Coronavirus, porci(,) capitalisti e l’inizio del XXI secolo. Si inaugura un’altra epoca?
[Guardare avanti: esercizi di utopia razionale]
di José Guadalupe Gandarilla Salgado
traduzione di Antonino Infranca
Gli Stati Uniti sono già il principale centro della pandemia. Il caso degli USA è importante, essendo l’economia ancora più potente dell’orbe. La nazione che presume inviare astronavi nello spazio, navi da guerra per gli oceani, ed è capace di propiziare conflagrazioni in tutto il mondo, distruggere Stati, invadere con marines e uccidere con missili guidati da lontano, oggi, questa stessa nazione-impero, ha indebolito enormemente i suoi sistemi di assistenza medica – di fatto una delle “vittorie” che l’amministrazione Trump celebrò, fu fare marcia indietro nella riforma della salute che promosse Obama. Tutto è risultato di un’offensiva, di decenni, concentrata sui sistemi di sanità pubblica, situazione aggravata perché solo un terzo della popolazione ha assistenza medica.
Il caso degli USA mostra con chiarezza che la punta di lancia del capitalismo globale, il referente simbolico della vita moderna, è oggi l’occhio dell’uragano dell’espansione del contagio, e non per caso, bensì perché con il neoliberalismo globalizzato e l’economia incessantemente accumulatrice delle grandi corporazioni, la connessione tra pandemie e modernità capitalista è più acuta, più stretta, al punto che le tendenze persistenti dell’imperialismo e del colonialismo sono sintomi della malattia del paradigma contemporaneo della vita, del più recente malessere di questa cultura, e vediamo con stupore come una acitota, una entità più infima delle molecole cellulari, pone in scacco la vita moderna e le sue arroganti personificazioni. Rendendo tanto patetica questa connessione (pandemia, ordine sociale vigente, distruzione del sistema di salute) e proiettandosi un possibile aumento del contagio nel suolo più fertile dell’immaginario capitalista, ci serve come porta d’entrata per suggerire le seguenti riflessioni.
I differenti modi di confinamento, chiusura e distanziamento sociale cui siamo costretti, con la minaccia latente di un nemico invisibile a livello planetario, ci fa prendere coscienza del fatto che siamo prigionieri nel mezzo di un obbligato “interregno” sociale e finanche civilizzatore. Nel quadro del sistema-mondo moderno capitalista-coloniale mai il sorgere di un nuovo e minaccioso virus, come è il caso dell’attuale pandemia, è stato un fenomeno strettamente naturale o biologico, lo scoppio e la diffusione molecolare si iscrive nelle dinamiche storiche, geopolitiche, ecologiche e culturali, che attivano logiche di virulenza e letalità variabile, secondo le forze dello spazio ambientale e il metabolismo sociale, su cui i corpi umani iscrivono la loro storia. Corporalità che si riveleranno fragili o resistenti, costituendo il luogo colonizzato dalla simbiosi, in cui, se un organismo si beneficia dell’altro, e provoca danni, si stabilisce una relazione parassitaria.
La realtà ci mostra che il problema della salute è quello di un subsistema che riceve e processa tutti gli impatti dell’asse conflittuale che si articola al sistema sociale nel suo insieme. La complessità dell’evento che stiamo affrontando affonda le sue radici nella logica che, finora, governa un sistema nel suo insieme, che è anche quella di una lotta per instaurare e perpetuare un implacabile regime di morte, che rende insicura e arriva ad annichilire la vita della persona umana, portatrice della fonte creatrice del nuovo valore: il sistema, questo meccanismo invisibile di relazioni sociali si eleva alla condizione di soggetto e piega, pone al suo servizio le persone, fino a portarle alla loro estenuazione, per ottenere il massimo possibile del tasso di profitto.
È la permanenza di questo carattere quasi estorsivo del capitalismo con l’anelito di ottenere rendimento, che ha fatto precipitare, a un livello mai visto, la crisi ecologica dei diversi sistemi biotici, in mare, montagna e nelle calotte polari. Per quanto detto e per altre motivazioni, anche più recenti, possiamo dedurre un’integrazione più globale del problema, in linea con la considerazione di esso come un sistema complesso emergente, che si sovrappone nel quadro della crisi strutturale al sistema storico capitalista. Secondo noi, il regno del capitale e la diversificazione della sua attività industriale cancella e assorbe le linee limitrofe della vita degli altri regni (minerale, animale, vegetale, ecc.); la civiltà del progresso, con il collasso climatico, rivela che la fine dell’Antropocene sarebbe con maggiore precisione il risultato del primato del Capitalocene. L’ordine sociale vigente nelle sue catene globali di valore non cessa di rastrellare nuove branche di affari o ricomporne di antiche, alla ricerca di tagliare costi e aumentare rendimenti, erige così una “fabbrica mondiale” che è la pira sacrificale della vita umana e non umana sulla terra. Omogeneizza, nel ciclo del capitale/denaro, tutta la vita (nella sua complessa diversità) e la riduce alla tentazione industriosa del capitalista e al suo freddo calcolo egoista: questa dismisura non riconosce limiti; nessuno spazio della vita, nessun sistema storico, biologico o materiale rimane al margine di questa hybris, in esso consisterebbe il totalitarismo del mercato, il fascismo inerente al mercantilismo assoluto. Ciò rimane chiaro nel confronto di due modalità per ottenere e riprodurre i beni di consumo, due poli si confrontano, quello della via contadina e della piccola agricoltura di sussistenza e la via capitalista e delle industrie agricole delle grandi corporazioni multinazionali; lì starebbe la connessione dell’origine del nuovo coronavirus con il processo di consumo e non una determinata esotica ingestione di cibo dell’alterità barbarizzata.
Sotto questo prisma di analisi, il problema fondamentale che affrontiamo si trova nell’articolazione della progressiva espansione del nuovo virus (che in pochi mesi già abbraccia, senza eccezione, tutti gli angoli del pianeta) con il danno già causato (in termini sociali ed ecologici) al corpo planetario con l’indolente persistenza del “virus liberale” (Amin) o, meglio, neoliberale che ha colonizzato l’economia mondiale e ha posto al suo servizio la struttura degli Stati, già da quasi mezzo secolo. Il coronavirus, quindi, lascia cadere i suoi effetti nel quadro della virulenza capitalista aumentata dal neoliberalismo. Questi ha reso più fragili le linee di resistenza, se per esse intendiamo l’indebolimento, se non la sparizione, dei sistemi universali di salute e della loro conversione come fabbriche per l’accumulazione capitalista, il che comporta non solo mercificazione e privatizzazione (nel settore dei servizi medici e ospedalieri), bensì frammentazione e collasso di infrastrutture. Queste modificazioni che si mascherano come tendenze alla modernizzazione, hanno come risultato succedaneo l’oblio di conoscenze tradizionali (strategie ancestrali, preservate in saperi protetti e difesi da popoli e regioni, utili anche per affrontare la malattia e cercare schemi di cura), e l’esclusione di strategie comunitarie o consuetudinarie di assistenza, alla cui base si trova una visione solidale, orizzontale e reciproca, e un’etica con e per gli altri.
L’America latina permette di confrontare gli orizzonti che si aprono davanti due maniere di affrontare l’attuale crisi sanitaria, che troverebbero le loro linee di demarcazione proprio nelle misure promosse dal neoliberalismo e auspicate dalle politiche di austerità e dalle condizioni di difficoltà che devono evitare le proposte diametralmente opposte a quei criteri dei cosiddetti “programmi di governi progressisti”, ogni volta che questi tipi di progetti partono e riprendono posizioni di governo in Stati, la cui base fiscale è molto debole, l’indebitamento con interessi privati o con istituzioni internazionali è severo, le fughe di capitali sono persistenti, e la struttura della spesa pubblica sociale è molto limitata. Questa linea divisoria, riguardo agli obiettivi e senso che si dà alla crisi sanitaria della Covid-19, rimane ben esemplificata nei casi di Brasile, Bolivia, Cile, Ecuador e Perù; al contrario, nel caso di Messico e Argentina si provano a promuovere linee di politica governativa che rivendica il ruolo sussidiario dello Stato e che, sulle fondamenta e sui semi della ricostruzione delle loro basi sociali, dia un giro solidale, estremamente necessario, all’assistenza medica e a una ricomposizione dei servizi pubblici, che guardi verso quelli che meno hanno, gli svantaggiati di sempre.
La significativa politica sanitaria, di fronte a un evento che coinvolge il popolo nel suo insieme (Pandemia), deve tentare un esercizio integrale che assorba (nella contingenza) le altre dimensioni della politica pubblica, il resto dei programmi sociali, di ridistribuzione e di salario politico. Nell’immediato lo sguardo va alla questione di come preservare vite umane, di attenuare il numero delle vittime, diventa prioritario, da un lato, come dare assistenza ai membri della società che passano alla condizione di “malati gravi”, che lancia una sfida a una miserabile infrastruttura ospedaliera di terzo livello.
La valutazione o il riconoscimento che le attrezzature ospedaliere possano collassare e che possano risultare insufficienti le misure di bio-sicurezza con gli investimenti medici ospedalieri utilizzati, e anche finanche i servizi funerari possano rivelarsi insufficienti, ha concentrato gli sforzi della società su un obiettivo: ridurre la scala del contagio, puntando a che la curva tendenziale si mantenga sotto la media del tasso di mortalità registrato fino a quel momento. Anche qui, nell’assicurare le misure di confinamento e distanziamento fisico, si notano differenze molto importanti, paesi inclini all’autoritarismo hanno stabilito misure di reclusione obbligatoria, che alcuni governi hanno strumentalizzato come coprifuoco o stato d’assedio, varianti di decreti di uno Stato d’eccezione.
La politica raccomandata dall’OMS va diretta, nei mesi prossimi, a una specie di decreto globale di quarantena. Riconosciuto il fatto che l’economia mondiale andava male, che la crisi, quest’anno, potrebbe diventare recessiva; oggi ciò è evidente, accettato dall’establishment e dalle autorità degli organismi internazionali. Adesso le domande importanti sono: Quanto tempo deve durare lo scenario economico recessivo? Che possibilità ci sarà per strumentare misure economiche eterodosse controcicliche?
Le misure di confinamento hanno un effetto di paralisi dei circuiti economici del consumo, circolazione, produzione e investimento programmati. Le unità produttive in funzionamento rimangono ridotte a quelle considerate di necessità essenziali, chiudendo in rami e settori che possono considerarsi secondari o che possono compiersi in forma virtuale o in varianti dell’home office. Questa discussione è molto importante e ci rimanda ai classici della pianificazione di Baran e Sweezy sulla “irrazionalità economica” (quell’attività economica che dispiega uno spreco e un dispendio dell’eccedente sociale, l’esempio più concreto sarebbero le spese militari) e la necessità di canalizzare i processi economici di produzione, circolazione e consumo verso attività “primordiali”, dove si otterrebbe un maggiore “potenziale surplus” che, in questo caso, dovrebbe essere inteso come quell’attività sociale e pubblica, diretta a preservare la vita, ma non in senso astratto, bensì una politica diretta a ricomporre le situazioni di sopravvivenza della popolazione più svantaggiata. Come è noto, ciò rimanda a una “disponibilità statale” completamente distinta, poiché esige ridisegnare la figura dello Stato come garante universale, in una prima istanza, immediata, di un sistema di salute pubblica efficiente e opportuna (sapendo che si parte da condizione rovinose, eredità del neoliberalismo), in secondo luogo, rivestendolo di un attivismo più effettivo nelle misure di stimolo economico e nei piani a breve termine (per via dell’investimento pubblico) per il recupero dell’occupazione, in terzo luogo, di ampliamento, fin dove sia possibile, di uno schema di reddito e sussidio per i più bisognosi.
La sfida sarà enorme per quei paesi che pretendono di uscire dalla condizionalità neoliberale e che già riducono le loro entrate esterne (per vendita di petrolio, turismo o ingresso di valuta) o per quello che vivono situazioni dolorose per la superbia del potere statunitense, la perpetuazione del blocco, le sanzioni economiche e che, in mezzo alla pandemia globale, minaccia finanche un intervento militare, per ottenere redditi deponendo un governo democraticamente eletto. L’amministrazione Trump con la sua attitudine bellicista devia l’attenzione dei suoi cittadini dalla prevedibile gestione inefficace della crisi sanitaria, per cui si aspetta che il numero di decessi si conti in decine di migliaia.
Colleghiamo il problema della pandemia con i fili che la legano alla dimensione globale della crisi del capitalismo e da questo angolo possono dedursi alcune conclusioni. in primo luogo, la presa di coscienza di una buona parte dell’umanità dell’acutizzazione e prolungamento dell’emergenza sanitaria è in relazione con le politiche di austerità neoliberale, che hanno distrutto i sistemi di sanità pubblica (canalizzando il surplus sociale e i finanziamenti pubblici verso le grandi holding capitalistiche e il capitale finanziario); ciò può significare una crepa del consenso neoliberale e sostenere le proteste contro la società della divisione del 1% contro il 99%, attirare, quindi, certi strati economici agiati, gli strati medi e l’ampio ventaglio di coloro che vivono della vendita della loro forza-lavoro, e articolarli nella lotta per demolire le fondamenta del neoliberalismo, sarebbe un progresso importante, per nulla disprezzabile. In secondo luogo, e in un medio termine, sembra configurarsi un polo attraente per la lotta post-neoliberale e di intenzioni anti- o post-capitalistiche e ciò sembra incorporare trasversalmente le tendenze di conflitto contro il colonialismo, il capitalismo e il patriarcato. In relazione al colonialismo, esso si deve tradurre in un richiamo fermo per l’annullamento del pagamento del debito estero e dei suoi interessi e per abbassare e tagliare le spese per gli armamenti. In relazione al capitalismo, ricostruire i servizi sanitari pubblici è solo una parte di una protesta più globale in direzione di una riappropriazione sociale dello Stato (in un movimento dal basso verso l’alto) per mezzo del quale si punta alle entrate pubbliche, allo stabilire un reddito fondamentale universale per tutti, il che vuol dire passare dall’intendere lo Stato come costituzione materiale del conflitto sociale allo Stato come costituzione materna del benessere e cura dei cittadini (Segato).
In relazione al patriarcato capitalista le dimensioni della lotta vanno configurandosi attorno a una rivendicazione generica per la radice materna che soggiace alla lotta dei materialisti, cioè, la difesa della Madre Terra o, se si preferisce, dell’ecologia e della natura, come lo spazio e l’ambiente madre di Gea, questo si traduce anche in un cambio di concezione nella nostra seconda natura, cioè, della forma Città, insieme relazionale che impone la logica in cui è disposto il nostro luogo e spazio nella vita sociale nella grande città e, da subito, il cambio sistematico, la rivoluzione e la rieducazione permanente per lo stabilirsi di relazioni quotidiane che non riproducano gli isomorfismi del dominio, lo sfruttamento e l’appropriazione all’interno delle molto diverse famiglie.
Se spingiamo verso una comprensione di questa nuova dimensione della crisi della modernità capitalista nelle tre direzione sottolineate, forse non staremo battendo alle porte della nuova società (come se ciò avvenisse con un atto di prestidigitazione, come arrivarono a intravederlo alcuni filosofi dell’accademia critica del Nord), ma avremo compiuto alcuni passi nel distacco dal dominio neoliberale che, per i paesi del Sud, come per il resto del pianeta nel contesto della Covid-19, è una lotta per la vita o per la morte.