? Rispondo con una domanda: sapete come sta funzionando la “composizione” dei vari “comitati tecnici” (dunque “scientifici”) ai quali i governi (e quello italiano in primo luogo) stanno affidando “funzioni” decidenti, che si stanno sovrapponendo a quelle delle “istituzioni” (i parlamenti e i governi)? E sapete che – per valutare se un certo “pensiero” (non scientifico, ma qualsivoglia) può circolare o meno (non appartiene alle “fake-news”) – si terrà in considerazione (così ho ascoltato) la valutazione di “comitati” di “pari”?
9. Concludo.
La pandemia ha dato evidenza alla “crisi” profonda nella quale si era incagliato già – da decenni – il sistema politico occidentale. Per la evidente inadeguatezza delle forme dei processi decisionali ai quali esso si era affidato. In un tempo nel quale però quelle “forme” erano molto più “prossime” alla cultura corrente.
Abbiamo mancato di curarci di mantenere vitali i “presupposti” sostanziali delle forme partecipative. Ci siamo illusi che fossero le “leggi” (gli enunciati a governare il mondo). Quando – come avrebbe dovuto essere ovvio – ciò che lo governa è la loro “gestione”. Che non avrebbe dovuto perciò essere lasciata ad una organizzazione materiale delle cose che non mantenesse estrema attenzione al “chi” e al “come”. Il che sarebbe potuto accadere solo mantenendo altissima la “vigilanza” collettiva al riguardo.
Dobbiamo recuperare alcune “consapevolezze”. E da esse ripartire verso traguardi tutti ancora da elaborare.
I punti fondamentali sono due.
Il primo è che i sistemi “liberal-democratici” sono una eredità “ideologica” della “polis”. E dunque di una collettività che si “autogoverna”. Una modalità che può avvenire in forme non necessariamente uniformi. Sicuramente complesse. Legate alle “culture” delle “collettività” (come storicamente formatesi). Forme, inoltre, che non perdano di vista che la “sovranità” della quale essi sono espressione ha come titolare la “collettività” (e non una qualunque “istituzione” di essa). E può perciò esplicarsi solo accettandone le conseguenze. Non può essere sinonimo di “arbitrarietà”, deve subire “limiti”. Nei confronti delle comunità “altre” (con le quali deve condividere “regole” essenziali comuni) e nei confronti di ciascuno di coloro che (in una comunità determinata) vi siano “esposti” (ai quali non può “imporsi” se non ciò che essi accettano).
Quali questi limiti “possano” essere può dirlo solo la “storia”. Dipendono dal consenso di coloro che subiscono il “potere” (i cui contenuti essi stessi “disegnano”) e si formano perciò in relazione a “contesti” variamente mutevoli. Sono sempre “mobili”. Nessuno dispone (di principio) dell’ “autorità” necessaria. La quale è solo conseguenza di una investitura “provvisoria”, “storica” e “collettiva”.
Il secondo punto dal quale ripartire è che l’esercizio (collettivo) della “sovranità” (collettiva) deve restare esposto, nelle due direzioni – verso le collettività “altre” (che la “accettano”) e verso i “singoli” (che la subiscono) – a condizioni di “praticabilità”. Dunque da una “studiata” relazione tra “regole” (di orientamento) e “soggetti” (funzionari della collettività) ai quali ne sia delegata l’applicazione in vista degli obbiettivi stabiliti. La “delega” non può essere né “illimitata” (per tempi/contenuti) né “arbitraria” (nell’esercizio), né sottratta alla valutazione (di “opportunità”) che ne dovranno fare (giudicandone la “pratica”) i deleganti. I quali perciò devono mantenere una costante possibilità di “conoscere” e, conseguentemente, di incidere sulle decisioni (concorrendo fattualmente – in modi diretti/mediati – alla loro determinazione). Dipende, ancora una volta, insomma da fattori “storici”. La “organizzazione” delle cose deve potere continuamente rimodellarsi, in relazione al variare dei presupposti dai quali dipende. Deve essere in ogni momento “attuale”.
Nulla di tutto questo è semplice. Né è facile. Né soprattutto può avvenire in modalità “universali” indifferenti a storie e contesti.
Il che aiuterà a comprendere bene solo il ripiegarsi sulle nostre storie “politiche”. Un punto tuttavia di mera partenza. Dal quale fare esplodere intelligenza e fantasia. Tutto il contrario di quel che sta succedendo.
Proprio perché, a pandemia finita, saremo in un mondo “nuovo”, solo lasciarne l’ordine alla “libertà” consentirà di dargli efficacia. Non serviranno “programmi predefiniti” (chi “può” prevedere bene e tutto?). Serviranno “metodi”. Strutturati abbastanza per “contenere” gli inevitabili errori e per lasciare fuori dalla porta gli arroganti “sapienti” dai quali è derivato il disastro nel quale eravamo già precipitati e al quale la pandemia ha solo dato “evidenza”.