Enrique Dussel 

Le metafore teologiche di Marx

Inschibboleth Edizioni, Roma 2018, pp. 400, € 28,00

“Le metafore teologiche di Marx” del filosofo e teologo latinoamericano Enrique Dussel ci pone sin dal titolo di fronte ad una contraddizione: non siamo forse abituati a considerare il pensiero di Marx come totalmente ateo e quindi nemico della religione? Questo conflitto del resto ha generato rivalità storiche dall’aura quasi mitica come quella tra i partiti comunisti e quelli cristiani, immortalata poi in letteratura dalle figure di don Camillo e Peppone, emblemi di due mondi inconciliabili. Con questo libro, pubblicato in Spagna nel 1993 e tradotto solo ora in Italia, Dussel ci mostra che questa dicotomia non è poi così cogente. Il volume è il quarto di un grande progetto di lettura e di commento delle opere economiche di Marx il cui rigore, come scrive Antonino Infranca nella prefazione al volume, ricorda molto da vicino quello dei commenti di Tommaso d’Aquino alle opere di Aristotele.

Dussel rintraccia nell’opera di Marx un uso sistematico di metafore teologiche: il teorico del comunismo si rivela infatti essere un profondo conoscitore del Nuovo e del Vecchio Testamento; egli utilizza continuamente immagini prese in prestito dalle Scritture per descrivere le dinamiche che regolano l’economia capitalistica e per sottolinearne le conseguenze ‘morali’. Ciò non ci deve stupire, dal momento che gli studi di teologia giocarono un ruolo importante nella formazione del giovane Marx: in gioventù fu luterano di orientamento pietista e prima di abbandonare l’Università di Bonn si apprestava a diventare professore associato del teologo Bruno Bauer. Secondo Dussel questi riferimenti biblici non sono casuali, ma ci permettono di ricostruire una sorta di teologia implicita marxista che si trova inaspettatamente in linea con il Cristianesimo delle origini: ed è così che si scopre che il prete e il comunista non sono poi così lontani.

Ciò che lega il capitalismo alla religione è il feticismo, al quale Dussel dedica la prima parte del libro; si tratta di un concetto che attraversa tutta l’opera di Marx dal tema di licenza liceale sino alla terza redazione del Capitale, in cui la questione raggiunge la sua formulazione più compiuta. Nei primi tre capitoli Dussel analizza nel dettaglio questo percorso teorico, che considera una vera e propria ‘critica religiosa dell’economia politica’[1].

Il feticismo si definisce come quel meccanismo ideologico in cui ‘i prodotti del cervello umano paiono figure indipendenti, dotate di vita propria’[2] e sottende sia la religione che l’economia. Nella prima ad essere feticizzata è la divinità che, creata dall’uomo, finisce per regolarne l’esistenza in ogni sua componente; nel capitalismo invece è il denaro che da semplice mezzo di scambio diviene fine ultimo di tutto, idolo a cui ogni cosa viene sacrificata, esattamente come il Moloch biblico che Marx cita innumerevoli volte nei suoi scritti. Questa feticizzazione del denaro imprigiona l’individuo, la cui esistenza diviene alla stregua di una cosa, ed è conseguenza di un carattere ‘sociale’ del lavoro, cioè di un sistema che guarda unicamente all’interesse privato, senza considerare il bene della comunità.

Marx ha bisogno di utilizzare metafore teologiche per descrivere il capitalismo perché esso altro non è che una religione, il cui culto è il mercanteggiare e la cui divinità è il capitale (come Mammona del Nuovo Testamento), un dio che si pone da sé e che pretende di auto-crearsi dal nulla. Questo culto ha i suoi asceti nei capitalisti stessi, che perseguono la loro ‘caccia al tesoro eterno’[3] con rigore e disciplinata rinuncia, esattamente come avveniva nel puritanesimo inglese e nel protestantesimo olandese.

Il feticismo rappresenta il contrario della scienza intesa come studio delle relazioni sociali ed economiche, è un’astrazione vuota in cui il relativo viene assolutizzato, dal momento che in essa il capitale, pur essendo frutto di precise relazioni sociali ed economiche, si presenta come sciolto da tutto, cioè sacro (nel senso etimologico di ‘separato’). Il feticismo riguarda il capitale come sistema: per questo nel terzo capitolo Dussel analizza i feticismi della merce, del denaro, del salariato, dei mezzi di produzione, del prodotto e della circolazione, ovvero di tutti quelli elementi che compongono la grande macchina capitalistica.

Una volta fornita questa cornice teorica è con la seconda parte del volume che entriamo nel vivo della questione: qui Dussel mostra nel dettaglio le metafore teologiche di Marx che permettono lo strano connubio tra economia e religione. La metafora non ha il valore di una prova scientifica, ma è uno strumento che aiuta a mettere in relazione elementi apparentemente diversi: ci permette di vedere la realtà in maniera più ricca, mostrando i legami tra mondi che sembravano irrelati. E’ possibile quindi tradurre con Marx l’assetto economico moderno in linguaggio teologico: il capitale (inteso come accumulazione originaria) non è altro che il ‘peccato originale’ della nostra epoca, ovvero ciò che giustifica il dominio dei capitalisti sui proletari presentando come naturale ciò che invece è una situazione economico-sociale. Il denaro è un Anticristo, un feticcio con il volto trinitario del profitto, della rendita e del salario, una divinità demoniaca alla quale viene sacrificato non l’evangelico ‘pane di vita’, ma quello macchiato del sangue dei lavoratori: il capitalista infatti si arricchisce sfruttando il proletario, per il quale il lavoro non è più quello ‘vivo’ in cui può esprimere la sua energia vitale, ma un ‘castigo’ senza senso.

Qual è la via d’uscita da questa religione immorale? Marx propone di sottrarre vita all’idolo-denaro, mostrandone l’inconsistenza: si tratta di un ‘ateismo del feticcio’ che Dussel pone in linea con quello di profeti come Elia, Isaia, Mosè, i quali distruggevano gli idoli per condannare l’ingiusto sistema dominante. E’ questa la via che per Dussel deve seguire il cattolico di sinistra, al quale si rivolge il libro. Se il capitale è l’Anticristo dobbiamo concludere che il cattolico non può essere contemporaneamente cristiano e capitalista, adorare Cristo e il denaro: “Non potete servire a Dio e a Mammona”[4], ammoniva Gesù. Il cristiano deve prendere coscienza di questa contraddizione per opporsi al capitale e disconoscere il dio denaro, deve tornare in coerenza con se stesso riaffermando l’autenticità dell’unica Trinità possibile. Questo del resto è il progetto della Teologia della Liberazione di cui Dussel è uno dei teorici: partire dal messaggio di Cristo per liberare gli ultimi, con uno spirito coerente con le intenzioni di Marx.

Dussel ha iniziato a lavorare a ‘Metafore teologiche di Marx” poco prima della caduta del muro di Berlino, evento dopo il quale ritiene si debba guardare a Marx con attenzione ancora maggiore, data l’affermazione del capitalismo come sistema dominante che va sottoposto a critica. Il filosofo latinoamericano esplicita infatti nell’ultimo programmatico capitolo del libro (intitolato ‘Dall’ “economica” alla “pragmatica” ’) che il comunismo non è la gabbia teorica di un progetto politico da realizzare in toto, ma un ideale regolativo a cui dobbiamo aspirare per una società più equa, un indispensabile strumento di critica. In questo modo Dussel riesce nel difficile compito di liberare Marx dal feticcio che ne aveva fatto il comunismo sovietico.

E’ bene a questo punto chiedersi perché questo libro esca solo ora nel nostro Paese e soprattutto se possa considerarsi a noi utile un’opera che proviene da uno stato latinoamericano, in cui la religione cattolica ha un peso maggiormente rilevante rispetto all’Italia di oggi. Il libro di Dussel coniuga infatti due aspetti (Cristianesimo e comunismo) che non sembrano più far parte della nostra vita e ci pone dinnanzi ad una strada che in Occidente non è stata intrapresa: dopo l’89 infatti abbiamo assistito in Europa ad un declino dell’incisività marxista sulla vita politica, con il dominio del liberismo e l’imporsi di una globalizzazione dei mercati di cui forse solo ora stiamo vivendo le estreme reazioni politiche. Proprio per via di questi sconvolgimenti odierni questa strada finora trascurata potrebbe rappresentare l’ispirazione per qualcosa di diverso, nonché l’occasione per abbandonare il nostro caro eurocentrismo, cercando fuori dal Vecchio Continente i fondamenti teorici di un’alternativa politica che finora non sembrava essere nemmeno pensabile; e forse non è un caso che una certa sinistra nostalgica guardi proprio all’argentino papa Francesco come modello e inaspettato custode dello spirito di una sinistra ormai perduta.

Giacomo De Rinaldis

[1] E. Dussel, ‘Le metafore teologiche di Marx’, p. 170.

[2] Ivi p. 127

[3] Ivi p. 111

[4] Mt 6, 24.