Discutendo di capitalismo e socialismo
di Stefano Petrucciani
Nella fase più radicale del suo pensiero, tra la fine degli anni Trenta e l’inizio dei Quaranta, Max Horkheimer sosteneva che non aveva senso parlare di fascismo se non si voleva parlare anche di capitalismo. Il primo, per lui, era palesemente un frutto del secondo. In tutt’altro senso noi potremmo dire oggi, accingendoci a commentare gli ultimi lavori di Nancy Fraser, che non si può parlare di socialismo senza parlare di capitalismo, perché è appunto contro i mali e le storture del capitalismo che facciamo ricorso all’idea di un assetto economico-sociale diverso, che chiamiamo socialismo.
Oggi tuttavia è necessario, se si vogliono toccare questi temi, porsi un quesito piuttosto radicale, e cioè: ha ancora senso utilizzare, nel contesto delle società ipercomplesse della contemporaneità, i termini di capitalismo e socialismo? Sono essi ancora utili per comprendere e magari criticare il mondo in cui ci troviamo a vivere?
A qualcuno questa domanda potrebbe apparire bizzarra: sembra evidente, infatti, che il capitalismo (con le sue crisi, purtroppo) ci circonda da ogni parte, e anzi è divenuto globale come non mai. Quanto al socialismo, non possiamo dire che esso goda oggi di buona salute; però, se non vogliamo indulgere troppo al pessimismo, dobbiamo anche riconoscere che è vero quello che Nancy Fraser ci ricorda, e cioè che da più parti (anche se Sanders e Corbyn sono un po’ in ribasso) si levano voci politiche che si richiamano a idee socialiste. È necessario però guardare un po’ più a fondo dietro queste considerazioni perché, se è vero che parlare oggi di socialismo è complicato, anche mettere a tema il “capitalismo” è meno facile di quanto possa sembrare, e la stessa Nancy Fraser ne è certamente ben consapevole.
Proviamo dunque a chiederci: di cosa parliamo quando parliamo di capitalismo? Certamente tutti sappiamo che, nell’economia delle nostre società, le imprese capitalistiche (di produzione, di distribuzione, finanziarie ecc.) hanno un peso notevolissimo; ma è sufficiente questa constatazione per giustificare l’affermazione che quella in cui viviamo è una “società capitalistica” o, più semplicemente, che il nostro mondo sociale può essere qualificato come “capitalismo”? A me sembra che in proposito sia lecito nutrire molti dubbi. Anche se ci volessimo limitare al terreno economico, alla fornitura di beni e servizi, risulterebbe evidente che, in società come quella italiana (per esempio), una grande quantità di beni e servizi passa attraverso la mano pubblica, altri attraverso il terzo settore, le relazioni informali ecc. Il capitalismo dunque non è neppure tutta l’economia. E perché dovremmo assumerlo allora come centrale per definire la nostra società? Potremmo dire che se la nostra è, dal punto di vista economico, una società largamente capitalistica, dal punto di vista politico è una società liberal-democratica, dalla prospettiva dei costumi e dei modi di vita è una società postmoderna. Perché mai, allora, parlare di “capitalismo”?
Dal mio punto di vista si potrebbe dire, in modo del tutto sommario, che il capitalismo è certamente una grande potenza della modernità, ma non la esaurisce. Marx, del resto, non parla quasi mai di capitalismo. E anche tra i marxisti contemporanei regna una certa cautela su questo punto. Eric Olin Wright, per esempio, pur facendo ampio uso del concetto di capitalismo, sostiene che nelle economie delle società moderne sono presenti molti elementi non capitalistici. E allora perché continuare a parlare, in modo totalizzante, di capitalismo? Non essendo per niente inconsapevole del problema, Nancy Fraser propone di affrontarlo in una prospettiva nuova e originale. Per lei, possiamo parlare di capitalismo in quanto questo concetto non designa soltanto un modo di produrre e distribuire la ricchezza, ma quello che ella chiama un “ordine sociale istituzionalizzato”; nel senso che l’esistenza di imprese capitalistiche si basa e si salda con una serie di condizioni che la rendono possibile, e che secondo Fraser si possono ridurre a quattro dimensioni fondamentali, che qui riassumiamo.
1.L’esistenza di una sfera della riproduzione sociale separata da quella della “produzione” dove si svolgono, in gran parte grazie a lavoro non pagato, tutte quelle attività di riproduzione e di cura che il capitalismo non retribuisce, ma senza le quali non sarebbe possibile.
2.L’esistenza di una sfera di servizi o di beni forniti dallo Stato o dai poteri pubblici (dalla polizia, alla scuola, alle infrastrutture di trasporto e di comunicazione ecc.) senza la quale il capitalismo non potrebbe esistere.
3.L’esistenza di un ambiente naturale che fornisce alla produzione capitalistica risorse sfruttabili che questa non paga, ma che consuma e che in molti casi fa deperire (pensiamo per esempio all’inquinamento ambientale) scaricando i costi di questo deperimento sull’intera collettività.
4. Processi di mera appropriazione o privatizzazione da parte dei capitalisti di risorse esistenti, che essi non hanno prodotto ma che costituiscono la base per i processi di accumulazione capitalistica propriamente detta (come le appropriazioni coloniali, oppure come le enclosures, cioè la privatizzazione delle terre di cui parla Marx nel Capitale, e i suoi equivalenti contemporanei).
Il capitalismo come lo pensa Fraser, dunque, è un sistema articolato che certamente gira intorno alle imprese la cui finalità è l’accumulazione, ma che include anche necessariamente le dimensioni che qui sopra abbiamo ricordato. Ma questo concetto “allargato” di capitalismo è sufficiente per rispondere alle perplessità che abbiamo sollevato all’inizio di questa breve riflessione? Verrebbe quasi da dire che la risposta dipende molto dal modo in cui scegliamo di atteggiarci come osservatori. Fraser mette insieme questi diversi aspetti in un quadro compatto, al quale dà il nome di “capitalismo”. Da un punto di vista diverso si potrebbe anche dire però, che questa compattezza non sussiste, e che il quadro è più contraddittorio e frammentato di quanto a Fraser non appaia. Da un lato infatti si potrebbe sostenere che alcune delle condizioni evocate da Fraser, come per esempio lo sfruttamento del lavoro domestico e di cura svolto dalle donne, sono essenziali per il capitalismo storico come lo abbiamo concretamente conosciuto, ma forse potrebbero anche essere superate senza che venisse meno il capitalismo. Da un altro punto di vista si potrebbe osservare che tutta la dimensione dell’economia pubblica e del welfare può essere letta certamente come qualcosa di funzionale alla sopravvivenza e alla prosperità del capitalismo (perché gli consente di pagare salari più bassi), ma si potrebbe anche concettualizzare in modo opposto; e cioè come lo sviluppo e la presenza forte, già nelle nostre società, di elementi non capitalistici.
Lasciando perciò aperta la questione di cosa si debba intendere per capitalismo, veniamo ora a quella, non meno impegnativa, del socialismo. In un certo senso, il punto che mi sembra si debba sollevare è sempre il medesimo: è utile ragionare dentro uno schema oppositivo totalizzante, che vede da una parte “il” capitalismo e dall’altra “il” socialismo? O è preferibile invece adottare una visione più duttile?
Tenendo presente questa domanda, vediamo quali sono le indicazioni che Fraser lancia in questa sua prima e per ora solo abbozzata riflessione sul socialismo nel XXI secolo.
Un punto che mi sembra centrale è quello che nel testo di Fraser viene espresso con la formula secondo la quale, in un mondo socialista, ci dovrebbero essere “niente mercati in cima, niente mercati alla base, ma possibilmente qualche mercato nel mezzo” [ref] N. Fraser, Cosa vuol dire socialismo nel XXI secolo?, Castelvecchi, Roma 2020, p. 43. [/ref]. Il senso della formula, in prima approssimazione, è molto chiaro: “alla base” significa che i beni e servizi essenziali (“riparo, vestiario, cibo, educazione, sanità, trasporti, comunicazioni, energia, tempo libero” [ref] Ivi, p. 44.[/ref]) dovrebbero essere considerati come qualcosa che la società è impegnata a produrre e a fornire ai cittadini a prescindere dalle loro risorse monetarie. “In cima” significa che la destinazione del plusvalore sociale dovrebbe essere deliberata attraverso processi democratici e di pianificazione collettiva. “Nel mezzo” significa che in molti ambiti della vita sociale potrebbero svilupparsi mercati di beni e servizi, sui quali sarebbero attive imprese di vario genere, preferibilmente di tipo cooperativo. Queste indicazioni mi sembrano largamente condivisibili. E anche a partire da esse mi pare si possa confermare la suggestione che ragionare in termini olistici, di contrapposizione tra capitalismo e socialismo, è troppo schematico. Per esempio, la fornitura non mercantile di beni e servizi essenziali, in molti Paesi, ha già assunto dimensioni cospicue, certo attraverso duri conflitti. E questo significa che aspetti di socialismo sono già con noi, anche dentro quello che si vorrebbe chiamare capitalismo. Ma persino sul livello più alto, quello che riguarda la destinazione del plusvalore sociale, la democrazia potrebbe già oggi, nel capitalismo, far sentire forte la sua voce, per esempio orientando nella direzione voluta gli investimenti e lo sviluppo. In linea di principio ciò è perfettamente possibile, anche se politicamente non è certo facile.
Quello che voglio dire, in sostanza, è che viviamo già in mondi sociali che sono profondamente complessi e “misti”, dove il capitalismo convive già con realtà e principi ad esso irriducibili. E in questo spazio si può muovere, se ne ha la capacità, la politica socialista, auspicabilmente liberata da approcci totalizzanti. D’altra parte quello che è anche importante sottolineare, dal mio punto di vista, è che, quando parliamo di socialismo, dovremmo far riferimento non solo e non tanto a concrete forme di organizzazione sociale, ma anche, e in primo luogo, ai principi ai quali le forme concrete di organizzazione devono essere ispirate. Principi che il socialismo, marxiano e non marxiano, ha sempre rivendicato da quando è apparso sulla scena europea: il contrasto a tutti i privilegi e le ineguaglianze prive di giustificazione, e lo spirito di solidarietà tra le persone da opporsi a quello dell’antagonismo e della sopraffazione. È su questi principi che si è sempre costituito quello che del socialismo è stato l’aspetto più veritiero, cioè non già la progettazione di ottimi mondi futuri ma la critica trasformativa di ciò che non va nel tempo presente.