LA NECESSITÀ DELLA PARTECIP-AZIONE
[Guardare avanti: esercizi di utopia razionale]
Sebbene possa essere riduttivo accusare indiscriminatamente i social media di una diffusa «paralisi mentale», come fa Badiou en passant – è legittimo chiedersi se la mancata pulsione al pensiero (e dunque all’azione) sia frutto di una costante e sempre istantanea indignazione catartica dovuta al continuo venire informati di tutti i problemi del mondo e di come, automaticamente, la rassegnazione, o meglio lo “stoico” sopportare convinti che nulla possa essere fatto, sia non solo la risposta più razionale e saggia ma anche l’unica possibile. A ben vedere è questa la soluzione che l’attuale pandemia esalta maggiormente, un trend che si protrae da molto tempo e diviene oggi quanto mai cristallino: rimanere a casa, spazio privato per eccellenza, perché è lì che va tutto bene, lì (che poi viene spacciato oggi da una pedante retorica quotidiana come un qui collettivo, tutti stiamo a casa; quando nessun tipo di comunità potrà mai edificarsi nell’isolamento, né tantomeno dai balconi tricolori) che puoi essere più utile, proprio lì dove, solo, puoi fare tutto quello che vuoi – ovvero nulla.
Tuttavia, laddove la morale stoica si faceva carico anche e soprattutto di una positiva spinta all’azione verso ciò che poteva essere affrontato, la malsana stoicità moderna è fomentata da un’errata concezione della globalizzazione per cui nulla più si può fare se non essere dei passivi spettatori. Il mondo, con tutte le sue molteplici e sfuggevoli connessioni, si potrebbe pensare, è inevitabilmente portato ad andare dove lui vuole andare. Pensare ciò, pensare che non vi sia più spazio per un ripensamento radicale delle forme di associazione e dei loro attuali problemi comunicati in modo troppo spesso «ben confezionato» (come dice nel suo articolo Lamberto Pignotti) anche da chi ne ostenta l’insofferenza, è la forma dello storpio stoicismo moderno pressoché onnipresente. Il discorso più condiviso è dunque così riassunto: «Rimaniamo a casa ma in contatto con tutto ciò avviene, d’altronde che cosa posso fare, io, di fronte a questi problemi infiniti?». Come rispondere a questa domanda forse mai esplicitamente formulata eppure, soprattutto oggi che siamo relegati a casa sulle note dell’andrà tutto bene (di nuovo, formula-spia di un deformato stoicismo ripetuta allo stremo, che scambia, stroncando, il pensiero attivo con la moneta del conforto illusorio, fomentando così un immobilismo “fatalista” della peggior specie), sempre fortemente sentita – è di fondamentale importanza. Ad essa si può rispondere solamente agendo con in vista il cambiamento. Qualunque tipo di azione simile, certo non solo fisica, è un atto sovversivo a questo odierno rullo compressore che non vede l’ora di schiacciarci con la sua enorme potenza per renderci finalmente bidimensionali, consapevoli che così è la vita, che il mondo gira in questo senso e non può essere fermato. No! La globalizzazione, quella positiva, è sinonimo di un potenziale agire collettivo di una tale portata da spazzare via qualunque dubbio sull’incapacità contemporanea causata dalla passività. E, questo, non è davvero nulla di nuovo. Forse da bambini, un tempo, lo si pensava, e quando siamo diventati chi siamo ora rinneghiamo quei pensieri come ingenui, ciechi, talvolta anche stupidi. Ma chiediamocelo di nuovo: è davvero possibile che su tutte le tematiche ove vi è un consenso così esteso (e un tempo non avremmo esitato a dire globale) ci si trovi fronte a qualcosa di irrisolvibile? Mai avremmo detto di no. Forse che, allora, la nostra infantile visione manichea del mondo è ciò che dovrebbe essere più messo in evidenza come base universale da cui ripartire. Certo, un simile pensiero porta solo a risultati elementari come povertà = male, natura = bene, e via dicendo; ci si chiederà, dunque, con quali modalità si vogliono risolvere questi problemi? Interrogatisi in tal modo, tuttavia, è essenziale far notare come ci si trovi finalmente in una predisposizione d’animo favorevole al cambiamento.
Pervenuti così ad un consenso globale su alcuni argomenti e su alcuni obiettivi, il passo successivo sarà comprendere come poter raggiungere questi ultimi. Su questo versante, ci dichiariamo pienamente d’accordo con Badiou nell’affermare che adesso è il momento di proposte concrete, salvo rifiutare la sua posizione sul nulla di nuovo sotto al sole, che porta conseguentemente – e in questo modo contraddicendo la sua stessa richiesta di soluzioni effettive – alla medesima passività che ha permesso proprio tutte quelle epidemie dallo stesso filosofo elencate – passività che è precisamente la forma mentis che vuole essere qui sradicata, e con lei la sua carica paralizzante. Se non si risolve dapprima questo problema, qualunque discorso successivo non troverà mai formulazione, né tantomeno applicazione. Ecco perché si devono affrontare le sfide del proprio tempo come una novità radicale (e non mi riferisco certo al loro contenuto, assai spesso simile, bensì al problema che pongono hic et nunc) poiché altrimenti non sarà mai possibile giungere ad alcuna proposta in grado di soddisfare le necessità di volta in volta avvertite. È dunque l’atteggiamento e il pensiero vivo, euforico, volenteroso, che deve rinascere, e certo non si potrà accusare questo tentativo di esser stato vuoto. Semmai troppo “pieno”.
È fondamentale, dunque, guardarsi attorno quanto prima per vedere con nuova luce che, ora come ora, con questo sistema, in queste condizioni, i nostri obiettivi non sono raggiunti, ma si è finalmente pronti per fare qualcosa in merito.
Un ulteriore compito, accennato precedentemente, resta da risolvere: come far sì che i risultati qui raggiunti, che si è fiduciosi siano stati condivisi proprio perché ingenuamente universali, non vengano ricevuti da un consenso sbrigativo ed abbandonati a partire dalla visione della prossima meme con un senso di segreta soddisfazione; come quella che si prova dinnanzi alla pervenuta soluzione di un difficile problema avvenuto nel passato, sul quale per ovvi motivi non si può più agire. Ebbene, no, il problema è esclusivamente del presente, qualunque azione che si deciderà di intraprendere oggi avrà un effetto sul futuro presente. Coscienti di ciò, sarà ancora possibile fingere che nulla si è letto e compreso da questa lezione? Qui il compito subisce una battuta d’arresto, perché alla fine tale decisione può essere lasciata solo alla sensibilità propria di ogni lettore e al suo risolversi per un eventuale riposizionamento dei paraocchi, o per una rinnovata consapevolezza della portata del proprio agire.
In conclusione, ciò che qui si è voluto lasciare è la radicale convinzione che un poter agire per il cambiamento è possibile. Che la sensazione di impotenza è indotta, non naturale. Ci spingiamo fieramente più avanti: che l’insostenibilità ulteriore di questo sistema non è una vuota affermazione generica come si vuole fare credere, ma se tenuta come punto fisso, la base più solida (e l’unica) per l’edificarsi del presente più rigoglioso. Qualunque generazione (ma in primis quella “nuova”, onde evitare una definitiva e irreversibile sclerotizzazione del pensiero per permettere, al contrario, un suo continuo rinnovarsi) è allora tenuta a contribuire al dibattito contemporaneo sul ripensamento della civiltà globale e delle sue forme di associazione, poiché solo la partecipazione attiva alla res publica potrà garantire l’effettivo emergere di soluzioni (nuove) concrete ed efficaci.
Leonardo Geri.