Nancy Fraser: sulla politica socialista
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di Lea Ypi
Vorrei iniziare sottolineando il mio accordo con l’analisi di Nancy Fraser che si propone di offrire una più ampia difesa del socialismo che non si riduca a un’alternativa “economica” al capitalismo. L’attenzione che pone Fraser alle “condizioni di possibilità nascoste” del sistema di produzione capitalistico (riproduzione sociale, espropriazione di terre e ricchezze ai popoli “razziati”, estrazione di risorse naturali, fornitura di beni pubblici da parte di Stati e organizzazioni internazionali) è fondamentale per segnalare un’alternativa alle attuali promesse social democratiche di emancipazione politica e per evitare il ripetersi degli errori del passato. Inoltre, il suo impegno per salvare il socialismo dal riduzionismo economico si aggiunge ad una considerevole parte della tradizione socialista, come hanno cercato di mostrare anche molti studi recenti in chiave femminista, ecologica e antimperialista sul Capitale di Marx. In quel che segue non metterò in discussione la novità dell’interpretazione di Fraser e darò per assodato ciò che lei ha da dire su come comprendere il socialismo. Ciò su cui vorrei concentrarmi invece è la questione del compito della politica: come realizzare il socialismo se ne accettiamo la giustificazione ideale. In che modo avverrà la trasformazione verso il socialismo democratico? Quali agenti e istituzioni saranno responsabili di tale trasformazione? Qual è il ruolo della classe sociale? In che modo i soggetti dell’oppressione si relazionano tra loro e con il resto della società? In che modo lo fanno nei confronti delle condizioni della propria oppressione? Qual è il ruolo assunto dalla nazione nei meccanismi di auto-comprensione dei soggetti? A livello globale qual è il ruolo della sovranità territoriale nel radicare le relazioni capitalistiche?
Per ampliare alcune di queste domande, è opportuno iniziare dall’idea di Fraser sul capitalismo concepito come un ordine sociale istituzionalizzato e dalla sua convinzione che il socialismo debba fare molto di più che limitarsi a cambiare l’economia capitalista. Il socialismo, sottolinea giustamente Fraser, deve porre rimedio alle profonde ingiustizie strutturali che il capitalismo consolida lungo le linee non soltanto di classe ma anche di genere, etnia e razza. Ma in che modo? Una risposta a questa domanda si trova nell’enfasi di Fraser sul “rinnovato dominio (redomaining)” e il suo suggerimento che questo “deve essere esso stesso soggetto al processo decisionale democratico collettivo”. Ciò significa, più specificamente, che i “cittadini e i demoi democratici devono decidere in modo autonomo su quali questioni saranno affrontate all’interno delle arene di primo grado della partecipazione politica”.
Come dovremmo intendere ciò? Il suggerimento di Fraser è di iniziare dalle “unità territoriali storicamente sedimentate” che devono essere riformate lungo linee di differenziazione funzionale e di un modello rivisto di partecipazione basato sul “all subjected principle”. Secondo Fraser, ciò significa che gli stati nazionali “non devono (e forse non dovrebbero) essere semplicemente aboliti” ma che il “redomaining socialista dovrebbe essere vincolato dal principio di non dominazione, applicato lungo tutti gli assi principali radicati alla base delle società capitaliste e lungo ogni altro asse di dominio che potremmo scoprire o creare in futuro”.
Trovo questa visione avvincente, ma per poter far fronte alla portata delle sue ambizioni, temo che non si disponga di un’analisi adeguata o sufficientemente sofisticata di agenzia politica. In particolare temo che queste richieste ci costringano a fare una scelta tra giustizia e legittimità , ma in assenza di risorse teoriche e politiche che ci aiutino ad affrontare la questione.
Mi spiego meglio.
Supponiamo che l’obiettivo del “redomaining” socialista sia assunto a partire dai meccanismi di legittimità delle unità territoriali esistenti, ad esempio attraverso i meccanismi propri della democrazia liberale rappresentativa. Temo che questo modo di procedere assegni un’eccessiva priorità ad un modello di cooperazione politica che rischia di approfondire l’esclusione piuttosto che offrirne una soluzione. Lo Stato-nazione liberal democratico è stato raramente liberale o democratico nei confronti di tutti coloro che sono soggetti al potere delle sue istituzioni. Il fatto che lo stato nazione si è consolidato nella storia parallelamente allo sviluppo della società civile globale e all’espansione delle strutture del mercato globale, significa che la struttura giuridica e politica interna degli Stati e la forma giuridica della cooperazione tra Stati in ambito internazionale ha radicato asimmetrie di distribuzione della proprietà, gerarchie di potere e forme di esclusione. Queste asimmetrie hanno portato a riconoscere da un punto di vista solo formale la parità di diritti e doveri, con pochi sostanziali benefici per i gruppi sociali più vulnerabili (spesso anche il riconoscimento giuridico è arrivato tardi, come nel caso del movimento per i diritti civili negli Stati Uniti). Salvo qualche raro e fortunato episodio, lo Stato liberaldemocratico è stato il luogo della lotta piuttosto che della cooperazione. In questa lotta, le idee di nazione, il rispetto di norme sociali condivise o l’attaccamento collettivo a istituzioni condivise sono stati strumentali al consolidamento di progetti elitari di subordinazione di minoranze vulnerabili (sia interne come nel caso delle donne, dei lavoratori e delle persone di colore) che internazionali (come nel caso delle persone più deboli nelle colonie).
Allora perché partire da lì? Perché piuttosto che riformare il modello di cooperazione dall’interno non si abolisce del tutto lo stato? La risposta è, presumibilmente, che solo all’interno dei meccanismi di formazione della volontà politica presenti nello Stato nazione possiamo prendere decisioni politiche che godono di un certo grado di legittimità vincolanti per tutti i cittadini e stabili nel lungo periodo. Ma se le forme di oppressione trascendono i confini di queste unità stato-nazione, perché pretendere che le decisioni derivanti da questi processi produrranno giustizia sociale o ci metteranno sulla giusta strada? Mi sembra che il “redomaining” socialista, quando nasce all’interno delle stesse unità territoriali esistenti, potrà godere sì di un certo grado di legittimità – in termini di rappresentazione della volontà del popolo a cui tali decisioni sono applicate coercitivamente. C’è però anche il rischio che da questa interpretazione venga esclusa una generosa interpretazione del “all subjected principle” poiché risulta improbabile che le decisioni di “demoi” nazionali possano riflettere gli ambiziosi standard della giustizia globale.
Naturalmente, da qualche parte dobbiamo pur cominciare. La mia preoccupazione è che, partendo dalle unità territoriali esistenti finiamo indebitamente per limitare lo scopo dell’azione politica a un modello di solidarietà (il modello di solidarietà stato-nazionale) che è non solo incompatibile, ma attivamente lavora a minare la solidarietà basata sull’oppressione condivisa. Ha senso che gli attori politici progressisti interessati alla realizzazione del socialismo continuino a lottare per ottenere vittorie elettorali in ambienti istituzionali in cui questa vittoria è estremamente difficile, facilmente reversibile, e, anche se ottenuta, richiederebbe comunque l’assunzione di responsabilità per il proprio stato (e per i propri concittadini)? Mi sembra che questa strada, che era una delle giustificazioni più importanti per la socialdemocrazia classica (prima che quest’ultima diventasse strumentale al consolidamento del neoliberismo) abbia fatto il suo corso. Ha anche portato a divisioni strategiche e di principio all’interno della sinistra, piuttosto che consolidare la lotta comune oltre i confini.
Qual è l’alternativa? A mio parere, l’alternativa è tornare a un modello di solidarietà basato non sui meccanismi di cooperazione politica concessi dallo Stato nazione, ma sulla solidarietà sviluppata a partire dall’oppressione condivisa. “Redomaining” il socialismo in questo caso richiederebbe di tornare alla centralità della classe sociale come agente di cambiamento politico. La nostra analisi di classe sociale, e qui concordo con Fraser, deve essere adattata alle condizioni di oppressione che riflettono lo sviluppo del capitalismo non solo come sistema di produzione economico ma come ordine istituzionale condiviso. Si noti tuttavia che in questo secondo caso, la comunità politica è intesa come luogo di conflitto tra gruppi diversi che in base alla loro posizione nelle strutture economiche, giuridiche e politiche che formano il modo globalizzato, detengono rapporti di potere differenti. Le classi non sono né gruppi sociali preesistenti determinati esclusivamente da particolari processi economici, né aggregati contingenti di interessi sociali. Le classi nascono da vari processi storici di strutturazione modellati da asimmetrie di proprietà e di potere sociale e dall’influenza di fattori politici, giuridici e ideologici che regolano i rapporti tra i gruppi in un mercato globale interdipendente. Le alleanze di classe quindi si formano a partire dalla solidarietà che trae origine dall’oppressione comune, rintracciabile lungo le linee proprie del sistema produttivo ma anche in quelle di genere, razza ed etnia. A livello globale, tali alleanze di classe daranno priorità alle forme di lotta politica che più di tutte saranno capaci di rovesciare il capitalismo. Eppure, ciò che è necessario per combattere l’ingiustizia del capitalismo a livello globale potrebbe entrare in tensione con ciò che sarebbe legittimo nel momento in cui il “redomaining socialism” desse per scontata una legittimità di unità territoriali esistenti, come appunto lo Stato nazionale. Ecco perché penso che giustizia e legittimità possano, nelle condizioni attuali, essere in contrasto tra loro. Non è inconcepibile che la lotta per il socialismo globale richieda di dare priorità a forme di azione che vedrebbero un dubbio sostegno, considerando i meccanismi di legittimità disponibili nello Stato nazionale. La recente fortuna elettorale di molti partiti e movimenti di sinistra con agende politiche basate sull’emancipazione radicale e in più l’ascesa dell’estrema destra ne sono una chiara testimonianza. Come navigare in questa tensione? È possibile che le richieste di una sinistra progressista interna a certi Stati nazionali possano minare quelle della sinistra progressista globale? Se è così, quali meccanismi abbiamo per giudicare questo compromesso? Come valutare giustizia e legittimità nella transizione dal capitalismo al socialismo? Questa relazione mina alcune forme di azione e ne giustifica altre?
Nella teoria, il socialismo può anche essere tornato, ma è dalla pratica che siamo molto lontani. Fraser ha fornito un contributo vitale al dibattito sul modo di pensare il socialismo nel XXI secolo. Ma accanto a questa riflessione ideale-teorica abbiamo bisogno di un resoconto dell’azione politica e di una teoria della transizione che impari dai fallimenti storici della democrazia, radicata nello Stato-nazione, e che cerchi di superarne i limiti.