Contingenza e liquidità: il pensiero corto e gli interrogativi della pandemia
[Guardare avanti: esercizi di utopia razionale]
Per l’amicizia degli Autori ho potuto leggere in anteprima gli interventi di Bruno Montanari e di Sandro Corbino.
Sono certo diversi per lo sguardo con cui considerano questo tempo. Ma il loro sguardo diverso li porta, tuttavia, alla medesima diagnosi, la crisi della democrazia e delle sue forme resa solo più manifesta dalla contingenza estrema della pandemia, ed alla medesima origine, l’esaurimento dell’intelligenza sociale e, segnatamente, il decadimento culturale delle élite, che nella inadeguatezza del ceto politico raggiunge solo maggiore visibilità.
Con questa diagnosi difficilmente si può non essere d’accordo. Tanto che la difficoltà di aggiungervi qualcosa mi rende restio ad intervenire a mia volta.
Per questo, piuttosto che un intervento mi limiterò a fare qualche breve, e abbastanza ovvia, chiosa.
Il quadro culturale, che Montanari e Corbino denunciano, risale, innanzitutto, all’azzeramento delle ideologie e all’incontrastato dominio del pensiero unico.
E’ vero che le ideologie del novecento si erano spesso tramutate in pregiudizio e dogmatismo, e in tragedia. Ma erano, e sono rimaste fino a cinquant’anni fa, anche un’altra cosa, l’idea che fosse possibile, anzi necessaria, un’idea del mondo, un’idea che parlasse del cammino percorso dall’umanità e che aiutasse ad immaginarne il futuro. Quest’idea orientava la politica e le dava nobiltà. Ma orientava prim’ancora il sapere. In quest’idea c’era la convinzione che si desse un ordine e che il compito delle scienze umane dovesse essere quello di comprendere quest’ordine e di misurarsi con esso e con le prospettive che esso disegnava per le società. Tutta la speculazione della filosofia, della sociologia, dell’economia e della giurisprudenza, direttamente o indirettamente, muoveva da questo postulato. E questo postulato, in un modo o nell’altro, determinava, a sua volta, i percorsi della ricerca e, soprattutto, le conferiva unità. Certo, la conoscenza si articolava in saperi speciali. Ma ciascuno di questi saperi esibiva sempre un apice dove si incontrava con gli altri e quel che si elaborava in questi livelli apicali influenzava a cascata il lavoro intellettuale che si sviluppava nel dettaglio degli specialismi. Potrebbe sembrare questo solo il portato, un po’ nostalgico, di un modo ancora “aristotelico” di pensare. Ma, in realtà, corrispondeva al fatto che il mondo era retto da un ordine che, buono o cattivo, da conservare o da cambiare, attraversava tuttavia in egual modo le molteplici prassi dell’agire umano.
Questo modo di concepire il mondo e di pensarlo è stato cancellato dal pensiero unico, dall’esasperazione dell’individualismo metodologico che esso eleva a dogma della conoscenza, dall’antropologia singolare che ne fa discendere e dall’imperativo liberista che assume a nuova “natura”.
Se l’uomo è solo IO – come spiega Montanari -, irriducibile singolarità, non ci può essere un ordine delle relazioni con gli altri, ma si danno solo evenienze, occasioni puntiformi, interferenze congiunturali, agite dall’occorrenza di un bisogno e risolvibili attraverso transazioni momentanee che lasciano ciascuno solo con sé stesso, signore solitario del proprio dominio e del proprio singolare destino.
Questo modo di concepire l’uomo ed il suo mondo era già in nuce nel disegno della modernità. Solo che in questo disegno muoveva ancora da una concezione – per così dire – umanistica: il soggetto con i suoi diritti che promanavano dalla sua intrinseca natura si radicava in un’idea di ordine, era pensato per istituire il nuovo ordine soggettivo (cioè costruito a partire dalle prerogative dell’uomo e dai diritti soggettivi innati che vi corrispondevano) in luogo del medievale ordine oggettivo (cioè ricavato dal modo in cui gli uomini e le cose si presentavano in natura, ossia, più esattamente, di fatto) . E quest’ordine soggettivo presentava, ancora come costitutiva, una dimensione pubblica che evocava l’autodeterminazione collettiva, la democrazia. Esso, inoltre, era, in essenza, un ordine “borghese”, un ordine che era proprio di una parte soltanto, sebbene egemone, della società e che, perciò, coesisteva con le antiche dimensioni familiari delle campagne e con le nuove dimensioni comunitarie delle fabbriche, ossia con altri ordini ai quali doveva sovrapporsi, che aveva il compito, per l’appunto, di unitariamente ordinare.
L’avvento del pensiero unico attecchisce sulla dissolvenza di questo quadro, sulla industrializzazione dell’agricoltura prima, che cancella le relazioni del vecchio mondo contadino, poi sulla scomposizione della fabbrica nella rete e sulla disarticolazione robotica delle relazioni industriali e, alla fine, sulla decadenza della politica, che slega le residue aggregazioni sociali e politiche e al loro posto insedia l’indistinto. L’ordine del mercato, che di quel mondo costituiva solo un aspetto sebbene cruciale e che, perciò, rappresentava ancora un ordine parziale, diviene, così, un ordine universale. Ma proprio per questo cessa, al tempo stesso, di essere un ordine, poiché non ha più altri ordini da fronteggiare e sottomettere al proprio dominio. Cosicché al posto dell’ordine è intronata la liquidità, che dell’ordine mercantile costituiva la condizione di funzionamento, e la contingenza, che di esso era il motore e il suo stesso modo di darsi.
Figlie della liquidità e della contingenza, che costituiscono il cuore del pensiero unico, sono, per l’appunto, la crisi della democrazia e il decadimento dell’intelligenza sociale.
La democrazia vive di decisioni e di rappresentanza. Perciò va in crisi quando lo spazio della decisione si assottiglia e quando la decadenza delle aggregazioni sociali e politiche produce l’irrappresentabile dispersa multitudo hobbesiana. La contingenza, infatti, obbedisce solo ad una logica immunitaria senza alternative, che toglie le premesse del decidere ed obbliga al rimedio puntuale e immediato, e la liquidità, a sua volta, implica la singolarità, che esclude l’associabilità degli individui entro orizzonti molteplici ma definiti indispensabile al rappresentare.
Ma contingenza e liquidità tranciano anche le condizioni di pensabilità di un ordine sociale e, ancor prima, della sua committenza.
Ci può essere pensiero solo di quello che si dà come pensabile ed a condizione che si possa immaginare un pubblico al quale comunicare il pensato. Ma se si muove dal presupposto che la contingenza ha preso il posto dell’ordine, allora si esclude la possibilità del pensiero: l’ordine non c’è più e perciò non può essere pensato e la contingenza permette solo di registrare i nudi accadimenti nei quali essa propriamente consiste. Mentre il singolo, che avanza dalla liquidità, produce solo interrogativi pratici, solleva quesiti “per sé” e “istantanei”, e dunque domanda solo una conoscenza concreta di cose tangibili e calcolabili. Questo, inevitabilmente, rende inutile ogni pensiero apicale, trancia il rapporto degli specialismi con il sapere e ne muta l’oggetto e lo scopo: dal generale al caso e dalla comprensione alla illustrazione. Insedia un pensiero corto.
Questo mostra ancora di più tutte le difficoltà che incontra ogni prospettiva che aspiri alla salvezza della democrazia ed al ritorno di quella intelligenza sociale che essa necessariamente suppone.
L’impasse in cui le società ormai si ritrovano è sotto lo sguardo di tutti e non è certo di oggi. Ma la pandemia l’ha resa manifesta e drammatica.
La società esprime un bisogno acuto di decisione e di guida, chiede di fidarsi. Ma la fiducia cresce sull’autorevolezza. E così chi è chiamato a decidere e guidare prova a colmare il deficit di autorevolezza, che è figlio della crisi della politica, con il ricorso alla scienza. Ma ad una scienza “pubblica”, ossia non consultata per averne l’informazione necessaria a decidere, bensì esibita e istituzionalizzata per riceverne legittimazione della decisione. Ma la decisione esibisce sempre un carattere politico, poiché nasce sempre dalla prevalenza accordata ad un interesse sugli altri o dal loro bilanciamento. E così avviene che ad un comitato tecnico si aggiunga un altro comitato tecnico attinto da un’altra scienza, che renda visibili questi altri interessi e, a sua volta, appresti legittimazione alla decisione che li consideri.
Questo, però, non fa che mostrare, uno dopo l’altro, tutti i deficit di autorevolezza che ha accumulato la politica e finisce, prima o poi, per ingenerare sfiducia verso quella guida pubblica di cui tuttavia si ha acuto bisogno di fidarsi.
Ma questa contraddizione si origina, appunto, dalla crisi delle istituzioni democratiche, una volta che si siano separate dalla politica, e dalla recessione dell’autorevolezza pubblica, una volta che non possa più attingere ad un pensiero meta-specialistico, che gerarchizzi i “valori” recati da ciascuno specialismo.
Questa contraddizione diviene ancor più drammatica quando sia riferita al “dopo la pandemia”.
Tutti ripetono che niente potrà più essere come prima, alludendo in modo indistinto al modo di vedere il mondo, alle relazioni sociali, ai rapporti economici. Probabilmente, ci si riferisce a tutte queste cose insieme, e questo sembra anche verosimile. Ma nessuno sembra in grado di immaginare in cosa possa mai consistere questo atteso cambiamento. Questo può sembrare scontato. Ma non lo è tanto. Perché prima tutti, in un modo o nell’altro, coltivavano un orizzonte, vago, approssimativo, generico per quanto si voglia. E comunque, di sicuro, lo coltivava il ceto politico. Ma oggi non è così. La politica, anche quella che ripete che nulla sarà come prima, non riesce a concepire il “dopo” che come ritorno al prima. E al più si interroga su cosa fare per accelerare questo ritorno ed a questo scopo, ancora una volta, non sa fare altro che rivolgersi alla scienza nominando un altro comitato di esperti. Solo che neanche la scienza sa cosa fare e non riesce che a riproporre quel che aveva pensato all’insegna dell’idea che niente possa cambiare fuori dallo sviluppo evolutivo di quel che già esiste.
Probabilmente, proprio questo è quel che avverrà. Perché il pensiero è divenuto illustrazione di ciò che è già, di un esistente che non ha ieri e neanche domani, l’immutabile continuità di innovazione senza novum. Perché questo è ormai il suo statuto epistemologico, lo statuto appunto degli specialismi, del pensiero corto. E perché la politica rimane così orfana di ogni intelligenza sociale e si riduce anch’essa ad amministrazione dell’esistente, – nella migliore delle ipotesi – ad abilità immunitaria, che appresta un tappo per ogni buco che si apre.
Eppure non è detto che tutto vada necessariamente così. E per tre ragioni.
La prima è che le conseguenze economiche globali della pandemia si sovrappongono ad una generale tendenza recessiva, aggravandola ancora di più. Questo non significa affatto che non se possa venir fuori. Ma è anche certo che quel che ne verrà fuori, almeno dal punto di vista del lavoro e dell’occupazione, non sarà quello che c’era prima. Il livello delle tensioni sociali, verosimilmente, risulterà più elevato. E le finanze pubbliche, stremate dalla pandemia, non facilmente saranno in grado di farvi fronte.
La seconda è che un pronto ritorno ai medesimi livelli di prima sarebbe, forse, in grado di far regredire le tracce che la domanda di pubblico e di Stato e la curvatura solidaristica che sono state prodotte, bene o male, dalla pandemia. Ma sembra anche non si possa escludere che, ove questo non succeda, una tale domanda e un tale ritorno solidale non alimentino nella società modi diversi di vedere il mondo. Certo nessuno può sapere la direzione verso la quale un mutamento dell’immaginario collettivo finirà per guardare. E però, ove un tal mutamento prendesse corpo, sembra difficile escludere che il conflitto politico possa prendere nuove vesti.
La terza, infine, è solo una suggestione. Ma forse non è del tutto impertinente. E consiste in ciò, che alle grandi pandemie sono sempre seguiti nella storia mutamenti significativi delle relazioni economiche. La recessione dell’economia feudale e la diffusione del lavoro salariato vennero, soprattutto, da una precisa sequenza: la peste, la scomparsa di innumerevoli famiglie insediate nei fondi servili, l’acquisizione dei loro fondi ad opera dei mansi servili limitrofi i cui tenanciére erano sopravvissuti, la ripresa demografica, la formazione di masse di contadini senza terra e di tenanciére arricchiti alla ricerca di lavoro per coltivare le loro più estese proprietà. E’ semplicemente ovvio che cose del genere non sono oggi immaginabili: un’impresa non può certo essere appropriata dall’impresa vicina. Ma dinamiche, che evocano questi processi, non si possono escludere: in fondo, quanti perderanno il lavoro, e malauguratamente non saranno pochi, qualcosa pur dovranno inventarsi.
Ed allora si può, forse, pensare che l’immaginazione sociale finisca per sollecitare un nuovo pensiero della società, che, a sua volta, rinsangui la politica, e con essa la democrazia.