Democrazia e laicità

Stefano Petrucciani

1. Neutralità e laicità dello Stato democratico[1]

Tra i diritti fondamentali le moderne democrazie costituzionali non includono solo quello di manifestare le proprie idee politiche, ma anche quello di professare la propria religione. Anzi, si può dire che uno dei principi basilari del moderno Stato costituzionale sia proprio quello della laicità o neutralità religiosa dello Stato, che si è affermato nella cultura europea attraverso la sanguinosa vicenda delle guerre di religione che si scatenarono dopo la Riforma, e che è ormai patrimonio di tutte le democrazie liberali. Nel patrimonio culturale europeo risulta dunque acquisita (in buona misura) l’idea che lo Stato non può far propri i dogmi di una determinata religione, e tantomeno ispirare ad essi la propria legislazione, ma deve invece offrire una cornice nella quale si possano riconoscere sia i cittadini appartenenti a religioni diverse sia quelli che non ne professano nessuna. E’ questo appunto il contenuto del principio di laicità dello Stato, che in Italia è stato esplicitato e definito non tanto nella Costituzione vera e propria quanto soprattutto in alcune sentenze della Corte costituzionale: prima nella sentenza n. 203/1989 e poi in quella n. 508/2000 dove si afferma che «l’atteggiamento dello Stato non può che essere di equidistanza e imparzialità nei confronti»di tutte le confessioni religiose, senza alcuna rilevanza del dato quantitativo o delle reazioni sociali conseguenti alla violazione dei loro diritti, «imponendosi la pari protezione della coscienza di ciascuna persona che si riconosce in una fede quale che sia la confessione di appartenenza»[2].
L’affermazione di questo principio, però, non risolve affatto tutti i problemi che si pongono nella convivenza tra diversi; problemi che diventano tanto più drammatici nel momento in cui migranti di etnia, cultura e religione differente dalla nostra attraversano ogni giorno i confini degli Stati europei, magari per entrare in aule scolastiche dove è esposto il crocefisso o dove il velo islamico – nelle sue tante varietà – non è ben accetto.

Come si deve rapportare dunque lo Stato laico alle molte differenze – potenzialmente conflittuali – che ospita al suo interno? E’ chiaro che il principio di laicità esigerebbe che le istituzioni e le leggi dello Stato fossero, per così dire, equidistanti o neutrali rispetto alle differenti visioni religiose e rispetto alle diverse morali. Ma, quando si cerca di indagare più a fondo cosa ciò significhi in concreto, emergono non pochi problemi.

a. In primo luogo il principio di neutralità è effettivamente assai difficile da attuare in modo pieno, poiché esso deve venire implementato in un ambiente sociale che è carico di sedimentazioni storiche e dove quindi, per esempio, alcune religioni svolgono un ruolo assolutamente più rilevante rispetto ad altre.

Per esempio, in molti Paesi europei la festività dei cristiani, la domenica, assume un forte rilievo pubblico, mentre altrettanto non può dirsi per le festività ebraiche o per quelle dei musulmani. Cosa dovrebbero fare le leggi dello Stato per ovviare a questa indubbia non-neutralità? Le scuole, per esempio, dovrebbero chiudere in corrispondenza di tutte le festività religiose del mondo, o non dovrebbero chiudere mai? Insomma, come è stato giustamente osservato anche da Habermas, non si può non riconoscere l’“inevitabile pregnanza etica di ogni comunità giuridica e di ogni processo democratico realizzante diritti”[3], con la conseguenza che il principio di neutralità rimarrebbe un ideale-limite mai pienamente attuabile.

b. In secondo luogo, l’idea di neutralità implica dei problemi anche quando la si voglia definire relativamente alla sua estensione: è chiaro che, dal punto di vista storico, essa si applica in primo luogo alle confessioni religiose ma, per coerenza, essa sembra doversi estendere anche alle convinzioni morali profonde, nessuna delle quali lo Stato dovrebbe privilegiare.  Se io, per esempio, credo che non sia giusto abbandonare un mio parente alle sofferenze, e che sia giusto, se me lo chiede, aiutarlo a morire, posso richiamarmi al principio di laicità per sostenere che lo Stato non può far propria, con le sue leggi, la tesi morale contraria?

c. In terzo luogo, il principio di neutralità, se lo estendiamo anche – come sembra necessario – alle visioni etiche profonde, incontra anche un ulteriore livello di difficoltà: come è stato fatto osservare[4], infatti, vi sono questioni rispetto alle quali la legislazione, se si pronuncia, non può fare a meno di scegliere, e cioè di privilegiare l’una o l’altra delle visioni morali o religiose in conflitto. L’interruzione volontaria di gravidanza e l’eutanasia, per esempio, o sono reato o non lo sono: scegliendo una delle due possibilità, la legge dello Stato è costretta inevitabilmente a optare per una delle visioni morali-religiose in conflitto, come fu spiegato già molti anni addietro nella critica di Michael Sandel al liberalismo neutralista rawlsiano[5]. Il matrimonio poligamico o è consentito dalle leggi o non lo è; ma certo, se non lo è, è difficile sostenere che le leggi dello Stato trattino con eguale rispetto la cultura cattolica e quella islamica.

I problemi che a questo proposito si pongono hanno risvolti assai complessi perché, tra l’altro, riguardano il rapporto che si deve stabilire tra due dimensioni ugualmente irrinunciabili della convivenza politica democratica, e cioè il diritto delle maggioranze di darsi le regolazioni che esse liberamente scelgono e il diritto degli individui a vivere secondo le loro convinzioni valoriali o religiose profonde.La democrazia moderna non può rinunciare a nessuna di questa due dimensioni, ma non è semplice trovare la formula che consenta di conciliare entrambe queste esigenze.

2.Principi liberali e conflitti secondo Rawls e Habermas

Lo Stato democratico si fonda su principi costituzionali di libertà ed eguaglianza tra i cittadini che non sono negoziabili né trasformabili, anche se devono sempre essere interpretati. Pertanto si pongono due domande: che ne è dei cittadini che non si riconoscono in questi principi? E soprattutto: che rapporto c’è tra la vigenza fondamentale di questi principi e il conflitto su questioni rilevanti etiche, religiose o morali?

I principi generali richiedono il pari rispetto e la neutralità; ma questa indicazione, come abbiamo visto, non basta a risolvere i problemi. Dunque, come ci possiamo regolare?

Per affrontare questa problematica si possono rapidamente prendere in esame i contributi che a questo tema hanno dato due importanti pensatori politici contemporanei come John Rawls e Jürgen Habermas. Rawls è stato tra i primi a mettere a tema, nel pensiero politico contemporaneo, la questione del pluralismo e dei conflitti che esso necessariamente porta con sé. La chiave per affrontare il problema, secondo Rawls, sta nel concetto di “ragione pubblica”. La sua tesi perciò è che, nel dibattito politico-istituzionale, cioè quello il cui risultato finale sarà la produzione di norme giuridiche coercitive, e quando queste norme riguardano elementi costituzionali essenziali, le questioni dovranno essere affrontate invocando solo valori politici[6].

Le diverse visioni del mondo, comprese quelle che sono ispirate alle differenti fedi, possono confrontarsi nella sfera pubblica allargata, ma devono restare fuori dalle discussioni istituzionalizzate che decidono circa le norme coercitive.

Simili e diverse (ma qui non possiamo entrare nei particolari) sono le tesi di Habermas. In prima istanza Habermas sembra affermare lo stesso di quello che dice un Rawls rettamente inteso: “oltre la soglia istituzionale … contano soltanto le ragioni laiche” [7]. Ma, al di qua di questa soglia, i discorsi religiosi possono offrire contributi politici importanti, basti ricordare un esempio come quello di Martin Luther King. Per lo Stato liberale è un bene che le voci religiose parlino nella sfera pubblica[8]. Ma i contributi devono essere tradotti in un linguaggio laico. Ma questo sembra implicare una contraddizione dello Stato liberale, che impone ai credenti obblighi più pesanti di quelli che impone ai laici[9].

Ci troviamo dunque in presenza di un onere asimmetrico[10]? In realtà no, secondo Habermas, perché anche ai laici si richiede uno sforzo: la tesi habermasiana è che, “finché i cittadini laici saranno convinti che le tradizioni e le comunità religiose sono per così dire un residuato arcaico, trasmesso dall’epoca delle società pre-moderne fino ai giorni nostri, non potranno che intendere la libertà religiosa così come la protezione delle specie naturali in via di estinzione”[11]. Il dialogo nella democrazia, lo scambio di ragioni tra cittadini, richiede invece ai laici di “non escludere un possibile valore cognitivo”[12] dei contenuti religiosi o di fede, perché non avrebbe senso – sostiene il filosofo – dialogare con persone che consideriamo vittime di credenze irrazionali riducibili in sostanza a forme superstiziose. Insomma, sono necessari “processi complementari di apprendimento”[13]. Perciò, i laici “non possono negare in linea di principio un potenziale di verità alle immagini religiose del mondo, né contestare il diritto dei concittadini religiosi di offrire contributi in linguaggio religioso ai pubblici dibattiti”[14]. Anzi devono cooperare alla traduzione di questo linguaggio in uno pubblicamente accessibile.

Ma in realtà i cattolici, per esempio, hanno fatto da molto tempo questo lavoro di traduzione, perché fanno riferimento (già da san Tommaso) a principi razionali, accettabili anche da chi
non ha la fede.

Quindi possiamo dire che sia Habermas che Rawls evidenziano un punto importante, ma danno anche ad esso svolgimenti fuorvianti, perché in realtà ciò che essi chiedono è qualcosa che avviene normalmente; per il semplice fatto che sarebbe controproducente, per i cittadini credenti, argomentare nella sfera pubblica basandosi su argomenti di fede. Ma torniamo alla questione del rapporto tra principi politici della democrazia e controversie valoriali. Dopo aver attraversato queste riflessioni, come possiamo affrontarle?

3. Principi e conflitti: una proposta e alcuni esempi

Il punto fondamentale sul quale mi sentirei di insistere è il seguente: ogni pretesa o rivendicazione circa il modo in cui lo Stato debba normare questioni controverse dovrebbe essere innanzitutto compatibile, se vuole essere presa in considerazione, con i principi fondamentali di libertà ed eguaglianza sui quali la democrazia si basa, e con i diritti intangibili degli individui che essa riconosce. Quindi i principi dovrebbero avere in primo luogo una funzione di filtro: ciò che è incompatibile coi principi non può essere accolto. E in secondo luogo una funzione di filo conduttore: cercare soluzioni che siano coerenti con questi principi. L’ancoraggio a questi principi non negoziabili dello Stato democratico costituisce già un primo e sicuro filo conduttore per capire come alcune questioni controverse possano essere affrontate, ovvero come il dissidio valoriale possa essere superato senza assumere la prospettiva di una visione etica controversa e dunque senza tradire l’esigenza di neutralità.  Il punto veramente importante, a mio avviso, è che la via migliore per affrontare il conflitto valoriale, in tutti i casi in cui ciò sia possibile, è quella di aggirarlo in quanto conflitto etico-religioso ed approcciarlo invece dal punto di vista di quei principi politici (come libertà ed eguaglianza) che tutti i cittadini di uno Stato democratico devono riconoscere.

Alcuni esempi. Pensiamo per esempio a una questione che storicamente è stata (o è ancora) assai polemogena come quella circa la liceità della interruzione volontaria di gravidanza. Apparentemente ci troviamo di fronte a un insanabile conflitto valoriale: sostenitori della sacralità della vita intrauterina contro difensori dell’autonomia decisionale della donna. Ma, utilizzando (seppure a modo nostro) il contributo del pensiero femminista, questo conflitto può essere letto anche in maniera completamente diversa: le normative proibizioniste, si potrebbe argomentare, sono incompatibili con il rispetto della eguaglianza democratica tra i cittadini (donne e uomini) perché, confermando la pretesa patriarcale e sessista che la donna sia lasciata sola e indifesa di fronte al problema della gravidanza indesiderata, e lasciando che i maschi e più in generale la società se ne disinteressino, fanno della donna un cittadino umiliato e non tutelato; mentre l’eguaglianza democratica esige che uomini e donne siano tutelati parimenti, sebbene in modo diverso e specifico come diversi sono i loro corpi e le loro esigenze. Non ci troviamo dunque di fronte (solo) a un conflitto di valori “morali”, ma alla messa in questione di un modello di società (ineguale e assai poco morale) pensata a misura del privilegio maschile. E’ anche vero però che così il conflitto valoriale viene solo parzialmente disinnescato.

Un ragionamento analogo si potrebbe fare, per esempio, per quanto riguarda i modi in cui le leggi dello Stato regolano il matrimonio: se pratiche come la poligamia o il ripudio della moglie non vengono consentite, ciò non vuol dire che si opti per una impostazione più vicina alla visione cristiana che a quella islamica. La questione è semplicemente che qualsiasi regolazione del matrimonio da parte dello Stato democratico deve essere compatibile con la parità e la pari dignità dei contraenti; e si può argomentare (anche se non è questa la sede per farlo; e anche se sono indubbiamente possibili argomenti contrari) che la poligamia e il ripudio sono istituti incompatibili con questa pari dignità.

Un simile punto di vista può anche essere molto fecondo, come ha mostrato Jürgen Habermas nel suo libro sul Futuro della natura umana, per affrontare alcune questioni bioetiche che sono oggi (o potrebbero presto diventare) drammaticamente controverse. Supponiamo per esempio che una coppia di genitori desideri ricorrere a un intervento di manipolazione genetica di tipo “migliorativo” per ottenere un figlio con le caratteristiche da essi desiderate; ciò non dovrebbe essere consentito, secondo Habermas, perché verrebbe a determinare un rapporto asimmetrico tra individui manipolanti e individui manipolati che non sarebbe compatibile con la parità di diritti tra i cittadini che costituisce una delle condizioni basilari ed essenziali della democrazia: “Il primo uomo che determinasse a propria discrezione un altro uomo nella sua costituzione naturale, non distruggerebbe forse anche quelle eguali libertà che sussistono tra pari proprio per assicurare la loro diversità?[15].
Questo esempio non è importante per i contenuti, sui quali si può dissentire o essere d’accordo, ma per il metodo: se si ragionasse a partire da due visioni della vita umana (sacra e intoccabile per i credenti, non così per gli utilitaristi) ci si troverebbe in una difficilissima impasse, che invece si può superare se si guarda a un determinato dilemma dal punto di vista dei principi doverosamente condivisi, in questo caso l’idea che l’associazione politica sia formata da cittadini liberi ed eguali.

4. Conclusioni (e compromessi morali)

Possono anche darsi dei casi, per esempio, in cui il disaccordo può essere appianato facendo in modo che ognuno possa regolarsi secondo la sua visione (ad esempio lo Stato potrebbe riconoscere più forme di matrimonio o di unione, ispirate a visioni diverse, purché restino dentro i paletti costituzionali e siano compatibili con la libertà ed eguaglianza tra i cittadini). Oppure vi possono essere soluzioni propriamente multiculturaliste, cioè aperte all’idea di legislazioni separate che si applicano alle diverse comunità che dello Stato fanno parte. Per esempio: si prescrive a tutti un certo modo di uccidere e macellare gli animali, ma si fanno delle eccezioni per chi appartiene a tradizioni culturali diverse (per esempio per chi chiede di macellare la carne al modo ebraico o musulmano). In generale, però, le soluzioni “multiculturaliste” potrebbero non essere in sintonia, almeno a mio avviso, con un’ottica democratico-deliberativa, perché finiscono per costringere gli individui a scegliersi un’identità o una appartenenza comunitaria, anche quando non lo vorrebbero o non ne sentirebbero per niente il bisogno.

Molto più coerente mi sembra, invece, il punto di vista sostenuto da un teorico della democrazia deliberativa come James Bohman: il rispetto di tutti che è essenziale alla democrazia laica richiede, in caso di controversie profonde o al limite intrattabili, che si eviti quanto più possibile di procedere con decisioni di maggioranza, e che invece si realizzino soluzioni dove ogni punto di vista abbia dato il suo contributo, e che Bohman definisce “compromessi morali”[16]. A mio modo di vedere anzi, e qui dissento dall’opinione che si è affermata negli ultimi anni soprattutto in Italia, la ricerca di soluzioni condivise, soprattutto nei campi valorialmente delicati (ma non solo), è molto più democratica della decisione a colpi di maggioranza. Come ha ben scritto il costituzionalista Stefano Ceccanti[17], “le maggioranze possono decidere (anzi talvolta devono farlo) ma sapendo che su questi temi […] devono non sacrificare completamente le ragioni dell’altro, ma cercare un bilanciamento fra valori, un equilibrio di soluzioni, avendo di mira la coesione, non la contrapposizione, il compromesso fra concezioni etiche diverse, non la vittoria dell’una sull’altra”. I genuini conflitti valorizzi rimandano a una complessa dialettica tra diritti delle maggioranze e pari rispetto delle convinzioni di ciascuno; e proprio perché non ammettono soluzioni semplicistiche ci portano a riflettere su quanto sia importante un aspetto che la democrazia maggioritaria rischia invece di lasciare in secondo piano, e cioè la necessità di ricercare, attraverso un delicato equilibrio di conflitto e dialogo, soluzioni che siano quanto più possibile condivise.

Analisi del testo:

[1] Le riflessioni contenute in questo scritto riprendono in parte
quelle presenti nel volume Democrazia (Einaudi, Torino 2014) e nel saggio Democrazia
deliberativa e conflitti culturali
, in Democrazia. Storia e teoria di un’esperienza filosofica e politica, a cura di C. Altini, Il Mulino, Bologna 2011, pp. 325-339.

[2] Vedi anche Habermas, Tra scienza e fede, Laterza, Roma-Bari 2006, p. 28, dove dà la sua definizione di neutralità; cfr. anche p. 37. Vedi anche la citazione di Audi a p. 30.

[3] Cfr. J. Habermas, Ch. Taylor, Multiculturalismo, Feltrinelli, Milano 1998, p. 84.

[4]  Cfr. ad esempio il commento di Max Penski al libro di S. Benhabib, The Claims of Culture, in “Contellations”, XI (2004) 2.

[5] Cfr. M. Sandel, Il discorso morale e la tolleranza liberale: l’aborto e l’omosessualità, in A. Ferrara (a cura di), Comunitarismo e liberalismo, Editori Riuniti, Roma 1992, pp. 251-273.

[6]   J. Rawls, Liberalismo politico, Edizioni di Comunità, Milano 1994, p. 184.

[7]   J. Habermas, Tra scienza e fede, cit., p. 33.

[8]   Ivi, p. 34.

[9]   Ivi, p. 39.

[10] Ivi, p. 41.

[11] Ivi, p. 42.

[12] Ibidem.

[13] Ivi, p. 43.

[14] Ivi, p. 212.

[15] Ivi, p. 112.

[16]  J. Bohman, Public Deliberation. Pluralism, Complexity and Democracy, Mit Press, Cambridge (Mass.) 1996, p. 104.

[17]  S. Ceccanti, Laicità e istituzioni democratiche, in G. Boniolo (a cura di), Laicità. Una geografia delle nostre radici, Einaudi, Torino 2006, pp. 27-46: 42.