A proposito di Comunismo ermeneutico di Vattimo e Zabala
Giorgio Cesarale
Leggendo Comunismo ermeneutico di Gianni Vattimo e Santiago Zabala, questa appassionata difesa delle ragioni della combinazione fra l’appello a un ordine più giusto e democratico, a cui essi assegnano il nome di comunismo, e la riproposizione dell’ermeneutica come autentica svolta nel pensiero, la mia mente è quasi inavvertitamente corsa alle pagine della Scienza della logica di Hegel in cui quest’ultimo affronta la questione della natura del giudizio, differenziandola attentamente da quella della proposizione. Per Hegel, infatti, come è noto, non necessariamente un Satz trascorre in Urteil. Affinché quest’ultimo sia tale infatti occorre che si ponga come negativo il predicato, e cioè, detto in termini più prosaici, ci si domandi se effettivamente il secondo termine di ogni proposizione, il predicato, convenga al primo, il soggetto. Hegel articola il suo ragionamento facendo l’esempio della proposizione “Aristotele morì nel suo settantatreesimo anno di età, nell’anno quarto della 115cesima Olimpiade”. Questa proposizione sarebbe, appunto, tale e non giudizio fino a quando, “una delle circostanze, il tempo della morte ovvero l’età di quel filosofo, fosse stata messa in dubbio, e per qualche motivo si affermassero però le cifre qui addotte. Poiché in questo caso coteste cifre verrebbero prese come un che di universale, come sussistenti anche senza quel determinato contenuto della morte di Aristotele, come riempite d’altro, oppure anche come tempo vuoto”[ref]G.W.F. Hegel, Scienza della logica, trad. it. di Arturo Moni rivista da Claudio Cesa, Laterza, Roma 1996, p. 709. [/ref].
Dunque la proposizione diventa giudizio quando l’universale o il predicato, o meglio la loro coalescenza con il soggetto, diventano problematici. Soltanto se si presuppone la non appartenenza potenziale dell’universale al soggetto determinato l’universale stesso si può provare come tale, come qualcosa la cui estensione è superiore a quella del soggetto, all’individuale riflesso in sé. Il negativo, la negatività, dal cui pieno sviluppo promana quella dialettica del giudizio che qui non importa naturalmente ripercorrere, sono così ciò che permette al soggetto e al predicato di perdere il loro statuto di puri nomi, di marcatori grammaticali, per farsi concetti, vale a dire determinazioni riflesse, qualcosa che in tanto guadagna realtà in quanto si differenzia dall’altro da sé.
Il ragionamento è variamente ripreso da Hegel in tutta la Logica, soprattutto in merito alle cosiddette proposizioni logiche (dell’identità, del terzo escluso etc.). E già nel terribile Anfang, nel cominciamento dell’opera, si dice: la proposizione “essere e nulla sono lo stesso” diventa speculativa, cioè filosofica, se si rende giustizia alla diversità dei suoi membri costituenti associandola a quella inversa “essere e nulla non sono lo stesso”. Con ciò creando poi naturalmente il problema del collegamento successivo fra queste due proposizioni.
Si dirà: che relazione ha tutto questo con Comunismo ermeneutico, non si va un po’ troppo fuori strada? Chi ha letto attentamente il libro potrà invece facilmente indovinare il senso del nostro incipit: esso è infatti una agguerrita, talvolta anche molto aspra, critica di quella che viene chiamata la “politica delle descrizioni”, in quanto nucleo centrale di quella metafisica che heideggerianamente si pone come l’organizzazione globale di tutti gli enti secondo una struttura prevedibile. La “politica delle descrizioni” coincide infatti per Vattimo e Zabala con quella tendenza, fortissima nel pensiero di matrice analitica, ma in via di espansione anche nelle regioni della filosofia continentale, per cui compito della filosofia sarebbe anzitutto quello di garantire la corrispondenza fra pensiero linguisticamente strutturato, dunque la proposizione, e la realtà, intesa come qualcosa di mind-independent. Tuttavia, se il compito della filosofia è descrivere la realtà per come essa è, come ordine fisso ed immutabile, alieno da quelle che Rorty avrebbe chiamato le “ridescrizioni” o da ciò che, con Schürmann, potemmo chiamare le pluralizzazioni ermeneutiche dell’origine, esso si sposa perfettamente con la metafisica, perché come abbiamo appena detto per Vattimo e Zabala essa si è da sempre impegnata a ricondurre tutto ciò che è, il quadro ontico, a un insieme di proprietà afferenti a una struttura definita. Non solo: l’ermeneutica, la critica della politica delle “descrizioni”, in quanto in qualche modo erede della marxiana critica della ideologia, si chiede a chi giovi la riaffermazione compiuta dal realismo analitico e da quello fenomenologico di un inconcusso ordine di realtà. La risposta è semplice, direi quasi rousseauiana, del Rousseau del Secondo discorso, anche se quest’ultimo non appartiene al novero dei riferimenti culturali dei nostri autori: il realismo e la metafisica giovano a chi ha interesse a non mutare l’assetto dato di cose, parole e azioni, e cioè i forti, i vincitori, i ricchi, ormai collocati, in veste di super-borghesia industriale e finanziaria, in una condizione quasi signorile.
La “politica delle descrizioni” il cui campione contemporaneo è per Vattimo e Zabala John Searle origina in particolare dalla definizione della verità fornita da Tarski. Secondo questa, che poi non è nient’altro che una delle molte versioni della vecchissima teoria della verità come adaequatio, “p” è vero solo e soltanto se è p, il p enunciato nelle virgolette corrisponde al p “out there”, “là fuori”, situato nel tessuto della realtà. Senza questa referenzialità le nostre affermazioni, azioni e opinioni non sarebbero discriminabili, perché in caso contrario quelle false avrebbero lo stesso statuto delle vere. Ora, per Vattimo e Zabala la verità come corrispondenza non è sostenibile se non vi è un “chi” che ha interesse a imporre il p “out there”, “là fuori”, se cioè la semantica non è sostenuta da una pragmatica. Questa differenza fra verità semantica e pragmatica sarebbe venuta alla luce con Essere e tempo di Heidegger, in cui si sarebbe definitivamente chiarito come ogni asserzione, vera o falsa, valida o invalida che sia, in tanto può essere in quanto sia ancorata a uno sfondo ermeneuticamente configurato. Il “come” apofantico si basa in ultima istanza dunque sul “come ermeneutico”, sintetizzano efficacemente Vattimo e Zabala. Vale a dire: la conoscenza predicativa è nulla senza una preventiva “apertura”, senza una comprensione pre-ontologica e pre-teoretica dell’essere delle cose. Affermare che qualcosa sia o non sia ha poco valore infatti se si trascura l’analisi del modo in cui tutte le cose ci sono date e del nostro stesso esservi coinvolti. Alla differenza fra il modo in cui il soggetto si relaziona conoscitivamente alle cose, secondo la dicotomia verità/falsità, e il modo in cui comprendiamo il nostro stesso essere “aperti” al mondo Heidegger dà il nome di “differenza ontologica” ed è quest’ultima che bisogna tenere ferma se si vuole sfuggire alla santa alleanza fra descrizione, realismo, metafisica e dominio, la quale, per scopi di autoriproduzione, vuole confinarci entro il contesto della conoscenza predicativa delle cose.
Il quadro disegnato da questa impostazione è innervato da opposizioni binarie: da un lato vi è il nesso metafisica-dominio, dall’altro, direbbe Heidegger, vi è il venire alla presenza, la dimensione alethiologica; così come da un lato vi è il conoscere, a cui si limitano le scienze empiriche e la filosofia che vi si vuole conformare, dall’altro il pensare, a cui vuole mettere capo “il nuovo inizio” heideggeriano. Tra questi due piani, per citare ancora Schürmann, non deve stabilirsi comunicazione reciproca, perché il pensare non poggia affatto sulla diretta rilevazione di prove o evidenze tratte dalla realtà stessa. Del resto a generare questa Spaltung è la stessa consapevolezza che una volta introdotta la domanda intorno al “chi” enuncia la proposizione “«p» è vero se e soltanto se p” è lo stesso obiettivo dell’attingimento della verità come qualcosa che valga erga omnes a dover essere interrotto. A che scopo infatti stabilire qualcosa di universalmente valido se nel frattempo si indaga lo sfondo ermeneutico della descrizione, si rileva il parziale e idiosincratico interesse di dominio che presiede alla determinazione di ciò che è come ciò che deve essere?
Tuttavia, e questo è il punto di partenza della nostra prima obiezione a Vattimo e Zabala, è proprio questa radicalizzazione di senso, che in un certo qual modo porta a compimento la divaricazione storicistica fra Erklären e Verstehen (fra la spiegazione delle scienze naturali e la comprensione di quelle umane), a non convincerci. Ciò che in virtù di essa si produce fin da subito è infatti un cospicuo restringimento del significato e dello spettro d’azione della scienza, che in questa prospettiva si trova ridotta a eseguire l’unica operazione dell’accertamento dei fatti, intesi come alcunché di irrelato e puntiforme. Ne consegue che per Vattimo e Zabala la scienza è rortyanamente solo specchio della natura, passivo accoglimento di ciò che anzitutto e per lo più si presenta, registrazione di ciò che è dato dalla magica corrispondenza fra soggetto e oggetto. E non occorre certo essere esperti di Hegel, di Bachelard e Canguilhem o del Sellars di Empirismo e filosofia della mente, per rendersi conto che questa di Vattimo e Zabala è semplicemente la vecchia immagine empiristica della scienza, la quale presuppone che attorno a un soggetto puro, sfrondato delle protesi storico-sociali di cui nel frattempo si è dotato, si venga a disporre un oggetto altrettanto puro, una materia prima, originaria, e non una materia sempre-già lavorata, sempre-già elaborata e quindi pregna di elementi sensibili insieme a elementi tecnici, a elementi logici e persino “ideologici”. Insomma quel che a parere di chi scrive non è assorbito fino in fondo da Vattimo e Zabala oltre che dallo Heidegger de “la scienza non pensa” è l’immensa rivoluzione teorica apportata dalla filosofia classica tedesca, la quale soprattutto a partire dalla critica fichtiana alla Recensione all’Enesidemo di Schulze ha compreso che la conoscenza non è passione, astrazione o rappresentazione contemplativa dell’essente o di enti ideali, ma azione e produzione, dismissione del Primo e dell’originario, ma non per sostituirvi, come in Heidegger, la teorica dell’“altro pensiero”, immemore del principio di ragione, ma una rete di mediazioni sempre più ricche e differenziate.
La questione cruciale è quindi la seguente: quel che Vattimo e Zabala sottopongono a censura non è tanto la scienza, che si costituisce lungo linee diverse da quelle da loro immaginate, bensì il positivismo, nella forte declinazione realista contemporanea di un Searle. Ma la critica al positivismo può essere compiuta in modi molto diversi. Non è affatto detto, come Vattimo e Zabala lasciano intendere, che l’unica alternativa credibile ad esso sia costituita dall’ermeneutica e dal pensiero debole. È per questo che, nell’avvio, mi richiamavo alla strategia hegeliana di destrutturazione delle pretese teoriche della “politica delle descrizioni”. Il gesto hegeliano è certo quello di dire che se si rimane confinati all’ambito delle proposizioni descrittive ci si consegna immancabilmente all’inconcettuale, alla Vorstellung, alla “rappresentazione”. Di più: credo che Hegel sarebbe stato abbastanza d’accordo con Vattimo e Zabala nel dire che l’orizzonte fondamentale della “politica delle descrizioni” è di tipo “metafisico”, perché anche in Hegel “metafisico” allude alla costruzione di un ordine di realtà immobile e “oggettivistico”. Tuttavia quel che sembra cambiare passando dalla strategia del pensiero debole-ermeneutico a quella del pensiero dialettico è, per così dire, il modo d’attacco della politica delle descrizioni: mentre nel caso del pensiero debole-ermenutico, rilevato lo sfondo metafisico della “politica delle descrizioni” e della conoscenza scientifica, si passa immediatamente al loro termine antitetico-polare, all’“altro inizio” del pensiero, nel caso del pensiero dialettico il compito che ci si prefigge è quello di rilevare la inevadibile negatività che tesse dall’interno la proposizione descrittiva, e cioè il fatto che essa diventa effettivamente pensabile soltanto se dismette la sua apparente autosufficienza, per inserirsi in un sistema di forme e relazioni sempre più complesso e articolato. Alla base di questa divaricazione vi è a mio giudizio, soltanto accennandovi perché si tratta di un tema di enorme difficoltà, la differente declinazione del rapporto fra negatività e determinatezza. Heidegger e chi continua a pensare entro il suo orizzonte concettuale mirano a rompere ogni continuità fra negatività e determinatezza; il pensiero dialettico e la teoria critica novecentesca hanno invece provato a tenere aperto un canale di comunicazione fra questi due momenti.
La riduzione “positivistica” della scienza e il semplice Schritt zurück dalla “politica delle descrizioni” ha precise conseguenze politiche che Vattimo e Zabala non mancano di ricavare Se scienza e metafisica incarnano il dominio dei forti, dei ricchi e dei vincitori, allora è evidente che qualsiasi disegno emancipativo dovrà essere compiuto “scartando” da queste dimensioni. Il pensiero debole come punto di vista dei deboli, per parafrasare il vecchio linguaggio dell’operaismo italiano, dovrà dunque rifuggire da ogni articolazione fra teoria, strategia e tattica, da ogni ricerca intorno al nesso fra programma politico e soggetti sociali determinati, da ogni interrogazione intorno alla forma dei soggetti politici e alla loro congruenza con l’attuale organizzazione dello Stato. Conformemente all’idea che quel che occorre sancire è la fine dell’unica verità, il comunismo ermeneutico dovrà porsi come antidoto non al capitalismo in quanto tale, di cui si dichiara impossibile il superamento, ma soltanto alla sua assolutizzazione. Comunismo diventerà così una sorta di ideale regolativo, un revenant derridiano, utile peraltro per dare forza ai tentativi “riformisti” di regolazione del capitalismo, altrimenti destinati, soprattutto in Europa, a rimanere dei pallidi ed esangui ricordi delle vecchie conquiste della socialdemocrazia o delle sinistre socialiste e comuniste.
Il punctum dolens di questa prospettiva è tuttavia il seguente: se scienza e controllo tecnico del sistema stanno solo e necessariamente dalla parte della super-borghesia internazionale ci si chiede come sia possibile pervenire alla soddisfazione di quei bisogni sociali di cui Vattimo e Zabala reclamano giustamente la soddisfazione, perché sono, nell’attuale regime di accumulazione capitalistico, largamente inevasi. Il punto ha una pregnanza politica ancora più diretta: se si dichiara impensabile e obsoleta, come fanno Vattimo e Zabala, la questione, tipica della vecchia cultura comunista, di una più razionale organizzazione delle risorse produttive, non si comprende poi come si possano affrontare le impasses dei governi di sinistra latinoamericani quando questi, come nel caso dell’ultima fase della Presidenza Chavez e dell’attuale Presidenza Maduro, incontrano il problema non di una più equa distribuzione del prodotto sociale, ma della scelta fra modalità alternative di organizzazione dello spazio economico-sociale. Insomma, anche una più giusta e benefica distribuzione dei beni di consumo così come la riqualificazione della fornitura dei beni pubblici non sono qualcosa che si possa continuare a fare in modo coerente ed efficiente senza mutare l’attuale quadro di vincoli e compatibilità, che Marx ha riassunto nel Capitale con il nome di “processo di riproduzione allargata del capitale”. Ma per avviare una nuova messa in forma del rapporto fra produzione, distribuzione e consumo occorrono scienza e programmi politici determinati; precisamente quanto è respinto come “metafisico” da Vattimo e Zabala.