Homo pandemicus

Ideologia COVID e nuove frontiere del consumo.

Di Fabio Vighi (Università di Cardiff)

L’attuale emergenza sanitaria dovrebbe suggerirci una riflessione sul potere dell’ideologia in un’epoca troppo frettolosamente definita post-ideologica. La caduta del muro di Berlino, ça va sans dire, non ci ha liberati dalle ideologie. Piuttosto, il sentirci affrancati da pressioni ideologiche ci rende vulnerabili a un non-pensiero unico tarato sull’anonima brutalità del calcolo economico. Con la globalizzazione e l’emancipazione dalle Grandi Narrazioni ci siamo consegnati a forme sempre più subdole di manipolazione che intercettano la dimensione viscerale del nostro essere. La dissoluzione dei vecchi legami simbolici ci ha proiettato nella dittatura piatta e invisibile dell’economia, contrabbandata come libertà. Questa pretestuosa libertà si risolve, essenzialmente, nell’obbligo di produrre e consumare valore (merce).

Resistere alla potenza di fuoco dell’ideologia capitalista è sempre più arduo. La nostra info-sfera centrifuga dati, annunci e comunicati a velocità supersonica. Questi segni ci soverchiano, demolendo le nostre capacità critiche e condannandoci a uno stato di ipnosi semi-permanente. Se a volte troviamo la forza di resistere a questa sopraffazione, ci ritroviamo però ridotti all’impotenza quando si tratta di immaginare nuove configurazioni sociali in grado di garantirci uno spazio di autonomia rispetto ai rapporti socio-economici che ci definiscono. Da qui la percezione di un tempo storico insieme irreversibile e inesauribile, per cui l’intera esperienza umana ripiega in un flusso destinale dove ogni evento è posto e insieme presupposto dalla metafisica del capitale.

1. Consumo panico, ergo sum.

Per quanto all’apparenza cinico e disincantato, il soggetto contemporaneo è, come intuì Walter Benjamin[ref]Il famoso ‘frammento’, scritto nel 1921, inizia così: ‘Nel capitalismo va scorta una religione, vale a dire, il capitalismo serve essenzialmente all’appagamento delle stesse ansie, pene e inquietudini alle quali un tempo davano risposta le cosiddette religioni.’ (Walter Benjamin, Capitalismo come religione, Genova, Il nuovo melangolo, 2013, p. 41).[/ref], un credente e un praticante assiduo. L’inflessibilità della sua fede si manifesta pascalianamente[ref]Mi riferisco al famoso monito di Blaise Pascal, per cui ‘l’abitudine […] fa inclinare l’automa, che trascina l’intelletto senza che questo ne sia consapevole’, per cui è sufficiente che ‘ci si metta in ginocchio, si preghi con le labbra, ecc.’ e la fede viene da sé (Pensieri, Pordenone, Edizione Studio Tesi, 1986, pp. 93-94).[/ref], ovvero nell’atto pratico piuttosto che nel lavoro dello spirito. Se infatti la nostra vita morale è ormai scevra di militanze, quella attiva è dedicata a un unico culto: il ciclo di accumulazione del capitale. Elevato a religione universale, il capitalismo si nutre della disciplina di milioni di fedeli persuasi che il senso delle cose appartenga alla soddisfazione individualistica del potere d’acquisto, che a sua volta alimenta la pulsione errante del capitale. Per questo motivo, l’ordine subliminale di non disturbare la legge del profitto è la cifra ideologica del nostro tempo.

Ostinandosi a negare la devastante implosione strutturale che la sta attraversando, la società della “post-crescita” fa un uso smodato di sostanze ideologiche. Quando povertà e incertezza dilagano, il potere ipnotico di narrazioni salvifiche al cospetto di un nemico (il virus) spietato e ineffabile può fare autentici miracoli. Allo stesso tempo, consente di implementare un ‘Great Reset’ mirato non tanto alla ‘sostenibilità globale’ e alla ‘giustizia sociale’[ref]https://www.weforum.org/agenda/2020/08/building-blocks-of-the-great-reset/[/ref], ma a riaffermare il dogma del capitale a un più elevato regime di complessità tecnologica. Così homo pandemicus, da ultimo uomo nietzschiano qual è, sopravvive alla propria disfatta anestetizzandosi a dosi di panico.

Non possiamo dimenticare che negli ultimi decenni si è diffuso un conformismo feroce, spacciato sottotraccia come unica via alla realizzazione personale. Nel colonizzare l’inconscio, l’omologazione consumistica è divenuta sovrana, dissolvendo consolidati legami simbolici e consegnandoci al rapporto solipsistico con il Dio-capitale. La virtualizzazione delle nostre vite ha accelerato i processi di dominio reale. La paralizzante utopia del virtuale (spazio infinito dove innumerevoli agenti si incontrano per condividere e creare le loro realtà) inibisce le nostre resistenze rispetto alla deriva in corso del capitalismo autoritario. In altre parole, s’impone un’ontologia piatta e senza crepe dove il soggetto – per definizione spinto alla ricerca di legami simbolici dalla consapevolezza della propria mancanza – viene progressivamente abolito. È allora davvero ingenuo pensare che homo pandemicus possa risollevare le proprie sorti attraverso un fantomatico senso di solidarietà[ref]Questa è la posizione di Slavoj Zizek nel suo recente Virus. Catastrofe e solidarietà (Milano, Ponte alle grazie, 2020).[/ref]. Piuttosto, dobbiamo constatare che il panico da pandemia è una tipologia di consumo, e in quanto tale è armoniosamente inserito nell’architettura antropologica di homo economicus. Consumare panico è la nuova frontiera dell’ideologia capitalistica.

Il Capitale di Marx comincia con questa osservazione: ‘La ricchezza delle società nelle quali predomina il modo di produzione capitalistico si presenta come una “immane raccolta di merci”’[ref]Karl Marx, Il Capitale. Critica dell’economia politica, vol. I (Torino, Einaudi, 1975), p. 43.[/ref] . Oggi il mondo dominato dalla merce instaura, da una parte, una ferrea governance globale vincolata dalla competizione tra grandi capitali, e dall’altra un individualismo tendenzialmente ottuso che inibisce il pensiero critico e, insieme, fomenta il delirio di onnipotenza del consumatore. Se ci soffermiamo sul soggetto, noteremo un rapporto causativo diretto tra la mercificazione narcisistica dell’io, l’ingiunzione consumistica a godere, e l’interdizione del senso di precarietà ontologica (o, per dirla con poeti e filosofi, della caducità dell’essere). Gli effetti sono sotto gli occhi di tutti: da un lato il deserto culturale che avanza (conformemente alla desertificazione del pianeta), dall’altro la normalizzazione di comportamenti psicopatologici di varia entità e natura, ma tutti riconducibili all’irrigidimento di un ego sempre più incapace di allestire relazioni simboliche con l’eterna domanda che lo circonda (l’altro) e che lo abita (l’io).

Caso esemplare di reificazione è il recente omicidio di Colleferro, in cui l’individuo atrofizzato in “corpo-vetrina” (o corpo-feticcio) riduce l’altro a strumento di soddisfazione pulsionale. Così, pestare a morte un ragazzino e consumare un “apericena” al bar rientrano nello stesso (l’unico) orizzonte fenomenologico del mondo governato dalla merce. Pasolini aveva descritto lucidamente questa regressione psicologica di massa (dunque transclassista) commentando il “massacro del Circeo” (avvenuto tra il 29 settembre e l’1 ottobre 1975), giusto un mese prima di finire pure lui massacrato. Dopo quasi mezzo secolo la situazione non è cambiata, perché il modello (a)sociale propagandato come massimo ideale di libertà è, in sostanza, sempre il medesimo. Per l’individuo incapace di introspezione, per cui il rapporto con l’altro si riduce a rituali virtuali di autopromozione esibizionistica (dal sexting ai food selfies, attraverso un’eterogenea tipologia di mini-perversioni quotidiane), la vita non può che contrarsi in una serie di comportamenti meccanici e irriflessi. E dietro a questa psicotizzazione conformistica non c’è altro che la “folle razionalità” di un modo di produzione che trasforma l’intera esperienza umana in valore di scambio.

Identificandosi nell’oggetto-merce, il soggetto rescinde dunque il legame con la propria singolarità. La distanza cartesiana tra res cogitans e res extensa tende a evaporare, poiché il soggetto pensante (cogitans) si appiattisce nella vuota oggettualità (extensa) della merce, da cui non riesce più a distinguersi. La causa non è però da ricercarsi in epifenomeni quali la famiglia “scoppiata”, la tecnologia distopica, o il sempreverde “governo ladro”, bensì in un secolare processo di socializzazione fondato sul dogma della produzione-consumo di un’infinità di cose e esperienze, la maggior parte del tutto superflue. Oggi, al culmine di questo processo storico, l’individuo si ritrova non solo sempre più povero e privato di diritti fondamentali (casa, cibo, salute), ma anche cosalizzato, ovvero riprodotto serialmente quale estensione della stessa merce che consuma, o che vorrebbe consumare. Ciò che fino a qualche decennio fa creava ancora legame sociale – la cosiddetta “società del lavoro” – oggi conduce fatalmente alla decomposizione della comunità umana.

Come scrisse Ralf Dahrendorf nel lontano 1985, ‘la società centrata sul lavoro è morta, ma non sappiamo come seppellirla’[ref]Ralf Dahrendorf, Pensare e fare politica (Roma-Bari, Laterza, 1985), p. 79.[/ref] – e in effetti, aggiungiamo noi, il fetore comincia a farsi insopportabile. Rimaniamo cioè definiti dal produttivismo capitalista senza però poter più estrarre nuova ricchezza (plusvalore) da un “lavoro vivo” ormai estromesso da inarrestabili processi di automazione. Ma proprio l’individuo improduttivo e atomizzato della globalizzazione neoliberista, il soggetto “senza valore”, smarrito e infantilizzato, è oggi completamente assuefatto al dominio reale dei rapporti capitalistici. L’indole conformistica della piccola borghesia di un tempo si trasferisce oggi nell’aspirazione collettiva di appartenere a un “ceto mediocre” impegnato solo a consumare e sopravvivere, o a vivere per rimanere in vita. Solo l’essere-per-la-merce (insieme a un avvilente narcisismo fatto di palestra, addominali, tatuaggi, pilates, cardiofitness, ecc.) ci tiene uniti. Mai come ora la teologia feticistica del valore si afferma come ideologia, estendendosi a tutti i settori della vita, inclusi l’informazione, l’istruzione e la medicina.

Soggiogato a una dinamica socio-economica impersonale e autodistruttiva, dinanzi all’allarme sanitario homo pandemicus non può che barricarsi nel proprio fragile guscio e sgranare il rosario della paura, sconvolto dalla prospettiva di perdere, con la vita, il suo potere d’acquisto. Non essendo più in grado di affrontare l’angosciosa percezione della propria transitorietà – unico modo di vivere intensamente la vita, e immaginarne un reale processo di trasformazione – homo pandemicus si affida a riti apotropaici collettivi (la mascherina), trovando nel silenzio del terrore l’unico miserabile sentimento di appartenenza alla specie. Il panico si rivela dunque una delle principali forme dell’omologazione contemporanea, esprimendo null’altro che la volontà di continuare a vegetare nell’inerzia del consumo, nonostante il crollo in tempo reale della “società dell’opulenza”. Consumare panico significa ostinarsi a negare non solo l’apocalisse sociale cui ci siamo condannati, ma soprattutto la percezione della morte quale unico sentimento capace di conferire un senso alla vita, perché ‘solo grazie alla morte, la nostra vita ci serve ad esprimerci.[ref]Pasolini, Empirismo eretico (Milano, Garzanti, 2003), p. 241.[/ref]’ L’entusiasmo del vivere, l’amore per la vita, può nascere solo dall’intuizione che un giorno non ci saremo più, e dai processi simbolici che questa intuizione mette in atto.

Non è un caso che filosofi, sociologi e antropologi ci ripetano da decenni che la nostra epoca, quella del benessere materiale, ha rimosso il sentimento della morte[ref]Si veda tra gli altri Philippe Ariés, Storia della morte in Occidente dal Medioevo ai giorni nostri (Milano, Rizzoli, 1978); Jean Baudrillard, Lo scambio simbolico e la morte (Milano, Feltrinelli, 1979); Norbert Elias, La solitudine del morente (Bologna, Il Mulino, 2011); Davide Sisto, La morte si fa social. Immortalità, memoria e lutto nell’epoca della cultura digitale (Torino, Bollati Boringhieri, 2018); Robert Redeker, L’eclissi della morte (Brescia, Querniana, 2019).[/ref]. È del tutto evidente che si tratta di una rimozione ideologica, perché funzionale all’imposizione del modello falso-vitalistico della produzione e del consumo. Il dissociare la vita dalla morte caratterizza tutta la cultura moderna, perché permette la plus-valorizzazione di ogni frammento dell’esistenza. Il solo valore che (si) conta è la pseudo-vivificazione economica della vita. La rimozione del legame simbolico con la morte, ancora centrale nelle società premoderne, ha consentito all’economia politica di instaurare la socializzazione repressiva della vita attraverso la sua mortificazione a valore di scambio. Il successo dell’attuale narrazione emergenziale si alimenta di questa rimozione utilizzandone strumentalmente il ritorno, ovvero l’improvvisa riattivazione del fantasma della nostra mortalità. L’effetto-shock del memento mori da coronavirus non è infatti (almeno per ora) la solidarietà del genere umano consapevole della propria finitezza, ma il rigor mortis cerebrale di homo pandemicus, già di per sè necrotizzato dall’ossessione compulsiva per la sicurezza. Messo sadicamente di fronte alla propria potenziale dipartita causa virus, il consumatore ingrassato al culto mondano del proprio io non può che ammutolire, o balbettare (sotto la mascherina, o rinchiuso nella casa-sarcofago) una serie infinita di tragicomici luoghi comuni.

2. Ideologia oggi

La grancassa mediatica attorno alla pandemia ha gioco facile nell’inoculare il virus del panico in un corpo sociale sempre più anemico, la cui identità nasce e muore nel cerchio magico di un grottesco personalismo alimentato da un altrettanto grottesco vitalismo consumistico. La lunga storia delle relazioni sociali capitalistiche confluisce oggi nella totale mercificazione dell’essere umano, tanto iperattivo quanto psichicamente vuoto: spremuto, consumato, remissivo, e dunque consegnato inerme a facili manipolazioni. Tecnologia e politica non sono che estensioni di una forma economica di dominio globale, e della specifica alienazione ideologica che ingenera. Il loro scopo “biopolitico” (controllo della vita) è ancillare rispetto al capitale, che oggi vuole intere popolazioni docili e mansuete (ovvero isolate, insicure e impaurite) rispetto alle violente accelerazioni che le dominano.

Tra queste accelerazioni, si distinguono la digitalizzazione di tutti i settori della vita sociale (lavoro, educazione, svago, ecc.), il crollo dell’economia reale e l’espansione di quella del debito (con annessa ipertrofia della “prostata finanziaria”), la normalizzazione dello stato di emergenza, la censura dell’informazione aprioristicamente considerata falsa (da parte di orwelliani “comitati contro le fake news”), e la medicalizzazione pervasiva e invasiva della vita. Così il virus fornisce alle dinamiche del dominio capitalistico l’occasione di un colossale ricatto emotivo: o con noi (salvatori di vite), o con l’ineffabile micro-killer e le schiere di nega-complottisti (neo-nazisti, terra-piattisti, ecc.) che rischiano di farci perdere il filo del racconto. Nel frattempo, ricchezza e potere si accentrano sempre più disinvoltamente nelle mani dei soliti noti che, nel veder raddoppiati o triplicati i loro patrimoni in un batter di ciglia[ref]https://www.oxfam.org/en/press-releases/pandemic-profits-companies-soar-billions-more-poorest-pay-price[/ref] , tentano pure, con la manina filantropica sul cuore (e quella invisibile, di smithiana memoria, sul portafoglio), di farci credere che si stanno adoperando per il bene comune. Con mezzo miliardo di esseri umani finiti sotto la soglia della povertà, non ci sarà da stupirsi se, a breve, anche i morti di fame verranno spacciati per morti da coronavirus.

Irretito dalla fanfara mediatica orchestrata dai ricchi padroni della notizia, il soggetto pandemico si rifugia nella fede anziché dar voce al legittimo dubbio. Secondo numerosi test sierologici[ref]https://swprs.org/studies-on-covid-19-lethality/#overall-mortality;[/ref] , e a detta di immunologi di fama mondiale tra cui il celeberrimo Anthony Fauci (non certo un negazionista), e Michael Ryan (direttore esecutivo del programma per le emergenze dell’OMS), l’indice di mortalità del virus, considerate tutte le variabili del caso, si attesta intorno allo 0,14%[ref]Il 5 ottobre 2020 il dottor Ryan ha dichiarato che almeno il 10% della popolazione globale ha ormai contratto il COVID-19 (circa 780 milioni di persone). Secondo queste ‘stime accurate’ il rapporto tra infezione e mortalità è allo 0.14%. Si veda https://www.reuters.com/article/us-health-coronavirus-who-idUSKBN26Q1SI e https://www.cdc.gov/coronavirus/2019-ncov/hcp/planning-scenarios.html[/ref], al livello cioè di una ‘forte influenza stagionale’[ref]https://www.ncbi.nlm.nih.gov/pmc/articles/PMC7121221/[/ref] . Tradotto, ciò significa che più del 99% della “colonna infame” di manzoniana memoria (i “positivi”) continua la propria vita senza turbamenti intestinali o etciù (la stragrande maggioranza), o al limite accusando febbricole e normali sintomi influenzali. Ma i numeri non possono nulla se non vengono inseriti in una narrazione vincente. Peraltro, il brodo di coltura liberale in cui siamo immersi – “cultura” del tutto compromessa con l’attuale determinismo economico – sembra fatichi terribilmente a cogliere l’involuzione autoritaria del capitalismo contemporaneo. O, fuor di ironia: la coglie perfettamente, ma preferisce affrontarla con l’arma spuntata del falso moralismo, che rimanda tutto al solito bolso ideale del “capitalismo dal volto umano” (o meglio, ora, “dal volto mascherato”).

All’interno di questo quadro depressivo è davvero difficile ignorare l’accelerazione ideologica dell’informazione mainstream. Essa ci parla con voce sempre più unica e arrogante al fine di delegittimare chi si permette, socraticamente, di avanzare dubbi sull’uniformità della trama. Iniziative come la recente lettera aperta firmata da migliaia tra medici e operatori sanitari in Belgio – corredata da dettagliate evidenze fattuali – vengono sistematicamente ignorate dagli oligopoli dell’informazione[ref]https://docs4opendebate.be/fr/open-brief/ (varie traduzioni in italiano circolano sul web).[/ref]. Nei media imperversa un vero e proprio coprifuoco informativo, insieme a quella che Vladimiro Giacchè ha definito ‘falsa sineddoche’[ref]Vladimiro Giacchè, La fabbrica del falso (Reggio Emilia, Imprimatur, 2016).[/ref], figura retorica per cui si sceglie un frammento di realtà (spesso un dettaglio insignificante) al fine di amplificarne la percezione negativa o catastrofica.

Il dilagante autoritarismo comunicativo si concretizza poi nell’efficacia della strategia linguistica. Lemmi ripetuti come mantra o canzonette balneari (lockdown, quarantena, tampone, tracciamento, paziente zero, virologo, smartworking, curva del contagio, ecc.) umiliano ulteriormente un linguaggio già fiaccato da una storica regressione a formula magica produttrice di incantesimi. Come sottolineato da Foucault ne Le parole e le cose[ref]Michel Foucault, Le parole e le cose. Un’archeologia delle scienze umane (Milano, BUR Rizzoli, 2016).[/ref] , già dal XIX secolo il linguaggio dei moderni comincia a schiacciarsi su sé stesso, sclerotizzandosi nella forma di oggetto preposto a utilizzo tecnico-strumentale, rinunciando così alla sua vitale ambiguità umanistica, indice di insufficienza semantica e dunque di ricchezza espressiva e capacità evolutiva.

Il potere ideologico della comunicazione assiomatica e autoreferenziale erogata dai piazzisti del sapere unificato è una delle facce della rimozione di ciò che potenzialmente resiste ai processi di mercificazione: il nostro difetto ontologico. Per homo economicus, la morte del produttore-consumatore esiste solo come astrazione numerica positiva (conteggio delle salme, calcolo statistico) o come oggetto di morbosa spettacolarizzazione e accanimento mediatico – due facce della stessa medaglia. Lo scacco del non-esserci è l’esatto contrario dell’ubiquità dell’esserci-per-la-merce, che declina tutto il vissuto al tempo eterno e presentificato del valore. Ci viene ripetuto ad nauseam che la vita è sacra; ma lo è solo in quanto idolo astratto, smaterializzato e economicamente accumulabile. Il morire, a confronto, è un’oscenità disumana e inammissibile, perché non trasformabile in valore di scambio. Come scrisse Baudrillard, ‘al giorno d’oggi non è normale essere morti […]. Essere morto è un’anomalia impensabile, rispetto alla quale tutte le altre sono inoffensive. La morte è una delinquenza, una devianza incurabile’[ref]Baudrillard, Lo scambio simbolico e la morte, cit., p. 139.[/ref].

L’effetto sconvolgente del ritorno del rimosso è ideologico, in quanto ci costringe a consumare panico rispetto a un evento senz’altro violento e traumatico, ma da subito strumentalizzato anziché indagato come sintomo di un fallimento strutturale: dagli errori diagnostici alla gestione degli anziani nelle case di cura; dal deterioramento del sistema sanitario alla mancata campagna preventiva; dall’inquinamento atmosferico all’agribusiness; dalle ingerenze di Big Pharma alle contraddizioni degli “esperti” e dei politici che essi rappresentano, tutti a loro volta rappresentati da un unico impalpabile padrone, il meccanismo anonimo, spietato e disumanizzante dell’economia. Perché il capitale quale “soggetto automatico” (Marx) non è un individuo in carne e ossa, non ha sede nelle intenzioni empiriche di chi agisce, ma incarna la forma della nostra vita determinandone le scelte e i contenuti. Il pulsare meccanico e sordo della “volontà” del capitale, della sua invisibile potenza, sovrasta dunque l’intera gestione dell’emergenza sanitaria, e si avvera nel confezionamento del testo ideologico.

Ma allora, tutti quei morti? L’alta mortalità da/con coronavirus (la differenza è fondamentale, ma quasi mai presa in considerazione) dev’essere inquadrata innanzitutto come inquietante fallimento di sistemi politico-sanitari (coordinati da una governance globale) che hanno stipato i malati, in particolare gli anziani in condizioni già compromesse, in ambienti ricchi di microrganismi patogeni come ospedali e case di cura. Se nel 2016 le sole infezioni ospedaliere hanno causato in Italia circa 50.000 decessi (strage vergognosamente silenziosa)[ref]https://www.adnkronos.com/salute/sanita/2019/05/15/impennata-morti-infezioni-ospedale-allarme_MLv0wKUGU9UQXHpQxxMYPJ.html[/ref] , l’aumento dell’esposizione di soggetti debilitati a una tale concentrazione di agenti patogeni non poteva che avere quel tragico risultato. Fenomeno, questo, che si è ripetuto puntualmente in paesi con simile predisposizione al rischio sepsi, in cui cioè negli ultimi anni i finanziamenti al sistema sanitario nazionale sono stati allegramente decurtati.

Quando ripetiamo slogan come “la nostra vita non sarà più come prima” parliamo allora attraverso la forma capitalistica, che sopravvive a sé stessa solo grazie a continue e violente rivoluzioni tecnologico-gestionali interne, le famose ondate di ‘distruzione creativa’ descritte da Joseph Schumpeter[ref]Joseph A. Schumpeter, Capitalismo socialismo e democrazia (Milano, Edizioni di Comunità, 1955).[/ref]. In realtà, la nostra vita (il new normal) è esattamente quella di prima – solo peggiore. Questo a causa del terrore del contagio e delle sanzioni, dell’isolamento dai propri cari, dell’incremento di disoccupazione, miseria e depressione, del sospetto verso il prossimo, e di una pervasiva alienazione digitale. Il punto, però, è che COVID-19 non ha causato questi fenomeni degenerativi; li ha semplicemente accelerati. Già prima dell’arrivo del virus, per esempio, la morte era stata ridotta a fatto privato e puramente biologico, per cui non si esitava a lasciar morire anonimamente i malati negli ospedali e gli anziani negli istituti di ricovero, esattamente come si fa (peggio) in epoca COVID. Allo stesso modo, il distanziamento a-sociale ci era già stato imposto attraverso i famigerati a-social networks. L’innesco di una nuova frontiera di manipolazione ideologica è forse l’aspetto più originale dell’attuale emergenza, specie quando giustificato come atto umanitario. Evidentemente, anni di “guerre umanitarie” non sono bastate a insegnarci che, parafrasando H. L. Mencken, dietro a ogni desiderio di salvare l’umanità c’è il desiderio di dominarla.

Non è un caso che negli ultimi vent’anni, a partire da quel grande imbroglio che fu l’attacco al World Trade Centre, il discorso politico che ha accompagnato la crisi del processo di globalizzazione si sia servito della più antica e consolidata arma ideologica: seminare terrore rispetto a un sanguinario agente esterno in grado di penetrare il nostro mondo fino a annientarlo. Se la Guerra al Terrorismo aveva basi concrete – le contraddizioni economiche e geopolitiche innescate dalla globalizzazione – il suo utilizzo fu puramente ideologico, finalizzato a giustificare una serie di scellerati interventi militari come risposta (tanto violenta quanto disperata) a quelle contraddizioni. L’efficacia ideologica della narrazione catastrofista, tuttavia, dipende dalla sua duttilità, ovvero dalla capacità di rinnovarsi creativamente. Per questo l’incubo ancestrale delle teste mozzate da orde di jihadisti incappucciati, che ha terrorizzato l’immaginario collettivo occidentale fino a un paio di anni fa, è stato ora sostituito da un nuovo ma complementare modello di “shock therapy” (Naomi Klein)[ref]Naomi Klein, The Shock Doctrine. The Rise of Disaster Capitalism (London, Allen Lane, 2008).[/ref], quello appunto del virus pandemico. Si tratta di un modello in grado di evocare fantasmi apocalittici ancor più devastanti al fine di impedirci di prendere atto di quanto la nostra crisi epocale – che riduce in miseria milioni di umani a dispetto delle enormi capacità tecniche a disposizione – non abbia nulla a che fare con la natura del virus e tutto con la natura del capitalismo.

Come il lettore ricorderà, la narrazione del virus mortifero era già iniziata nel 2009, quando fu dichiarata la pandemia da H1N1 (“influenza suina”). Tuttavia, quella narrazione aveva attecchito solo parzialmente, al punto che fummo costretti a ridimensionarne l’impatto[ref]https://www.webmd.com/cold-and-flu/news/20100907/h1n1-swine-flu-no-worse-than-seasonal-flu[/ref] . Oggi invece, al secondo tentativo, il racconto funziona a meraviglia, tanto da farci sentire tutti, riprendendo una felice intuizione del ricercatore canadese Alan Cassels[ref]Alan Cassels, Seeking Sickness. Medical Screening and the Misguided Hunt for Disease (Vancouver Toronto Berkeley, Greystone Books, 2012).[/ref] , pre-malati o potenziali pazienti. In altre parole, siamo già idealmente proiettati nelle statistiche riguardanti il tracciamento dei positivi, essendo divenuti null’altro che, come scrisse Ivan Illich[ref]Ivan Illich, Nemesi medica. L’espropriazione della salute (Milano, Red Edizioni, 2013).[/ref], algoritmi di un sistema sanitario che ci inquadra all’interno di calcoli probabilistici telecomandati dalla legge del profitto. In questo senso, i bollettini di guerra serali hanno il semplice obiettivo di attivare un fenomeno identificatorio preesistente: noi, anonime popolazioni alla mercé di anonime astrazioni, siamo là dove ci vuole la medicina, o meglio l’economia che la “sostiene”. Ciò innesca un fenomeno più unico che raro: per la prima volta nella storia dell’umanità non sono i malati che vanno dai medici, ma i medici che cercano i presunti malati.

D’altronde, come dice il proverbio, “chi cerca, trova”: la medicina asservita all’economia ci eleva tutti al rango di predestinati. Eppure, basterebbe osservare che lo stesso inventore del test RT-PCR, Kary Mullis, insignito per questo del Premio Nobel in chimica nel 1993, aveva ribadito senza mezzi termini che il test non può avere valore diagnostico[ref]https://www.youtube.com/watch?v=TGvkG86Yw7U&feature=youtu.be; si veda anche https://www.creative-diagnostics.com/sars-cov-2-coronavirus-multiplex-rt-qpcr-kit-277854-457.htm[/ref] – anche lui un pericoloso negazionista? Il problema è che il materiale genetico prelevato dal tampone dev’essere massicciamente amplificato per poterne dimostrare carica virale (sorta di “falsa sineddoche” virologica, per riprendere l’espressione di Giacchè). Ciò significa che tale materiale genetico può appartenere a “contaminazioni” del tutto innocue, come frammenti di vecchi genomi virali ormai inattivi; e che solo amplificandolo (moltiplicandone in laboratorio il fattore di virulenza), aumenteranno i “casi positivi”. Il ragionevole dubbio sull’affidabilità del tampone rispetto a un virus che non è ancora stato isolato (e che quindi non soddisfa i postulati di Koch) è stato ribadito da numerosi virologi di fama mondiale (puntualmente ignorati dal mainstream); ma è chiaro che la paura fa novanta, e a homo pandemicus conviene rifugiarsi nella superstizione. Se Gesù moltiplicava pani e pesci, oggi tocca a infezioni e contagi.
La logica da “mostro sbattuto in prima pagina” che caratterizza i bollettini covidiani fa leva sulla percezione diffusa che il mostro si trovi già sulla soglia di casa. La ritualità para-religiosa dell’informazione numerologica ha come obiettivo farci credere di essere tutti, almeno potenzialmente, già vittime dell’orco. Questo ulteriore assalto alla nostra singolarità non può che rafforzare il tratto ideologico dell’informazione, per cui il problema della Fine – delle nostre vite, della nostra civiltà, e pertanto di un modo di riproduzione sociale in piena fase implosiva – viene trasformato nel trauma della virulenza di un oscuro agente patogeno icasticamente elevato a rappresentante del Male Assoluto, contro il quale possiamo solo combattere uniti (si fa per dire).
3. Denkverboten e umanità senza volto: eterogenesi dei fini?
La retorica della “guerra mondiale contro il virus”, sdoganata con perfetto tempismo dai Bill Gates di questo mondo, e divulgata urbi et orbi da Carneadi politici miracolati dall’inattesa opportunità, implica che l’unico obiettivo è vincere la guerra, indipendentemente da quanto costi, chi la debba pagare, chi se ne avvantaggi, e cosa succederà dopo. Perché la guerra a un tale mostro – che esiste innanzitutto come rappresentazione mediatica, così come l’inferno esisteva nelle pale d’altare delle chiese medievali – richiede innanzitutto ubbidienza, da intendersi non solo come ulteriore limitazione delle nostre libertà civili o presunte tali, ma soprattutto come denkverboten, proibizione di articolare pensiero critico che si discosti di un millimetro dalla linea ufficiale.
I pochi che hanno il coraggio di denunciare questo stato di cose fanno ampio uso critico di espressioni quali “pensiero unico”, “mondializzazione”, “poteri forti”, e così via. Queste accezioni sembrano aver sostituito il classico riferimento al “Potere” inteso come piovra tentacolare che comanda le nostre vite dall’alto. Nel 1974, Pasolini ipotizzò l’avvento di una nuova forma di dominio reale che, a suo dire, si lasciava cogliere solo attraverso effetti di inaudita omologazione culturale. Ne diede una definizione che merita di essere riproposta:

Scrivo ‘Potere’ con la P maiuscola […] solo perché sinceramente non so in cosa consista questo nuovo Potere e chi lo rappresenti. So semplicemente che c’è. Non lo riconosco più né nel Vaticano, né nei Potenti democristiani, né nelle Forze Armate. Non lo riconosco più neanche nella grande industria, perché essa non è più costituita da un certo numero limitato di grandi industriali: a me, almeno, essa appare piuttosto come un tutto (industrializzazione totale), e, per di più, come tutto non italiano (transnazionale). Conosco anche – perché le vedo e le vivo – alcune caratteristiche di questo nuovo Potere ancora senza volto[ref]Pier Paolo Pasolini, Scritti corsari (Milano, Garzanti, 1990), pp. 45-46.[/ref] .

Pasolini complottista? Chi accusa di complottismo è spesso l’utile idiota che non sa (o, per interesse o quieto vivere, finge di non sapere) che da sempre il potere cospira e complotta. Di esempi abbaglianti, planetari e nazionali, è pieno il tormentato corso della storia umana. Per quanto ci riguarda, non siamo forse il paese della P2, delle trattative stato-mafia, degli intrighi del Vaticano, delle stragi di stato? Davvero non vale la pena dilungarsi. Diremmo piuttosto che il “tutto” transnazionale cui si riferiva Pasolini oggi ha un nome preciso: capitalismo finanziario. Si tratta, come aveva intuito il poeta, non semplicemente di loschi figuri mossi da spietati interessi personali o vocazioni malthusiane, ma di una configurazione storica e logica del modo di produzione capitalistico che ha la prerogativa di infilarsi in ogni angolo delle nostre vite, addomesticandole e ammorbidendole ai propri interessi. Chi detiene il potere economico è, come scrisse Marx, un funzionario del capitale[ref]Karl Marx, Storia delle teorie economiche, vol. 2 (Torino, Einaudi, 1955), p. 192.[/ref], quindi sbaglieremmo a personalizzare il capo d’accusa senza riconoscere il vero nemico nel processo automatico che autorizza e dirige le nostre vite. È quasi banale osservare che, oggi, sono gli interessi (letteralmente) del capitale in versione finanziaria a muovere le cose del mondo: tengono in pugno intere popolazioni, modellano le loro idee e azioni, e dunque esercitano un potere assoluto su quella forma di vita sempre più liquida e nuda che, nostro malgrado, siamo diventati. Tutto ciò mentre la politica, da tempo umiliata a esercizio di ragioneria fantozziana, continua a genuflettersi ai diktat economici, anche quando riaccesa da un virile rigurgito di antica passione.

Ma dobbiamo aggiungere che le accelerazioni da coronavirus riguardano anche il carattere implosivo di questa nostra forma di vita: è proprio l’egemonia dell’industria finanziaria sull’economia reale a decretare la sconfitta di un modello sociale fondato sullo sfruttamento del lavoro umano (estrazione di plusvalore dal lavoro vivo organizzato in tempo di lavoro). Tutto ciò indipendentemente dal fatto che lo sfruttamento, ovviamente, continua, sia in forme sempre più oscene di sottoccupazione che attraverso la creazione di quelli che il compianto David Graeber, con geniale semplicità, ha definitivo bullshit jobs[ref]David Graeber, Bullshit Jobs. The Rise of Pointless Work and What We Can Do About It (London, Penguin Books, 2018).[/ref] . Detto più chiaramente: il settore finanziario – laddove si mette al lavoro non l’essere umano, ma il denaro, al fine di creare magicamente altro denaro – ha ormai raggiunto una quasi totale indipendenza dalla base reale dell’economia, la cui profittabilità è precipitata in termini direttamente proporzionali all’aumento vertiginoso delle possibilità di automazione della produzione. Al punto che, come sostiene Graeber, il sistema è costretto a inventarsi lavori perfettamente inutili (bullshit, appunto) al fine di mantenere una parvenza di consistenza strutturale.

Sia nei Grundrisse che nel terzo volume del Capitale, Marx aveva preconizzato, pur con vari distinguo, la “caduta tendenziale del saggio di profitto” in relazione all’aumento del “capitale organico”, calcolato come rapporto tra “capitale costante” (macchine) e “capitale variabile” (lavoro vivo). Oggi, dopo la terza e all’alba della quarta rivoluzione industriale (dalla microelettronica all’intelligenza artificiale), l’intuizione di Marx suona come una sentenza senza diritto d’appello: più aumentano gli investimenti nell’hi-tech, dettati dalla competizione tra grandi capitali, più si inibisce la profittabilità del capitale stesso in termini assoluti, poiché, considerato appunto l’impatto dell’automazione, il lavoro umano eliminato non può più essere riassorbito agli stessi livelli di intensità occupazionale e produttiva. Che piaccia o meno, questa contraddizione interna all’economia politica segna la fine dell’antropologia del lavoro che ha caratterizzato, dai primordi della modernità, il modello riproduttivo del capitalismo.

Da “società del lavoro” il nostro mondo si sta inesorabilmente trasformando in “società senza lavoro”, o al limite in “società del lavoro di merda” (per riprendere l’accezione di Graeber), ed è per questo motivo che si consegna sempre più di buon grado alle alchimie finanziarie e annessi rischi, ricatti e sconvolgimenti sociali. Per quanto la categoria lavoro (precario) continui a definire le nostre vite, è chiaro che il destino del lavoro salariato di massa, presupposto alla creazione di ricchezza allargata, è solo una: scomparire, o più realisticamente continuare a trasformarsi in forme più o meno esplicite di schiavitù. Ci troviamo di fronte a un meccanismo di ordine pressoché deterministico che mina alle fondamenta le nostre società, spingendo i capitali a cercare profittabilità in ambito finanziario/speculativo. Il Potere “senza volto” di cui parlava Pasolini è il potere del capitale nel suo ultimo travestimento, attraverso cui cerca disperatamente di sfuggire alla nemesi autodistruttiva innescata dalla propria ‘contraddizione in processo’[ref]‘Il capitale è esso stesso la contraddizione in processo, per il fatto che tende a ridurre il tempo di lavoro a un minimo, mentre, d’altro lato, pone il tempo di lavoro come unica misura e fonte della ricchezza’ (Karl Marx, Lineamenti findamentali della critica dell’economia politica, Firenze, La Nuova Italia, 1968-70, vol. 2, p. 402).[/ref], che ormai è ingovernabile. Nel definire “liquido” questo capitalismo a leva finanziaria, dovremmo precisare che è tale in quanto si avvia a liquidare le basi antropologiche della nostra ontologia sociale.

Proprio il potere “senza volto” (anonimo, rarefatto, algoritmico) ma onnipotente del capitale finanziario ci impone una riflessione finale sul simbolo della lotta al COVID-19: la mascherina. C’è qualcosa di disperato e, insieme, involontariamente comico, nel consumo di questo strumento nella lotta al virus. Al di là del suo business – che pure esiste e sicuramente informa l’ossessione mediatica per questo oggetto – nell’obbligo della mascherina (ora anche all’aperto) c’è qualcosa del teatro dell’assurdo di Beckett e Ionesco, che sfugge al testo esplicito dell’ideologia covidiana cogliendone però metaforicamente l’essenza. Quale essenza? Precisamente quella del “senza volto” attribuita da Pasolini allo spirito del nuovo Potere, il cui fine è ‘l’omologazione brutalmente totalitaria del mondo’[ref]Pasolini, Scritti corsari, cit., p. 50.[/ref]. Il significato profondo del rituale apotropaico della mascherina che ci mummifica è il tentativo di rendere il genere umano sempre più arrendevole rispetto al “senza volto” del capitalismo contemporaneo e delle sue ciniche nonché criminali esigenze. Anonimo il capitale, anonimi (isolati, depressi, impotenti) i suoi sudditi.

Il mascherinamento come “servitù volontaria” (Étienne de La Boétie) ci parla dell’accelerazione di un processo di disumanizzazione soft in atto da tempo, la lenta apocalissi che ci vuole specularmente identici al capitale nel suo camuffamento finanziario. E lo fa nell’unico modo possibile, privandoci oltremodo della nostra singolarità, da intendersi non come unicità piena e assertiva (libertaria) di vite dedite al grufolamento consumistico, ma, in modo ben più radicale, come mancanza a noi stessi, scarto tra ciò che non siamo e ciò che crediamo di essere. Solo prendendo atto di questa mancanza, e mettendola al lavoro, possiamo aprirci all’ipotesi di un futuro alternativo al presente. L’umanità imbavagliata di fronte a un “prossimo nostro” presunto contagiato e soprattutto contagioso, è l’umanità senza inconscio, ridotta all’ubbidienza perché disarmata di pensiero critico.

Un pensiero critico che si rispetti nasce infatti dal mettersi in gioco del soggetto pensante, che riconosce e insieme rifiuta la propria appartenenza al mondo divenuto oggetto di riflessione. Se il soggetto non si smarca da sé stesso, se non si mette in gioco andando contro la propria identità mediata dall’Altro (cioè dal linguaggio, dall’ideologia, dai privilegi, ecc.), non ci può essere coscienza critica e non ci può essere trasformazione. Ecco perché la mascherina, nella sua misera banalità, assurge a simbolo del denkverboten impostoci universalmente affinché nessuno possa più opporsi allo strapotere di una “razionalità economica” che tira dritto verso il baratro. La mascherina che toglie i peccati del mondo rappresenta il coma dogmatico in cui siamo caduti e che ci rende ciechi, oltre che muti, di fronte all’operazione di distruzione creativa in pieno svolgimento, volta a favorire il salto (mortale?) nell’economia digitale a piena trazione finanziaria.

Attraverso la prolungata emergenza pandemica, il Moloch capitalistico mira a silenziare tutto il pianeta, senza comprendere che, così facendo, rischia di autodistruggersi, portando a compimento la sua più intima vocazione. Dietro la maschera di homo pandemicus c’è il ghigno cinico e ottuso di homo economicus che, distruggendo il suo passato, tenta vanamente di salvarsi da sé stesso: dalla contraddizione che lo sta lentamente divorando. Alcuni, a sinistra, guardano con entusiasmo a questa accelerazione implosiva, ritenendo che possa generare, finalmente, consapevolezza di oppressione, e magari pure un’intelligenza collettiva rivoluzionaria. È un ragionamento galvanizzante e condivisibile, ma solo in teoria. In pratica, infatti, il tentativo di mascherare l’attuale demenza senile del capitalismo attraverso un dettato ideologico insidioso e autoritario, oggi sembra prevalere abbastanza facilmente, e funzionare. E funziona proprio nel nome di una narrazione salvifica a cui è quasi impossibile sottrarsi o controbattere, perché appunto si tratta di salvare vite umane. Fino a quando durerà questa narrazione? E, sull’onda del suo successo, quante ne seguiranno? La realtà è che stiamo scivolando nelle sabbie mobili di una nuova tipologia di fascismo che insegue il vecchio obiettivo di usare lo Stato per proteggere e promuovere gli interessi dell’élite finanziaria.

Meglio forse convenire che, senza una coscienza critica di ciò che ci sta accadendo, ci sveglieremo presto in una sorta di deserto neo-feudale, o di Ottocento digitalizzato. Attualizzando Gramsci, diremmo che ci attende un lungo ‘interregno’ in cui ‘si verificano i fenomeni morbosi più svariati’[ref]Antonio Gramsci, Quaderni del carcere (Torino, Einaudi, 1975), p. 311.[/ref]. In fondo, rispetto a una possibile eterogenesi dei fini da crisi emergenziale e collasso economico, il problema rimane la nostra reale positività al virus capitalistico, per il quale non abbiamo ancora inventato il vaccino (l’unico di cui abbiamo urgentemente bisogno). E i negazionisti – ignobile definizione che smaschera una volta per tutte l’ipocrisia liberale – sono, al limite, coloro che di fronte a questa ingombrante e propriamente catastrofica realtà, fanno finta di niente, costringendoci a consumare pane e veleno (“solo veleno!” diceva Totò), ovvero panico da virus[ref]Con il termine “negazionista” si sottolinea la continuità tra chi dissente sulla narrazione ufficiale del COVID e chi nega la Shoah. Si fa dunque, letteralmente, di tutta l’erba un fascio. L’ipocrisia del progressismo liberal viene così smascherata: com’è possibile che, chi ha fatto della lotta per i diritti civili e umani, e del politically correct, la sua missione, si abbandoni a simili insulti?[/ref].