Dopo il libro
Roberto Revello
Nonostante sia una science fiction di fine anni sessanta, mi sembra che uno degli aspetti che rendono 2001 odissea nello spazio un film profetico insuperabile stia nella propria visione ironica delle grandi trasformazioni dell’uomo e della tecnica. Tutto questo percorso “verso Giove e oltre l’infinito” è in qualche modo eterodiretto da un misterioso monolite perfettamente levigato dall’incomprensibilità. Se guardiamo alle grandi trasformazioni tecniche (e mai meramente tecniche) della storia umana, ci accorgiamo in effetti che chi l’ha vissute, e ne è stato magari anche un attore importante, non ne ha mai capito la vera portata e non ne ha di certo intuito gli sviluppi, sempre sovraderminati in relazione alle intenzioni degli eventuali inventori stessi (qui un altro intramontabile avrebbe da dire la sua: Hegel).
Nel suo recente libro Dopo Dio, Sloterdijk ha giustamente ricordato la fortuna di Lutero e della sua Riforma. Semplificando certo un po’, le sue intenzioni oggi le definiremmo “salafite”, ma hanno avuto la fortuna di incontrare personaggi del calibro di Melantone, Bach, Schweitzer… che le hanno trasformate potentemente facendo della Riforma un evento il cui significato che noi oggi gli riconosciamo è, rispetto alle sue origini, uno sguardo sovradetemrinato dal suo sviluppo non prevedibile e non determinato dalle intenzioni originarie. Sloterdijk non menziona però un qualcosa che non è un essere umano ma che certamente ha determinato sviluppi ben più imprevisti: la stampa. La stampa è stata una tecnologia, o meglio molte tecnologie, con conseguenze che vanno ben al di là di ciò che Lutero poteva pensare appoggiandosi a essa per produrre le bibbie in volgare.
Non penso, dicendo ciò, che ci sia un determinismo tecnologico, ma mi sembra molto probabile, dalla situazione che stiamo vivendo oggi con la “grande trasformazione” dell’informatica e del digitale, che le nostre affermazioni e i nostri atteggiamenti nei loro confronti, come contemporanei di tutto ciò, verranno prese in futuro con molta ironia. Ed è chiaramente un augurio, perché vorrà dire che non solo ci sarà un’umanità ancora pensante e disponibile alla più importante manifestazione di intelligenza ed etica, l’umorismo, ma quell’umanità avrà riallineato la “dissociazione culturale” di cui parla Gilbert Simondon (Psicosociologia della tecnicità) e che è tipica dei momenti di forte innovazione tecnica: una scollatura tra una cultura ancora legata a tecniche precedenti e una civiltà tecnicamente più avanzata non ricompresa da essa, con tutte le conseguenze negative che questo sfasamento crea.
Un esempio del fatto che disponiamo di tecnologie che, almeno all’inizio, non sappiamo usare e sviluppare – proprio come l’osso di 2001, nella mano impacciata dell’uomo scimmione… – mi viene dalla mia professione editoriale, in merito ai famigerati ebook. Che non sono un osso scagliato nel futuro, ma un osso rosicchiato. Quando venne il cinema ce ne volle un po’ per capire che non era teatro né solo fotografia, ma che era il montaggio la regina delle possibilità di questa arte. Il digitale mette in questione moltissimi aspetti dell’editoria, con ciò non credo affatto che “editoria digitale” sia semplicemente un ossimoro, ma certo è qualcosa di totalmente diverso dall’editoria stampa. Gli ebook che produciamo ora sono, in maggioranza, solo una risposta di rimozione di questo trauma. A parte il vantaggio occasionalmente utile di poter leggere qualcosa che non occupa spazio in casa o in valigia, perché preferire qualcosa di così esteticamente brutto? e non è brutto perché vuole imitare il libro stampato? L’impaginazione: una questione niente affatto solo estetica, come mostra Ivan Illich in Nella vigna del testo, è la tecnica di impaginazione del testo nella cultura scolastica che si affaccia nel XII secolo a contribuire allo sviluppo di un nuovo modo di pensare, di un concetto di autore, di autorialità, e a un rapporto diverso tra tradizione e rielaborazione. Il passaggio al libro come conosciuto dai moderni: “La pagina si trasformò, da partitura per pii borbottanti, in testo organizzato otticamente ad uso di pensatori logici. Da quel punto in poi un nuovo modo classico di leggere fu la metafora dominante per significare la forma più alta di attività sociale” (I. Illich, Nella vigna del testo, Cortina, Milano 1994, p. 2). Così oggi il concetto di autore e autorialità è, se non in via di estinzione, profondamente modificato. E altrettanto vale per il nostro modo di pensare e informare.
L’editoria libraria e la cultura libraria sarà tendenzialmente sempre più residuale negli anni a venire, ma non perché si leggeranno libri digitali. Lo si farà anche – ma forse saranno sempre preferiti di più i libri stampati – tuttavia i libri, come prodotti tecnologici, non saranno costitutivi e determinanti, non saranno loro i protagonisti della “novazione antropologica”. Autore, lettore, editore sono figure di soggetto che, se esisteranno, non si ritroveranno più in maniera importante nei confini di spazio e di tempo richiesti dal libro classico. Questo è già così da molto tempo, in realtà, anche indipendentemente dal fatto che possa continuare a sussistere la realtà industriale del libro che conosciamo, come economia retrò e di “evasione” (per evidenti interessi, mi auspico almeno un lungo tramonto, se non un’imprevista sussistenza esotica di questo mondo).
Il venire meno di questa civiltà del libro ha chiaramente una connessione profonda col problema dell’opinione pubblica e della sua relazione col potere. Nel suo libro Comunità immaginate. Origini e fortuna dei nazionalismi, ad esempio, Benedict Anderson ha descritto in maniera molto convincente il ruolo della stampa nella creazione di un immaginario nazionale (e nazionalista). Un ruolo niente affatto secondario, ma determinante, perché la formazione di una tale “opinione pubblica” non passa solo per un convincimento agito dall’esterno, ma attraverso una plasmazione interna, la formazione di nuove menti, modi di pensare, di interagire e di percepire le cose.
La nuova opinione pubblica che emerge dalla rivoluzione tecnologica che stiamo vivendo ci lascia sconcertati per la sua impermeabilità ai discorsi canonici della modernità che modellavano la progettualità politica “illuminista” e progressista efficace ancora negli ultimi decenni del Novecento. Se un tempo proprio l’opinone pubblica poteva ambire a essere ciò che Habermas indicava come spazio discorsivo dialogico garante di una società democratica, è attualmente evidente la sua trasformazione retorica in ciò che De Certeau (La pratica del credere) aveva attribuito lacanianamente ai sondaggi: un “soggetto supposto sapere”, mera passività ideologica. Proprio in questo senso, resta allora utile l’indicazione di Giovanni Sartori che, non a caso, distingueva tra un’opinione pubblica “al negativo”, come opinione nel pubblico, portatrice di valori precostituiti, di ideologie dei gruppi di riferimento, e una “al positivo”, spazio informativo, partecipativo, come opinione del pubblico. Indubbiamente, se in futuro potrà rinascere un senso della democrazia sarà in virtù di una predominanza di questo secondo tipo di opinione pubblica, una riattivazione di questa circolazione attiva, di questo confronto di motivazioni, ragionamenti, saperi.
Gli aspetti complessi e ambivalenti sono davvero molti. Se l’opinione pubblica “al positivo” sembra depotenziarsi in virtù di quanto appena detto, allo stesso tempo ha avuto un potenziamento enorme quella “al negativo”, nei termini di una vera e propria “sussunzione del reale”. Non solo in virtù del condizionamento di massa, virale, consentito dalla società telematica attuale. Sembra infatti che la figura del sapere stesso come critica e spiegazione sia minacciato di essere messo in cantina: qualcuno ha sostenuto per davvero che i “big data” rivoluzioneranno tutto perché il sapere diventa ora semplicemente un mostrare esattamente la realtà. Terminerebbe dunque anche la millenaria lotta tra filosofi e sofisti, ma nascondendo che è la manipolazione a trionfare con mezzi ben più potenti del “discorso retorico” del sofista. Nonostante uno sguardo critico sulla costruzione informatica e il suo trattamento dei dati avrebbe gioco facile nell’individuare l’arbitrarietà dei criteri di raccolta, di trattamento e di interpretazione delle informazioni, “invece di formulare ipotesi e cercare di verificarle in maniera empirica, gli apprendisti stregoni dei big data commerciali suggeriscono ai decisori politici, militari e comuni cittadini che non c’è bisogno di alcuna riflessione, non è il caso di preoccuparsi del quadro generale, non è necessario alcuna dialettica democratica, perché i dati parlano da sé, basta saperli interrogare e ascoltare” ( Ippolita, Tecnologie del dominio. Lessico minimo di autodifesa digitale, Meltemi, Milano 2017, p. 31). Non ci sarebbe così un’opinione pubblica positiva, che sia politica e contribuisca alle decisioni, ma solo una negativa, passiva, da sussumere nei “dati”.
A parte il disorientamento epocale, credo che ogni atteggiamento passatista, luddistico sia moralmente e politicamente negativo. L’urgenza è quella di “liberare la tecnologia” dalla sua oppressione, dal suo istupidimento. Ad esempio, chissà che, sempre nel futuro, qualcuno non si interrogherà perché mai milioni di esseri umani mettessero gratuitamente a disposizione i dati della loro vita a dei colossi industriali liberi di farne un gigantesco trattamento da cui trarre enormi profitti economici. Chissà se considereranno con stupore come l’“opinione pubblica”, in gran parte sclerotizzata da quei sistemi stessi, si concentrasse su problemi di criminalità, sovranismo, ecc., senza interrogarsi invece sui veri fattori che stavano condizionando la loro vita e il loro futuro prossimo, limitandosi ad alimentarli passivamente. Non sono neanche convinto che le nuove generazioni attuali e quelle future saranno costrette a perdere il lascito della civiltà umane passate, al contrario. Quell’uomo scimmione che aveva imparato a scagliare un osso contro il suo nemico vive in noi, ibridato nelle nostre tecnologie e magari pronto a riaffiorare più prepotentemente in determinate situazioni (come mostra il fenomeno degli haters nei social, del resto). Lo stesso vale però per quella creatura meditativa che nel XII secolo inaugurava la nuova cultura del libro. Deve restare, nei nostri strati umani, ibridato.