Dalla produzione alla riproduzione e ritorno: il socialismo di Nancy Fraser e i suoi problemi

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di Giorgio Cesarale

Il discorso di Nancy Fraser sul socialismo, esposto in Cosa vuol dire socialismo nel XXI secolo?, ha il merito di essere storicamente situato e teoricamente strutturato. Esso è storicamente situato, perché, fin dall’incipit, se ne dichiara l’appartenenza a un preciso contesto politico, quello determinato, dopo il great crash del 2007-2008, dall’impetuosa crescita del movimento socialista americano, non solo nella versione di Bernie Sanders e Alexandria Ocasio-Cortez (l’ala sinistra del Partito Democratico), ma anche in quella dei Democratic Socialists of America (attualmente, la più grande organizzazione socialista indipendente negli USA). I giorni in cui scriviamo queste note vedono poi tutte le strade americane, di campagna e di città, al nord come al sud, a ovest come a est del Paese, percorse da uno straripante movimento sociale e politico, da una ribellione antirazzista che presenta tratti insurrezionali, alla quale si contrappone una reazione sorda, un gangsterismo clownesco, ma torvo, il quale si sveste dei suoi panni “neopopulisti”, per assumere quelli, tristemente più noti, dell’avventurismo fascista. Quest’ultimo sviluppo, tutto da seguire nei prossimi mesi perché foriero di ulteriori e imprevedibili sorprese, illumina, da un altro lato, l’importanza teorica del discorso di Fraser sul socialismo [ref] L’attenzione in Europa per il tumultuoso sviluppo democratico statunitense successivo al 2007-2008, con i suoi avanzamenti (la campagna di Sanders alle primarie dem del 2016) e i suoi fallimenti (la presidenza Obama) è stata complessivamente e colpevolmente bassa. Bisogna osservarlo: in un mondo che nell’estremo Oriente fa scoccare la scintilla della trasformazione economica e nell’Estremo Occidente quella della trasformazione politica, la vecchia Europa spicca per la sua reazione impaurita e sonnolenta alla “minaccia onnipresente della catastrofe totale” (Theodor W. Adorno, Teoria estetica, ed. it. di Fabrizio Desideri e Giovanni Matteucci, Mondadori, Milano 2010, p. 532).[/ref]. Esso, infatti, riposa sul ripensamento della “classica” separazione, soprattutto interna a un certo marxismo “ortodosso”, secondo- e terzo-internazionalistico, fra la sfera della produzione e quella della riproduzione, e cioè, più esattamente, fra l’ambito di ciò che Marx ha chiamato “processo di produzione immediato” [ref] Karl Marx, Il capitale. Critica dell’economia politica, trad. it. a cura di M. L. Boggeri, Editori Riuniti, Roma 1994, vol. III, p. 53. [/ref] e le condizioni di riproduzione dei rapporti sociali che rendono possibile quest’ultimo. Nel vocabolario teorico di Fraser, le principali condizioni di possibilità del “processo di produzione immediato” sarebbero “il potere dello Stato, la natura non-umana e le forme di ricchezza che si trovano fuori dei circuiti ufficiali del capitale, ma comunque alla sua portata” [ref] Nancy Fraser, Cosa vuol dire socialismo nel XXI secolo?, trad. it. di A. Gasparini, Castelvecchi, Roma 2020, p. 6.[/ref]. Come Fraser ha altrove sostenuto, bisogna andare oltre i “segreti laboratori della produzione” del I libro del Capitale, che svelano il fondamento dello sfruttamento del lavoro salariato, per scoprirvi ciò che essi nascondono: il loro “approfittarsi del lavoro di cura non stipendiato, dei beni pubblici e della ricchezza espropriata a soggetti razzializzati e alla natura non-umana” [ref] Ibid.[/ref]. Autoritarismo, razzismo, sessismo, predazione dell’ambiente naturale, ciò insomma contro cui la ribellione americana di questi giorni si è in gran parte levata, sarebbero interni al capitalismo, in un modo che persino Marx non è riuscito contemplare. Ma se è così, ogni lotta contro la formazione storico-sociale presente, ogni “socialismo”, dovrà cambiare telos: alla giusta e improrogabile necessità di trasformare i “rapporti di produzione” bisognerà affiancare quella di mutare i “rapporti di riproduzione”, in una direzione che si può dire, complessivamente, democratica.

Si tratta, a nostro giudizio, di un gesto teorico-politico di grande rilevanza, perché più della linea tardo-honnethiana e tardo-habermasiana, riattinge alle potenzialità, ancora in parte inespresse, della svolta “marxista-occidentale”, inaugurata negli anni ’20 da Gyorgy Lukács con la pubblicazione di Storia e coscienza di classe. Che cosa significa, tuttavia, più precisamente “marxismo occidentale”? Significa forse quella posizione che, nell’epoca della controrivoluzione stalinista, diserta il campo della analisi economica e dell’intervento politico per rifugiarsi nella pratica, per certi versi autoreferenziale, della riflessione filosofica[ref] È la posizione di Perry Anderson (in Il dibattito nel marxismo occidentale, trad. it. di Franco Moretti, Laterza, Roma-Bari 1977) e, tutto sommato, anche di Domenico Losurdo, in Il marxismo occidentale. Come nacque, come morì, come può rinascere (Laterza, Roma-Bari 2017), il quale si colloca tuttavia in un contesto purgato dalla polemica antistalinista e piuttosto caratterizzato dal confronto con il marxismo “orientale”, soprattutto interessato a sviluppare le forze produttive.[/ref]? No, perché se così fosse non vi sarebbe motivo per farvi rientrare il discorso di Fraser sul capitalismo e il suo superamento socialista. Per noi, “marxismo occidentale” è piuttosto quella corrente teorico-politica che estende l’inversione fra astratto e concreto che domina il concetto della “merce” – onde una cosa non ha valore perché soddisfa un bisogno (il concreto), ma solo perché si può alienare secondo determinati rapporti quantitativi (l’astratto) – all’insieme delle operazioni riproduttive e rappresentative della società. Nel marxismo occidentale si ritrova dunque la tesi, variamente affermata e argomentata, per cui la società è una totalità e non un edificio a piani separati, come la teoria “ortodossa” circa il rapporto fra base economica e sovrastruttura ideologica aveva lasciato immaginare –, la cui cellula elementare, la merce stessa, proietta le sue inversioni fin dentro il modo in cui la coscienza si collega alla realtà, cercando di renderla intelligibile. Mentre cioè per il marxismo “ortodosso”, secondo- e terzo-internazionalistico, la “coscienza” è un mero riflesso della struttura economico-produttiva, per cui la sfera in cui essa viene alimentata, quella della riproduzione sociale e ideologica (ospitata dallo Stato, dai mezzi di comunicazione etc.), è una appendice della struttura economico-produttiva, per il marxismo occidentale il meccanismo di trasmissione fra circolazione del valore e riproduzione del capitale sociale complessivo è privo di troppo forti soluzioni di continuità. Circolazione, riproduzione e rappresentazione sono state così articolate in una gerarchia complessa ma non per questo meno unificata, come hanno avuto modo di testimoniare, nel secondo dopoguerra, il Bloch che in Il principio speranza trapassa dall’analisi degli affetti di attesa a quella della loro perversione nelle teste di coloro (p. es. la piccola borghesia) che soffrono sotto il tallone di ferro del capitale monopolistico; lo stesso Lukács, il quale ha ripreso, sotto questo riguardo, le intuizioni di Storia e coscienza di classe, occupandosi in Per l’ontologia dell’essere sociale delle forme oggettive di coordinamento fra le varie posizioni teleologiche degli individui (divisione del lavoro, linguaggio, diritto e mercato mondiale); il secondo Althusser, che ha sviluppato il modello teorico, per noi già “marxista-occidentale”, di Leggere il “Capitale” nel verso “degli apparati ideologici di Stato”; la Scuola di Francoforte, che è venuta progressivamente articolando, prima con gli Horkheimer e Adorno della Dialettica dell’illuminismo e poi con lo Habermas fino a Teoria dell’agire comunicativo, l’indagine degli strumenti di “colonizzazione” del mondo della vita.

La vena “marxista occidentale” di Fraser è tuttavia arricchita dal suo profondo rapporto con le tesi cardinali di La grande trasformazione di Karl Polanyi. Da questo libro Fraser ha in particolare mutuato l’idea secondo cui l’istituzione produttiva ed economica è sempre embedded in un più ampio contesto sociale e politico, anche quando, come nel capitalismo, di questa dipendenza si tenda a far astrazione. La stessa astrazione che conduce alla formazione di ciò che Polanyi chiama “merci fittizie”: lavoro, terra, moneta. Il capitalismo rende possibile la produzione di queste merci, precisamente astraendo dalle loro generali condizioni di esistenza, da ciò che in Fraser sono le condizioni di riproduzione:

secondo la definizione empirica di merce, essi non sono delle merci. Il lavoro è soltanto un altro nome per un’attività umana che si accompagna alla vita stessa, la quale a sua volta non è prodotta per essere venduta, ma per ragioni del tutto diverse, né questo tipo di attività può essere distaccato dal resto della vita, essere accumulato o mobilitato. La terra è soltanto un altro nome per la natura che non è prodotta dall’uomo, la moneta infine è soltanto un simbolo del potere d’acquisto che di regola non è affatto prodotto, ma si sviluppa attraverso il meccanismo della banca e della finanza di stato. Nessuno di questi elementi è prodotto per la vendita. La descrizione quindi del lavoro, della terra, e della moneta come merci è dunque interamente fittizia [ref]Karl Polanyi, La grande trasformazione, trad. it. di Roberto Vigevani, Einaudi, Torino 1974, pp. 93-94. Nella disputa di questi ultimi anni su Polanyi, di cui dà finemente conto Michele Cangiani in Quale Karl Polanyi? (http://ilrasoiodioccam-micromega.blogautore.espresso.repubblica.it/2020/03/06/quale-karl-polanyi/), il dilemma è: mit oder gegen Marx? Cangiani spiega con chiarezza perché la via interpretativa che porta Polanyi fuori da Marx non tiene. Fraser si colloca, per certi versi, a metà strada.[/ref].

Siamo, come si può facilmente constatare, molto vicini a Fraser: il lavoro si confonde con la vita, è un’attività che si staglia sullo sfondo di altre attività umane (quelle che Fraser chiamerebbe “di cura”); la terra diventa proprietà soltanto svincolandola dalla natura; la moneta è, da ultimo, governata da rapporti di potere statali. Se si vuole promuovere la transizione al socialismo, dice Fraser, tutte queste astrazioni, tutte queste separazioni, dovranno essere ripensate, svelandone il carattere artificiale, e ridisegnate, sottoponendole alla regola democratica. Il socialismo, oltre a essere “marxiano”, dovrà essere “polanyiano”.

Come s’è accennato, il tentativo di Fraser è largamente condivisibile e merita di essere ulteriormente sostenuto. Tuttavia, esso è minato da una fondamentale difficoltà, che minaccia effetti rovinosi, anche sulla riprogettazione della transizione al socialismo. Il fatto che sia una difficoltà trasversale alle diverse frazioni del pensiero critico contemporaneo, ai pensatori neomarxisti così come a quelli post-marxisti, massime presso gli Ernesto Laclau e Chantal Mouffe di Egemonia e strategia socialista, non la rende meno grave. Di che cosa stiamo parlando? Parliamo, una volta registrata l’importanza di estendere le lotte dal punto della produzione al punto della realizzazione, della distribuzione e della riproduzione, del meccanismo di articolazione delle prime alle seconde. Mentre in questi pensatori, le lotte al punto della riproduzione si aggiungono a quelle della produzione, o investendo quest’ultime di quella politicità che altrimenti non avrebbero (Laclau-Mouffe) o chiamando in causa il loro presupposto non posto (Fraser), per il Marx del Capitale la lotta di classe al punto della produzione è già tale sulla base di una fondamentale condizione della riproduzione. Quale? Marx accenna a tale condizione della riproduzione appena comincia a spiegare il motivo per cui la “forza-lavoro” presuppone la riduzione a merce delle proprie capacità:

Per forza-lavoro o capacità di lavoro intendiamo l’insieme delle attitudini fisiche e intellettuali che esistono nella corporeità, ossia nella personalità vivente d’un uomo, e che egli mette in movimento ogni volta che produce valori d’uso di qualsiasi genere. […] In sé e per sé lo scambio delle merci non include altri rapporti di dipendenza fuori di quelli derivanti dalla propria natura. Se si parte da questo presupposto, la forza-lavoro come merce può apparire sul mercato soltanto in quanto e perché viene offerta o venduta come merce dal proprio possessore, dalla persona della quale essa è la forza-lavoro. Affinché il possessore della forza-lavoro la venda come merce, egli deve poterne disporre, quindi essere libero proprietario della propria capacità di lavoro, della propria persona. Egli si incontra sul mercato con il possessore di denaro e i due entrano in rapporto reciproco come possessori di merci, di pari diritti, distinti solo per essere l’uno compratore, l’altro venditore, persone dunque giuridicamente eguali [ref] Karl Marx, Il capitale. Critica dell’economia politica, trad. it. a cura di D. Cantimori, cit., vol. I, p. 200.[/ref].

La forza-lavoro, insomma, dice Marx poco prima, è una “merce specifica” [ref] Ibid.[/ref], che è tale precisamente perché i lavoratori sono diventati membri della sfera della circolazione, sono diventati liberi ed eguali proprietari della forza-lavoro e dunque capaci di perseguire autonomamente il proprio utile, scambiando le proprie prestazioni contro denaro.

Ma come si produce e riproduce la forza-lavoro, come è stato possibile che essa divenisse parte di quella sfera essenzialmente moderna che è la sfera della circolazione delle merci? Come ha messo in luce Kōzō Uno, in un’opera di meravigliosa precisione concettuale, Principles of Political Economy. Theory of a Purely Capitalist Society, il processo di produzione e riproduzione della forza-lavoro è un processo peculiare, perché è

a consumption-process of material things, not a production-process properly speaking. That is to say, labour-power as a commodity must be reproduced in the private life of the workers, not in the process of material production. However, the conversion of labour-power into a commodity compels the reproduction ‘as a commodity’ of labour-power through the individual consumption of wage-earners with the recurrence and regularity characteristic of a production-process. Thus labour-power is ‘produced’ by the consumption of material things just as material things are produced by the consumption of labour-power. Such an inter-relatedness, however, must not obviate the distinction between the processes of production and consumption. Labour-power and the means of production are sometimes said to be ‘productively consumed,’ though this does not make the production-process of material things their individual consumption-process [ref]Kōzō Uno, Principles of Political Economy. Theory of a Purely Capitalist Society, trans. by Thomas T. Sekine, The Harvester, Brighton 1980, p. 62.[/ref].

La forza-lavoro è tale insomma non malgrado, ma proprio in virtù del fatto che si riproduce al di fuori della sfera della produzione, nella vita familiare o privata. Si può certo immaginare – dice Kōzō Uno con allusione al tentativo “fordista-keynesiano” di socializzare il controllo sul ciclo del consumo e del risparmio [ref] Si tratta del capitalismo organizzato, regolato dallo Stato, sui cui effetti sulla famiglia ha ragionato molto e bene la stessa Fraser, per esempio in Contradictions of Capital and Care, in “New Left Review”, n. 100/2016.[/ref] –, una regolata riproduzione della forza-lavoro nella sfera privata, ma questa rimane, in ogni caso, un’analogia. Se fosse letteralmente vero che la forza-lavoro è prodotta come qualsiasi altro merce, in un processo di produzione, la determinazione del valore della forza-lavoro dovrebbe conformarsi a quella di qualsiasi altra merce, il cui valore, come è noto, è per Marx misurato dal tempo di lavoro socialmente necessario a produrla. Tuttavia, in

the case of labour-power, its value is determined indirectly by labour-time spent on the production of the means of livelihood required for the reproduction of labour-power. But this involves the practical problem of determining what quality and quantity of the means of livelihood should be deemed necessary for the reproduction of labour-power [ref]Kōzō Uno, Principles of Political Economy. Theory of a Purely Capitalist Society, cit., p. 62.[/ref].

Il tempo di lavoro socialmente necessario a riprodurre la forza-lavoro viene fissato indirettamente, non direttamente come quello di qualsiasi altra merce, perché dipende da un’attività, quella del consumo di beni, che avviene fuori della produzione, nella vita familiare o privata, nella sfera della riproduzione appunto. Lo dimostra, continua Kōzō Uno, la variabile vicenda della determinazione del valore della forza-lavoro: poiché essa dipende da un’attività, la soddisfazione dei propri bisogni, che il capitale non controlla direttamente, è su questo terreno che si radica il tentativo della forza-lavoro di far valere le sue prerogative di parte, libera ed eguale, della sfera della circolazione: essa, naturalmente in consonanza con il ciclo del capitale sociale complessivo, negozia, perché ne è proprietaria, sul valore delle proprie attitudini corporee e cognitive, su quanto è costato reintegrarle, scegliendo, volta per volta, di ampliare o restringere l’ambito dei propri bisogni passibili di soddisfazione. Come si può forse ora maggiormente notare, non ha perciò molto senso teorico e politico, se si vuole, come Fraser, rimanere in qualche modo fedeli alle acquisizioni teoriche di Marx, distinguere fermamente fra lotte al punto della produzione e lotte al punto della riproduzione. Le lotte al punto della produzione sono caratteristicamente condizionate dal modo in cui è strutturata la sfera della riproduzione.

Ciò consente, infine, di riprendere il ragionamento relativo al ripensamento “marxista occidentale” del rapporto moderno fra produzione e riproduzione. La nostra tesi è che per comprendere tale rapporto risulti necessario chiamare fin da subito in causa la sfera della circolazione. Fino a che, infatti, nelle società pre-capitalistiche, produzione e riproduzione sono rimaste avvinte l’una all’altra, l’accesso ai mezzi e agli oggetti del lavoro è stato mediato in termini politico-giuridici o religiosi, con la conseguenza che l’estrazione del pluslavoro è stata ancorata a mezzi di appropriazione direttamente politico-giuridici o religiosi etc., dunque immediatamente comunitari. Ma quando la comunità produttiva e politica è stata polverizzata, grazie all’ingresso dei rapporti di produzione capitalistici, che hanno espropriato il lavoratore dei suoi tradizionali rapporti di possesso, l’individuo ha iniziato ad aver accesso ai mezzi di produzione soltanto attraverso il mercato, come membro della sfera della circolazione (venditore o compratore di merci e forza-lavoro). Ed è su questa base che la stessa sfera della riproduzione ha dovuto riconfigurare le sue funzioni: se, nei modi di produzione precapitalistici, essa era strumento di appropriazione extraproduttiva, era dunque strumento del dominio diretto sui produttori, ora, nella modernità capitalistica, essa dovrà mirare a ricongiungere l’individuo libero ed eguale della sfera della circolazione agli opposti, perché antagonistici, rapporti di produzione. L’individuo, venute meno quelle comunità che lo rapportavano immediatamente alla sfera della produzione, va ora preparato, plasmato, disciplinato all’ingresso nel mercato del lavoro, attraverso una vasta mobilitazione di risorse (famiglia, scuola, corsi di formazione professionale, atti amministrativi, opinione pubblica etc.) [ref]È da qui che diventa possibile riarticolare un rapporto costruttivo con la tematica del “biopotere” introdotta da Michel Foucault, come Pierre Macherey ha dimostrato nel suo bel Il soggetto produttivo, in Id., Il soggetto delle norme, ed. it. a cura di Girolamo De Michele, ombre corte, Verona 2017, pp. 129-181. Cfr. anche a tal proposito Jacques Bidet, Foucault avec Marx, La Fabrique, Paris 2014, pp. 23-56, e Mark Neocleous, Administering Civil Society. Towards a Theory of State Power, MacMillan, London-New York 1996.[/ref]. L’apparizione della sfera della circolazione causa dunque ciò che lo Hegel della Fenomenologia dello spirito avrebbe chiamato il “passaggio alla determinazione opposta” [ref] G.W.F. Hegel, Fenomenologia dello spirito, trad. it. di E. De Negri, La Nuova Italia, Firenze, 1996, p. 159.[/ref]: dalla libertà ed eguaglianza che connotano la sfera della circolazione si passa all’asimmetrie e alle ineguaglianze immanenti ai rapporti di produzione. D’altra parte, questo rovesciamento non può essere brusco e immediato, pena il collasso della formazione storico-sociale. Fra queste due sfere deve intervenire, per costruire un ambito di almeno parziale risolubilità della loro tensione, la sfera della riproduzione, con la sua promozione delle gerarchie di razza, sesso e nazione; quelle gerarchie che abbiamo, tragicamente, imparato a conoscere soprattutto nel corso del ‘900. In questo schema, la riproduzione sociale rimane così, come negli antichi modi di produzione precapitalistici, sede di rapporti di dominio, ma di un dominio indiretto, che prepara o sancisce l’esercizio dei rapporti di potere nell’ambito della produzione.

Da questo lato, viene anche avvalorata la necessità di ragionare sui canali di scorrimento fra circolazione, produzione e riproduzione, sul processo di totalizzazione della società borghese come processo segnato dalle inversioni. È intervenendo sui décalages fra circolazione, produzione e riproduzione, sfruttando le tensioni fra le promesse normative della prima, le dure ineguaglianze della seconda e l’esigenza che lo Stato democratico (ancora oggi, la principale istituzione della riproduzione) ogni volta ha di trasformare l’obbedienza richiesta sulla base dei rapporti di forza dati in obbedienza voluta, perché riscattata nel vivo del conflitto politico, nel confronto con ciò che la nega, che il socialismo potrà riguadagnare quel che, a nostro avviso, è il suo profilo più peculiare: quello di essere il prodotto dell’autocritica della ragione e della società borghese [ref]Anche se ridefinita in questi termini, come autocritica della ragione e della società borghese, la categoria di “socialismo” rimane prigioniera di alcune pesanti ambiguità, sulle quali ci ripromettiamo di intervenire a breve. Se volessimo adottare una categoria meno compromessa teoricamente e politicamente, dovremmo parlare di “formazioni sociali di transizione” (Charles Bettelheim). [/ref].